IN VIAGGIO CON ASOR ROSA NELLA LETTERATURA ITALIANA
UNA SONTUOSA KOINE’
Di che è fatta un’identità italiana, ammesso che ci sia, se non dalla lingua che si è andata secernendo, luminosa e iridata come una perla scaramazza, dalla vecchia ostrica del latino? Riflessioni a margine dei tre volumi della recente «Storia europea della letteratura italiana»
di Rossana Rossanda (il manifesto, 04.07.2009)
Con che faccia può parlare dei tre volumi di Alberto Asor Rosa sulla Letteratura italiana - ed è solo un tirare i fili del lavoro di una vita - una che ha assai mal frequentato le patrie lettere? Al mio tempo avevo ingoiato il mortifero Vittorio G. Rossi e ascoltato Fubini che faceva lezione cupamente reggendo la fronte su una mano. 1941, 1942, tempi bui. Quale corso faceva? Non ricordo. Eppure ricordo Banfi e Marangoni e Chabod. E financo la «Farsaglia» di Luigi Castiglioni - forse per lo spavento che mi incuteva. E poi perfino lettere romanze. È la letteratura italiana che è scomparsa dalla mente; la scuola inabissa quello che un certo insegnante o certe pagine non hanno destato con un sussulto.
E dopo il 1945, ché allora giusto finivo l’università, ci gettavamo sui libri prima introvabili, Verlaine e Joyce e Apollinaire e Mann e Hemingway e Malraux e Melville in voluttuosa confusione. Avrei reincontrato l’Italia privatamente e senza metodo. Chissà da quando mi porto dentro tanti versi della «Commedia», penso agli amici con «Guido, io vorrei ...», mi ha stupito a Vaucluse il verde profondo delle «Chiare fresche e dolci acque» e borbotto «Italia mia benché il parlar sia indarno...»? Perché ricordo Chichibio che se la cava con la gru più che un’altra novella? Capisco perché l’Ariosto stia fra i libri a portata di mano e non il Tasso ma, non avendo mai più riaperto il Carducci, come mai non mi si schiodano di dosso «Teodorico di Verona, dove vai così di fretta?» e il pio bove o «Tu che pasci i buoi presso Bevagna caliginosa»? Caliginosa. Poi ci sono gli inconfessabili odi, Pascoli, perfino Manzoni - a torto, a torto, mi pento (ma è così, un milanese sempre a posto con tutto). Invece Leopardi è mio da e per sempre. Dopo, ogni lettura è un tassello del confuso vivere.
Troppo poco. Che vergogna. Volevo rimettermi a studiare con ordine, uno dopo l’altro e meglio tardi che mai, sull’Asor Rosa, invece il suo ragionare mi ha messo in moto i pensieri. Specialmente uno: di che è fatta un’identità italiana, ammesso che ci sia, se non dalla lingua che si è andata secernendo, luminosa e iridata come una perla scaramazza, dalla vecchia ostrica del latino? E dopo essere passata per le lingue d’oc e d’oil, come il francese? Cosa che non succedeva agli spagnoli. Soprattutto Francia e Spagna si facevano anche stati o imperi. Noi niente, per secoli; tutti ci hanno passeggiato sopra, non sono mancati, credo, che i mongoli. Distruggendo e costruendo, ammazzando e incrociandosi, rubando e lasciando, tutti insopportabili e tutti subìti (donde, suppongo, anche il peggio del paese, «Francia o Spagna pur che se magna»).
Molto tardi i grandi devono avere concluso che era più prudente lasciar indipendente la penisola invece che annettersela, uno di loro diventando troppo grosso. C’erano gli antichissimi e innocui conti di Maurienne, poi duchi di Savoia, appollaiati sulle Alpi a affittarne i passaggi («portinai» delle Alpi li definisce Le Roy Ladurie) allergici alla rivoluzione francese e poi a Napoleone, scoloriti Umberti e Amedei esperti nel ribaltare alleanze, che a un certo momento hanno senz’altro lasciato alla Francia il suolo natale e prestato orecchio agli afflitti patrioti di un’Italia che non c’era. Ma non è curioso che l’Italia, di cui non esisteva che l’italiano, sia stata unificata da una famiglia che parlava francese? È vero che c’era l’abile Cavour, che ha saputo tessere fili e usare e gettare il Garibaldi di Teano («Obbedisco, Sire» ed è finito a Caprera a rimuginare orribili versi, povero leone).
