[...] Il processo dunque, attraverso la narrazione di storie, mira alla ricerca e alla ricostruzione della verità. Ma "la verità" è un concetto difficile da immobilizzare, che custodisce nelle pieghe delle lettere che la compongono, contraddizioni e significati nascosti. La locuzione "la verità" può essere anagrammata in "relativa"; ma anche in "rivelata" e anche, ancora, in "evitarla". Ognuno può scegliere l’anagramma e il significato che preferisce.
Per chi crede nel primato della tolleranza e dell’intelligenza critica è facile scegliere la soluzione proposta da Norberto Bobbio nella prefazione al Trattato dell’argomentazione di Perelman e Tyteca: "La teoria dell’argomentazione rifiuta le antitesi troppo nette: mostra che tra la verità assoluta degli invasati (rivelata ndr) e la non verità degli scettici (evitarla ndr) c’è posto per le verità (relative ndr) da sottoporsi a continua revisione mercè la tecnica di addurre ragioni pro e contro. Sa che quando gli uomini cessano di credere alle buone ragioni, comincia la violenza" [...]
Nel 1957 l’avvocato nato dalla fantasia di Erle Stanley Gardner
La sua umanità e il suo rigore lo resero universale
Perry Mason, il fascino della legge
Compie 50 anni la mitica serie tv
di GIANRICO CAROFIGLIO *
LE STORIE di Perry Mason sono uno dei più classici esempi di narrazione seriale, non solo nel senso della proposizione ripetuta dello stesso personaggio (anzi: dello stesso gruppo di personaggi, dalla segretaria, all’investigatore privato, al procuratore distrettuale), ma anche e soprattutto nel senso della riproposizione del medesimo, rassicurante schema narrativo. Tutti gli episodi della serie raccontano la stessa storia. Un innocente accusato di un grave delitto si rivolge all’avvocato Perry Mason che ne assume la difesa, affida le necessarie indagini al suo investigatore privato di fiducia e nel corso di spettacolari interrogatori riesce a dimostrare al giudice, alla giuria e anche a un inebetito pubblico ministero, l’innocenza del suo cliente e la colpevolezza del vero responsabile. Di regola, il principale testimone d’accusa.
Nella vita reale, ovviamente, le cose vanno in modo diverso, ma il successo di Erle Stanley Gardner e dei numerosi autori che dopo di lui si sono dedicati alla narrazione giudiziaria ha ragioni sicuramente più complesse della rassicurante ripetizione di uno schema e della felice costruzione di personaggi accattivanti. Il processo ha uno straordinario fascino narrativo perché è esso stesso un meccanismo per la produzione di storie e perché ha a che fare con il bisogno di mettere ordine nel caos dell’esistenza e dei diversi punti di vista sul male e sulla colpa.
Rashomon, capolavoro di Akira Kurosawa, è a suo modo la storia di un processo, e ripercorrerne la trama consente di capire molte cose sul fascino della narrazione giudiziaria e sul carattere illusorio delle nostre idee tradizionali sulla verità. In Rashomon si racconta di un bandito accusato di avere assassinato un samurai e di averne violentato la moglie. I tre protagonisti della vicenda, incluso il samurai morto (il cui spirito viene evocato da una maga) raccontano tre diverse versioni dei fatti, scaricando sugli altri la responsabilità, soprattutto morale dell’accaduto. Un boscaiolo, testimone esterno del dramma, racconta a sua volta una quarta versione, radicalmente diversa da quella dei tre protagonisti.
La storia di Rashomon ci fa riflettere su come i punti di vista incidano in modo determinante sulla percezione, sulla narrazione e, in un qualche modo, sulla creazione stessa della realtà da parte di soggetti diversi. In questo senso costituisce una sorta di paradigma di quello che accade sul palcoscenico processuale. Non è - palcoscenico - una parola presa a caso. Nel processo si discute del bene e del male, o quanto meno del giusto e dell’ingiusto in un contesto - l’udienza - che richiama alla mente i canoni aristotelici di unità di azione, di tempo e di luogo e nel quale si consumano conflitti spettacolari. Drammatici spesso, ma a volte anche comici.
Nei paesi di common law si tramandano numerosi aneddoti, a volte veri, spesso comunque verosimili, che mostrano la parte grottesca, ridicola o comica del processo. Un uomo era accusato di lesioni personali per aver staccato con un morso un pezzo di orecchio al suo avversario durante un litigio. Il pubblico ministero aveva esaminato il principale teste d’accusa, presente al fatto e dunque toccava al difensore dell’imputato procedere al controesame per cercare di inficiare l’attendibilità della deposizione.
Avvocato: "Dunque lei afferma che il mio cliente ha staccato l’orecchio alla persona offesa?"
