Esce domani «Il lamento del prepuzio», che la critica americana ha avvicinato a Groucho Marx e Roth
Una risata per salvarci da Dio
Le irriverenti memorie di Shalom Auslander: scrivo su consiglio dello psichiatra
di Livia Manera (Corriere della Sera, 14.1.2009)
«Quand’ero bambino - racconta Shalom Auslander nel più irriverente memoir degli ultimi anni a cominciare dal titolo, Il lamento del prepuzio- i miei genitori e i miei insegnanti mi raccontavano di un uomo che era molto forte. Mi dicevano che era capace di distruggere il mondo intero. Mi dicevano che era capace di sollevare le montagne. Mi dicevano che era capace di dividere le acque del mare. Era importante che tenessimo quell’uomo di buon umore. Quando obbedivamo ai suoi comandamenti, gli eravamo simpatici. Gli eravamo così simpatici che uccideva chiunque non ci amasse. Ma quando non obbedivamo ai suoi comandamenti, non gli eravamo simpatici. Ci odiava. Certi giorni ci odiava tanto da ucciderci; altri giorni lasciava che ci uccidessero altri. Noi chiamiamo questi giorni "giorni di festa". Purim è quando cercarono di ucciderci i persiani. Pesach è quando cercarono di ucciderci gli egiziani. Chanukah è quando cercarono di ucciderci i greci».
Così comincia Il lamento del prepuzio, da domani in libreria per Guanda (pp. 268, e 15,50, traduzione di Elettra Caporello), il libro più polemico e blasfemo sul rapporto tra gli uomini e Dio ad arrivare in libreria dopo Dio non è grande di Christopher Hitchens, solo molto più spiritoso, ancora più arrabbiato e soprattutto più tragico. Ed esattamente così, spiritoso, arrabbiato e tragico nella sua vulnerabilità, appare il trentaduenne Shalom Auslander di Monsey, Stato di New York: lo scrittore più «teologicamente abusato » d’America (che la critica ha avvicinato a Groucho Marx e Philip Roth), il figlio di una coppia di ebrei ortodossi così autoritari (padre falegname, madre casalinga) che alla domanda «Che cosa avrebbe fatto se non avesse scritto queste memorie?» - consigliate da uno psichiatra - risponde: «Sarei morto».
E dopo aver spiegato di aver dovuto troncare ogni rapporto con la famiglia, spiega: «Mi sarei ammazzato, senza ombra di dubbio. Dieci anni fa ci sono arrivato veramente vicino. La sola ragione per cui mi sono rivolto a uno psichiatra è che avevo una moglie che amavo, e ho pensato: glielo devo. Altrimenti, suicidarsi è la sola soluzione sensata quando hai la testa piena di cose che rendono ogni momento della tua vita insopportabilmente doloroso ». Salvo aggiungere con un sorriso malizioso: «È anche il più grande atto di ribellione contro un Dio che può controllare tutto tranne quel gesto. Per questo ti insegnano fin da piccolo che il suicidio è il peccato più grave di tutti ».
Prima di diventare una celebrità grazie alla radio e al «New Yorker» che hanno anticipato Il lamento del prepuzioscatenando un polverone («Ho ricevuto centinaia di e-mail d’odio e di minacce. Fortuna che quando il libro è uscito e la gente lo ha letto, si è accorta che non l’ho scritto per sostenere che la religione ebraica è terrorizzante e abusiva, ma che così è stata insegnata a me»), Shalom Auslander scriveva pezzi comici per «Harper’s» («l’umorismo è l’unica cosa che renda la vita sopportabile »), racconti (la raccolta Beware of God) e lavorava in pubblicità, nascosto con la moglie Orly nei boschi di Woodstock, il più lontano possibile dal suo ambiente d’origine, «dove era proibito mangiare carne di vitello insieme ai latticini. Per cui se uno aveva mangiato del vitello, gli era proibito mangiare latticini per sei ore; e se aveva mangiato latticini, non poteva mangiare vitello per tre ore. E a tutti era proibito mangiare maiale, almeno fino all’avvento del Messia, giorno in cui i malvagi sarebbero stati puniti, i morti sarebbero risorti e i maiali sarebbero diventati kosher».
Nell’attesa di tutto ciò, Shalom cresce cercando di schivare i pugni di suo padre e le polpette consolatorie di sua madre, studiando alla Yeshiva e introiettando insegnamenti minacciosi come «l’uomo pianifica, dicevano i miei genitori, e Dio ride», nella consapevolezza che per sua madre «guidare l’automobile di Shabbat è finire il lavoro che Hitler ha cominciato», che per un uomo come suo padre ogni nemico è un nazista. E che siccome in una sola eiaculazione muoiono cinquanta milioni di spermatozoi (come gli spiegano quando raggiunge la pubertà) ogni volta che Shalom si masturba «fanno circa nove olocausti, il che mi rendeva colpevole di genocidio dalle tre alle quattro volte al giorno».
