La democrazia ha ancora bisogno di maestri
di Gustavo Zagrebelsky *
In questo nostro tempo, dove sono i maestri e chi, nella vita civile, userebbe questa parola senza almeno una punta d’ironia, se non anche di dileggio? Maître sopravvive senza discredito in francese, nel settore culinario, alberghiero e forense, mentre il femminile, maîtresse, sembra un residuo di romanzo ottocentesco. Il maître de conférence è semplicemente un aiutante del professore che svolge quelle che noi avremmo definito un tempo "esercitazioni", prima di diventare agrégé. Ma chi si lascerebbe oggi definire impunemente maître à penser, espressione che suona pretenziosa e gonfia, allo stesso modo di "maestro di vita"? Meister, che richiama tempi andati di corti principesche e domestici alle dipendenze (i Kappelmeister), oppure gilde e congreghe medievali (i Meistersinger wagneriani, ad esempio), è da tempo fuori uso, come lo sono i mondi cui allude.
Il "gran maestro" delle logge massoniche o degli ordini cavallereschi appartiene a piccole cerchie iniziatiche e, da queste, non esce facilmente all’aria aperta. I tempi sono cambiati. Il "magister" che insegnava nelle aule universitarie è diventato il professore, un termine di per sé maestoso, ma ormai totalmente volgarizzato come equivalente a insegnante. Residua il maestro elementare, con l’iniziale minuscola, e questa sopravvivenza meriterebbe un esame, prima che una qualche circolare ministeriale lo faccia sparire, sostituendolo con "operatore" di qualche cosa. In generale, però, possiamo dire che i maestri si sono ritirati dalla vita civile pubblica. Se vi faranno ritorno, sarà perché saremo entrati in un’epoca diversa dalla nostra e perché avremo fatto un ripensamento su noi stessi.
George Steiner, nei saggi raccolti sotto il titolo La lezione dei maestri (Garzanti, 2004) ha messo in guardia circa i pericoli che questa parola, il maestro - monumentale, gerarchica, prescrittiva - porta in sé. Il pericolo maggiore consiste nel viluppo del rapporto maestro-discepolo in vischiosità sentimentali. Il desiderio del maestro di piacere al discepolo, di "sedurlo" con la sua personalità, un desiderio che può portare allo schiacciamento di quella di quest’ultimo; il desiderio del discepolo, a sua volta, di primeggiare, di essere il più vicino al suo cuore, di oscurare o annullare tutti gli altri. (...)
Le degenerazioni dei rapporti interni alle "scuole", che possono portare ad altrimenti impensabili meschinità, sono ben note. Il mondo accademico ne è una miniera. Ne traggo solo un piccolo esempio, dal mio campo di studi. Il grande giurista Hans Kelsen, nella sua Autobiografia (in Scritti autobiografici, a cura di M. G. Losano, Diabasis, 2008) riferisce del suo incontro a Heidelberg con Georg Jellinek, certo uno dei massimi "maestri" del diritto pubblico a cavallo tra il XIX e il XX secolo e lo racconta così: Jellinek «era circondato da un impenetrabile gruppo di allievi adoranti, che lusingavano in modo incredibile la sua vanità. Ricordo ancora la relazione di uno dei suoi studenti preferiti, costituita quasi esclusivamente da citazioni degli scritti dello stesso Jellinek. Dopo quella riunione potei accompagnare Jellinek a casa e, cammin facendo, mi chiese che cosa ne pensavo di quella relazione. Io rimasi molto sulle mie e Jellinek ne fu visibilmente irritato. Affermò che era stata una relazione eccellente e predisse un grande futuro accademico al suo autore: ma questi - aggiunge Kelsen maliziosamente - nel corso della sua carriera accademica, ha prodotto soltanto pochi scritti mediocri».
Ecco un rischio di questo rapporto malato, la mediocrità all’ombra della megalomania. Quello citato è solo un piccolo episodio di miseria accademica. Ma, spostandoci ad altro campo, il campo del magistero politico, il quadro, da ridicolo può farsi tragico. Il rapporto fideistico col maestro, depositario di una verità ch’egli solo conosce, può condurre a tragedie che annullano la personalità dei deboli e conducono perfino all’omicidio. (...)
