di Alberto Asor Rosa (il manifesto, 6 agosto 2008)
Il terzo Governo Berlusconi rappresenta senza ombra di dubbio il punto più basso nella storia d’Italia dall’Unità in poi. Più del fascismo? Inclino a pensarlo. Il fascismo, con tutta la sua negatività, costituì il tentativo di sostituire a un sistema in aperta crisi, quello liberale, un sistema completamente diverso, quello totalitario. Pochi oggi possono consentire con la natura e gli obbiettivi di quel tentativo; nessuno, però, potrebbe contestarne la radicalità e persino, dentro un certo assai circoscritto ambito di valori, le buone intenzioni. Berlusconi invece non è che il prodotto finale e consequenziale di una lunga decadenza, quella del sistema liberaldemocratico, cui nessuno per trent’anni ha saputo offrire uno sbocco politico-istituzionale in positivo: è il figlio naturale del craxismo; è il figlio naturale dell’affarismo democristiano ultima stagione (ben altri titoli d’onore si possono inscrivere nel blasone storico della Dc); è il figlio naturale dell’incapacità dimostrata nella politica in questo paese di rappresentare gli «interessi generali» e non quelli, inevitabilmente affaristici, anche quando non personalmente lucrativi, di piccoli gruppi autoreferenziali, che pensano solo a se stessi.
Berlusconi, dunque, prima che essere fattore di corruzione, nasce da una lunga, insistita, fortunata pratica della corruzione: rappresenta fedelmente la decadenza crescente del pianeta Italia; per forza di cose non sa che governare attraverso la corruzione: la diffonde spontaneamente intorno a sé; crea un vergognoso sistema giuridico per difendersi quando sia stato colto in passato con le mani nel sacco e per continuare a farlo impunemente; modella l’Italia secondo il suo sistema di valori e, man mano che l’Italia degrada, ne viene alimentato.
In un articolo apparso sul Corriere della sera (13 luglio), come al solito intelligente ed acuto, Ernesto Galli della Loggia se la prende con il «moralismo in un paese solo», che sarebbe il nostro e che consisterebbe nel pensare che «L’Italia che politicamente non ci piace è fatta di gente moralmente ottusa guidata da un malandrino». L’accusa di moralismo astratto e vaniloquente - Galli della Loggia con la sua intelligenza dovrebbe ammetterlo - sarebbe molto meno pungente se la situazione italiana fosse quella da lui descritta. Insomma, il moralismo vano è fastidioso (lo dico con cognizione di causa, avendo studiato a lungo, e con analogo rigetto, gli antigiolittiani). Però alla lunga può diventare ancor più fastidioso che i critici del moralismo non ci dicano se al centro del problema non ci sia la corruzione dominante, e insieme con questa il suo principale rappresentante e beneficiario.
Per corruzione non intendo soltanto, e neanche principalmente, l’appropriazione indebita di denaro pubblico e privato e il culto quasi parossistico del proprio interesse personale: ma la degenerazione del sistema dentro cui il gioco politico, sempre più solo formalmente, continua a svilupparsi: il malcelato disprezzo della Carta costituzionale; l’evidente estraneità alle «forme» (cioè alla «sostanza») della democrazia; la denegazione crescente della separazione dei poteri; l’incapacità dei politici - tutti - di sottrarsi al gioco mortale della pura autoriproduzione; la tendenza in atto a sottomettere tutto a un potere unico. E accanto a questo, la pulsione - per usare una vecchia ma non del tutto inadeguata terminologia - a connotare in senso sempre più ferocemente classista i valori cosiddetti condivisi della morale pubblica e le scelte di politica economica.
È altresì evidente, come giustamente osserva Galli della Loggia, che vedere le cose in questo modo significa mettere all’ordine del giorno anche una riflessione sullo stato attuale della «democrazia rappresentativa» in Italia. Se infatti è per il voto degli elettori italiani che questo scempio può continuare ad ingrandirsi, questo non ci autorizzerà a buttare a mare per intero il sistema ma neanche a giustificare o ignorare lo scempio perché è il voto popolare, fatto in sé astrattamente positivo, a convalidarlo e produrlo. Se, ripeto, le cose stanno così, è evidente che c’è qualcosa (parecchio?) da cambiare o da aggiustare.
Arrivo a una prima conclusione. Io mi sentirei di dire che questo è uno dei momenti della storia italiana in cui «questione sociale» e «questione nazionale» fittamente s’intrecciano, fino a costituire un unico «nodo di problemi» da affrontare insieme. Questo vuol dire che il bisogno di «unità», per quanto tormentato e difficile, è altissimo. Uno degli errori strategici più gravi che si siano commessi nel corso dell’ultimo ventennio è l’essere andati separati - riformisti e radicali - alle ultime elezioni: gli uni, vantandosene come della scoperta del secolo; gli altri, consentendovi con pallida e autolesionistica tracotanza.
Per affrontare questo «nodo di problemi» è fin troppo evidente che le forze politiche dell’attuale opposizione risultano inadeguate. Perché la difficoltà attuale sia superata bisognerebbe che tutte le forze interessate, sia pure da angoli visuali diversi, guardassero fin d’ora a questo traguardo: sto parlando dunque di un processo, non di un arrangiamento fra capi e capetti.
Del Pd non saprei che dire se non che dovrebbe imparare presto a far bene il suo mestiere, che sarebbe quello, se non erro, di un partito moderato che guarda a sinistra (perché se decidesse, da partito moderato, di guardare a destra, il berlusconismo oggi tanto deprecato ci apparirebbe solo una tappa verso precipizi ancora peggiori). Sulla sinistra, che c’è e non c’è, e che in mancanza di altro si dilania, mi sentirei di fare alcune considerazioni di massima.
Il recente congresso di Rifondazione comunista ha avuto il merito di separare più nettamente che in passato i «comunisti» da tutti gli altri. I «comunisti» - per carità, bravissimi compagni, con cui non sarà impossibile mantenere rapporti - vanno per una loro strada, che non porta da nessuna parte. E gli altri? Gli altri dovrebbero porre alla base del loro futuro quel profondo ragionamento critico e autocritico, che finora è mancato e che lo stesso Bertinotti, se si escludono gli ultimi, disperatissimi mesi pre-elettorali, ha accuratamente evitato di affrontare. La cosa riguarda nello stesso modo l’intera galassia di quella parte della realtà politica italiana (che esiste, e come), la quale non s’adatta né alla formula corruttiva berlusconiana né all’opposizione moderata del Pd né alle risposte, piene di pathos, ma programmaticamente e ideologicamente assai deboli del dipietrismo (e di altri fenomeni analoghi ma deteriori).
Se mai ci sarà una Costituente di sinistra (come io mi auguro), mi piacerebbe che i suoi promotori tenessero conto che esistono tre comparti di problemi, uno programmatico, uno strategico e l’altro organizzativo, con cui - quali che siano le soluzioni da proporre - non si dovrebbe evitare di confrontarsi.
Il comparto programmatico è di gran lunga il più importante, ma qui posso evocarne solo il principio ispirativo. Se non si è comunisti, si è riformisti: bisogna accettare l’inevitabilità di questo décalage storico. Ma ci sono molte forme di riformismo: e ciò che le distingue è il programma (di cui non c’è traccia alcuna nei recenti dibattiti, anche quelli congressuali!).
Quella cui io penso è una forma molto radicale di riformismo, che preme su tutti i gangli della vita sociale, va più in là, s’occupa in modo più generale della «vita», delle collettività ma anche di ognuno di noi individualmente inteso, e propone soluzioni che spostano i rapporti di forza. Il cambiamento è in atto da quando lo si inizia, non c’è bisogno di arrivare al risultato finale per conoscerne tutti gli effetti. Dal punto di vista strategico non si potrà fare a meno di comporre in un quadro unitario «questione sociale» e «questione ambientale».
La cosa, se si entra nel merito, è tutt’altro che semplice: una classe operaia ecologista ancora non s’è vista ma neanche s’è visto un militante ecologista capace di «pensare» la «questione sociale» contemporanea. E pure sempre più avanza la consapevolezza che il destino umano risulta dalla composizione, meditata e razionale, delle due prospettive e cioè, per parlarne in termini politici, dalla sovrapposizione e dall’intreccio del «rosso» e del «verde».
Infine: se qualcuno pensa che la crisi della sinistra si risolva creando un nuovo piccolo partito dei frantumi dei vecchi, farebbe bene a cambiare opinione il più presto possibile. Ciò a cui sembra opportuno pensare è un vasto e persino eterogeneo movimento di forze reali, che sta dentro e fuori i vecchi partiti e per il quale vale la parola d’ordine che l’unica organizzazione possibile è l’autorganizzazione: una rete di istanze e rappresentanze diverse, collegate strategicamente e non gerarchicamente, che assorba e rivitalizzi le vecchie forze piuttosto che viceversa.
Certo, perché il discorso funzioni è necessario ammettere che tutte le volte in cui in Italia si riaffaccia una «questione morale» - cioè, come ho cercato di spiegare, un problema di degrado e di corruzione della vita pubblica e della democrazia - torna ad affiancarlesi l’ancora più stantia e veramente obsoleta parola d’ordine di una «rivoluzione intellettuale e morale». È questo cui pensiamo quando diciamo che la lotta al berlusconismo è al tempo stesso «questione sociale» e «questione nazionale»? Siamo retro al punto di rispondere tranquillamente di sì a questa domanda. In fondo tutto si riduce a questa semplicissima prospettiva: cambiare i tempi, i modi, le forme, i valori, i protagonisti dell’agire politico in Italia. Il resto verrà da sé.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Tra Toni Negri e Tommaso d’Aquino
di Alberto Asor Rosa (il manifesto, 27.04.2012)
Il «Manifesto per un soggetto politico nuovo» è improntato a un prorompente «ottimismo della volontà». Com’è noto, Antonio Gramsci raccomandava che i due elementi della fatidica coppia - «pessimismo dell’intelligenza» e «ottimismo della volontà» - procedessero sempre insieme. Meno noti i motivi che secondo lui renderebbero raccomandabile, anzi inevitabile, l’accoppiata: «Tutti i più ridicoli fantasticatori che nei loro nascondigli di geni incompresi fanno scoperte strabilianti e definitive, si precipitano su ogni movimento nuovo persuasi di poter spacciare le loro fanfaluche». D’altronde ogni collasso porta con sé disordine intellettuale e morale. Bisogna creare uomini sobri, pazienti, che non disperino dinanzi ai peggiori orrori e non si esaltano a ogni sciocchezza». Per cui, appunto: «Pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà».
