Dal lontano Giappone dialoghi sulla oscura identità dell’individuo plurale
Da poco uscite in Francia, le interviste contenute in «Penseurs japonais», a cura di Yann Kassile, testimoniano una profonda frattura fra la filosofia nipponica e quella europea
di Mario Perniola (il manifesto, 25.03.2007)
Cosa pensate se leggete in un libro che un’intervista si è svolta nel 5002? Che c’è stato un errore di stampa. Ma quando questo presunto errore è ripetuto più volte, cominciate a sospettare che si tratti di un testo di fantascienza.
Nel caso del volume Penseurs japonais. Dialogues du commencement, a cura di Yann Kassile (Paris, Éditions de l’Éclat), che contiene una ventina di interviste ai più eminenti filosofi giapponesi, effettuate da Jean d’Istria, nessuna di queste due ipotesi è giusta.
Il cambio della cronologia è intenzionale e programmatico: intende infatti prendere le distanze nei confronti del calendario occidentale sostituendolo con una nuova cronologia che pone come punto di partenza non più la nascita di Cristo, ma l’invenzione della scrittura. Non tutti i filosofi giapponesi concordano con questa proposta, ma ciò che è più sorprendente è la motivazione del dissenso.
Per il fenomenologo Ishida Hidetaka (come è noto in Giappone e in Cina il cognome viene prima del nome), tale innovazione favorirebbe la globalizzazione imponendo a tutti un’unica misura del tempo, mentre oggi esistono ancora culture che, come quella islamica e quella giapponese (per la quale oggi siamo nell’anno Heisei 18), seguono un’altra cronologia: il suo auspicio è che tutto il mondo abbandoni il cristianesimo, ma si continui a usare il calendario cristiano vuotandolo di ogni contenuto simbolico!
Nel passato si è molto parlato di una Japanese Connection tra la filosofia occidentale e quella giapponese. Dalla fine dell’Ottocento fino al postmoderno, ci sono molti esempi di convergenza tra questi due modi di pensare: per esempio il tradizionalismo universalistico (Okakura, Fenollosa e il nostro Elemire Zolla), la collaborazione negli anni Venti alla rivista Kaizo da parte di Husserl, Russell e Dewey, la relazione tra Heidegger e Kuki Shuzo, l’influenza della filosofia tedesca sulla Scuola di Kyoto, il contributo di Imamichi e di Sasaki all’estetica, la convergenza tra Derrida e Karatani. Siamo perciò abituati a considerare i giapponesi come gli extraeuropei più vicini alla filosofia continentale.
Le interviste di d’Istria sradicano completamente questa convinzione e testimoniano l’aprirsi di una profonda frattura, di cui la questione cronologica è solo un piccolo indizio. Non riesco a immaginare un filosofo occidentale, per quanto nichilista, che sostenga come Washida Kiyokazu, che per la specie umana sarebbe meglio non essere che essere, o che rifiuti per principio il dialogo perché viziato da una pregiudiziale platonica.
Per Kobayashi Yasu nemmeno Hegel si sottrae al dialogismo, limitandosi a interiorizzarlo. Uno dei massimi intellettuali giapponesi, Yoshimoto Takaaki (padre della scrittrice Banana), ritiene che la chiarezza porti al declino: finché l’essere umano vive all’oscuro, non è «fottuto».
L’impressione di lontananza si accresce quando si nota come nessuno di questi intellettuali, che pure si dichiarano politicamente orientati a sinistra, riconosca un qualche valore alle nozioni di progresso e di felicità. Uno Kuniichi sostiene che credere nel progresso è illusorio, e anche pericoloso, perché la condizione del mondo è oggi molto peggiore di quello che era cent’anni fa.
Matsuba Shoichi pensa che in nessun periodo della storia come oggi si sia stata tanta infelicità: mai tanti uomini e donne sono stati vittime della fame e della violenza. Il progresso sarebbe un’idea giudeo-cristiana, derivante da una concezione lineare della storia articolata sulla genesi e sul giudizio universale; successivamente questa idea è passata al positivismo e al marxismo.
Minato Chihiro afferma che l’idea del progresso è connessa con l’evoluzionismo biologico per il quale la volontà di dominio sullo spazio dell’essere umano viene surrettiziamente identificata con l’acquisizione della posizione eretta e la lontananza dal suolo. Minato concede che esiste uno sforzo verso il progresso, troppo debole però per ottenere risultati apprezzabili.
Infine Kobayashi Yasu sostiene che il progresso riguarda solo la tecnologia, ma è qualcosa di molto pericoloso: è molto meglio l’infelicità che una felicità fornita dalla tecnologia. Per Yoshimoto, la gaiezza segna il declino degli individui e delle società.