La radice di queste degenerazioni sta nel rapporto meramente bilaterale tra il maestro e il discepolo. Se non è filtrato, reso oggettivo da un terzo fattore comune, esso finisce per ridursi a una relazione personale ineguale di fedeltà, in cui tutte le deviazioni irrazionalistiche diventano possibili, e, soprattutto, si viene perdendo di vista il fine in vista del quale tale rapporto ha ragione di instaurarsi: la ricerca di qualcosa che sta fuori tanto del maestro quanto del discepolo. Se manca questo elemento, la persona del maestro diventa l’oggetto dell’attaccamento del discepolo e la persona del discepolo diventa l’oggetto dell’attenzione del maestro. L’amore della verità - usiamo questa parola con la minuscola - viene a essere sostituito dall’autocompiacimento dell’uno attraverso l’altro, cioè da manifestazioni di narcisismo. (...)
Il maestro è ridicolmente anacronistico. Sembra non essercene bisogno, sembra anzi un ingombro nella società egualitaria dei grandi numeri, propria del nostro tempo, che propone bensì modelli di successo, ma, per così dire, di successo applicativo, non creativo. La via del perfezionamento personale, della conoscenza, della sperimentazione e della consapevolezza, e quindi anche della critica e della ribellione, la via che indicano i Maestri, non è confacente a questa società. (...)
Questa società non ha dunque bisogno di maestri. Sono pateticamente inutili. I mezzi attraverso cui si trasmettono conoscenze e si formano coscienze si chiamano maestra-televisione, maestra-pubblicità, maestra-comunicazione, maestra-moda, ecc. Queste sì sono maestre ugualitarie, stanno sul nostro stesso piano, usano il nostro stesso linguaggio, si prestano a essere comprese da tutti senza sforzi, sono adatte alla società dei grandi numeri, sono perciò pienamente democratiche. Che c’è di meglio? (...)
E invece no. Le cose non stanno affatto così. Non si tratta di aristocrazia contro democrazia, ma di due concezioni della democrazia, l’una in opposizione all’altra. L’una, la potremmo definire democrazia critica; l’altra, acritica. La democrazia critica pone se stessa sempre necessariamente in discussione, non è mai paga e tronfia, sa riconoscere i suoi limiti e sa correggere i suoi sbagli. È un sistema capace di auto-correzione, in vista di un bene o di una verità non assoluti ma relativi al momento e alle condizioni date e alle capacità ch’esso ha di padroneggiarle. Il suo senso è dato da questa tensione, tra ciò che si è e ciò che, in meglio, si potrebbe essere; il suo ethos, la molla che lo mette in movimento, è l’esigenza di colmare questa distanza.
La democrazia critica non assume, come sua massima, il detto vox populi, vox dei, per l’implicita supposizione di infallibilità ch’essa comporta. Considera un cedimento a un’inaccettabile ideologia della democrazia anche l’espressione, spesso ripetuta con leggerezza, secondo cui la maggioranza ha sempre ragione, e ciò non perché la maggioranza abbia presumibilmente torto, come ritiene ogni pensiero antidemocratico ed elitario che divide la società in migliori (i pochi) e peggiori (i tanti), ma perché semplicemente, nella democrazia critica è bandito il concetto stesso di ragione, contrapposto a torto. La maggioranza non ha né ragione né torto; ha invece diritto di decidere perché si ritiene che le decisioni che riguardano tutti siano assunte, se non da tutti, almeno dal maggior numero. È una questione di distribuzione e assunzione di responsabilità, non di ragione o di torto.
Questo modo di concepire la democrazia comporta la capacità di estraniarci da noi stessi, di uscire dalla nostra pelle per poterci osservare per quello che siamo e confrontarci con quello che non siamo e vorremmo essere. Essere al tempo stesso soggetto e oggetto, cioè la coscienza di se stessi, è forse ciò che di più difficile possiamo immaginare, nella vita individuale e, a maggior ragione, in quella collettiva. Quando si dice "la lezione dei maestri", si dice innanzitutto distanza tra noi, come soggetti, e noi, come oggetti, cioè coscienza critica. La funzione del maestro, nella democrazia critica, non è un lusso, è una necessità vitale.