Riguarda in qualche modo la citazione gramsciana gli estensori del suddetto «Manifesto»? No, assolutamente no: volevo soltanto che il pensiero gramsciano fosse almeno una volta richiamato, per intero). Mi predisporrei perciò a introdurre qualche elemento pessimistico nel ragionamento del «Manifesto», cercando al tempo stesso di guardarmi dallo spingermi troppo nella direzione opposta, cosa che, ahimè, in casi del genere capita di frequente. Utilizzerò di volta in volta argomenti concettuali ed esempi pratici: le mie esperienze degli ultimi dieci anni me lo consentono (cosa che non a tutti i miei interlocutori accade).
1. Politica. Un perno del «Manifesto», assolutamente condivisibile, è che «democrazia rappresentativa» e «democrazia partecipata» dovrebbero integrarsi e ri-equilibrarsi profondamente. L’idea, invece, che uno dei due versanti, quello della «democrazia rappresentativa», rappresentato essenzialmente dal sistema dei partiti, sia attualmente tutto da buttare e l’altro, quello della «democrazia partecipativa», tutto da esaltare e valorizzare, è completamente sbagliata, e fortemente autolesionistica. Ci sono realtà istituzionali e politiche, con le quali è possibile/necessario mantenere un livello alto di confronto, di scontro e comunque di serio rapporto; e ci sono realtà di base totalmente catturate all’interno del sistema dello sfruttamento e dell’utilitarismo individualistico. In alcune Regioni d’Italia (molte, direi), se si facesse un referendum sull’abusivismo vincerebbero gli abusivisti.
La stessa cosa si potrebbe dire del rapporto fra centro e periferia. In taluni casi, l’auspicato decentramento del potere funziona alla grande; in certi altri assolutamente no. Alcuni Comuni sono virtuosi; gli altri (la maggioranza, io penso) no, anzi sono spesso i manutengoli degli interessi privati più sporchi. In casi come questi, oltre che battersi in ogni modo con la denuncia, bisogna ricorrere in un modo o nell’altro alle istanze «superiori»: le Regioni, lo Stato.
L’idea che il quadro sia omogeneo in tutte le sue componenti e su tutti i suoi versanti è distruttiva. Attualmente il quadro è invece frastagliato, poliforme e multicentrico. Al tempo stesso, tutto si tiene. L’idea giusta, appunto, che la «democrazia partecipativa» spinga per una riforma profonda della «democrazia rappresentativa» e del «sistema dei partiti» comporta che nessuna opportunità, nessuna chance sia cammin facendo ignorata e trascurata, e tutte invece siano volte all’unico obiettivo che meriti oggi perseguire: una diversa nozione e pratica della politica.
Il sistema - il sistema tutt’intero, intendo - si può riformare solo se si salva. E si salva solo se viene coinvolto tutt’intero, dalla A alla Z, per quanti sforzi questo comporti, e quanta pazienza e sobrietà richieda. Occorre violentemente attirare l’attenzione sul presente così com’è, se si vuole trasformarlo.
2. Principi, ideologia. È fuor di dubbio che siano fortemente cambiati forme e attori del conflitto. Mi chiedo però fino a che punto il gigantismo del sistema - la globalizzazione, appunto - abbia tolto di mezzo il fondamentale antagonismo fra capitale e lavoro: lo ha se mai anch’esso ingigantito, a livello planetario. Di questo non c’è traccia nel «Manifesto»: si direbbe che i protagonisti del conflitto siano, in questo quadro, attori di una diversa separazione/contrapposizione sociale (e politica, e culturale). Si lotta, infatti, per qualcosa di profondamente diverso dagli obiettivi tradizionali: si lotta per i cosiddetti «beni comuni».
Dei «beni comuni» Stefano Rodotà, che ne è l’interprete al tempo stesso più innovativo ed equilibrato, dà una definizione che io accolgo e faccio mia. Essi «sono quelli funzionali all’esercizio di diritti fondamentali e al libero sviluppo della personalità, che devono essere salvaguardati sottraendoli alla logica distruttiva del breve periodo, proiettando la loro tutela nel mondo più lontano, abitato dalle generazioni future». E cioè: ci sono beni, esattamente definiti dal punto di vista delle caratteristiche dominanti, delle possibili fruizioni e delle possibili forme di governance, la cui «proprietà», per così dire, è comune, cioè appartengono «a tutti e a nessuno». Detto così, va benissimo: questi «beni comuni» rientrano perfettamente nel quadro di un programma di «democrazia partecipativa», la quale, oltre a valere per sé, preme sulla «democrazia rappresentativa» per mutarne obiettivi e metodi ed eventualmente per ottenere un sistema di governance giuridico-istituzionale, che sia rispettoso della natura speciale di quel bene (mi riservo di porre a Rodotà una domanda, ma lo farò più avanti).
Ma i «beni comuni» divengono nel «Manifesto» il programma di massima del «nuovo soggetto politico». La cosa mi pare abnorme. Non solo per il pericolo successivamente segnalato dallo stesso Rodotà: «Se la categoria dei beni comuni rimane nebulosa, e in essa si include tutto e il contrario di tutto, se ad essa viene affidata una sorte di palingenesi sociale, allora può ben accadere che perda la capacità d’individuare proprio le situazioni nelle quali la qualità comune di un bene può sprigionare tutta la sua forza» (il manifesto, 12 aprile). Ma soprattutto perché, se i «beni comuni» assurgono a orizzonte ideologico e di valore del nuovo movimento, ci si dovrebbe chiedere più trasparentemente (una delle richieste basilari di una vera «democrazia partecipativa») non solo dove va ma anche da dove viene un movimento così orientato.
La risposta sarebbe lunga e problematica: ma qualcosa si può cominciare a dire. Uno dei punti di partenza possibili è senza ombra di dubbio Michael Hardt e Antonio (Toni) Negri: Comune (titolo originale dell’opera, molto più significativo di quello della tradizione italiana: Commonwealth), apparso nel 2009 (trad. ital. 2010), che porta il sottotitolo anch’esso estremamente significativo di: Oltre il privato e il pubblico. Lo chiamo in causa per almeno due motivi: perché il «comune» negriano è, esplicitamente, il frutto del palese rifiuto e superamento da parte dell’autore del vecchio operaismo e, più specificamente ancora, della teoria marxiana del valore; e perché i «beni comuni» sono obiettivi strategici logicamente comprensibili e accettabili, solo nella prospettiva biopolitica di una «democrazia della moltitudine», che veda anch’essa il superamento del conflitto di classe di fronte ai bisogni del più indeterminato ma appunto perciò meno obsoleto e più possente soggetto rivoluzionario: «Oggi potremmo dire: "Sta sorgendo una razza multitudinaria"» (Moltitudine, Rizzoli, Milano, 2004, pp. 409).
Ogni volta, però, che ci si allontana dall’idea che questa sia una società divisa in classi - ossia ci si allontana dalla persuasione laica che esistono sfruttati e sfruttatori, percettori di un enorme surplus di potere a danno di altri che ne hanno poco o punto, a causa del meccanismo economico dominante (lo so, lo dico in maniera troppo rozza e approssimativa, ma qui non posso fare altrimenti) - si aprono scenari imprevedibili e sorprendenti. Per esempio, si scopre che la radice della nozione di «bene comune» è teologico-cristiana. Ne ragiona infatti con profondità niente di meno che Tommaso d’Aquino (riprendendo in parte, come soventi gli capita, definizioni aristoteliche): il quale, nella Summa Theologiae (I-II, 90, 3), scrive (traduzione improvvisata, e forse zoppicante): «...Come l’uomo è parte della casa, così la casa è parte della città; e la città è la comunità perfetta, come si dice in Aristotele, Politica (Aristotele, infatti, lì parla della "polis"). E perciò, siccome il bene del singolo uomo non è l’ultimo fine, ma è ordinato in funzione del "bene comune" (ad commune bonum); nello stesso modo, il bene di una casa è ordinato in funzione del bene di una città, la quale è la comunità perfetta».
Tommaso è un autore che i «benecomunisti» non amano citare (solo un piccolo cenno polemico in U. Mattei, Beni comuni. Un manifesto, Laterza, Bari, 2011, pp. 41). Nelle opere di Negri, ad esempio, non ce n’è traccia. Eppure è di fondamentale importanza. Il ritorno al Medio Evo, di cui si parla a proposito dei «benecomunisti», è tutt’altro che banale: significa la riappropriazione, in funzione apparentemente anticapitalistica, di un intero universo concettuale e ideale pre-capitalistico. Insomma: se la società divisa in classi non fosse alla fin fine altro che una «comunità», ovviamente non potrebbero esserci «beni comuni». I cittadini, les citoyens, in lotta per due secoli e mezzo per contendere all’avversario di classe ciò che a loro spetta, diventano «persone», prive di connotazione sociale (secondo un dettame che la teologia cristiana farebbe volentieri proprio): «Unire le persone per bene» intorno a un metodo è molto più agevole che farlo nel merito ed è certamente foriero di potenziali egemonie nuove che superino finalmente vecchi steccati...» (U. Mattei, il manifesto, 4 aprile). «Superare i vecchi steccati» è ciò che cercano di fare proprio oggi tutte le forme di «antipolitica».