Non meno provocatorie suonano per un occidentale le idee espresse sulla libertà, la vita e l’individualità. La società attuale porrebbe una grande enfasi sull’idea della libertà perché questa sta scomparendo in Giappone non meno che in Occidente.
Per Shingu Kazushige, l’idea di vita è una costruzione artificiale della scienza moderna: in Oriente non si considera la vita dell’individuo, della civiltà e della natura, come qualcosa di costante. Essa è nella sua essenza passeggera.
Fra i filosofi presenti nel volume quello che sembra più vicino alle problematiche discusse in Europa è Nishitani Osamu, l’unico a essere intervistato tre volte. Probabilmente non a caso è il solo che conosco di persona e la cui formazione intellettuale è simile alla mia.
Proprio partendo dagli autori che ci accomunano, come Blanchot o Bataille, è forse possibile riallacciare i fili di una ricerca che coinvolga anche quanti sembrano più estranei ai temi trattati in Occidente. È infatti intorno alle nozioni di impersonalità, di rito e di inorganico che si può ristabilire una nuova contiguità tra il pensiero occidentale e quello nipponico. Come osserva giustamente Nishitani, l’essere umano è già dall’inizio plurale.
Mentre la filosofia occidentale trova una grande difficoltà a desoggettivare l’esperienza individuale, perché le nozioni di soggetto e di individuo sono storicamente connesse, la parola giapponese ningen, che viene comunemente tradotta con «essere umano, persona, uomo», implica già da sola l’esistenza di un rapporto.
Il termine ningen contiene due aspetti strettamente connessi tra loro: la dimensione individuale non è separabile da quella sociale. I caratteri cinesi di ningen significano originariamente proprio l’esistenza di una relazione tra esseri umani vale a dire il «pubblico»; solo con la trasposizione in lingua giapponese di questo ideogramma, esso ha acquistato anche il significato di essere umano individuale. Per questa ragione ningen non può essere considerato come sostanza: esso implica una interconnessione di azioni compiute da persone diverse.
L’individuo non è mai una tabula rasa, ma presuppone una collocazione spazio-temporale, un condizionamento sociale. All’interno dell’individuo ci sarebbe già un punto di vista impersonale ed esterno, che è relazionale: con le parole di Lacan (tradotto e studiato con molto zelo in Giappone), si direbbe «la mediazione del Simbolico». D’altronde la struttura negativa dell’essere umano impedisce l’esistenza di una società che annulla completamente l’individuo: una simile società collasserebbe.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"PERVERSIONI". UN CORAGGIOSO PASSO AL DI LA’ DELL’EDIPO - La mente estatica e l’accoglienza astuta degli apprendisti stregoni. Una nota sul sex-appeal dell’inorganico di Mario Perniola.
FLS
IL "METAROMANZO" DI MARIO PERNIOLA. Un tentativo di uscire dalla caverna, e dalle trame millenarie del "romanzo familiare" di Giocasta ed Edipo... *
L’indovino lacrimante alla ricerca di sé
«Tiresia», il primo e ultimo romanzo di Mario Perniola. Narrazione filosofica sull’identità, uscì nel 1968. Ora riedito da Mimesis
di Fabrizio Scrivano (il manifesto, 27.03.2020)
In una breve divagazione risalente ai primissimi anni Quaranta del Novecento, Emil Cioran scrisse a proposito degli esseri umani che «niente li addolorerebbe peggio che ritrovarsi,sopra il mucchio dei loro piacevoli inganni, di fronte alla pura esistenza». Questa frase, che è insieme un giudizio, una sfida e una prospettiva di studio, non starebbe malissimo, se non in epigrafe, almeno a lato del primo e ultimo romanzo di Mario Perniola, Tiresia (Mimesis, pp.110, euro 12), che il filosofo e teorico dell’arte contemporanea già rinnegava pubblicandolo nel 1968, in quanto «effettivo superamento della mia precedente attività di critico letterario, concentratasi nel libro Il Metaromanzo (edito nel 1966)».
IN EFFETTI, narrazione filosofica sull’identità, sull’essere e sul divenire, Tiresia era pensato escritto come la messa in pratica di una teoria del racconto, e come tale metaromanzo, ma anche voluto da Perniola, in quel tratto di vita, come ultimo gesto prima di divenire altro.
Qualche anno prima di morire,cinquant’anni dopo averlo scritto, Perniola aveva pensato di ripubblicarlo, scrivendo, quale nuova premessa, una severa recensione di sé e dell’opera, che tuttavia riabilitava come strumento di una ricognizione autobiografica.