Tutto il contrario, nella democrazia acritica. Se la maggioranza ha sempre ragione, se la sua volontà è infallibile come quella divina, la voce ammonitrice del maestro è semplicemente un inutile fastidio, come quella del grillo parlante che Pinocchio, che non vuol sentir parola, schiaccia con un colpo di martello. Non c’è bisogno di maestri in questa democrazia, ma di ideologi, di comunicatori, di propagandisti o di pubblicitari, cioè di quelle false maestre (televisione, pubblicità, moda, ecc.) di cui s’è detto. Esse non creano tensione, allontanano da noi l’inquietudine del dubbio, ci fanno credere che ciò che siamo sia anche ciò che non possiamo non essere, che dove siamo non possiamo non essere. Ci fanno stare in pace con noi stessi, perché ci privano della coscienza di noi stessi e ci trasformano da soggetti in oggetti.
I maestri non esistono se non ci sono discepoli. Non sono i maestri a creare i discepoli, ma i discepoli a creare i maestri. Quando tra noi, potenziali discepoli, incominciano a porsi domande di senso ed esigenze di ethos, allora possono comparire i maestri. Questo - porre domande inevase e far valere esigenze insoddisfatte - è il compito di chi crede che valga la pena di impegnarsi per una democrazia con gli occhi aperti su se stessa e sul suo futuro, cioè per una forma di convivenza che coltivi l’inquietudine non come un vizio, ma come una virtù.
Abbiamo di fronte a noi degrado della vita pubblica, deterioramento della democrazia, inquietudine senza sbocco per l’avvenire e incapacità generalizzata di indicare prospettive diverse dal tirare in qualche modo a campare per allontanare soltanto il momento di una crisi che, non possiamo non saperlo, prima o poi verrà. In quel momento, la presenza o l’assenza di un magistero civile sarà determinante.
* la Repubblica, 26 maggio 2008
Sul tema, nel sito, si cfr.:
ATTENTATO ALLA COSTITUZIONE? GIA’ FATTO!!! Un appello al Presidente Napolitano
MIO NONNO ERA UN RE
di Michele Feo *
Il filosofo Emanuele Severino parla spesso in interviste e ricordi autobiografici del fratello Giuseppe morto in guerra, dicendo che fu studente alla Scuola Normale Superiore di Pisa e lì ascoltò le lezioni di Giovanni Gentile; lo ripete con dovizia di particolari novellistici nel «Corriere della sera» del 31 dicembre 2018.
Ma il nome di Giuseppe è assente in tutti gli elenchi a stampa degli allievi della scuola pisana, da quello curato nell’immediato dopoguerra dal filologo e segretario della Scuola Alessandro Perosa all’ultimo del 1999. Poiché l’esempio del fratello sembra essere stato determinante per la scelta di vita di Emanuele, par di capire che la collocazione formativa di Giuseppe a Pisa, all’ombra di Gentile, debba riverberare su Emanuele un po’ di quella gloria.
Sempre, anche il figlio della lavandaia e del tavernaro, quando ha asceso la scala sociale, si crea antenati nobili; le povere ma belle donzellette alla fine della favola si scoprono figlie di regine e il tribuno popolare Cola di Rienzo rivelò di essere il risultato di una bassa avventura dell’imperatore nei quartieri bassi di Roma.
Corollario: o i repertori pisani devono essere emendati o il filosofo si è distratto e anche lui si è lasciato catturare dal mito delle origini favolose.
Michele Feo
NOTA:
"DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE". Una storia di lunga durata
MIO NONNO ERA IL IL PAPÀ DI ADAMO ED EVA...
