Ci siamo, fra poco. Si vota ancora per il sindaco di San Giovanni in Fiore. Ma siamo sicuri che si voti, che ci sia stato un voto? Siamo certi che i meccanismi - o le procedure - della democrazia di Stato garantiscano di esprimere la volontà effettiva per uno dei due candidati in corsa, Antonio Barile (di centrodestra) e Antonio Nicoletti (di centrosinistra)? E, soprattutto, siamo certi che Vattimo abbia preso 1437 preferenze, come comunica il Ministero degli Interni, e non, magari, molte altre di più? Io non mi fido della nostra tranquillità. Coerentemente con quanto scrivo da tempo, il sistema mafioso di San Giovanni in Fiore, ribadisco, impedisce di scegliere liberamente in politica. Lo schifo in cui ci troviamo non ci ha ancora indotto a pensare che, probabilmente, la responsabilità maggiore l’abbiamo proprio noi che votiamo e restiamo in silenzio. Sempre. Il pesante disorientamento di parte dell’elettorato dipende dalla mancanza di credibilità dei rivali in campo - che, poi, sintetizzano politicamente i rispettivi poli d’appartenenza - o, più realisticamente, può derivare da proposte programmatiche costruite lì lì, tanto per, in campagna elettorale? Barile e Nicoletti sono brave persone ma politicamente si trovano in situazioni per niente convincenti. Barile ha denunciato molte volte inadempienze e decisioni assurde del precedente esecutivo, della maggioranza uscente. Poi, più che basare la sua azione su una proposta attendibilmente innovativa, costruita sulla necessità d’una rivoluzione culturale, della mentalità, s’è lasciato sedurre, lui che con la destra ci azzecca nulla, dal portato d’una sinistra geneticamente votata all’assistenzialismo e al consenso populistico. Nicoletti, che ha fatto opposizione nella legislatura appena conclusa, ha dovuto prendere le redini - come si fa in tutti i casi del genere, sappiamo - d’una sinistra per nulla riconoscibile, seduta, mangiona e organizzata secondo una struttura non democratica, autoritaria e pericolosa. «Chi, dei due», s’è domandato e continua a chiedersi un elettorato, vasto, che arriva dalla crisi - banale - successiva al Sessantotto e che non crede più tanto all’asse - con assi - «Stato, Regione, Provincia e Comune», in tutte le possibili combinazioni? «Chi, dei due», si ripete una massa, non esibizionista né esibita, che non scommette mica sui princìpi né accredita scriminanti, se non si scorgono veri segnali di cambiamento? C’è una mafia radicatissima, qui, a San Giovanni in Fiore. La prima azione d’ogni politico - che non sia un fantoccio - è rimuoverla dalle fondamenta. La mafia, qui, è invisibile. Ma si sa. Si sa che c’è. Se ne vedono e vivono gli effetti. La mafia, qui, è tangibilissima: Giovanni Pasqualini, ad esempio, deve farsi giustizia da solo? O deve farlo, per dire, Antonio Guarascio? Possiamo ancora accettare l’assoluto spopolamento, la fuga imposta a giovani e meno giovani, la vergogna di molti e la paura di chi non sa parlare, di chi non ci riesce? Se, poi, vogliamo affrontare il tema dell’organizzazione parallela, la questione dell’altro Stato, dobbiamo necessariamente considerare l’eventualità, non remota, d’una mafia, in Sila, che guarda all’ambiente, che se ne serve, che ricava e investe. Noi abbiamo quasi sempre parlato di quella che marca stretto le coscienze, che persuade e costruisce relazioni di potere attraverso manovre illegali. Rispetto a questa realtà, l’elettorato avrebbe dovuto farsi sentire: avrebbe dovuto rifiutare la prassi del raggiro, da una parte e dall’altra. Poco importa, però. In fondo, San Giovanni in Fiore è solo uno dei tanti lotti d’un Meridione da spremere e immiserire ancora; è una di quelle periferie scontate in cui si possono realizzare affari d’oro, mentre l’ignoranza dilaga, la confusione sui veri nemici della società è sovrana e la giustizia è il sogno dei pazzi.
Emiliano Morrone
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