Altre tentazioni peccaminose per un giovane ortodosso sono la pizza non kosher, i marshmallows e gli hamburger di McDonald. E Il lamento del prepuzio continua nel racconto di una perdizione adolescenziale fatta di orge di cibo non kosher, giornali pornografici e spinelli, fino al momento in cui l’autore s’innamora, si sposa e scopre che sta per diventare padre. «E a quel punto ho cominciato a pensare a me stesso come a Mosè che porta in salvo gli ebrei ma muore prima di arrivare alla Terra Promessa. E a dirmi: forse non mi libererò mai di questo Dio vendicativo che si è avvinghiato ai miei anni formativi, ma posso portare mio figlio a una Terra Promessa dove non c’è alcun Dio. Ed è questo il vero argomento del mio libro».
Un’ode all’agnosticismo, dunque. Peccato che malgrado non sia più osservante, Shalom Auslander sia rimasto «penosamente, straziatamente, incurabilmente, miserabilmente religioso », il che alla luce di quanto ha raccontato finora significa che vive nel terrore che Dio si vendichi di questo suo imperdonabile libro. «Quindi ti prego, Dio - scrive nella pagina finale che di solito gli autori dedicano ai ringraziamenti - non uccidere mia moglie a causa di questo libro. Non uccidere mio figlio e non uccidere i miei cani. Se devi per forza uccidere qualcuno, uccidi Geoff Kloske alla Riverhead Books (il suo editore ndr). Uccidi David Remnick del "New Yorker", e uccidi Carin Besser, che è qui in fondo al corridoio... e se voi uccidi anche Craig Markus (che ha disegnato la copertina ndr) ... ma non uccidere me. E non uccidere Orly. E non uccidere nostro figlio. Dopotutto è solo un libro! ».
Il paradosso di Dio
di Shalom Auslander (La Stampa, 13 luglio 2010)
Il testo che anticipiamo in questa pagina verrà letto dall’autore domani alla Milanesiana, la rassegna di letteratura, musica, cinema e scienza curata da Elisabetta Sgarbi (Teatro Dal Verme di Milano, ore 21). La serata ha per tema «I paradossi del tempo» e prevede anche la partecipazione di Fiorenzo Galli, direttore del Museo della Scienza e della Tecnologia Leonardo da Vinci, del matematico Wendelin Werner e dello scrittore Lawrence Osborne, con un concerto finale della cantante Noa. Shalom Auslander è nato a New York 40 anni fa. In Italia è conosciuto soprattutto per il memoir Il lamento del prepuzio (Guanda), dove ha raccontato con umorismo spietato i mille divieti in mezzo ai quali è cresciuto nel quartiere ebraico ortodosso di Monsey e i condizionamenti che ne sono derivati. Di recente, sempre da Guanda, ha pubblicato la raccolta di racconti A Dio spiacendo.
La Yeshiva di Spring Valley era una scuola ebraica ultraortodossa. I nostri rabbini erano onniscienti, e padroneggiavano tale conoscenza con assoluta certezza. Sapevano che la Terra aveva 6.000 anni.
Sapevano che Dio aveva creato il Cielo e la Terra, e sapevano che successivamente aveva creato le piante, e che poi aveva creato gli alberi, e che poi aveva creato l’uomo, e che poi si era preso un giorno di vacanza. Sapevano che la Terra sarebbe arrivata a una fine, e sapevano cosa sarebbe successo a tutti noi dopo che il mondo fosse finito. Ci osservavano attentamente.
Osservavano come parlavamo, cosa mangiavamo, come pregavamo, quali preghiere di ringraziamento recitavamo. L’unico posto in cui si poteva sfuggire all’occhio sempre vigile dei rabbini era il bagno al secondo piano; i rabbini preferivano il bagno al primo piano, dove fumavano sigarette e si lamentavano della pigrizia dei loro studenti mentre, soltanto al piano di sopra, noi eravamo indaffarati a scoprire i segreti del mondo che loro cercavano disperatamente di nasconderci. E così, una mattina, quando Avi Tuchman mi disse di seguirlo nel bagno al secondo piano, sapevo che mi aspettava qualcosa di interessante. Avi controllò i cubicoli, e poi ispezionò gli orinatoi dietro l’angolo.
«Che c’è?», chiesi.
Lui si inclinò verso di me, unì le mani a forma di coppa sotto il mento e mi sussurrò all’orecchio.
«Se Hashem riesce a fare qualsiasi cosa», disse, «riesce a creare un masso talmente pesante da non riuscire a sollevarlo?».
Hashem è il nome ebraico con cui ci si riferisce a Dio. Non eri tenuto a usare il Suo nome senza una buona ragione, e di certo non eri tenuto a cercare di trovare dei modi per contestarlo.
Avi fece un passo indietro, incrociò le braccia e sorrise.
«Me l’ha detto mio cugino», disse.
«Hashem riesce a fare qualunque cosa», risposi.
«Ah sì?», esclamò Avi. «Riesce a creare un masso talmente pesante da non riuscire a sollevarlo?».
«Certo che riesce».
«Allora ecco qualcosa che non riesce a fare».
«Cosa?».
«Sollevarlo».
«Allora riesce a sollevarlo».