“Se vogliamo andare avanti non è a Parmenide che dobbiamo pensare. Ma, se si vuole, a Talete. Egli sapeva che l’azzurro circondava la Terra. Che vuol dire questo? E’ presto detto (e poi chiudo). La chiave ce la fornisce l’altra recente polemica innescata da Paolo Rossi, e, in particolare, la risposta di [Emanuele] Severino alla provocazione dello stesso Rossi. La questione è quella della nascita. Chiariamo.
Con la sua costanza e con la sua testardaggine, Rossi - lo storico-segugio (Severino parla di cagnolini) - è riuscito a mettere alle strette il Leone, e, l’ha fatto uscire dalla foresta pietrificata o, che è lo stesso, dal campo (Essere=Verità) di Parmenide. Perseguitato per «vent’anni», Severino non ce l’ha fatta più e ha ceduto. E, costretto a scoprire le sue carte, ha dovuto ammetterlo: non è nato ad Elea (Parmenide) e nemmeno a «Como» (Heidegger). «Io sono nato - ha dichiarato Severino - a Brescia. Me lo ha detto mia madre e mio padre: è scritto sui documenti». Il giogo del Destino della Necessità è stato spezzato: HIC SUNT LEONES - a Brescia!. Era ora: Emanuele è solo un poco Severino, ma è con noi - come noi, semplici mortali.
Fuor di metafora: questo è il problema: La croce dei filosofi, per eccellenza. Ce n’è voluto per riportare a galla dalle profondità del mare dell’essere (altro che pantano o pozzanghera, entro cui era stato buttato da Parmenide e dai suoi edipici figli - i platonici di tutti i tempi) Talete: qual è il principio di tutte le cose? Questi sono i problemi: così nasce la filosofia [...] (cfr. Federico La Sala, "Per una nuova cultura all’altezza del Pianeta Azzurro", «La Critica Sociologica», n. 93, 1990, pp. 111-115; in: “Della Terra, il brillante colore”, Pref. di Fulvio Papi, Edizioni Nuove Scritture, Milano 2013, pp. 98-99, senza note).
Federico La Sala
Una nazione di burattini
Così la metafora di Pinocchio spiega l’Italia
In che modo i burattini costituiscono un’allegoria dello spirito italiano
C’è un’idea del carattere nazionale e delle nostre teorie sul rapporto tra corpo, volontà e ragione
Il saggio di una studiosa americana sull’importanza del personaggio di Collodi dal 1861 al 1922
L’autrice mette in relazione la crisi del soggetto liberale con "l’effetto marionetta"
Questa icona è presente nei trattati politici, in quelli di Lombroso e persino nella pedagogia della Montessori
di Roberto Esposito (la Repubblica, 18.10.2011)
Se si fosse compreso Pinocchio, si sarebbe compresa l’Italia - dichiarava Prezzolini nel 1923. Mentre il secondo obiettivo è lontano dall’essere stato raggiunto - mai come oggi gli osservatori stranieri guardano al nostro Paese come a un curioso paradosso - neanche il primo è stato del tutto centrato. Benché quello di Collodi sia il libro italiano di gran lunga più tradotto nel mondo - in circa duecento lingue -, oggetto di produzioni filmiche, traino di un’inesauribile industria di giocattoli, per non parlare della valanga di interpretazioni cui ha dato luogo, il segreto del suo successo resta ancora racchiuso in quel corpo di legno. Cosa vuol dire quel burattino che si muove da solo, senza fili cui appendersi? Come vanno intese le bugie che gli fanno crescere il naso - come follie all’interno di una società sana o come implicite denunce di una società folle? E il suo diventare bambino è una forma di normalizzazione disciplinare o l’effetto di autoeducazione? Un processo di soggettivazione o una pratica di assoggettamento?
Una serie di risposte a queste domande arrivano adesso da un’ampia ricerca di Suzanne Stewart-Steinberg, docente di Italian Studies all’Università di Brown in America, pubblicata da Elliot con il titolo L’effetto Pinocchio. Italia 1861-1922. La costruzione di una complessa modernità. Diversamente da coloro che hanno puntato su una sola carta interpretativa, l’autrice mette in campo una complessa strategia ermeneutica che sovrappone sguardi diversi, di carattere storico, antropologico, psicoanalitico.