Quel popol disperso
Le pagine di Asor mi obbligano a chiedere perché ci hanno insegnato storia da una parte (si fa per dire), storia della lingua mai, e letteratura italiana dall’altra? Che senso ha? Leggo questi volumi, che mi aprono tante prospettive assieme, e mi viene il dubbio che non ne abbia nessuno specie per un paese come il nostro. Anche la Germania si unificava tardi dopo una coda meravigliosa di lingua e cultura, sarà un destino, ma essa almeno si faceva mettere assieme da uno dei suoi. Noi, in compenso, non siamo riusciti a farci dividere fino in 350 stati. Bah.
In ogni modo è la tempesta del 1848 che rovescia le carte e i Savoia fanno l’Italia, un millennio che esiste l’italiano e di più la nostra letteratura. Che mi importa della nazione? Meno che ad Asor. Mi va bene che i barbari ci abbiano percorso da nord a sud e ritorno, e i greci, gli arabi, i turchi, i francesi, gli spagnoli. Che Nelson sia passato solo per schiacciare la rivoluzione napoletana e che, con l’aiuto della Francia, i papi abbiano massacrato la repubblica romana: potremmo averne dedotto sul serio che razza di roba eravamo e che cosa è libertà. Invece no, non mi pare. È esistita sola e sempre la koinè d’una splendida lingua (koinè è meglio di nazione, identità, stato, eccetera).
Mi incanta apprendere che all’inizio del Seicento un modesto tale di Udine e un modesto tale di Grottaglie non avessero in comune né sovrano, né moneta, né leggi, né, credo, modo di alimentarsi, niente di niente se non un amore spropositato per il cavalier Marino. Mi appassiona che Galileo sganci la scienza, oltre che da Aristotele, dalla chiesa e dal latino e illimpidisca il volgare. Il popol disperso che nome non ha aveva questo sontuoso linguaggio. Che ha retto a venti e maree anche se parlato da pochi, i più sprofondati nei vigorosi dialetti.
Ma basta. Credevo di suggerire la lettura di questi tre libri per scoprire questo o quel grande, annegarvi provvisoriamente come in un quieto lago, rifare il viaggio di Dante, ascoltare le novelle di Boccaccio raccontate due volte, innamorarsi di nuovo dello scettico Ariosto, costeggiare il Poliziano e farsi tentare da Ippolito Nievo piuttosto che, come è successo a me, dalla Certosa di Parma di Stendhal. Invece mi ha avvinto il castone in cui le gemme sono collocate, quel crogiolo di eventi e idee di un’Europa nell’infuriare di eserciti belligeranti e trattati che ne amputavano e ricucivano incessantemente i territori. Le koinè linguistiche mettono in comunicazione e in forma per loro correnti profonde, veicolando tesori, scordando lo scordabile e cancelleresco, collegando le genti. Perché diavolo ci fanno studiare tutto diviso, neanche una modesta sinopsi che metta accanto davanti ai più giovani la sorprendente contemporaneità di luci ed orrori?
Così avevo a lungo pensato pigramente al nostro Seicento - invidiando ai francesi le grand siècle e agli spagnoli Cervantes - come peste, guerre, lontani ma decisivi trattati di Westphalia, streghe arrostite e leziose decadenze, Galilei come se fosse di un altro mondo. E invece le pagine sul barocco e la decadenza sono bellissime e inducono una messe di problemi e gettano luci su insospettati legami, perché è anche un secolo di filosofia, anzi di passaggio per tutte, più o meno amabili. È implicito il rapporto con quella storia della chiesa, che in Italia è coperta da un fitto velo - almeno se ne parlasse nell’ora di religione - benché la gran parte di noi sia stata per secoli sotto le sue per niente spirituali zampe. E in latino. Credo che solo per il concilio di Tours abbia permesso qualcosa di simile all’italiano e al tedesco. Ancora adesso l’italiano le dispiace.