Sorprende che molti dei firmatari del «Manifesto», che sono stati o sono ancora o si dicono ancora marxisti, non abbiano notato che in questo testo non viene mai nominato, nonché la «classe», neanche il «popolo». La soggettività politica viene trasferita a altre entità per ora poco chiare, autodefinentesti e autordinantesi, quali che la lotta politica fosse il frutto selezionato, alla fin fine, di alcuni gruppi intellettuali, che, come si diceva scherzando una volta, «danno la linea». E naturalmente, insieme con «classe» e con «popolo», spariscono le categorie di «destra» e di «sinistra» (anch’esse mai nominate nel «Manifesto»). I «benecomunisti» stanno più avanti, anche in questo caso, di queste obsolete distinzioni: stanno là dove «le persone per bene» - operai, impiegati, funzionari, banchieri, capitalisti, pensionati, sfruttatori, purché «per bene» - decidono di stare tutte insieme per meglio governare il loro «comune» destino.
Il riferimento a Tommaso d’Aquino non deve però far pensare a una discussione e a un rinfacciamento puramente dottrinari, destituiti di esiti pratici e politici immediati. La dottrina di Tommaso cala infatti di peso in quella attuale, e perfettamente operante, della Chiesa cattolica.
Come si fa a non accorgersi di un dato così clamoroso? La filologia in certi casi conta più della logica (ma è anche più rara, molto più rara). Nel Catechismo della Chiesa cattolica (Edizioni Piemme, Città del Vaticano, 1993), la dottrina del «bene comune» occupa il posto centrale nella conformazione dell’agire sociale e pastorale della Chiesa nel mondo (III, II: La comunità umana; 2. La partecipazione alla vita sociale; II. Il bene comune). Il «bene comune», secondo l’ammonimento di Tommaso qui puntualmente richiamato («Non vivete isolati, ripiegandovi, in voi stessi ... invece riunitevi insieme, per ricercare ciò che giova al bene di tutti (bonum commune), è «l’insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono ai gruppi, come ai singoli membri, di raggiungere la propria perfezione più pienamente e speditamente» (pp. 361). Non si potrebbe dir meglio in un contesto nel quale il conseguimento del «bene comune» rappresenta il nuovo Sovrano. Ma certo stupisce che il «messaggio» che esce dal progetto di un «nuovo soggetto politico» sia così vicino a quello uscito dal Consiglio Vaticano II (cui il Catechismo fondamentalmente attinge).
3. Comportamenti e passioni. Potremmo ancora citare a lungo dal Catechismo, e anche da molti altri e diversi autori del medesimo orientamento. Siccome le analogie sono indubbiamente clamorose, sarebbe interessante ascoltare una spiegazione del perché, sopprimendo la categoria analitica e pratica del conflitto di classe, tornano a manifestarsi prepotentemente e a dilagare visioni del mondo in cui l’ultraterrenità, e il discorso teologico-scolastico, tornano a farsi dominanti. In attesa che una qualche risposta venga (ma se uno usa gli stessi termini e concetti di un altro, qualcosa di «comune» dev’esserci), osservo che il lungo capitolo che conclude il «Manifesto» sui «comportamenti» «e sulle passioni» non fa che accentuare, ai limiti del disagio, le reazioni che si provano di fronte alla teoria fin qui esposta dei «beni comuni». Un universo di buoni sentimenti - «la compassione e la gioia, l’amore e la speranza, la generosità e il rispetto degli altri», «il sentimento dell’empatia» - dovrebbe prendere il posto di quello in cui finora siamo sventuratamente nati e cresciuti - quello delle «passioni negative, l’invidia, l’odio, l’orgoglio, l’ira... la rivalità, la voglia di sopraffare...». Allora, nel nuovo universo, « a predominare sarebbero le virtù sociali delle mitezza e della fermezza...». Io qui non so cosa dire. Va bene non aver letto (o aver dimenticato) Machiavelli. E Marx. E Schmitt. Ma pretendere di affrontare l’incredibile violenza dell’attuale sistema di sfruttamento globale con il sorriso sulle labbra e le pacche sulle spalle, mi pare indizio di una mentalità che non porta da nessuna parte (naturalmente, anche Negri impernia la sua ideologia multitudinaria sull’«amore»: se no, che biopolitica sarebbe? Anche il male, tuttavia, secondo lui, può impadronirsi dell’amore. Il conflitto sarebbe allora fra un amore malato e «cattivo» e un amore buono, autentico. Interessante).
4. «Beni comuni» e «Pubblico». Torno alla domanda che qualche colonna fa avrei voluto rivolgere a Rodotà. Ho citato la sua definizione di «beni comuni», che ora per chiarezza del lettore ritrascrivo: «(Essi) sono quelli funzionali all’esercizio di diritti fondamentali, e al libero sviluppo della personalità, che devono essere salvaguardati sottraendoli alla logica distruttiva del breve periodo, proiettando la loro tutela nel mondo più lontano, abitato dalle generazioni future». La domanda è: non potrebbe esser questa anche una buona definizione di «pubblico?» E cioè: lo Stato democratico-capitalistico moderno, nella sua complessa strutturazione, è il frutto di spinte contrastanti nelle quali la funzione e l’indirizzo loro impresso da esigenze, interessi e modalità di vita propri delle classi cosiddette subalterne, hanno lasciato un segno consistente. Il «pubblico» oggi non s’identifica certo con lo Stato Leviatano; se mai si potrebbe dire che, nei casi migliori, lo Stato è stato (e in parte ancora è) un’articolazione del «pubblico» - il «pubblico», che tra le proprie funzioni più specifiche e prestigiose ha quella di proiettare la tutela dei beni d’interesse comune «nel mondo più lontano, abitato dalle generazioni future». Sanità pubblica, Scuola pubblica, Università, ricerca, sistema delle pensioni, diritti del lavoro, solidarietà sociale, tutela del territorio, sistema della giustizia «imparziale» e nei limiti delle umane abitudini) «uguale per tutti», sono i principali requisiti di un sistema imperniato sul «pubblico» (e non sul «privato»). È la materia, del resto, chiarissimamente descritta e regolata negli artt. 2, 3 e 4 della nostra Costituzione (che forse andrebbero tenuti più presenti).
Se le cose stanno così, non sarebbe meglio, invece che procedere negrianamente «oltre il privato e il pubblico», considerare la battaglia per i «beni comuni» un allargamento e un rafforzamento di quella per il «pubblico», in una visione più dinamica e articolata di quella praticata presentemente?
La cosa è tutt’altro che facile, ma è decisiva. Quel che io vedo è che il «pubblico», costruito prevalentemente con le lotte di generazioni e generazioni di cittadini italiani ed europei, è minacciato, frantumato, reso subalterno da una colossale invasione del «privato». Il governo Monti in Italia, politicamente, ideologicamente ed economicamente, ne rappresenta un esempio di prim’ordine. Allora, se le cose stanno così, all’ordine del giorno oggi non c’è la reclusione insieme di «pubblico» e «privato» nel medesimo cassetto di vecchi arnesi ormai inutili: c’è una gigantesca battaglia per la difesa del «pubblico», che, invece di fermarsi all’esistente, eventualmente si rafforzi e s’allarghi con l’individuazione e la conquista di nuovi territori. Per questo i partiti sono ancora necessari, in Italia e in Europa.
Quel che è accaduto recentemente in Francia dimostra eloquentemente che la forza di organizzazioni centralizzate e ben dirette è essenziale alla causa del mutamento. Se, come si spera, il candidato socialista riuscirà a prevalere, l’intero assetto europeo dei prossimi anni ne risulterà influenzato.
In Italia stiamo molto peggio, lo so, ma le coordinate del lavoro da fare sono molto simili.
5. Il «metodo» viene prima del «merito?» Il metodo adottato dai promotori del «Manifesto», come già s’è detto, appare sul manifesto il 29 marzo. Dopo le prime battute, assai interessanti, di dibattito, due degli organizzatori (Alberto Lucarelli, Ugo Mattei) dichiarano aperta la consultazione per la scelta del nome del «nuovo soggetto politico» (il manifesto, 17 aprile), dando per scontato che a Firenze il prossimo 28 aprile il «nuovo soggetto politico» si faccia (ignorando del tutto riserve e precisazioni come quelle emerse negli interventi già citati di Stefano Rodotà e in quello di Piero Bevilacqua (13 aprile). Un dibattito è serio se serve a determinare le conclusioni. Se le conclusioni sono già date, il dibattito non è serio.
Io spero che a Firenze i promotori ci ripensino: che non nasca un «nuovo soggetto politico» su basi così fragili. Ci sono cento, mille, diecimila cose da fare per un’organizzazione che pratichi seriamente il verbo autentico della Rete: ossia, molti soggetti collocati liberamente all’interno di un terminale che fa da punto di riferimento logistico (niente di più) dell’insieme (se mai avrebbe senso lavorare, con i medesimi criteri, per una Rete di Reti: ma di questo eventualmente parleremo un’altra volta).
Ma l’obiettivo fondamentale e strategico è riconquistare il «pubblico», sottrarlo alla cattiva politica, in tutte le sue modalità, stratigrafie e manifestazioni, e al tempo stesso allargarlo, e di molto, oltre le dimensioni originarie (ad esempio, io provo un grande interesse per la riflessione di Guido Viale sulla «riconversione ecologica dell’economia»: ma anche in questo caso mi chiedo come affrontare una gigantesca problematica del genere limitandosi a praticarla dal basso, e su segmenti limitati di territorio).