Pinocchio è un doppio costituito all’incrocio di elementi opposti. Egli è insieme burattino e ragazzo, oggetto e soggetto, macchina e corpo. E ancora, fabbricato per obbedire ma inguaribilmente indisciplinato, bugiardo ma capace di testimoniare un’esperienza collettiva, plasmabile ma insofferente di ogni vincolo. La sua caratteristica fondamentale è la "scioltezza", una sorta di elasticità del corpo e della mente che gli impedisce di stare fermo, condannandolo ad una perenne agitazione. Per non parlare della sua capacità di metamorfosi, che lo situa a metà tra un personaggio di Kafka e un materiale estetico di Duchamp.
Ma cosa ha a che fare, tutto ciò, con il carattere degli italiani? In che modo i burattini costituiscono un’allegoria dello spirito italiano, come sosteneva Yorick nella sua Storia del burattini del 1884? Assimilabili nel Rinascimento ad icone religiose - come le mariettes, statuine della Madonna - essi si mischiano nel Settecento alle maschere della commedia dell’arte, per poi acquisire una forma di dipendenza, non più da Dio, ma dalla precisione tecnologica delle macchine. In questo senso essi riproducono il mutamento che, dopo l’unificazione, investe gli italiani a partire dallo statuto del corpo e dalla sua connessione con la volontà e la ragione.
Quando, nel 1882, Pasquale Turiello pubblica la sua indagine storico-antropologica dal titolo Governo e governati in Italia, perviene, certo con altro linguaggio, ai medesimi risultati: gli Italiani sono caratterizzati da una singolare miscela di creatività e di inerzia, non sanno sottomettersi a norme collettive, tendono sempre a subordinarle al proprio interesse personale o familiare, mancano del senso del limite, come del resto aveva diagnosticato Francesco De Sanctis. Non è difficile scorgere in questo deposito di umori, l’esito di una storia difficile, l’annuncio di quanto ancor oggi affligge un Paese succube a burattinai di dubbia propensione al bene comune.
E tuttavia tutto ciò non va interpretato soltanto come una forma di immaturità che trattiene la cultura italiana al di qua della soglia della modernità, ma anche come una diversione, o una mossa di cavallo, che le consente di oltrepassarla. Quando l’autrice parla di crisi del soggetto liberale, allude a questa singolare attitudine, da parte di autori o testi italiani del periodo, di sintonizzarsi precocemente con quella svolta che in anni successivi sarebbe stata definita biopolitica. E cioè si riferisce al passaggio da una concezione classica del soggetto, padrone di se stesso e capace di decidere del proprio destino politico, ad un soggetto attraversato da una serie di impulsi psichici e fisici che egli non è in grado di dominare.
A tale svolta rimandano, ad esempio, gli studi dello psichiatra Enrico Morselli sugli stati ipnotici, che anticipano le intuizioni di Freud sulla psicologia di massa, sempre esposta alla forza di suggestione di leaders carismatici. Cos’altro è il soggetto succube del potere autoritario o del disciplinamento di massa, se non una sorta di burattino senza fili che crede di muoversi autonomamente? E non ha a che fare, quella scienza della ginnastica, cui si dedicano, insieme all’igiene, i pediatri italiani, con la "rigida scioltezza" di Pinocchio?
Ciò che questi autori colgono, a volte oscuramente, è la centralità del corpo - dei suoi umori, dei suoi traumi, dei suoi desideri - che va ben oltre la volontà razionale del soggetto per affondare nella falda naturale della vita biologica. In questo senso Effetto Pinocchio, aldilà dei suoi riferimenti storici e letterari, ci parla di noi - della nostra condizione contemporanea, spesso preda di forze cui non sappiamo resistere, che influenzano la nostra vita senza che neanche ce ne accorgiamo.
Nel racconto Amore e ginnastica di Edmondo De Amicis, sconosciuto al grande pubblico a vantaggio dell’esangue moralismo di Cuore, vi è in primo piano il corpo erotico ed erotizzato, colto nel dolore, e nel piacere, masochista di sperimentare la propria impotenza. Forse per capire cosa spinge oggi donne o uomini a farsi legare, sospesi nel vuoto, ad un gancio di ferro che ne irrigidisce le membra, bisogna andare a leggere anche in testi come questi.