Bisogna essere grati anche a Sabine Koester Genuini per le limpide schede sulla lingua; anch’essa torrentizia. E pensare che la nostra letteratura è nata prima di essa, assieme al francese e agli occitani che già avevano sfondato il latino volgare e molto piacevano a poeti e viaggiatori della penisola dopo che i barbari vi avevano scorrazzato e prima che gli indigeni decidessero se la più bella del reame fosse la fiorentina, e se sì, quella di Dante o quella di Guido Cavalcanti. La chimera dell’identità
Siamo proprio un paese che fa spesso a meno di date e confini precisi. A proposito di date, si dice che il primo italiano trascritto siano state le parole d’un tale che certificava alcune terre essere appartenute da trent’anni ai benedettini. E io che credevo da una vita che la prima scritta in volgare fosse su un affresco in San Clemente a Roma e suonasse, ahimé, «Tira su quella trave, figlio di puttana». Gli amici francesi cui la mostravo mi precisavano che loro, invece, avevano «Etoilette, te voilà - que la lune trait à soi» (Eccoti, stellina, che la luna si tira accanto). Vuoi mettere? Almeno fossi autorizzata ad opporgli d’ora in poi «Meravigliosamente - un amor mi distingue»...
È in questa galassia che fluttua per secoli la chimera dell’identità italiana, fra potentati altrui e servaggi nostri. Almeno non abbiamo l’arroganza dei francesi che della loro lingua presumono ancora che sia la sola nella quale si possa pensare. Invece le perle formatesi nella putredine del latino seguono ciascuna i loro cammini, in versi, vezzi, prose, pensieri, lampi, ragionevoli abiure.
Insomma, giovani internauti, leggete gaudiosamente. Sappiate che non è obbligatorio morire di Google. Per conto mio, stasera comincio Paolo Sarpi, che a lungo ha significato per me soltanto l’omonima via, e mi vendicherà di Ratzinger.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
IL BERLUSCONISMO E IL RITORNELLO DEGLI INTELLETTUALI.
EMERGENZA EDUCATIVA: TRADIMENTO DEGLI INTELLETTUALI. Alcuni appunti
G8 2009. ULTIMA NOTIZIA DALL’ITALIA: RISOLTO IL QUIZ, FINALMENTE!!!
Geopolitica dell’Italiano
di Aldo Giannuli *
Fra le molte sciocchezze che capita di sentire a proposito dell’Italiano, c’è quella per la quale esso sarebbe quasi una lingua morta, parlata da quattro gatti e, pertanto, destinata a scomparire ineluttabilmente nel mondo globalizzato. Ovviamente, i primi sostenitori di questa fesseria sono gli anglomani, per i quali l’inglese basta e avanza per tutti gli usi e tutte le altre lingue possono sparire.
Qualche dato può servire a formare una visione più realistica della situazione. Secondo Wikipedia l’italiano è diffuso in Argentina, Australia, Belgio, Bosnia ed Erzegovina, Brasile, Canada, Cile, Croazia, Egitto, Eritrea, Francia, Germania, Israele, Libia, Liechtenstein, Lussemburgo, Malta, Paraguay, Filippine, Porto Rico, Romania, San Marino, Arabia Saudita, Slovenia, Somalia, Sud Africa, Svizzera, Tunisia, Emirati Arabi Uniti, Regno Unito, Stati Uniti d’America, Uruguay, Venezuela, Stato Vaticano. Una irradiazione amplissima, che la colloca ai primi posti nel mondo.
Wikipedia colloca l’Italiano al 21° posto nella graduatoria mondiale dei parlanti, dopo cinese, spagnolo, inglese, hindi, arabo, portoghese, bengalese, russo, giapponese, tedesco, giavanese, punjab, coreano, wu, francese, telugu, turco, marhati, tamil, vietnamita.
Ma lo fa su criteri “ufficiali”, cioè sommando i parlanti di madre lingua a quelli di seconda lingua dei residenti di ciascun paese, per cui l’inglese è al terzo posto ed il francese al 15°, il che non appare molto realistico. La graduatoria di Wiki non tiene conto:
a- dei discendenti di immigrati che hanno conservato l’uso della lingua e che spesso non sono censiti
b- dei flussi di migranti che apprendono la lingua nel paese di immigrazione e che spessissimo non sono censiti
c- dei parlanti di “professione” spesso non considerati: ad esempio, nella finanza quasi tutti gli operatori, in qualsiasi parte del mondo, comunicano in inglese. Molti operatori culturali parlano inglese o francese anche se appartenenti ad altri paesi. La Chiesa Cattolica ha come sua lingua ufficiale l’italiano, conosciuto da molti religiosi e da tutti i vescovi che lo usano nelle loro comunicazioni ecc.