Su questo percorso incontreremo molti ostacoli e molti diversi interlocutori: e, se sarà necessario, dovremo usare anche molta astuta e consapevolissima cattiveria.
E viva Monti
di Rossana Rossanda (il manifesto, 20.01.2012)
Dev’essere «il vecchio che è in noi», in questo caso in me, a farmi sussultare alla lettura dell’articolo del mio assai stimato amico Alberto Asor Rosa sul manifesto di ieri. Egli vede nel formarsi extra o postparlamentare del governo Monti, voluto dal Presidente della Repubblica e accettato più o meno obtorto collo dalle intere Camere, esclusa la Lega, un passaggio salvifico che ci ha estratti dalla palude del berlusconismo. E in questa ammirazione non è certo il solo. Ma, rispetto agli altri estimatori, sottolinea nell’emergere di Monti una superiore saggezza e oggettività, le cui radici attribuisce all’Europa di Bruxelles, esclusion fatta degli ineleganti Sarkozy e Merkel, augurabilmente sulla via d’uscita. Qui la sua argomentazione fa un salto, perché è impervio trovare nelle misure prese da Monti farina diversa da quella che sta nel sacco franco-tedesco. Ma Asor Rosa ne vede la necessità anche nella mancanza di alternative. Chiunque ne voglia avanzare deve godere di altrettanta saggezza e consenso, nonché del rispettoso silenzio dei partiti in deliquescenza e di una opinione sfatta sulla quale galleggiano pochi residui di classe.
Di tanta saggezza non mi sento, ahimé, portatrice. Ma di consensi ne ho conosciuti troppi perché mi persuadano. Nulla di quanto è avvenuto in Italia mi piace. Non la lunga berlusconata, assai consensuale, seguita allo spegnersi del partito comunista più grosso e intelligente del continente. Non la linea di un governo la cui «tecnica» sta nel seguire fedelmente le direttive europee. Non l’improvviso decisionismo del Presidente della Repubblica, che la stampa vorrebbe già fornito dei poteri relativi e dunque di una costituzione presidenziale che con le inedite attuali convergenze non sarebbe inattuabile. Non la decisione del suddetto Presidente di non chiedere una destituzione del precedente Premier per recidivo assalto alle istituzioni repubblicane, anziché lasciarlo con la sua maggioranza alle Camere, da dove potrebbe riemergere fra un anno e, unendo il suo populismo a quello della Lega, attrarre chissamai di nuovo le masse disorientate e afflitte dalle misure di rigore.
Le quali non sono né oggettive né obbligate, affatto. Non mi richiamerò agli Stiglitz, Krugman, Mary Kaldor, Fitoussi eccetera, che lo predicano da testate più autorevoli della nostra, ma al lavoro svolto da noi e da "Sbilanciamoci" fin da quest’estate. Esso non lascia dubbi sulla natura di parte liberista di Monti e del suo governo, appoggiato senza sorprese dal moderatismo della Chiesa di Roma - mica siamo più all’irrequieto Vaticano II. La liberazione da ogni vincolo che esige la proprietà, a cominciare dai lacci e lacciuoli che si era conquistato il lavoro dipendente, non ha nulla di oggettivo. E all’opporle da parte della Cgil la difesa dell’art.18 si può applaudire, non senza ricordare che, rispetto al 1970, esso non è in grado di difendere la massa imponente degli occupati nelle piccole aziende, dei precari, dei disoccupati, ormai quasi pari a quella degli ex garantiti. Né vedo che cosa ci sia di necessitato nel dire no alla modesta TobinTax. È forse super partes la differenza scandalosa fra l’imposizione sul lavoro e quella sull’impresa? E l’attuale franchigia delle transazioni finanziarie per miliardi? E poi che c’è di oggettivo nell’azzerare i referendum per l’acqua pubblica? E nell’assegnare altri servizi pubblici ai privati?
Il governo Monti non è né tecnico né oggettivo, è onesto e di parte. Meglio di parte che corrotto? Sì, non fosse per il fatto che il sistema berlusconiano ha indotto gran parte dell’opinione già progressista a non distinguere più fra destra e sinistra, sfruttatori e sfruttati, fra chi ha e chi non ha, chi si è arricchito e chi si è impoverito da vent’anni a questa parte, rovesciando la proporzione prima consueta fra redditi da capitale e redditi da lavoro - concetti vecchi ma realtà corpose lussureggianti. Meglio ricordare che siamo tutti di parte, anche davanti al debito pubblico e alla sua formazione, che è precedente al governo Berlusconi, né può essere attribuita alla multinazionale dei tassisti e dei notai. E d’altra parte, la mancanza di "oggettività" di Monti non si deve a una sua malvagità, sono certa che oltre che impeccabile sia caritatevole; viene dalla persuasione, non solo sua, che a tassare i grandi patrimoni o i grandi profitti o le finanze questi si butterebbero di colpo all’estero invece che far valere i propri talenti, materiali e immateriali, nella nostra Italia. Non è vero affatto, se no perché non hanno fatto altro che questo anche con il Cavaliere? Perché da trenta anni in qua ci siamo deindustrializzati e ha prevalso l’investimento sulle finanze, ormai superiore a ogni Pil in giro per il pianeta?
Basta scorrere i materiali e le statistiche, ormai trovabili dovunque, sulle fusioni, sulle delocalizzazioni, su come emergono gli emergenti, sul mutato rapporto tra regioni del mondo. Sarà un caso che nove paesi d’Europa siano più che mai nei guai e degradati tutti dalle agenzie di rating, salvo la Germania e, credo, la Finlandia? Sarà un caso che non c’è crescita da nessuna parte del continente? Sarà un caso che le agenzie suddette non si siano accorte che i subprimes erano una truffa e la Grecia lasciava montare da anni il suo debito? Sarà un caso che le grandi famiglie già industriali, vedi gli Agnelli, siano passati alle rendite? Che nel conflitto fra Marchionne e i lavoratori né l’Europa né Monti hanno niente da dire? Che la disoccupazione cresca, e anche la povertà? Perfino in Germania c’è chi è pagato un euro all’ora. E che tutti i paesi siano indebitati, perché alla crescita dei disoccupati consegue il calo delle entrate pubbliche? Le politiche di rigore sono non solo crudeli, sono inefficaci.
Così stanno le cose, e su questo rifiorisce la destra estrema. Vorrei che Asor Rosa mi smentisse sui fatti. Può solo obiettarmi: ma tu chi sei? Chi rappresenti? Se parli per il mondo del lavoro, com’è che questo non vi sta a sentire? Tu, voi, davanti alla splendida schiera degli onesti non siete niente. Sta’ zitta, insolente. Insolente forse sì, zitta no.
di Alberto Asor Rosa, (il manifesto, 13.04.2011)
Capisco sempre meno quel che accade nel nostro paese. La domanda è: a che punto è la dissoluzione del sistema democratico in Italia? La risposta è decisiva anche per lo svolgimento successivo del discorso. Riformulo più circostanziatamente la domanda: quel che sta accadendo è frutto di una lotta politica «normale», nel rispetto sostanziale delle regole, anche se con qualche effetto perverso, e tale dunque da poter dare luogo, nel momento a ciò delegato, ad un mutamento della maggioranza parlamentare e dunque del governo?
Oppure si tratta di una crisi strutturale del sistema, uno snaturamento radicale delle regole in nome della cosiddetta «sovranità popolare», la fine della separazione dei poteri, la mortificazione di ogni forma di «pubblico» (scuola, giustizia, forze armate, forze dell’ordine, apparati dello stato, ecc.), e in ultima analisi la creazione di un nuovo sistema populistico-autoritario, dal quale non sarà più possibile (o difficilissimo, ai limiti e oltre i confini della guerra civile) uscire?
Io propendo per la seconda ipotesi (sarei davvero lieto, anche a tutela della mia turbata tranquillità interiore, se qualcuno dei molti autorevoli commentatori abituati da anni a pietiner sur place, mi persuadesse, - ma con seri argomenti - del contrario). Trovo perciò sempre più insensato, e per molti versi disdicevole, che ci si indigni e ci si adiri per i semplici «vaff...» lanciati da un Ministro al Presidente della Camera, quando è evidente che si tratta soltanto delle ovvie e necessarie increspature superficiali, al massimo i segnali premonitori, del mare d’immondizia sottostante, che, invece d’essere aggredito ed eliminato, continua come a Napoli a dilagare.
Se le cose invece stanno come dico io, ne scaturisce di conseguenza una seconda domanda: quand’è che un sistema democratico, preoccupato della propria sopravvivenza, reagisce per mettere fine al gioco che lo distrugge, - o autodistrugge? Di esempi eloquenti in questo senso la storia, purtroppo, ce ne ha accumulati parecchi.
Chi avrebbe avuto qualcosa da dire sul piano storico e politico se Vittorio Emanuele III, nell’autunno del 1922, avesse schierato l’Armata a impedire la marcia su Roma delle milizie fasciste; o se Hinderburg nel gennaio 1933 avesse continuato ostinatamente a negare, come aveva fatto in precedenza, il cancellierato a Adolf Hitler, chiedendo alla Reichswehr di far rispettare la sua decisione?
C’è sempre un momento nella storia delle democrazie in cui esse collassano più per propria debolezza che per la forza altrui, anche se, ovviamente, la forza altrui serve soprattutto a svelare le debolezze della democrazia e a renderle irrimediabili (la collusione di Vittorio Emanuele, la stanchezza premortuaria di Hinderburg).