Negli stessi anni, in ambito diverso, Cesare Lombroso apre il grande teatro dei corpi parlanti attraverso i segni criminali, che modifica in senso somatico il paradigma giuridico di Beccaria, ancora fondato sul presupposto illuministico del libero arbitrio individuale.
Ma è forse il saggio Sull’infanticidio di Scipio Sighele - con al centro la figura ambivalente della madre dolorosa, vinta da una irresistibile potenza omicida che ne attenua la colpa individuale - a restituire meglio il tratto, insieme pre e postmoderno, che attraversa la cultura italiana del periodo. I corpi dei bambini, liberamente disciplinati dal metodo di Maria Montessori, sottomessi ma anche provocati dal silenzio della maestra, costituiscono il vertice di questa piramide biopedagogica. Fin quando la tradizione interpretativa resterà bloccata all’immagine di maniera dell’arretratezza italiana, senza porsi ulteriori domande, un intero regime di senso resterà ancora sommerso. O chiuso nel corpo di legno dei nostri molteplici pinocchi.
Pinocchio è uno schiavo
di Ascanio Celestini *
Mio padre prese uno schiaffone dal principale il giorno in cui chiamò «legna» un pezzo di «legno». Era un ragazzino e c’era la guerra quando suo padre lo portò in una bottega a San Lorenzo per fargli imparare il mestiere del falegname. Mio nonno Giulio a quel principale disse «se serve dategli pure uno schiaffo come lo dareste a vostro figlio» e rivolto a mio padre «se il principale ti da uno schiaffo è come se te l’ho dato io». Non che l’educazione del tempo fosse tutta incentrata sulle botte, ma è certo che la paternità passava anche attraverso gli schiaffoni. Così quando leggo le prime righe del Pinocchio di Collodi mi fa strano che il tronco in cui viene intagliato il burattino sia chiamato legno, ma è certo che non è un pezzo di lusso se Collodi specifica subito che si tratta di «un semplice pezzo da catasta, di quelli che d’inverno si mettono nelle stufe».
La qualità del legno. Mi pare che sia propria in questa diversa qualità del legno che si trovi uno dei significati profondi della storia di Pinocchio. Noi lo ricordiamo bugiardo, ma il suo naso «appena fatto, cominciò a crescere» e questo succede prima che dica una bugia perché Geppetto non gli ha ancora fatto la bocca. Così come gli si allunga anche per lo stupore quando si avvicina al focolare e vede che la pentola che bolle è solo un disegno sul muro. E sarà pure un birbante, ma appena resta solo e cerca di mangiarsi qualcosa, dopo una pentola dipinta trova un uovo dal quale scappa fuori un pulcino e il vecchio a cui chiede un poco di pane lo ripaga con una secchiata d’acqua.
Poi quando, alla ricerca del padre, arriva naufragando all’isola delle api industriose chiede al delfino se «in quest’isola vi sono dei paesi dove si possa mangiare senza essere mangiati» come se avesse capito che il suo destino è quello di finire tra i denti di qualcuno. Subito dopo, quando si mette a chiedere l’elemosina trova una serie di persone che gli offrono faticosi lavori senza un po’ di pietà per lui che, benché di legno, è ancora un bambino. Solo una donnina gli offrirà da bere e poi si scoprirà che si tratta della fatina come se in un mondo violento bisogna essere fate per non sfruttare i bambini.
Insomma Pinocchio fa davvero parte della schiera dei poveracci. È come i ragazzini che setacciano nell’immondizia delle discariche ai bordi di grandi città africane. I bambini comprati per essere deportati nelle piantagioni o prostituiti nelle periferie, chiusi nei laboratori tessili e nelle concerie, nelle cave e nelle fornaci, alimentati una volta al giorno con un piatto di riso. Bambini come Iqbal Masih che fu venduto per 16 dollari e a quattro anni venne incatenato a un telaio per dodici ore al giorno. Riuscì a scappare a dieci anni diventando un piccolo sindacalista, ma solo due anni dopo fu assassinato per il suo impegno politico.