d- quanti apprendono una lingua per motivi di studio e che la classifica di Wiki non prende in considerazione (ovviamente è molto più facile che ci siano studenti arabi, indiani, cinesi ecc. in una università europea o americana, di quanti ce ne siano di europei in università indiane, cinesi o arabe; così come è più facile che ci siano studiosi della letteratura inglese, francese, italiana in Cina o in Bangladesh di quanti studino quelle letterature in Inghilterra, Francia o Italia),
e- di quanti apprendono la lingua come turisti, ed è ovvio che ci siano più turisti asiatici in Europa che europei in Asia
Peraltro, la graduatoria su dati ufficiali può risultare insidiosa anche per altre ragioni: l’indonesiano è la lingua ufficiale dell’Indonesia, con i suoi 300 milioni di abitanti, ma in effetti è la prima lingua solo di un quinto della popolazione, ed è la seconda di una ulteriore parte che non copre più della metà degli abitanti; l’arabo scritto è lo stesso in ogni paese arabo, ma quello parlato cambia da pese a paese e non è affatto sicuro che un parlante marocchino riesca ad intendersi con uno yemenita.
Tenendo conto di queste variabili, la graduatoria cambia sensibilmente. In occasione degli “stati generali della Lingua Italiana” (svoltisi a Firenze nello scorso ottobre), abbiamo saputo che: ci sono 4,5 milioni di italiani all’estero (senza contare i trasferimenti temporanei come gli Erasmus), nella sola città di Barcellona c’è una comunità di italiani di quasi 50.000 persone. Inoltre abbiamo saputo nella stessa occasione che l’italiano è l’ottava lingua usata nel web, che gli italodiscendenti sono circa 80 milioni (per dimensioni è la seconda diaspora al mondo dopo quella cinese) e che il bacino degli italofoni è di 250 milioni di persone, al nono posto nella graduatoria mondiale (dopo inglese, francese, spagnolo, portoghese, hindi, cinese, arabo, russo). Può sorprendere non trovare il tedesco, che, in effetti è di pochissimo meno parlato dell’Italiano -praticamente alla pari-, ma occorre tener presente che, anche se tedeschi, austriaci e svizzeri tedeschi, insieme alla minoranze tedesche disseminate in Europa, ammontano complessivamente al doppio degli abitanti dell’Italia, però i germano discendenti (nipoti di emigrati) sono molto meno degli italo discendenti. Anche il Giapponese parte da una base nazionale più consistente di quella italiana, ma ha una diaspora linguistica molto meno ampia dell’italiano.
Dunque, almeno su una cosa possiamo stare tranquilli: l’italiano non è una lingua morta ed è fra principali dieci lingue parlate nel mondo.
Certo, se continua come sta andando, fra un po’ ci saranno più italo parlanti all’estero che in Italia, dove la lingua più diffusa sarà una sorta di basic english con forti innesti padani, ma, almeno per ora, sembra che questo disastro sia prossimi.
Vice versa, studiando bene questi dati, si capisce che l’italiano è una lingua con un forte potenziale geopolitico sia per l’ampiezza dei paesi in cui è diffuso, sia per il numero di parlanti o di persone che lo usano nel web. Se l’Italia vorrà pesare qualcosa nel mondo globalizzato, non è grazie alla finanza o al suo peso militare che ci riuscirà. Il suo strumento di influenza principale non potrà essere che la sua cultura, che significa arte, musica, letteratura, gastronomia ecce cc. E questo sarà una risorsa fondamentale anche per il rilancio delle esportazioni italiane. Vorrei ricordare che, quando l’ italian style significava qualcosa, l’Olivetti lettera 32 era esposta al museo di arte moderna nella fifth avenue di New York e l’Olivetti rappresentava circa l’8% del mercato mondiale di settore. Un caso?
Ma il bagaglio storico della cultura italiana non è separabile dalla sua lingua (sarebbe l’unico caso al mondo di un patrimonio culturale servito in una lingua diversa dalla propria) e, dunque, un rilancio di questo paese non è separabile dalla difesa della sua lingua.
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Aldo Giannuli (22.05.2015).
L’Italiano è la quarta lingua studiata nel mondo: gli unici a sorprendersi sono gli italiani.
di Aldo Giannuli *
Un paio di settimane fa, la stampa italiana dava, con un certo stupore, la notizia che l’Italiano è la quarta lingua studiata nel mondo, dopo inglese, spagnolo e cinese, non riuscendo a spiegarsene il perchè.