Il primo degli indovini lacrimanti che Dante nel XX Canto dell’Inferno vide camminare in processione con il volto ritorto rispetto al busto, tanto da far scorrere le lacrime nel solco intergluteo, fu proprio Tiresia, colui «che mutò sembiante / quando di maschio femmina divenne / cangiandosi le membra tutte quante».
NELLA NARRAZIONE mitologica,quello di Tiresia è un tipico caso non risolto cui è comunque assegnata una pena senza fine. Diventato donna per aver toccato col bastone una serpentessa nel momento dell’accoppiamento, dopo sette anni di sessualità femminea decide di reinvertire la sua identità. Non ermafrodita né transessuale né omosessuale ma pienamente l’uno e l’altro sesso in tempi diversi. Per aver incautamente svelato(ma, in altre narrazioni, anche solo per aver conosciuto) i segreti dell’essere donna, viene punito da Era con la cecità e poi ricompensato da Zeus con la chiaroveggenza. Ed è per questo ultimo premio che si trova all’inferno. Diciamo che è un’identità che non sa mai cosa possa condannarlo o premiarlo, e che per questo è costretto ad affidarsi a una trasformazione continua.
PERNIOLA fu molto visionario nell’intercettare questo soggetto, che poteva rappresentare un certo modo di essere senza essere. In particolare qui prende il nome e l’immagine del borghese, inteso come colui che non milita, che non combatte (né può farlo essendo per definizione senza essere alcuno ed essendo anche inconsapevole di questa sua inesistenza) per
affermare contemporaneamente sé e la negazione di sé.
Ma per procedere a questa acquisizione dell’essere e della coscienza di essere, è necessario mutare completamente il corpo, negare la propria identità per poterla riaffermare in quanto
negazione della trasformazione. Così Tiresia, che non ha nulla da rappresentare ma ha il solo obbligo di essere qualcosa, sí manifesta a sé e all’altro da sé con una sola frase tanto rassicurante quanto paradossale: di aver fatto quelle cose solo con te, e per la prima volta. Poteva forse esserci memoria di un dramma teatrale di Guillaume Apollinaire, Les Mamelles de Tirésìas (1916), che recla-mava il piacere del cambiamento consapevole, ma rimane poco e niente di surrealista nel racconto che le diverse identità di Tiresia mettono in fila, che ora parla con lei o di lei, come estranea a sé, ora parla di sé come la lei che non è più o non è ancora.
Uno sdoppiamento sessuale che ricorda assai di più Carlo, il protagonista dell’incompiuto romanzo di Pier Paolo Pasolini, noto a noi tutti con il titolo di Petrolio (scritto dal 1972 e pubblicato postumo nel 1992), che prima si sdoppia tra un modello urbano, Carlo di Polis, e un modello silvestre, Carlo di Tetis, interpretando cioè i due poli dell’accomodamento e della metamorfosi, dell’ubbidienza e del rifiuto, ma che poi si accorge di essere diventato donna, cioè qualcuno di completamente diverso da sé (cangiate tutte quante le membra) e capace perciò di esperienze tutte diverse. «E un romanzo, ma non è scritto come sono scritti i romanzi veri», scriveva Pasolini ad Alberto Moravia: «Ho reso il romanzo oggetto non solo per il lettore ma anche per me: ho messo tale oggetto tra il lettore e me, e ne ho discusso insieme (come si può fare da soli, scrivendo)». Un proposito che sa di metaromanzo anch’esso.
PERNIOLA VOLLE allontanarsi subito da quel modo di dire e ragionare, che percepiva egli stesso come troppo violento (però in realtà umoristico e qualche volta comico). Ma non dal problema che Tiresia poneva: «La femmina è tanto diversa dall’eroe che quando dice una cosa intende esattamente il contrario di ciò che dice; perciò non è vero che menta, lei in realtà non mi mente mai, parla soltanto una lingua che non conoscevo». Che, tentando di non leggere al rovescio questa frase, più o meno significa che conoscere è sorpassare l’inibizione di non riconoscere.
IDENTIFICARSI CON CRISTO PER SUPERARE EDIPO. "Frammento inedito" (1931) di Sigmund Freud
DAL DISAGIO ALLA CRISI DELLA CIVILTA’: FINE DEL "ROMANZO FAMILIARE" EDIPICO DELLA CULTURA CATTOLICO-ROMANA.
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica -
L’EUROPA IN CAMMINO - SULLA STRADA DI GOETHE O DI ENZO PACI (“NICODEMO O DELLA NASCITA”, 1944) ?!