Le democrazie, se collassano, non collassano sempre per le stesse ragioni e con i medesimi modi. Il tempo, poi, ne inventa sempre di nuove, e l’Italia, come si sa e come si torna oggi a vedere, è fervida incubatrice di tali mortifere esperienze. Oggi in Italia accade di nuovo perché un gruppo affaristico-delinquenziale ha preso il potere (si pensi a cosa ha significato non affrontare il «conflitto di interessi» quando si poteva!) e può contare oggi su di una maggioranza parlamentare corrotta al punto che sarebbe disposta a votare che gli asini volano se il Capo glielo chiedesse. I mezzi del Capo sono in ogni caso di tali dimensioni da allargare ogni giorno l’area della corruzione, al centro come in periferia: l’anormalità della situazione è tale che rebus sic stantibus, i margini del consenso alla lobby affaristico-delinquenziale all’interno delle istituzioni parlamentari, invece di diminuire, come sarebbe lecito aspettarsi, aumentano.
E’ stata fatta la prova di arrestare il degrado democratico per la via parlamentare, e si è visto che è fallita (aumentando anche con questa esperienza vertiginosamente i rischi del degrado).
La situazione, dunque, è più complessa e difficile, anche se apparentemente meno tragica: si potrebbe dire che oggi la democrazia in Italia si dissolve per via democratica, il tarlo è dentro, non fuori.
Se le cose stanno così, la domanda è: cosa si fa in un caso del genere, in cui la democrazia si annulla da sè invece che per una brutale spinta esterna? Di sicuro l’alternativa che si presenta è: o si lascia che le cose vadano per il loro verso onde garantire il rispetto formale delle regole democratiche (per es., l’esistenza di una maggioranza parlamentare tetragona a ogni dubbio e disponibile ad ogni vergogna e ogni malaffare); oppure si preferisce incidere il bubbone, nel rispetto dei valori democratici superiori (ripeto: lo Stato di diritto, la separazione dei poteri, la difesa e la tutela del «pubblico» in tutte le sue forme, la prospettiva, che deve restare sempre presente, dell’alternanza di governo), chiudendo di forza questa fase esattamente allo scopo di aprirne subito dopo un’altra tutta diversa.
Io non avrei dubbi: è arrivato in Italia quel momento fatale in cui, se non si arresta il processo e si torna indietro, non resta che correre senza più rimedi né ostacoli verso il precipizio. Come?
Dico subito che mi sembrerebbe incongrua una prova di forza dal basso, per la quale non esistono le condizioni, o, ammesso che esistano, porterebbero a esiti catastrofici. Certo, la pressione della parte sana del paese è una fattore indispensabile del processo, ma, come gli ultimi mesi hanno abbondantemente dimostrato, non sufficiente.
Ciò cui io penso è invece una prova di forza che, con l’autorevolezza e le ragioni inconfutabili che promanano dalla difesa dei capisaldi irrinunciabili del sistema repubblicano, scenda dall’alto, instaura quello che io definirei un normale «stato d’emergenza», si avvale, più che di manifestanti generosi, dei Carabinieri e della Polizia di Stato congela le Camere, sospende tutte le immunità parlamentari, restituisce alla magistratura le sue possibilità e capacità di azione, stabilisce d’autorità nuove regole elettorali, rimuove, risolvendo per sempre il conflitto d’interessi, le cause di affermazione e di sopravvivenza della lobby affaristico-delinquenziale, e avvalendosi anche del prevedibile, anzi prevedibilissimo appoggio europeo, restituisce l’Italia alla sua più profonda vocazione democratica, facendo approdare il paese ad una grande, seria, onesta e, soprattutto, alla pari consultazione elettorale.
Insomma: la democrazia si salva, anche forzandone le regole. Le ultime occasioni per evitare che la storia si ripeta stanno rapidamente sfumando. Se non saranno colte, la storia si ripeterà. E se si ripeterà, non ci resterà che dolercene. Ma in questo genere di cose, ci se ne può dolere, solo quando ormai è diventato inutile farlo. Dio non voglia che, quando fra due o tre anni lo sapremo con definitiva certezza (insomma: l’Italia del ’24, la Germania del febbraio ’33), non ci resti che dolercene.
La sparata di Asor Rosa
"Stato d’emergenza per salvare la democrazia"
Ferrara: è golpe. La replica: bisogna reagire
È eversivo invocare l’intervento di polizia e carabinieri? Lo sarei se invocassi la rivolta
Nessuna critica a Napolitano. Dobbiamo accettare o meno la fatalità di un bis del ’22
Berlusconi manda in frantumi le regole e l’assetto democratico e repubblicano
Certo, la mia è una forzatura. Serve a farsi capire meglio e a focalizzare l’attenzione
di Goffredo De Marchis (la Repubblica, 14.04.2011)
ROMA - Per evitare che la storia si ripeta, che l’Italia torni alle condizioni del 1922 (alba del fascismo) o precipiti nella deriva della Germania del ‘33 (avvento di Hitler) Alberto Asor Rosa propone una strada: dichiarare lo stato di emergenza, congelare le Camere, chiamare al governo Carabinieri, Polizia di stato e magistratura. Il professore, ex parlamentare del Pci, descrive il suo progetto in un editoriale sul manifesto di ieri. La democrazia è già collassata, scrive Asor Rosa citando i precedenti del Novecento. Per colpa «di Berlusconi e dei suoi più accaniti seguaci».
L’articolo scatena, com’era prevedibile, Giuliano Ferrara che a Qui Radio Londra attacca a testa bassa accostando impropriamente Eugenio Scalfari e la Repubblica ad Asor Rosa e alla sua tesi: «C’è chi propone il colpo di Stato contro il governo eletto dai cittadini. Asor Rosa spiega con chiarezza un progetto politico che è di Repubblica. Del resto il professore fa parte della cricca di Scalfari». Ribatte a muso duro Asor Rosa: «C’è un’unica cricca lobbistica ed è quella notoriamente guidata dal presidente del Consiglio, ed i pericoli che ha provocato per la democrazia italiana sono pesantissimi». Asor Rosa però conferma la sua assurda exit strategy al berlusconismo. Lui stesso la definisce paradossale: «Pensavo mi chiamasse uno psichiatra, non un giornalista», dice rispondendo al telefono.
Se anche lei sa che il paradosso ha aspetti eversivi perché lo ha scritto? Propone di reagire alle regole calpestate violando tutte le regole. E gli amici del Cavaliere, come Ferrara, ci sguazzano. Bel risultato.
«Da tempo immemorabile Ferrara non rappresenta più nulla. Ma l’alternativa quale sarebbe? Tacere? Il mio ragionamento è chiaro, soprattutto nelle premesse. C’è un’obiettiva frantumazione delle regole ed è opera del capo del governo. L’atteggiamento etico politico di Berlusconi mette in discussione l’assetto democratico e repubblicano. Se tutto questo è vero, e secondo me è vero, bisogna porsi il problema di come se ne esce».
Ma lei immagina una «prova di forza» che è l’opposto della democrazia.
«La mia proposta è una forzatura e le forzature servono a farsi capire meglio. A focalizzare l’attenzione sulle premesse».
Poteva fermarsi a quelle.
«No, anche perché non credo che lo stato d’eccezione sia contro la nostra Costituzione».
Congelare le Camere, affidare i poteri alle forze dell’ordine. Dove ha letto queste cose nella Carta?
«Non sono un costituzionalista ma invito tutti a valutare bene gli articoli 87 e 88 della Costituzione. E a vedere cosa se ne ricava in un momento di rischio della democrazia. Se qualcuno mi dimostra che la democrazia in Italia non è a rischio accetto la confutazione. Altrimenti dobbiamo fare tutto il possibile per evitare il peggio».
Quegli articoli riguardano i poteri del presidente della Repubblica. Napolitano non sta già facendo moltissimo per respingere leggi inaccettabili e comportamenti fuori controllo?
«Non ho nessuna critica da muovere a Napolitano. Ma tutti abbiamo di fronte una responsabilità storica: accettare o meno la fatalità di quello che accade come avvenne nel ‘22 e nel ‘33. La prospettiva politica si è enormemente aggravata. E chiede un impegno che va oltre il semplice accettare o respingere leggi».
Lei soffia sul fuoco, non è anche questo pericolo? Per fortuna sono parole isolate.
«È eversivo, è soffiare sul fuoco invocare l’intervento di Polizia e Carabinieri? Sono organi dello Stato. Sarei eversivo se invocassi la rivolta popolare. Ma non lo faccio. Chiedo solo che la democrazia e lo Stato si autodifendano».
Un uomo con la sua storia di sinistra che invoca i generali. Non è in imbarazzo?
«L’apprezzamento per la polizia e i carabinieri fa parte della maturazione quasi secolare di cui sono portatore».
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Il berlusconismo e l’opinione pubblica
di Massimo L. Salvadori (la Repubblica, 22.08.2008)
Alla democrazia ci si deve inchinare poiché consente di cambiare i governi pacificamente secondo gli orientamenti prevalenti nell’"opinione pubblica". Ma che ci si debba anche inchinare alle scelte compiute dalle masse degli elettori, è tutt’altra questione. Il motivo è o dovrebbe essere chiaro. Gli orientamenti politici e le scelte elettorali sono prodotti soggettivi, dipendono dalla quantità e qualità degli strumenti di cui si è dotati per guardare, analizzare e valutare la realtà. Questi strumenti a loro volta derivano da ciò che sinteticamente possiamo chiamare la maturità morale e civile di un popolo. Nel 1843 Vincenzo Gioberti pubblicò il suo celebre saggio Del primato morale e civile degli Italiani. Orbene, oggi, a considerare lo stato delle cose, parrebbe giunto il momento di scrivere un saggio da intitolarsi Dell’immaturità morale e civile degli italiani. Si sa che a dir ciò si passa per disfattisti, pessimisti e spargitori di pubblici veleni, ma si badi alla sostanza dei fatti.