Teste: "Sì".
Avvocato: "A che distanza dalla colluttazione si trovava lei?"
Teste: "Una ventina di metri, forse anche di più".
Avvocato: "Che ora era, più o meno?"
Teste: "Le nove di sera".
Avvocato: "Ed eravate nel parcheggio del supermercato, all’aperto, esatto?"
Teste: "Sì, esatto".
Avvocato: "Era ben illuminato?"
Teste: "Non molto".
Avvocato: "Si può dire che il tutto è accaduto nella semioscurità?"
Teste: "Sì, più o meno. Insomma, non c’era molta luce".
Avvocato: "Quindi mi faccia riepilogare: il fatto è accaduto alle nove di sera, in un parcheggio male illuminato e lei si trovava a più di venti metri dal punto specifico in cui si svolgeva l’azione. È esatto?"
Teste: "È esatto".
A questo punto - dicono i manuali - il difensore avrebbe dovuto fermarsi. Aveva ottenuto un risultato utile e durante la discussione avrebbe potuto attaccare l’attendibilità della testimonianza, sostenendo con buoni argomenti, che in quelle condizioni (distanza e cattiva illuminazione) non era possibile che il teste avesse visto l’azione del morso. Una delle regole fondamentali della cross examination è quella di non fare una domanda di troppo, perché un risultato brillante potrebbe venire sciupato o addirittura capovolto. In questo caso l’avvocato non si attenne a questa regola fondamentale. Vediamo l’epilogo del controesame.
Avvocato: "E lei vuol farci credere che in queste condizioni è riuscito a vedere il mio cliente che staccava un piccolo pezzo di orecchio al suo avversario?"
Teste: "Ma io non l’ho visto mentre lo staccava..."
Avvocato: "Allora come fa a sostenere che ..."
Teste: "... l’ho visto mentre lo sputava subito dopo".
Il processo dunque è spesso tragedia, a volte anche commedia, comunque un sofisticato macchinario spettacolare a doppio taglio; per quello che in esso accade e per le storie che in esso si raccontano.
Tutti nel processo, anche se in modi diversi, raccontano storie. I testimoni e gli imputati raccontano la loro versione di fatti vissuti o percepiti. I pubblici ministeri, gli avvocati, gli stessi giudici al momento di motivare le loro sentenze, prendono il materiale grezzo costituito da prove e indizi, lo mettono insieme, cercano di dargli struttura e senso in storie che raccontino in modo plausibile i fatti del passato.
Noi tutti costruiamo storie (nei processi ma anche nella vita) per cercare di mettere ordine nel caos, per cercare di estrarne una verità accettabile. Lo scopo del processo è selezionare, fra le storie proposte dalle parti in competizione, quella munita del migliore grado di accettabilità. Quella capace di spiegare tutti i dati di fatto, senza lasciarne fuori nessuno, secondo un criterio di congruenza narrativa. Superando i punti di vista e le prospettive particolari.
Il processo dunque, attraverso la narrazione di storie, mira alla ricerca e alla ricostruzione della verità. Ma "la verità" è un concetto difficile da immobilizzare, che custodisce nelle pieghe delle lettere che la compongono, contraddizioni e significati nascosti. La locuzione "la verità" può essere anagrammata in "relativa"; ma anche in "rivelata" e anche, ancora, in "evitarla". Ognuno può scegliere l’anagramma e il significato che preferisce.
Per chi crede nel primato della tolleranza e dell’intelligenza critica è facile scegliere la soluzione proposta da Norberto Bobbio nella prefazione al Trattato dell’argomentazione di Perelman e Tyteca: "La teoria dell’argomentazione rifiuta le antitesi troppo nette: mostra che tra la verità assoluta degli invasati (rivelata ndr) e la non verità degli scettici (evitarla ndr) c’è posto per le verità (relative ndr) da sottoporsi a continua revisione mercè la tecnica di addurre ragioni pro e contro. Sa che quando gli uomini cessano di credere alle buone ragioni, comincia la violenza".
PERCHE’ CREDIAMO ALLE STORIE
Darwin e l’evoluzione della fantasia
di Paolo Legrenzi (la Repubblica, 02.09.2010)
Spesso quando le stesse cose ci vengono dette in modo pedagogico non ci interessano
Come individui abbiamo bisogno di avere fiducia in chi ne sa più di noi dell’esistenza
Siamo l’unica specie che ama narrare e ascoltare i racconti Anche quando non sono veri: soprattutto se non lo sono
Una cosa rende diversa la specie umana da tutti gli altri esseri viventi. Solo noi inventiamo storie e le prendiamo per buone. Provate a domandare alle persone quando, nel corso di una giornata, stanno bene. Le risposte prevalenti riguardano, in primis, lo stare con le persone amate e, poi, il lavoro e i successi professionali. Questa è la risposta ufficiale, quella che sentiamo di dover dare. In realtà quel che piace ai più è seguire storie alla TV. Per appurarlo basta interrogare le persone quando meno se lo aspettano.