Federico La Sala
Scenari.
La società del virus tra Stato di polizia e isteria della sopravvivenza
In Asia e soprattutto in Cina la lotta al Covid-19 passa per il controllo totale dei singoli attraverso il digitale. Una biopolitica digitale che va di pari passo con una psicopolitica digitale
di Byung-Chul Han (Avvenire, martedì 7 aprile 2020)
.***Nato a Seul e docente di Filosofia e Studi Culturali alla Universität der Künste di Berlino, Byung-Chul Han è considerato uno dei più importanti filosofi contemporanei. Di recente Nottetempo ha pubblicato la nuova edizione di uno dei suioi saggi più noti, Eros in agonia (pagine 96, euro 13,00).
Covid-19 è un test di sistema. Pare che l’Asia stia gestendo l’epidemia molto meglio dell’Europa. A Hong Kong, Taiwan e Singapore ci sono pochissimi contagiati. Taiwan ne dichiara 215, Hong Kong 386, il Giappone 1.193. In Italia invece si sono già infettate oltre centomila persone in un arco di tempo molto inferiore. Anche la Corea del Sud si è lasciata il peggio alle spalle. Idem per il Giappone. Persino il paese da cui si è originata l’epidemia, la Cina, sta tenendo la situazione sotto controllo. Né Taiwan né la Corea hanno vietato di uscire di casa o chiuso negozi e ristoranti.
Nel frattempo è iniziato l’esodo degli asiatici dall’Europa e dagli Stati Uniti. I cinesi e i coreani vogliono tornare in patria perché là si sentono più sicuri. I prezzi dei voli sono schizzati alle stelle. È ormai impossibile trovare un biglietto aereo per la Cina o la Corea del Sud. L’Europa incespica. I numeri dell’infezione aumentano esponenzialmente. Sembra che l’Europa non riesca a controllare l’epidemia. In Italia muoiono ogni giorno centinaia di persone. I pazienti più anziani vengono staccati dai respiratori per aiutare i più giovani. Si osserva inoltre un vuoto azionismo. La chiusura delle frontiere è ormai un’espressione disperata di sovranità. È come essere tornati all’epoca della sovranità. Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione. Sovrano è chi chiude le frontiere.
Si tratta tuttavia di un vacuo spettacolo di sovranità che non risolve nulla. Un’intensa collaborazione all’interno della Ue sarebbe molto più utile della cieca chiusura dei confini. La Ue intanto ha proclamato un divieto d’ingresso per gli stranieri, gesto completamente insensato visto che nessuno, al momento, vuole venire in Europa. Sarebbe più logico, semmai, un divieto di espatrio degli europei per proteggere il mondo dall’Europa, che in questo preciso momento è il fulcro dell’epidemia.
L’Asia sotto stretta sorveglianza
Di quali vantaggi sistemici dispone l’Asia rispetto all’Europa, tali da fare la differenza nella lotta all’epidemia? Contro il virus, i paesi asiatici fanno massiccio ricorso alla sorveglianza digitale. Credono cioè di trovare nei Big Data un enorme potenziale contro l’epidemia. Si potrebbe dire che in Asia le epidemie non vengono combattute solo da virologi o epidemiologi, ma anche e soprattutto da informatici e specialisti di Big Data. Un cambio di paradigma che l’Europa non ha ancora preso in considerazione. I Big Data salvano vite umane, direbbero a gran voce gli apologeti della sorveglianza digitale.
In Asia la coscienza critica nei confronti della sorveglianza digitale è pressoché inesistente. Della protezione dei dati non si parla quasi più, persino in paesi liberali come il Giappone o la Corea del Sud. Nessuno si oppone alla furiosa raccolta dati da parte delle autorità. La Cina nel frattempo ha introdotto un sistema di punteggio sociale impensabile per l’europeo medio, che consente una valutazione a tutto tondo dei cittadini. Ciascun individuo deve essere coerentemente valutato in base al proprio comportamento sociale. In Cina, nessun momento della quotidianità passa inosservato. Si controlla ogni clic, ogni acquisto, ogni contatto, ogni attività sui social. Chi passa col rosso, chi frequenta persone critiche nei confronti del regime o posta commenti critici sui social perde punti. E allora la vita può diventare davvero dura. Chi invece compra cibi sani via internet o legge giornali vicini al partito conquista punti. Chi dispone di un congruo punteggio ottiene un visto di viaggio o mutui a condizioni vantaggiose. Chi invece precipita sotto un certo livello rischia di perdere il lavoro.