Se non guardiamo Pinocchio attraverso la miseria dei poveri che abitano il nostro pianeta rischiamo di prendere la sua storia per una favoletta edificante, un filmetto da vedere in famiglia mentre ci abbuffiamo con l’amatriciana o le patate fritte. Ma riusciremmo a seguire in televisione la vicenda di un bambino povero e schiavizzato mentre addentiamo un hamburger? Un bambino che viene attratto dai giochi del paese dei balocchi solo per essere trasformato in somaro e mandato a morire? Gino Strada ci parlava dei Pappagalli Verdi, le mine anti-uomo pensate come giocattoli esplosivi per colpire proprio i piccoli vietnamiti o afgani, somali o iracheni.
Pinocchio coma Paticha, la bambina di tre o quattro anni figlia di un sergente della milizia zapatista che portava il caffè a Marcos. Un giorno «verso le sei di sera a Paticha è venuta la febbre. Alle dieci era morta tra le mie braccia», ma visto che in condizioni del genere non è pensabile trovare farmaci e molte migliaia di bambini muoiono ogni anno per una febbre, anche questa bambina morta «fa parte del quotidiano. Paticha non ha mai avuto un certificato di nascita, come dire che per lo Stato non è mai esistita, e pertanto la sua morte non è mai avvenuta» proprio come Pinocchio che salta fuori da un pezzo di legno nella bottega di un falegname e lo Stato gli si presenta solo in forma di guardie che vogliono carcerare lui o suo padre.
Ma sono io che mi sono fatto questo film o è l’autore che l’ha pensato prima di me? Mi pare che lo dica proprio all’inizio che Geppetto vuole chiamarlo Pinocchio perché aveva conosciuto un’intera famiglia di Pinocchi e «il più ricco di loro chiedeva l’elemosina». Forse ci facciamo colpire da quel finale in cui il burattino diventa di carne e ossa. Ci dimentichiamo che per Paticha o Iqbal trasformarsi in bambini veri non significava entrare nell’allegra borghesia patinata del Mulino Bianco, ma semplicemente diventare persone rispettate. Individui e non semplicemente bocche da sfamare e braccia messe a lavorare.
Mio padre da ragazzino prese uno schiaffo per aver scambiato il legno con la legna, ma poi il principale gli insegnò un mestiere e gli dette pure qualche soldo. Come Mangiafuoco che alla fine si intenerisce e con qualche starnuto gli regala cinque monete d’oro che attirano l’attenzione del gatto e la volpe, non molto diversi dalle banche assassine o dai ministri che oggi ci convincono a piantare i nostri zecchini nel campo dei miracoli in attesa che germoglino. Poi anche mio padre è diventato un cittadino in carne e ossa e coi suoi zecchini nascosti in bocca s’è fatto una bottega tutta sua per mettere su una famiglia che non fosse di burattini senza diritti, sperando di non far vivere ai figli quello che suo padre era stato costretto a far vivere a lui. Sperando che la società dei Pinocchi diventasse solo una favola da raccontare. E invece quella storia continua a stare un po’ nella fantasia e molto nella realtà.
Perciò oggi il Pinocchio che mi piacerebbe vedere è un bambino che rischia di bruciarsi i piedi proprio come quelli che li perdono quando calpestano una mina anti-uomo. Che viene ripetutamente legato, incatenato al posto del cane, messo a lavorare come un somaro e quando si infortuna diventa un pezzo da buttare via, la cui vita vale quanto una pelle per fare un tamburo. Che in quella galera infame che è il ventre del pescecane impara che «quando si nasce tonni, c’è più dignità a morire sott’acqua che sott’olio».
* l’Unità, 10 novembre 2009
Sul tema, nel sito, si cfr.:
IL CROCIFISSO: UN PEZZO DI LEGNO, PINOCCHIO, E NOI, ITALIANI ED ITALIANE.