La maggioranza del popolo italiano ha portato al potere per l’ennesima volta Berlusconi e i suoi, sorda al conflitto di interessi, ammaliata dal successo che lo ha creato tanto ricco, indifferente ai suoi costanti e volgarissimi attacchi alla giustizia e all’uso delle leggi per motivi personali, insensibile alla sua demagogia e al suo enorme potere mediatico nato dai favori di Craxi e rivolto a modellare a suo piacere l’opinione pubblica. Una scalata, quella del Cavaliere, ad un immenso potere economico, politico e "culturale" che non sarebbe stato possibile - ripetiamolo ancora una volta - in alcun altro Paese democratico maturo. Manifestazione essenziale dell’immaturità morale e civile degli italiani è dunque la larghezza del consenso dato al berlusconismo, il quale non è una categoria soggettiva polemica che si possa far cadere per spianare la strada ad un più elevato confronto tra governo e opposizione, ma una consolidata realtà oggettiva.
Alla base di siffatto consenso vi sono la diffusione in tanta parte del Paese di un atteggiamento di sprezzo per lo spirito di legalità e una concezione prevaricante del potere. L’humus in cui esso rafforza le sue radici, nate e diffusesi certo già ben prima che il Cavaliere facesse la sua apparizione, è un deterioramento dello spirito pubblico che semina potenti germi di inquinamento nell’economia e nel tessuto sociale del Paese, diffonde la corruzione politica e amministrativa, deposita nella mentalità collettiva non solo la compiacenza ma persino l’ammirazione per chi sa fare bene i propri affari aggirando quel che conviene aggirare.
E ora un altro malo aspetto emerge: l’intolleranza razzistica e religiosa verso chi non è "padano", non è italico, non è cattolico. Si tratta di una vera e propria miseria spirituale per quello che fu "un popolo di emigranti", di milioni di disperati, miserabili, disprezzati, mal tollerati, umiliati dalle "razze superiori" che pure ne utilizzavano e sfruttavano la forza lavoro. La vecchia storia della memoria corta.
Di fronte a tutto ciò e a molte altre cose che si potrebbero menzionare, l’opposizione si mostra sbalestrata, sbandata, profondamente divisa. Nel Partito democratico si fanno strada le posizioni di chi, sentendosi spiazzato dal grande consenso dato al berlusconismo, ritiene opportuno nobilitare il confronto con esso, rinunciare a vederlo e a combatterlo a viso aperto in quanto sistema di potere partendo dalla mobilitazione morale e civile, prima ancora che strettamente politica. L’Italia dei valori conduce la sua battaglia contro Berlusconi non avendo le risorse, a partire dalla sua leadership, per darle l’occorrente respiro. Il Partito socialista è un fantasma che si aggira nello spazio vuoto. La Sinistra Democratica non trova ancoraggi. I neocomunisti si consumano nella difesa patetica di una bancarotta e si scindono in frammenti. Se le prestazioni dell’ultimo governo di centrosinistra avevano diffuso la persuasione che soltanto il Cavaliere potesse assicurare una salda governabilità del Paese, lo stato attuale delle opposizioni non fa che rafforzarla ulteriormente.
In questo quadro si è levata la denuncia di Moretti, il quale ha invocato il fantasma di una virtuosa "opinione pubblica", assente in Italia. Ma che cosa costituisce un’opinione pubblica? Essa per un verso è la somma empirica delle molteplici e varie opinioni. Per altro verso, ed è questa di cui si denuncia l’estrema debolezza o assenza nel nostro paese, è l’esistenza - e qui occorre richiamare l’originaria concezione dei D’Alembert e di Kant - di una piazza pubblica formata da cittadini pensosi del bene comune, stimolati da una libera informazione autonoma dal potere, sia questo quello del governo o quello dei partiti con i loro interessi particolari, in grado di esprimere giudizi e di assumere comportamenti tali da orientare scelte consapevoli e da influenzare mediante un controllo efficace l’agire dei governanti e dei soggetti politici in generale. Una simile opinione pubblica è un ideale, ma che in certi momenti e paesi ha avuto ed ha pur imperfette attuazioni. E il suo primo presupposto è la presenza di mezzi di informazione non sudditi del potere governativo, economico e partitico. Si guardi in proposito a ciò che accade in Italia. Berlusconi spadroneggia con le sue televisioni, i suoi giornali e periodici, le sue case editrici; la Rai, il cosiddetto servizio pubblico, è lottizzata dai partiti, di governo e no. E quanti sono gli organi di informazione che possono essere definiti davvero "indipendenti"? Le radici di una simile situazione affondano profondamente nella storia passata d’Italia, quando le correnti di opinione erano nella grandissima maggioranza pressoché interamente spartite e soggiogate dalla Dc, dal Pci e dalla Chiesa. Mutatis mutandis siamo ancora dentro questo sistema.
La mancanza in Italia della "opinione pubblica" invocata da Moretti è lo specchio del nostro modo di essere e delle nostre tare storiche. Chi si candida a combatterle con la necessaria energia e determinazione? I candidati a parole sono una folla, sono tutti. E questo non è un buon segno.
Un progetto che riunisca
di Rossana Rossanda, (il manifesto, 10.08.2008)
Siamo a uno dei punti più bassi della nostra storia: Alberto Asor Rosa ha ragione. Siamo a una crisi intellettuale e morale degli italiani - metà dei quali hanno votato per la terza volta una banda di affaristi ex fascisti e separatisti e l’altra metà si è divisa. Occorre dunque, scrive Asor, un soggetto politico nuovo, pulito e con un’idea di nazione che guardi a sinistra e non insegua fisime comuniste. Nel documento del Crs, Mario Tronti diceva qualcosa di analogo precisando che deve essere una grande forza popolare.
Non che mi piaccia essere una fisima, ma pazienza. Però, allo stato delle cose, non vedo dove questa forza politica sia. Veltroni direbbe: ma come, quella forza sono io, e il Pd. Abbiamo il 34 per cento dei voti, non siamo una combriccola di affaristi, abbiamo un’ipotesi riformista e una moderna icona morale in Robert Kennedy, abbiamo chiuso con ogni tipo di comunismo. Già, solo che l’opposizione a Berlusconi il Partito democratico non la sta facendo. Solo che raramente si è veduto un partito di sinistra così monocratico e poco popolare, se per democratico e popolare si intende un minimo di democrazia partecipata. Solo che, per dirla tutta, che cosa sia il Pd non si è capito ancora: gli avevano dato vita la Margherita e i Ds, ma della Margherita mancano ormai Prodi e Parisi, e Rosi Bindi sembra tenere più per coerenza che per persuasione. Neanche i Ds sembrano un blocco: D’Alema giura per il Partito democratico ma la sua fondazione ha accenti alquanto diversi da quelli di Veltroni. Chi può giurare che al primo congresso questa chimera diventi un animale affidabile?
Fuori del Pd le cose non vanno meglio. La frettolosa coalizione della sinistra Arcobaleno è stata addirittura espulsa dal Parlamento, il suo proprio elettorato avendole giurato vendetta per essersi fatta trascinare nell’avventura di governo. La Sinistra democratica di Mussi ha perduto qualche foglia invece che guadagnarne. I Verdi lo stesso. Rifondazione si è spaccata in due tronconi che neppure si parlano: la maggioranza di Ferrero punta tutto sul conflitto sociale dal basso, la minoranza di Niki Vendola su una raccolta di aree radicali fra le quali quella comunista potrebbe essere una cultura fra le altre, dell’ambientalismo che è più vasto dei Verdi, del femminismo, dei movimenti.
Non vedo perciò, allo stato dei fatti, un soggetto in grado di fare fronte alla slavina di destra. Vedo una quantità di orfani che vorrebbero questo soggetto ma sui quali da diversi anni passano grandinate che li disperdono vieppiù. Ma qual è la causa delle grandinate? Sta soltanto nella risolutezza e la sfacciataggine di Berlusconi? Non credo. La banda che ci governa ripete esattamente forme, metodi e misure di tutti gli esecutivi europei dagli anni ’80: la potente spinta alla disuguaglianza, all’arricchimento di pochi, all’impoverimento dei più, cioè l’ondata neoliberista che ha seguito i «trent’anni gloriosi». È una ripresa della linea che era già stata sconfitta in Europa e negli Usa dopo gli anni ’20.
Ma ora, osserva Asor, essa è già arrivata a un punto morto. Vero, ma non per la forza della sinistra. È nei guai con se stessa. Dal liberismo si oscilla al protezionismo, dal mercato unico alle guerre commerciali simili a quelle del XIXmo secolo - ecco dove stiamo ritornando. Gli Stati uniti hanno l’egemonia militare ma non più economica; questa gli è contestata dalla Cina e dall’India in poderosa crescita. E l’arroganza di Bush ha infilato la sua supremazia militare nella trappola del Medio oriente, mentre l’Europa è insabbiata in una moneta relativamente forte, in un’economia debolissima e in un’iniziativa politica pari a zero.
Questo è il quadro cui siamo davanti. Crediamo davvero che si potrà batterlo con i conflitti sociali dal basso o con l’adunata dei renitenti al veltronismo? Non lo penso. Se vogliamo non solo battere Berlusconi ma dirci dove l’Italia può andare, su quali basi si può ricostruirne una fisionomia intellettuale e morale bisognerà pur passare dalle proteste divise e poco comunicanti a un progetto capace di credibilità, persuasione e mobilitazione. Per questo non serve il Partito democratico, che del liberismo condivide gli orizzonti, né bastano le due anime di Rifondazione: la vastità dell’impegno implica una raccolta di forze che vada molto oltre la sinistra Arcobaleno e la natura dell’impresa implica una dimensione del conflitto che non si risolve dal basso. Del resto, qual è il basso della globalizzazione?