In Cina questa sorveglianza sociale è resa possibile da un incessante scambio di dati tra i provider internet e di servizi mobili e le autorità. In pratica non vi è alcuna protezione dei dati personali. Il concetto di privacy non rientra nel vocabolario dei cinesi. In Cina ci sono duecento milioni di videocamere di sorveglianza, a volte dotate di efficientissimi dispositivi di riconoscimento facciale che captano persino i nei. Impossibile sfuggirvi. Queste videocamere animate dall’intelligenza artificiale sono in grado di osservare e valutare ciascun cittadino nei luoghi pubblici, nei negozi, per le strade, nelle stazioni e negli aeroporti. L’intera infrastruttura della sorveglianza digitale si sta ora rivelando molto efficace nell’arginare l’epidemia. Chi arriva alla stazione ferroviaria di Pechino viene automaticamente ripreso da una videocamera che misura la temperatura corporea. E in caso di valori allarmanti vengono informati via cellulare tutti coloro che hanno condiviso il vagone con quella persona. Del resto il sistema sa benissimo chi ha viaggiato insieme a chi.
Sui social si parla addirittura di droni impiegati a fini di sorveglianza della quarantena. Chi esce di nascosto viene intimato da un drone volante di tornare in casa. E magari il robot stampa anche una multa che svolazza sulla testa del malcapitato, chissà. Una situazione distopica per gli europei, che tuttavia in Cina non incontra alcuna resistenza. Non solo in Cina ma anche in altri stati asiatici come la Corea del Sud, Hong Kong, Singapore, Taiwan e il Giappone non vi è alcuna coscienza critica nei confronti della sorveglianza digitale o dei Big Data.
La digitalizzazione è una sorta di ebbrezza collettiva. C’è anche un motivo culturale. In Asia domina il collettivismo. Manca uno spiccato individualismo. E l’individualismo si differenzia dall’egoismo, che ovviamente abbonda anche in Asia. I Big Data sono in tutta evidenza più efficaci nella lotta al virus rispetto alla chiusura delle frontiere, ma in Europa, per via della protezione dei dati personali, un’analoga lotta al virus non è praticabile. I provider cinesi di servizi internet e mobili condividono i dati sensibili dei clienti con le autorità sanitarie e di pubblica sicurezza. Lo stato sa quindi dove mi trovo, chi incontro, cosa faccio e dove mi dirigo. In futuro anche la temperatura corporea, il peso, i valori glicemici ecc. saranno probabilmente controllati dallo stato. Una biopolitica digitale che va di pari passo con una psicopolitica digitale, influenzando emozioni e pensieri.
A Wuhan sono state formate migliaia di squadre di investigazione digitale che si mettono alla ricerca di potenziali contagiati solo sulla base di dati tecnologici. Solo grazie ai Big Data scoprono chi sono i potenziali infetti, chi continuare a osservare e chi va messo in quarantena. Anche in termini epidemiologici, il futuro è nelle mani della digitalizzazione. Forse dovremmo persino ridefinire la sovranità alla luce dell’epidemia. Sovrano è chi dispone dei dati.
L’Europa fa ancora affidamento su vecchi modelli di sovranità quando dichiara lo stato di emergenza o chiude le frontiere. Non solo in Cina, ma anche in altri stati asiatici vi è un impiego massiccio della sorveglianza digitale per arginare l’epidemia. In Taiwan o in Corea del Sud lo stato invia in contemporanea a tutti i cittadini un sms per rintracciare contatti o informare circa i luoghi e gli edifici frequentati da persone infette. Taiwan ha tempestivamente incrociato dati di diversa natura per rintracciare i contagiati sulla base degli spostamenti. In Corea, chi si avvicina a un edificio in cui si è trattenuta una persona contagiata riceve un avvertimento tramite una “corona app” che registra tutti i luoghi visitati dagli infetti.
Si fa poco caso alla protezione dei dati o alla privacy. In Corea del Sud le videocamere di sorveglianza sono installate in ogni edificio, a ogni piano, in ciascun ufficio o negozio. È praticamente impossibile muoversi in pubblico senza essere captati da una videocamera. Questo, insieme ai dati del telefonino, consente la ricostruzione integrale degli spostamenti di una persona contagiata. Dettagli che sono anche resi pubblici - con buona pace delle relazioni clandestine.
