[...] Prima di tutto, il rispetto per le vittime
È invece proprio la radicalità della violazione che queste donne hanno subito che richiede un’altrettanto radicale affermazione del loro diritto alla propria integrità, di cui fa parte, prima ancora che il diritto all’aborto, se lo decidono, il diritto a non vedersi imporre da nessuno la decisione su come affrontare le conseguenze di quella violazione. Gli altri - individui e istituzioni - possono solo accompagnare con discrezione, rispetto, amorevolezza la decisione presa, qualsiasi essa sia [...]
Ma abortire dopo lo stupro non è omicidio
Perché il cardinal Bertone sbaglia ad attaccare Amnesty International che ha inserito fra i diritti umani l’interruzione di gravidanza per le donne violentate
di CHIARA SARACENO (La Stampa, 22/8/2007)
La decisione di Amnesty International di inserire il diritto all’aborto in caso di stupro tra i diritti umani già a giugno aveva provocato la reazione univocamente negativa del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace e la decisione della Chiesa cattolica di ritirare il proprio appoggio all’organizzazione.
Le parole del segretario di Stato, cardinal Bertone, al Meeting di Rimini confermano quella decisione, in nome del principio che «non si possono aggiungere a omicidi altri omicidi». Eppure, proprio la formulazione di Amnesty, che parla di diritto umano fondamentale solo nel caso di gravidanza in seguito a stupro, dovrebbe aiutare ad articolare discorsi meno astratti (oltre che meno ideologicamente e lessicalmente violenti), più aderenti alla complessità delle questioni in gioco e alla stessa «vita umana» di cui la Chiesa cattolica si dichiara strenua paladina.
Non si resta incinte «per caso»
Non si tratta di donne rimaste incinte per caso o per disattenzione, o per un fallimento contraccettivo. E neppure di donne che, nella loro libera valutazione delle proprie circostanze, ritengono di non potersi fare carico di un figlio e neppure vogliono portare a termine una gravidanza solo per poi abbandonare il bambino alla nascita. Si tratta di donne il cui corpo, sensibilità, dignità, libertà - il cui diritto umano alla propria integrità personale - è stato gravemente violato. Chiedere loro di portare a termine la gravidanza in nome del diritto alla vita dell’embrione e del feto significa chiedere loro di accettare di farsi strumento della volontà e della violenza altrui una seconda volta - e per lunghi nove mesi. E ancora, una volta portata a termine quella gravidanza, di affrontare il dilemma se accettare di fare da madri a un bambino che è insieme loro e di chi le ha violentate, cioè anche, se non soprattutto, il figlio del loro più intimo nemico, oppure di abbandonarlo.
Quella «condanna» alla gravidanza
Credo che nessuno - individuo o istituzione - possa chiedere a queste donne di sottoporsi a questa moltiplicazione infinita della violenza. Riconoscere loro la libertà di decidere di sé, del proprio corpo è un primo passo, anche se, ahimè, certamente insufficiente, per aiutarle nel faticoso cammino della riconquista della propria integrità e dignità. Condannarle alla gravidanza in nome del diritto alla vita ed equiparare la scelta di abortire a un omicidio e quindi loro stesse ad assassine, è un modo per dire loro che la loro vita, il loro senso di sé, il loro corpo e mente violati non contano nulla: puri strumenti prima delle pulsioni dei violentatori e ora puri contenitori di una «vita nascente» a loro dispetto e dispregio - che comunque sono esseri umani di second’ordine. E se abortiscono, automaticamente vengono assimilate ai loro violentatori, anzi peggio: perché chi le ha violentate dopo tutto non le ha ammazzate, mentre loro, abortendo, diventano assassine, visto che gli anti abortisti non distinguono tra embrioni, feti e persone.
Prima di tutto, il rispetto per le vittime
È invece proprio la radicalità della violazione che queste donne hanno subito che richiede un’altrettanto radicale affermazione del loro diritto alla propria integrità, di cui fa parte, prima ancora che il diritto all’aborto, se lo decidono, il diritto a non vedersi imporre da nessuno la decisione su come affrontare le conseguenze di quella violazione. Gli altri - individui e istituzioni - possono solo accompagnare con discrezione, rispetto, amorevolezza la decisione presa, qualsiasi essa sia.
Violenza donne: 12mila firme per case segrete in Piemonte *
TORINO. Sono state presentate oggi al Consiglio regionale piemontese 12.437 firme a sostegno della proposta di legge regionale di iniziativa popolare per la creazione di «centri antiviolenza con case segrete» per donne maltrattate. Le firme, ben più delle 8 mila necessarie, sono state raccolte dal comitato promotore «Firmaconoi», con la collaborazione di 43 associazioni e molti comuni piemontesi.
La proposta di legge prevede la creazione, secondo criteri internazionali, di almeno un centro per ogni provincia piemontese, gestito da comuni e associazioni di donne. Lo scopo delle case segrete è garantire soccorso, sostegno e solidarietà alle donne vittime di maltrattamenti fisici e psicologici, di stupri e di abusi sessuali intra ed extrafamiliarì, per assicurare loro oltre l’accoglienza, percorsi di autonomia e di superamento del disagio (art. 2 della pdl).
«In Piemonte esistono servizi di prima accoglienza ma occorre una rete che tuteli le donne anche nel periodo successivo alle violenze», dicono le prime firmatarie Maria Ghisaura, Loredana Baro e Patrizia Donadello. Lo stanziamento previsto è di 800 mila euro per biennio. Dopo i necessari controlli, la proposta sarà assegnata alla Commissione consiliare competente per avviare l’iter legislativo in Consiglio regionale.
* La Stampa, 24/8/2007 (15:43)