Le prime tre sono abbastanza logiche: l’inglese è la lingua di un miliardo e mezzo di persone (mettendo nel conto anche gli indiani) ed è la principale (ma non l’unica) lingua franca del Mondo. Lo spagnolo è la lingua di mezzo miliardo di parlanti ed è in rapida espansione negli Usa; quanto al cinese, non solo è la prima lingua di un miliardo e mezzo di parlanti, ma è la lingua del principale paese emergente (forse è meglio dire ”Emerso”) e seconda potenza mondiale. Sin qui tutto spiegabile.
Invece, inspiegabile è che sia quarta l’Italiano, lingua di poco più di sessanta milioni di parlanti (forse settanta se ci mettiamo dentro eritrei, albanesi, somali che lo conoscono e un po’ di italiani all’estero), di un paese relativamente piccolo ed in decisa decadenza, ignorato dalle grandi potenze e ridicolizzato dai suoi piccoli politici passati e presenti.
Precede lingue come il francese, il tedesco, il russo, il portoghese, il giapponese, come si spiega? Il guaio è che i giornalisti italiani sono molto ignoranti e, quel che è peggio, non fanno nessuna ricerca prima di scrivere.
Allora vediamo qualcosa che può spiegare questo strano fenomeno. Prima di tutto, si dimentica che l’italiano è la lingua franca di uno dei principali soggetti geopolitici mondiali: la Chiesa Cattolica. La lingua ufficiale della Chiesa, come si sa, è il latino, ma quella in uso fra i prelati (e spesso anche i semplici preti) di nazioni diverse è soprattutto l’Italiano che è parlato correntemente in Vaticano ed usata prevalentemente dal Papa, vescovo di Roma, anche se non si tratta più di un italiano da quasi quaranta anni. Ed anche in ordini religiosi con i salesiani o i gesuiti, la lingua corrente è l’italiano.
Poi c’è da considerare che l’Italia è uno dei paesi che ha avuto una cospicua emigrazione nell’ultimo secolo: circa 40 milioni di persone sparse soprattutto in Argentina, Usa, Canada, Australia, Germania, Francia e Belgio e non pochi figli e nipoti si sono mantenuti bilingui. Fra l’altro (la cosa non ci inorgoglisce ma deve essere registrata su un piano avalutativo) l’Italiano è spesso usato fra gli uomini di Cosa Nostra o fra gli ‘ndranghetisti sparsi per il mondo ea altre organizzazioni criminali come i colombiani. E anche questo è un fenomeno sociale.
C’è poi l’importanza dell’Italiano sul piano culturale ed anche qui si sono dimenticate troppe cose. In primo luogo si dimentica che l’italiano è la lingua principale del melodramma e nel mondo ci sono tanti melomani che apprezzano molto la nostra musica lirica, basti pensare al successo mondiale avuto da Pavarotti dagli anni ottanta in poi.
Poi la letteratura italiana è sicuramente una delle primissime a livello mondiale; non mi interessa stabilire se sia la prima in assoluto (anche se non mi stupirebbe affatto constatarlo), mi basta sottolineare come essa abbia uno sviluppo continuo nel tempo da XIII secolo in poi, con capolavori di livello mondiale, in tutti i secoli. Quello che non mi pare si possa dire allo stesso livello delle letterature di Inghilterra, Francia, Germania, Spagna e Russia che presentano maggiore discontinuità.
Chi voglia avere una idea del “peso” della letteratura italiana, può consultare la monumentale collana di testi della Ricciardi, ma ripeto che non ha senso stare a stabilire se si tratti della prima in assoluto, basti considerare che certamente è fra le primissime. E non sorprende che ci siano autori italiani (da Petrarca a Gramsci o Leopardi) più amati e letti all’estero che in Italia. Ma qui c’è il ruolo della scuola, il cui principale scopo è far odiare agli studenti tutto quello che fa loro studiare.
Del peso dell’arte italiana, in particolare del Rinascimento, ma non solo, non è il caso di dire e questo spiega (altra cosa non sufficientemente considerata) che l’Italia sia una delle principali mete turistiche nel Mondo.
E, infine (anche la cultura “materiale”, ha il suo peso) tanto la gastronomia quanto la moda nel Mondo parlano spesso italiano.
Che morale possiamo ricavare da questa terribile sproporzione fra l’apprezzamento che la cultura e la lingua italiana riscuotono nel mondo e la pochezza dell’autostima degli italiani? Semplicemente che gli italiani del tempo presente sono impari rispetto al patrimonio culturale che li sovrasta. Peccato.
Aldo Giannuli (11.02.2015).