Gli spettacoli televisivi riescono a trasformare tutto in storie, proprio tutto, persino le cose più noiose, come la politica o le crisi economiche. Le persone passano varie ore al giorno di fronte alla Tv (dalle quattro ore e 46 minuti dei calabresi fino alle tre ore e 18 minuti degli altoatesini, dati medi del 2007). Per lo più seguono storie, spesso condite di soldi o sesso, possibilmente in forme trasgressive. E tuttavia gli stessi argomenti, presentati sotto forma di educazione finanziaria o sessuale, cioè in chiave pedagogica, diventano subito noiosi. Le storie piacciono, il resto no.
Questi dati pongono un paradosso curioso. Se prendessimo sul serio la vulgata darwinista, basata sui vantaggi per chi si adatta meglio all’ambiente, dovremmo domandarci a che cosa serve tutto questo tempo e risorse mentali dedicati a prendere per buone storie inventate. Solo conoscenze vere ci mettono in grado di muoverci meglio nel mondo. Questo vale per l’adattamento agli ambienti naturali, se andiamo in montagna o trivelliamo pozzi di petrolio, ma anche a quelli sociali. Tant’è vero che in tutti i conflitti si ottiene un bel vantaggio quando si riesce a far credere all’avversario qualcosa che è falso. E tuttavia le storie "credibili" e appassionanti sono proprio quelle false, o meglio inventate con una miscela di realismo e fantasia. In breve, il di-vertimento è di-versione dalla realtà.
E allora, come la mettiamo con Darwin e il vantaggio evolutivo? La risposta ortodossa, e più nota, è quella dell’etologo inglese Richard Dawkins. Per Dawkins la sopravvivenza in gioco non è quella della specie, ma quella dell’individuo, o meglio del suo patrimonio genetico. A questo scopo è vantaggioso credere, nel senso di avere fiducia nei confronti di chi sa più di noi.
Quando un genitore ci dice di non andare a giocare sul fiume se il sole è alto nel cielo, noi gli crediamo. La fiducia acritica evita di correre il rischio di essere mangiati o mutilati dai coccodrilli in cerca di animali assetati. In questi casi, il dubbio nei confronti di chi sa di più non conduce a un personale apprendimento per prove ed errori, ma a perdere definitivamente un braccio o una gamba. Se poi quello stesso genitore mi insegna il rito della pioggia, tendo a credergli con quella stessa fiducia che mi ha salvato dai coccodrilli. E così la cultura finisce per trasmettere una miscela di vero, e adattivo, come nel caso dei coccodrilli, e di falso, e inutile, come i riti della pioggia e altre superstizioni. Talvolta ci trasmette anche qualcosa di falso e fuorviante, se non dannoso. Sui tempi lunghi, quest’ultimo tipo di credenze s’indebolisce. Basta esaminare, in epoca moderna, gli sviluppi di tutte le vicende in cui le varie chiese, religiose e pagane, hanno contrastato la scienza.
Insomma l’ortodossia vuole che il progresso delle scienze riduca lo spazio del falso, che sopravvive a stento presso ingenui o fanatici.
Una risposta diversa è fondata sul valore adattivo delle storie. Che cosa sono le storie, in fin dei conti? Sono dei mondi simulati, scenari inventati ad arte per "funzionare", cioè appassionare gli spettatori. Immedesimarsi in questa sorta di simulazioni fantastiche allena a quello che potrebbe succedere nella vita vera e allevia le sofferenze quotidiane. La nostra come una tra le tante vite possibili. Che cosa farei se fossi nei panni del protagonista di quella soap opera o di quel reality? Come risolverei i problemi del mio beniamino, personaggio dello spettacolo o dello sport? Questa è una spiegazione del fascino delle storie, in chiave preventiva e pedagogica, quindi adattiva.
Personalmente propenderei per un terzo tipo di risposta, che è una variante della seconda. E’ quella che ha dato su questo giornale (30.07.10) lo scrittore Nathan Englander, parlando della prima volta che lesse il Lamento di Portnoy di Philip Roth. Englander, non più religioso ma cultore della religione dei libri, dichiara che, leggendo da adolescente il romanzo, aveva avuto l’impressione che quella storia fosse stata scritta unicamente per lui. Ecco, noi crediamo alle storie in quanto universali, nel senso che sfruttano l’immutabile struttura umana delle emozioni, ma ci crediamo di più quando abbiamo l’impressione che parlino proprio a noi, non più spettatori, ma attori di quella storia