La risurrezione del nemico
Il panico nei confronti dell’epidemia di Covid-19 è smisurato. Nemmeno la spagnola, dalla letalità molto superiore, ebbe conseguenze così devastanti sull’economia. Qual è il motivo? Come mai il mondo reagisce così a un virus? Tutti parlano di guerra, di un nemico invisibile da sconfiggere. Abbiamo forse a che fare col RITORNO DEL NEMICO? L’influenza spagnola scoppiò durante la Prima guerra mondiale. A suo tempo erano tutti circondati da nemici. Nessuno avrebbe paragonato l’epidemia a una guerra o a un nemico. Ma oggi viviamo in una società molto diversa. Abbiamo vissuto a lungo senza un nemico. La Guerra Fredda è finita da un pezzo. Anche il terrorismo islamico è grossomodo scomparso all’orizzonte. Esattamente dieci anni fa, col saggio La società della stanchezza, ho sostenuto questa tesi: viviamo in un’epoca in cui non vale più il paradigma immunologico che scaturisce dalla negatività del nemico.
La società organizzata in chiave immunologica è contraddistinta, come ai tempi della Guerra Fredda, da confini e steccati che impediscono però la circolazione accelerata delle merci e del capitale. La globalizzazione abbatte tutte queste soglie immunologiche allo scopo di spianare la strada al capitale. Anche la promiscuità, la permissività generalizzata che oggi investe tutti gli ambiti della vita contribuisce ad abbattere la negatività dell’estraneo o del nemico. Oggigiorno i pericoli non emanano dalla negatività del nemico, bensì dall’eccesso di positività che si esprime in forma di sovrapprestazione, sovrapproduzione e sovracomunicazione. La negatività del nemico non appartiene alla nostra società sconfinatamente permissiva. La repressione perpetrata dagli altri cede il passo alla depressione, lo sfruttamento esterno all’autosfruttamento volontario e all’auto-ottimizzazione. Nella società della prestazione la guerra la si fa prima di tutto a se stessi.
Ora, d’improvviso, il virus irrompe in una società assai indebolita dal capitalismo globale. In reazione allo spavento, ecco che le soglie immunologiche vengono di nuovo alzate e si chiudono le frontiere. Il nemico è di nuovo tra noi. La guerra non la facciamo più con noi stessi, bensì contro un nemico invisibile che viene da fuori. Il panico sconfinato dinanzi al virus è una reazione immunitaria sociale, globale a un nuovo nemico. Una reazione immunitaria di rara intensità poiché abbiamo vissuto molto a lungo in una società senza nemici, in una società della positività. Ora il virus viene percepito come terrore permanente.
Vi è anche un ulteriore motivo per questo panico smodato. E ha di nuovo a che vedere con la digitalizzazione. La digitalizzazione smonta la realtà. La realtà la si esperisce tramite la resistenza, che può anche far male. La digitalizzazione, tutta la cultura del mi piace elimina la negatività della resistenza. E nell’epoca post-fattuale delle fake news o dei deep fake nasce un’apatia nei confronti della realtà. Ora il virus reale, quindi non informatico, scatena uno shock. La realtà, la resistenza, torna a farsi sentire nella forma di un virus ostile. La reazione di panico violenta ed esagerata va ricondotta a questo shock di realtà.
La società della sopravvivenza
Il timor panico dinanzi al virus rispecchia soprattutto la nostra società della sopravvivenza in cui tutte le energie vengono impiegate per allungare la vita. La preoccupazione per il viver bene cede il passo all’isteria della sopravvivenza. La società della sopravvivenza è peraltro avversa al piacere. La salute rappresenta il valore più alto. L’isteria del divieto di fumare è in fin dei conti isteria della sopravvivenza. La reazione di panico di fronte al virus svela questo fondamento esistenziale della nostra società. Se la sopravvivenza è minacciata, ecco che sacrifichiamo volontariamente tutto ciò che rende la vita degna di essere vissuta.
La strenua lotta per la sopravvivenza subisce ora un inasprimento virale. Ci pieghiamo allo stato di eccezione senza opporre resistenza. La limitazione dei diritti fondamentali viene accettata senza colpo ferire. L’intera società si trasforma in una quarantena, variante liberale del lager in cui imperversa la nuda vita. Oggi il campo di lavoro si chiama home office. È solo l’ideologia della salute e della sopravvivenza a distinguerlo dai campi di lavoro del passato.
Nel corso dell’epidemia virale, la società della sopravvivenza mostra un volto inumano. L’Altro è prima di tutto un potenziale portatore di virus da cui bisogna prendere le distanze. Vicinanza e contatto significano contagio. Il virus aggrava la solitudine e la depressione. I coreani chiamano “corona blue” la depressione provocata dall’attuale società della quarantena. Alla lotta per la sopravvivenza va invece contrapposta la preoccupazione per il viver bene. Altrimenti la vita dopo l’epidemia sarà ancora più orientata alla sopravvivenza. E allora finiremo per essere come il virus, questo non morto che si limita a moltiplicarsi, a sopravvivere senza vivere.