«Allora ecco ancora qualcosa che non riesce a fare».
«Cosa?».
«Creare un masso che non riesce a sollevare».
Avi sorrise.
«Hashem riesce a fare qualunque cosa», dissi, alzando i tacchi e uscendo dal bagno.
La rivista porno aveva destato meno perplessità.
Avi Tuchman non mi piaceva granché, tuttavia la sua sembrava una gran bella domanda. Un trucco,
un trabocchetto, un filo allentato di un maglione che, se tirato, avrebbe disfatto tutta quella dannata
maglia. Non riuscivo a togliermelo dalla testa. E così quel giorno, alla fine della lezione, dopo che il
rabbino Brier ci aveva illustrato come Dio avesse trasformato l’acqua dell’Egitto in sangue, e come
avesse fatto piovere rane, e diviso il mare in due parti e come fosse in grado di fare qualunque cosa
io alzai la mano.
«Che c’è?», chiese il rabbino Brier.
Brier era il rabbino della scuola che incuteva più timore, non per la sua intelligenza, bensì per le sue
mani. Una volta aveva schiaffeggiato uno dei ragazzi più grandi con una tale violenza da rompergli
il naso, e aveva afferrato un altro studente per il braccio con una tale forza che per i due mesi
successivi il ragazzo aveva dovuto portare il braccio al collo.
«Se Hashem riesce a fare qualunque cosa», dissi, «riesce a creare un masso talmente pesante da non
riuscire a sollevarlo?».
Credevo non ci fosse niente di male nel fare una semplice domanda. Dopo tutto, probabilmente c’era una semplice risposta; meglio chiarire queste cose velocemente prima che sfuggissero di mano.
«Chochemel», disse in yiddish il rabbino Brier con un certo sarcasmo - «Tu, saputello» - e mi mollò un ceffone in faccia. «Hashem», ringhiò, «riesce a fare qualunque cosa», e poi mi disse di andare nell’ufficio del rabbino Greenbaum. Questi era il preside e il capo dei rabbini della Yeshiva. «Digli», disse il rabbino Brier, «che tu sai più di Hashem». Che era esattamente l’opposto del nocciolo della questione.
Lo ammetto - la domanda mi faceva star bene. Ma ciò che mi regalava una tale sensazione non era il pensiero di aver ingannato Dio, o di saperne di più di Lui. Sicuramente allora non sarei stato in grado di riconoscerlo, ma ciò che di quella domanda faceva sentire talmente bene non era il pensiero di sapere qualunque cosa; piuttosto, era la chiara e distinta gioia di non sapere.
A quei tempi, sembrava che tutti credessero di sapere tutto. Ultimamente, la situazione non ha fatto che peggiorare. Tutti sanno tutto. Sanno qual è il problema dell’America, qual è il problema del mondo, della letteratura, delle arti. I blogger sono peggio dei giornalisti, gli utenti di Twitter sono peggio dei blogger. Se esisteva un’arte del non sapere, l’abbiamo perduta. «L’unica cosa che so», disse Socrate, «è che non so nulla». Magari non è stato il primo a dirlo, ma comincio a sospettare che sia stato l’ultimo.
Il rabbino Greenbaum mi convocò nel suo ufficio, invitandomi a sedermi. Mi accomodai con qualche difficoltà sulla sedia di fronte alla sua e mi fissai le scarpe.
«Dimmi», disse il rabbino Greenbaum, «credi che Hashem ti ami?».
«Sì», risposi.
«E credi che Hashem voglia che tu Lo ami?».
«Sì», risposi.
«E allora come credi che si senta Hashem quando affermi che non riesce a fare qualcosa?».
«Male», risposi.
«Naturalmente», disse il rabbino Greenbaum. «E tu sai che Lui riesce a fare qualunque cosa».
Annuii.
«Ma se Lui non riesce a sollevarlo...», dissi.
«Certo che riesce a sollevarlo».
«Ma allora non riesce a farlo così pesante...».
«Certo che ci riesce».
«Ma allora...».
«Shalom», disse il rabbino Greenbaum, attorcigliandosi la barba, «sono più intelligente di te?».
Annuii.
«Sono più dotto di te?».
Annuii.
«Hashem riesce a fare qualunque cosa», disse. «Okay?».
Annuii.
«Ora torna in classe», disse il rabbino Greenbaum.
Mi alzai avviandomi verso la porta. La sua risposta non era una risposta. Adesso la questione più
importante era perché lui insisteva che lo fosse. -Raggiunsi la porta del suo ufficio e mi voltai verso
di lui.
«Rabbino Greenbaum?», dissi.
«Sì?»
«Mi dispiace di aver messo in dubbio Hashem», dissi.
Lui sorrise.
«Sei un bravo ragazzo», rispose.
Mi incamminai lungo il corridoio in direzione della mia classe. Alle mie spalle, udii la porta
dell’ufficio del rabbino Greenbaum richiudersi - il cigolio dei cardini logori, lo scatto della maniglia
d’acciaio della porta, e poi la serratura, pesante, bloccare la porta scorrendo vigorosamente.
(Traduzione di Licia Vighi)