E qui torna la mia fissazione: se siamo, come credo, una tessera di una tendenza mondiale, prima di tutto ad essa dobbiamo dare un nome e di essa definire la mappa. Il nome è il capitalismo dall’ultimo quarto del Novecento agli inizi del Duemila. La mappa è quella dell’intero pianeta. Finiamo di balbettare che tutto è cambiato e perciò niente si può dire, e cominciamo a precisare che cosa questo capitalismo è diventato. Non ci sono più vittorie puramente locali contro di esso. Come i dipendenti di una fabbrica non possono battersi da soli contro la delocalizzazione dell’azienda così un paese europeo non può battersi da solo contro la recessione, quali che siano le pensate protezioniste di Tremonti. Ma quando alla crisi delle classi dirigenti si somma il caos della sinistra il rischio è di essere trascinati via tutti.
Può questo rischio trasformarsi in occasione? Questa è a mio avviso la domanda vera. Credo che sì, per l’ampiezza dei soggetti coinvolti e per la profondità non solo materiale e pecuniaria del disastro ma appunto intellettuale e morale - non è per caso che all’apatia culturale dell’Occidente ormai non si oppongano che nazionalismi o fondamentalismi.
Ma nel medio termine temo che non si possa dare una parola d’ordine rivoluzionaria, almeno nel senso che abbiamo dato a questa parola fino a poco tempo fa: l’esito del ’68 dimostra quanto eravamo già arretrati e quel che è seguito all’89 impedisce anche ai più ostinati di sognare una riedizione dei socialismi reali. Ma la sofferenza sociale e l’ampiezza delle ineguaglianze sono diventate così forti da rendere fragile la stessa tenuta e coesione di ogni singolo paese. Non è con le riforme istituzionali che si può aggiustare la baracca. Potrebbe essere aggiustata, per difficile che sia, con una inversione di tendenza: un intervento che restituisca il primato alla politica piuttosto che ai meccanismi dell’economia, che dia luogo a linee di sviluppo, incluso uno «sviluppo di decrescita», che ridistribuisca la ricchezza a sfavore delle zone forti e a favore di quelle deboli, che decida il taglio dei privilegi sociali, il rilancio su un piano mondiale dei mercati interni (l’impossibilità di procedere del Wto parla chiaro).
Non sarà un’operazione indolore, ma può non essere impossibile. Chi non si ritroverebbe in questo progetto? Soltanto i boss delle stock option d’oro. Non sarà la rivoluzione, ma oggi come oggi sarebbe certamente una rivoluzione culturale.
Dopo l’articolo sul «manifesto»
Cacciari: il mio ex amico Alberto è fuori di senno.
La Gagliardi: provocazione da condividere
«Silvio peggio del fascismo». Asor Rosa spacca la sinistra
di Fabrizio Roncone (Corriere della Sera, 07.08.2008)
ROMA - Al canto delle cicale, a Monticchiello - dimenticando per un giorno l’assedio degli immobiliaristi che vogliono cementargli, così racconta, la Val d’Orcia - il professor Alberto Asor Rosa, 74 anni, inflessibile critico letterario, leggendario docente di letteratura italiana alla Sapienza di Roma, ex direttore di Rinascita, ex deputato del Pci, interrompe le vacanze e si mette a scrivere un articolo di fondo per il manifesto.
«Il terzo governo Berlusconi rappresenta senza ombra di dubbio il punto più basso nelle storia d’Italia dall’Unità in poi. Più del fascismo? Inclino a pensarlo... ».
Le prime righe del lungo articolo sono queste. Il quotidiano comunista lo ha pubblicato ieri: e non sono stati pochi coloro che, proseguendo la lettura, sono rimasti sorpresi. Sentite: «Il fascismo - continua Asor Rosa - con tutta la sua negatività, costituì il tentativo di sostituire a un sistema in aperta crisi, quello liberale, un sistema completamente diverso, quello totalitario. Pochi oggi possono consentire con la natura e gli obiettivi di quel tentativo; nessuno, però, potrebbe contestarne la radicalità e persino, dentro un certo circoscritto ambito di valori, le buone intenzioni».
Lette queste righe è stato inevitabile cercare il professore.
«Siete stupiti?». Un po’. «Beh, è un discorso che può forse suonare strano, lo ammetto, specie se formulato da me. Ma la situazione è così eccezionale che non ci si può più accontentare degli schemi classici e...». E quindi lei... «Sostengo, limitandomi a una valutazione storica, che almeno il fascismo, a differenza di Berlusconi, aveva ambizioni alte, dimostrava di tenere al bene collettivo della nazione...».
Va bene, professore, il concetto è chiaro. Così chiaro che c’è chi, nel commentarlo, alza anche i toni della voce. La voce è quella di Massimo Cacciari, filosofo, sindaco di Venezia, esponente del Pd.
«Primo: io ormai questi intellettuali li sopporto meno dei politici...». Secondo? «Quella del mio ex amico Asor Rosa è una provocazione inutile, perché sono incomparabili sia le epoche che i personaggi. Solo uno fuori di senno può paragonare Berlusconi a Mussolini».
Eppure... «Allora paragoniamo Putin a Stalin? O Sarkozy a Napoleone? Purtroppo certe figure storiche sono grandi ma anche tragiche. E certo che Berlusconi sarà sempre un gradino sotto Mussolini! Ma grazie al cielo escludo che il Cavaliere ci porti dentro un conflitto mondiale...».
Cacciari è molto facile da intervistare.
Perché è sempre deciso, netto. Così prosegue: «Non so: Asor Rosa è forse ancora impressionato dalla bonifica della Pianura Pontina? Beh, sì: in effetti Mussolini spostò in massa migliaia di contadini da una regione all’altra. Sì, certo, ci riuscì benissimo, fu un esempio di decisionismo: infatti, come dire? era un dittatore ».
I toni sono questi. La Rina Gagliardi - editorialista di Liberazione, ex senatrice rifondarola di strettissima osservanza bertinottiana - li abbassa «un po’ perché fa troppo caldo», un po’ perché il teorema di Asor Rosa, in fondo, sia pure parzialmente, lo condivide.
Andiamo con ordine. «Il paragone mi pare un poco incauto. Mussolini guidò un regime per vent’anni, il terzo governo Berlusconi è appena al giro di boa dei primi cento giorni. Detto questo...». Ecco, detto questo? «Non c’è dubbio che quello in carica sia il peggior governo mai comandato da Berlusconi e che la qualità della democrazia, in Italia, sia assai scaduta...».
Quindi? «Direi che se quella di Alberto è una provocazione estrema, io sono qui, a condividerla». L’ultima telefonata è per il professor Lucio Villari, che insegna Storia contemporanea all’università Roma Tre. Il professor Villari, sulle prime, sembra essere scettico come il collega Cacciari. «Il paragone proposto da Asor Rosa, per lo storico, è tecnicamente impraticabile: se no, per capirci, potremmo paragonare anche Tremonti a Quintino Sella e via dicendo...».
Poi l’animo dello storico cede però il passo. «Naturalmente, se allo storico si chiedesse una semplice valutazione del berlusconismo, allora lo storico dovrebbe provare a immaginare le eventuali evoluzioni di questa fase della democrazia italiana... Ricordando, per esempio, che nel 1933, in Germania, anche il governo di Hitler fu eletto democraticamente...».
Tolleranza zero Mafia esclusa
di Roberto Cotroneo *
Il degrado morale e culturale di questo Paese ha un nuovo punto critico, un nuovo traguardo, tutt’altro che invidiabile, naturalmente. Si tratta del «decreto sicurezza», fortemente voluto da tutto il centro destra e in particolare dal ministro leghista Roberto Maroni. Proprio Maroni, ieri, ha detto una cosa interessante: «I primi cittadini saranno protagonisti e non comprimari della sicurezza: ora vediamo se hanno creatività». È una frase a metà tra l’agghiacciante e il ridicolo. E probabilmente riesce a essere entrambe le cose. Ma con questo decreto, finalmente, siamo diventati veramente il Paese delle banane.
Una sorta di propaganda strombazzata ai quattro venti, fatta di militari usati per l’ordine pubblico e di misure che finalmente calmeranno un Paese sempre più di stivaloni e mascelle volitive. Perché è così. Purtroppo. Uno non ci crede, e dice: la storia passata è storia passata, non usiamo termini a sproposito, cerchiamo di capire, la sicurezza è uno dei temi più sentiti dai cittadini, che siano di destra o di sinistra. Forse è proprio su un argomento come questo che si vincono o si perdono le elezioni. Cerchiamo di capire che in fondo un giro di vite sarebbe importante, un segnale di serietà.
E invece? Ecco la creatività sulla sicurezza di cui parla Maroni, applicata nel concreto. È vietato chiedere l’elemosina. Ovvero, un’ordinanza contro l’accattonaggio. È partita la lotta contro i lavavetri, con sequestro dell’attrezzatura. Di quale attrezzatura si tratti è facile immaginarlo. Sequestro di secchio, acqua insaponata e tergivetro da euro 1,00 con gomma morbida e manico in plastica. Divieto agli ambulanti di insidiare la sicurezza della nazione con discese sulla spiaggia, e vendita di pericolosi elefantini di finta giada e calzettoni da tennis. Divieto di bivacco, di schiamazzo e di canti nelle aree storiche. L’esercito, armato di tutto punto potrà controllare il cestino del picnic in piazza del Pantheon, del turista bivaccoso, e mettere al bando «La canzone del sole» di Lucio Battisti. Non si può andare in più di due in un parco di notte, per cui se si è in tre, basta dividersi, due da una parte, e un altro a dieci metri di distanza che fa finta di non conoscerti, se finisci sotto l’occhio attento dei nuovi angeli della sicurezza. Naturalmente non potevano mancare le multe ai clienti dele prostitute, che dovranno pagare fino a 500 euro, e che in Romagna vengono già fotografati, e questa passi.