Voltategli le spalle
di Alberto Asor Rosa (il manifesto, 05.07.2009)
Non si può non essere d’accordo - come sempre del resto - con il Presidente Giorgio Napolitano quando invita a sospendere per un po’ le «polemiche politiche» in vista della partecipazione italiana al G8. Il resto, però, - e cioè lo sterminio «non politico», l’enorme zavorra che deborda, nonostante gli sforzi, da tutti i peggiori contenitori, - ci sovrasta, e temo non ci si possa far niente. La vergogna italiana è ormai consumata al cospetto del mondo, parlarne o non parlarne è più o meno la stessa cosa. Le incerte origini di una fortuna economica colossale, la disinvolta (!) gestione dei propri affari, gli avvocati internazionali comprati, lo stalliere mafioso, il rifiuto sistematico di sottoporsi alla giustizia del proprio paese (da cui, conseguentemente, il benemerito «lodo Alfano»), l’interesse pubblico interamente giocato a favore di quello privato, lo spropositato dominio sui media e, da ultimo, il prossenetismo di massa e un’esibizione senza precedenti di abitudini personali scandalose e di vizi privati che of course non sono riusciti a diventare pubbliche virtù, costituiscono oggi, ahimé, un patrimonio nazionale peculiarmente italiano, di cui è difficile, anzi impossibile liberarsi, anche tacendone. Da questo punto di vista, ci si può affidare solo alla fortuna, ovvero allo «stellone italiano», la categoria concettuale e pratica esattamente speculare, per superficie e approssimazione, dei guai inverosimili in cui gli italiani sono capaci da sé di cacciarsi.
Se però, nonostante fortuna e buona volontà e riservatezza e discrezione, del «resto» di dovesse continuare a parlare anche in prossimità di un evento internazionale tanto importante come il G8, e magari al suo interno e durante il suo svolgimento, si tenga presente quanto segue. Noi italiani dobbiamo rassegnarci all’idea che da soli non ce l’abbiamo mai fatta: che abbiamo avuto sempre bisogno di una mano amica per tirarci fuori dai gorghi dove eravamo precipitati. Dall’interno, beninteso, affinché il meccanismo si rimettesse in moto, c’è stato bisogno che piccoli gruppi destinati solo dopo a diventare grandi, esibissero la loro propria, personale e nazionale, volontà di riscatto e di liberazione. Ma perché questi piccoli diventassero efficaci al fine coraggiosamente prescelto, fu necessario che dall’esterno altre mani si protendessero a incontrare le nostre. Questo è stato vero anche nei momenti più esaltanti e fondativi della nostra storia: il Risorgimento (Francia e Inghilterra); l’antifascismo e la Resistenza (gli Alleati, ovviamente).
Potrebbe darsi che questo sia vero anche oggi. Sarebbe bello perciò che il G8 fosse occasione per qualche manifestazione di tal natura. Sarebbe sufficiente lanciare qualche modesto messaggio da parte degli ospiti stranieri: basterebbe voltare le spalle nel corso di una pubblica esibizione: declinare dignitosamente ma fermamente qualche invito; rifiutarsi di stringere qualche mano servilmente protesa; esibire una grave serietà quando ci si trovi di fronte ad una risata troppo ghignante ed esibita. Al resto penserebbero la stampa, i fotografi, le televisioni. Fra i Grandi del G8 qualche personalità capace di questo dovrebbe pur esserci: dal sobrio laico laburista inglese Brown al multietnico e «libero pensatore» Obama all’onesta luterana tedesca Merkel. Se no, in che cosa consisterebbe la loro conclamata superiorità di comportamenti rispetto ai nostri, insomma, la «differenza» su cui anche noi italiani siamo costretti, e ridotti, a contare?
Mi rendo conto che questo discorso potrebbe esser considerato disfattista. Sono grande abbastanza tuttavia per ricordarmi che negli anni prima e durante la seconda Guerra mondiale gli italiani che parlavano da Radio Londra o militavano nelle diverse Resistenze europee prima che la nostra avesse inizio, venivano tacciati dai fascisti di alto tradimento, lesa maestà e, appunto, di disfattismo (anche questo, del resto, fa parte del doloroso "destino italiano": gli italiani buoni, per esser buoni, sono costretti a farsi accusare dai loro connazionali d’esser traditori). Da che parte stava allora l’onore d’Italia? Dove sta ora? L’onore non sta sempre dalla parte di chi più o meno legittimamente ci rappresenta. Oggi in Italia di sicuro sta altrove.