La reazione di panico dei mercati finanziari all’epidemia è inoltre espressione di un terrore che cova già dentro di loro. Gli estremi fenomeni di rigetto tipici dell’economia globale la rendono molto vulnerabile. Malgrado il costante aumento degli indici borsistici negli ultimi anni, la rischiosa politica monetaria delle banche ha prodotto una forma di panico represso che attende uno sfogo. Il virus è forse solo la goccia che fa traboccare il vaso. Il panico dei mercati finanziari mette in rilievo, più che la paura del virus, la paura di se stessi. Il crash avrebbe potuto verificarsi anche senza virus. Forse il virus è solo l’avvisaglia di un crash ancora più grande.
Ci sarà una rivoluzione virale?
Žižek sostiene che il virus stia assestando un colpo mortale al capitalismo, ed evoca un oscuro comunismo. Crede persino che il virus condurrà alla caduta del regime cinese. Žižek si sbaglia. Tutto questo non accadrà. Ora la Cina venderà anche il proprio stato di polizia digitale come modello di successo nella lotta all’epidemia. La Cina dimostrerà con rinnovato orgoglio la superiorità del proprio sistema. Dopo l’epidemia, il capitalismo proseguirà con foga ancora maggiore. E i turisti continueranno a calpestare a morte il pianeta.
Il virus non rallenta il capitalismo, lo trattiene soltanto. Ci troviamo in uno stato di sospensione nervosa. Il virus non può sostituire la ragione. Inoltre, è possibile che in occidente finiremo per beccarci anche lo stato di polizia digitale su modello cinese. Come ha sostenuto Naomi Klein, lo shock è un momento propizio per il consolidamento di un nuovo sistema di potere. Dall’installazione del neoliberismo sono spesso scaturite crisi che hanno prodotto degli shock. S’è visto in Corea del Sud e in Grecia. Dopo questo shock virale è auspicabile che l’Europa non metta in piedi un regime di sorveglianza digitale alla cinese. In quel caso lo stato di eccezione, come teme Giorgio Agamben, diventerebbe la norma. Il virus riuscirebbe nella missione che il terrorismo islamico non è riuscito a portare a termine.
Il virus non sconfiggerà il capitalismo. La rivoluzione virale non avrà luogo. Nessun virus può fare una rivoluzione. Il virus ci isola. Non produce nemmeno un forte senso di comunità. Ora ognuno è preoccupato per la propria sopravvivenza. La solidarietà di prendere le distanze gli uni dagli altri non è solidarietà. Non possiamo lasciare la rivoluzione al virus. Speriamo invece che dopo il virus arrivi una rivoluzione umana.
Tocca a NOI ESSERI UMANI dotati di BUONSENSO ripensare e limitare drasticamente il capitalismo distruttivo e anche la nostra devastante mobilità senza confini - per salvare noi stessi, il clima e il nostro bellissimo pianeta.
(© Byung-Chul Han - Traduzione di Simone Buttazzi)
Akihito
La rivoluzione silenziosa dell’Imperatore
di Yosuke Taki (Doppiozero, 28.05.2019 - senza foto)
In mezzo a un lunghissimo ponte storico durato 10 giorni di seguito, davvero inimmaginabile per un popolo di stacanovisti, il 30 aprile 2019 l’Imperatore Akihito ha abdicato e il giorno dopo il suo primogenito Naruhito è salito al trono. Con la successione degli Imperatori è cambiato dopo 30 anni anche il nome dell’era, da Heisei (平成) a Reiwa (令和). Ma cosa ha significato questa successione per il popolo giapponese? L’atmosfera nella società nipponica in quei giorni appariva più che euforica, non tanto per l’evento storico in sé, quanto piuttosto per gli innumerevoli annunci di saldi ed eventi commerciali ovunque si andasse, spinti dal capitalismo sfrenato, concentrato a sfruttare voracemente qualsiasi pretesto. E tutto questo mood festante sembrava francamente servisse solo a narcotizzare ancora una volta la coscienza del popolo giapponese che non si è mai domandato seriamente, da oltre 70 anni, sullo status problematico del loro Imperatore, definito dalla Costituzione “simbolo della nazione e dell’unità del popolo giapponese”. In cosa consiste questo status simbolico dell’Imperatore giapponese? Iniziata tre anni fa con un discorso alla rete televisiva nazionale, la faccenda dell’abdicazione in vita di Akihito, molto discussa tra gli specialisti, ma soprattutto aspramente criticata dai conservatori, ha dimostrato una volta di più quanto sia importante la rivoluzione silenziosa portata avanti da Akihito sul suo essere simbolico, ma anche la perfetta inettitudine del popolo giapponese a seguire questa sua innovazione storica.