Ora non sai se ridere o se piangere. Visto che tutte queste misure sono fantastiche. Colpiscono, in tema di sicurezza, i poveracci che chiedono l’elemosina, quelli che lavano i vetri (con sequestro dell’attrezzatura, va ribadito, perché è degna di un film di Alberto Sordi), i senegalesi che vendono sulla spiaggia, quelli che cantano con la chitarra e quelli che vanno in tre o quattro al parco, e nel frattempo il Financial Times ci indica come, secondo una graduatoria assai rigorosa, il Paese più corrotto d’Europa, con un testa a testa tra noi e la Grecia e il quarantesimo Paese più corrotto del mondo.
Curioso davvero che in tutte queste misure sulla sicurezza, le impronte digitali ai rom, e schifezze razziste di vario genere, nessuno ricorda che siamo un Paese dove la malavita organizzata, ovvero la Camorra, la Mafia, la ‘ndrangheta, e altro ancora, controllano in modo spietato e criminale estese parti del territorio italiano, e investono ormai buona parte dei loro introiti, in attività apparentemente lecite. E invece noi mettiamo in campo una parata da Stato libero di Bananas, con mezzi dell’esercito, carabinieri, e polizia, a controllare mutilati che fanno accattonaggio, lavavetri che muoiono sotto il sole di agosto per 20 centesimi a parabrezza, ambulanti che ti vendono tre ciondoli per cinque chilometri di spiaggia, studentelli che mangiano tramezzini sotto qualche monumento, e gente che ha il vizio di intonare qualche coro, o ha voglia di passare un po’ di tempo in un parco. Gente pericolosa, inquietante, gente che dà la sensazione del pericolo e della precarietà di questo paese, povera gente che non è bello vedere in giro, perché non è carino il mutilato sotto casa, o vicino al negozio preferito che ti chiede l’elemosina, non è elegante, diamine che un lavavetri ti stia a un angolo di semaforo, è fastidioso il senegalese che gira con la sua merce mentre stai sorseggiando in spiaggia qualche cocktail di frutta. Molto meglio essere assediati da mafiosi, camorristi, picciotti, gregari, ceffi e bulli pericolosi che proliferano, fanno affari, vendono cocaina ai ragazzini di quattordici anni, aprono locali all’apparenza ineccepibili: gente pericolosa davvero, che non ha niente di creativo, e ha molto di consolidato. Sono sempre quelli, sempre gli stessi. Ed è sempre la stessa storia, sempre la storia tragica e indecente di questo Paese.
Il sindaco di Verona, leghista, che di nome fa Flavio Tosi, dice che da fine agosto arruolerà ex carabinieri, militari in congedo, alpini, uomini della protezione civile, «ingaggiati con funzione di controllo». Ma nessuno in questo Paese vuole davvero controllare nulla. Eccetto i poveracci, eccetto i protagonisti di un fondale sociale che non conta nulla, che non disturba più di tanto. E che tranquillizza soltanto una parte di questo Paese, egoista, volgare, qualunquista e fondamentalmente ignorante, ma soprattutto cattiva. Una guerra tra poverissimi stranieri e impoveriti italiani. Dove gli impoveriti italiani fanno la guerra ai disgraziati stranieri in nome di una finta sicurezza. E sono contenti dell’esercito che chiede i documenti a pakistani o a cingalesi, e toglie qualche bancarella. Non so dire se è più vergognoso, o più ridicolo. Ma il risultato è esattamente questo. E hanno anche il coraggio di chiamarla “sicurezza creativa”.
*l’Unità, Pubblicato il: 07.08.08, Modificato il: 07.08.08 alle ore 14.50
Lo stato dei diritti in Italia
di Adriano Prosperi (la Repubblica, 09.08.2008)
Qui si commenta una non notizia, un silenzio. Si dice: cane che morde uomo non fa notizia. E’ la massima fondamentale del mondo dell’informazione: quel che è abituale, ripetitivo, fissato nelle regole della natura e non vietato dalla legge non fa notizia. Applichiamo la regola a un fatto dei nostri giorni. Un fatto a tutti gli effetti grave - una tentata strage - che però non ha fatto notizia. Ecco il fatto: nella tarda serata di lunedì 29 luglio anonimi attentatori a bordo di un "quad" hanno lanciato una bottiglia molotov contro roulottes in sosta nell’area industriale di un piccolo centro toscano. L’atto criminale è rimasto solo potenzialmente assassino perché la molotov non è scoppiata. Un caso fortunato, che non riduce la responsabilità di chi ha tentato di uccidere. Eppure la notizia, emersa per un attimo nella cronaca (ad esempio, su Repubblica del 30 luglio, sezione Firenze, pag. 7), è affondata immediatamente nel silenzio.
Chi scrive queste righe ha tentato di capire meglio i fatti e soprattutto i silenzi attraverso un contatto diretto con gli abitanti di un luogo che gli è per ragioni biografiche specialmente familiare. Ma si è dovuto arrendere davanti a gente distratta, disinformata, simpatizzante più o meno apertamente per gli attentatori. Molti affettavano di non sapere, pochi ammettevano che si era trattato di cosa spiacevole, ma minimizzando: una ragazzata, un gesto innocuo, che aveva fatto pochi danni (appena una carrozzeria ammaccata). Il resto, il pericolo corso da una famiglia, lo spavento di bambini e adulti, la loro rapida decisione di fuggire dal luogo dell’aggressione, non sembrava suscitare nessuna partecipazione. Bilancio: solidarietà evidente con gli autori dell’attentato, ostilità verso chi ne era stato minacciato. Quasi un clima mafioso. Ma a differenza dei casi di mafia, in questo caso omertà e silenzio locali hanno avuto un riscontro nazionale. Il silenzio è rapidamente calato sul caso . E le indagini ufficiali, che di norma qualcuno deve pur svolgere, non avranno vita facile.
L’enigma ha una soluzione facilissima. Nel luogo dell’attentato era in sosta per la notte una carovana di automobili e roulottes di nomadi sinti. Solo per caso non ci sono stati dei morti: nelle roulottes c’erano dei bambini. E ancora una volta, come accadde anni fa al criminale che, non lontano da quel piccolo centro toscano, pose in mano a una piccola mendicante zingara una bambola carica di esplosivo, i potenziali assassini sono stati coperti dalla solidarietà collettiva . Chi conosce la banalità del male, la quotidiana serpeggiante avanzata della barbarie che precede e sostiene le modificazioni profonde dei rapporti sociali, tenga d’occhio l’episodio. O meglio: annoti il silenzio che ha inghiottito quella che solo per caso è stata una mancata tragedia. Ne è stata teatro una regione - la Toscana - che è d’obbligo definire «civile». Non si sa bene perché. «Civile» appartiene all’esercizio dei diritti e dei doveri di cittadinanza. Da quando la specie umana ha riconosciuto in documenti solenni che non deve esistere nessuna differenza di dignità e di diritti tra i suoi membri, la civiltà si definisce dall’assenza di razzismi e dalla lotta contro le discriminazioni di ogni genere. E la cultura che si studia e si insegna ha la sua misura fondamentale nell’educare ai valori della cittadinanza attiva. Certo, la Toscana ha un patrimonio grande di cultura. La sua economia ne vive: cultura di terre incise dal lavoro come da un sapiente bulino, disegnate nelle opere di una grandissima tradizione pittorica. Bellezze naturali e bellezze d’arte vi sono inestricabilmente legate. Anche patiscono insieme le minacce del mercato. Per esporre meglio la merce si affaccia periodicamente nelle opinioni locali la proposta di eliminare dalla vista dei clienti le presenze sgradevoli: i "vu cumprà", i mendicanti, gli storpi e naturalmente gli zingari. "Corruptio optimi pessima", diceva la massima antica: la caduta è tanto più pericolosa quanto più dall’alto si precipita. Gli abitanti della regione che vanta tra i suoi titoli di nobiltà la prima abolizione legale della pena di morte oggi ospitano e nascondono un virus antico e pericoloso. Non sono i soli. E non basterà il voto di condotta restaurato nelle scuole a educare i futuri cittadini se chi getta una bottiglia molotov contro gli zingari viene impunemente vissuto dalla collettività come «uno di noi»: noi in lotta contro loro - i diversi, i senza diritti.
Un’ultima osservazione: l’ostilità nei confronti dei nomadi, degli zingari, è antica e diffusa, in Toscana come in tutta Italia. Ma nessuno aveva mai pensato di ricorrere alle molotov contro di loro. E’ un salto di qualità senza precedenti, il gradino più alto toccato da aggressioni e tentativi di linciaggio che non fanno nemmeno più notizia. E una cosa è evidente: non ci saremmo mai arrivati senza la campagna di diffamazione e di criminalizzazione condotta da partiti politici di governo e senza la recente legittimazione giuridica della discriminazione nei confronti delle presenze «aliene» - zingari, immigrati clandestini, esclusi dalla comunità («extracomunitari»). Il cattivo esempio viene da chi ha la responsabilità di governare gli umori collettivi e non sa rinunziare a eccitarli. Se quella molotov fosse esplosa, oggi saremmo qui a contare le prime vittime di una campagna irresponsabile alimentata dall’alto. Chi favoleggia di proteste in difesa dei diritti di libertà in Cina cominci a prendere sul serio quel che si dice nel mondo sulla situazione dei diritti umani in Italia.