Per comprendere la portata della rivoluzione di Akihito, proviamo a rivedere insieme cosa si intende esattamente con “Imperatore simbolico” secondo la Costituzione giapponese.
Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, gli USA, temendo che l’URSS potesse invadere il Giappone, decisero di mantenere in carica l’allora Imperatore Hirohito, occultando le testimonianze che potessero rivelare le sue responsabilità sul conflitto, per agevolare l’occupazione degli Alleati senza sconvolgere ulteriormente una popolazione già duramente colpita e insieme sfruttare a loro vantaggio la sua autorità carismatica.
Così nasce “l’Imperatore simbolico”, uno status prescritto dai primi otto articoli della nostra Costituzione. È davvero una pura anomalia che i primi articoli della costituzione di un paese democratico moderno non parlino del popolo in cui risiederebbe la sovranità, ma dello status e degli obblighi dell’Imperatore. Questi articoli vennero introdotti dagli americani allo scopo di preservare una certa sacralità dello status imperiale ereditario e allo stesso tempo di privarlo di ogni possibilità di agire ed esprimersi politicamente. Tutto per impedire il riarmo del Giappone (anche se in realtà anche noi abbiamo un esercito vero e proprio che si chiama Ji-ei-tai, letteralmente “Forza per l’autodifesa”, che in teoria non dovrebbe mai attuare la sua forza).
Così, a partire dal 1946, il Giappone ha un Imperatore che esiste, sostanzialmente, solo come “funzione istituzionale” e non come un vero essere umano a cui siano riconosciuti i diritti civili fondamentali alla pari di ogni altro cittadino. L’Imperatore giapponese non è iscritto all’anagrafe, in questo senso dunque non fa parte della popolazione giapponese ufficiale. Non ha libertà di scegliersi un mestiere, dunque non può fare altro che l’imperatore né può smettere di essere Imperatore. Non può sposarsi senza l’approvazione del governo. Ha il compito di ratificare il governo, nominare i ministri, convocare le Camere, sciogliere la Camera bassa, ecc., ma senza alcuna possibilità di obiettare o di opporsi. In sostanza è un puro esecutore di compiti statali, un “timbratore”, non è considerato come un vero e proprio soggetto pensante che possa agire con la propria testa e il proprio corpo. Per gli americani, all’epoca, come confidò il brigadiere generale Bonner Fellers che in Giappone aveva il compito di proteggere Hirohito da un’eventuale incriminazione per il ruolo svolto durante la guerra, non importava niente di come sarebbe stato il futuro del sistema imperiale giapponese: agli USA bastava superare quel momento delicato, anche se la soluzione adottata avesse lasciato un’eredità molto problematica. In uno stato moderno e democratico non dovrebbe esserci una persona del tutto priva di diritti fondamentali. Invece da noi lo sancisce addirittura la Costituzione.
In realtà, lo sfruttamento politico dell’Imperatore come “funzione istituzionale” non è un’invenzione americana dell’ultimo dopoguerra. Sin dall’avvento del Giappone moderno, cioè quando, alla fine dell’era dei samurai nella seconda metà dell’Ottocento i nuovi leader politici riesumarono il giovane Imperatore Meiji (Imperatore dal 1867 al 1912) e lo imposero come capo carismatico, la strumentalizzazione politica del suo status ammantato di sacralità era iniziata.
Pochi sanno però che l’aura sacra dell’Imperatore, che sembra oggi risalire a un’epoca antichissima, è invece un prodotto di fine Ottocento a cui contribuì in modo significativo anche Edoardo Chiossone, pittore e incisore genovese all’epoca ingaggiato dalla zecca giapponese: fu lui infatti a disegnare il ritratto dell’Imperatore Meiji che poi venne riprodotto fotograficamente e diffuso in tutto il paese spacciandolo per fotoritratto. Questa finta fotografia, passata alla storia come go-shin-ei (御真影:letteralmente “figura vera”) eserciterà un’enorme influenza quasi magica sulla psiche dei giapponesi.
Per tornare all’ultimo dopoguerra, possiamo dire che gli americani hanno solo sfruttato appieno un aspetto del sistema imperiale giapponese preesistente. Ed è questa l’essenza dell’Imperatore simbolico che esiste solo come funzione istituzionale. La sua “persona” non è umanamente considerata dalla Costituzione. Se il sistema è durato fino a oggi, si deve unicamente al fatto che nessuno dei quattro Imperatori moderni (Meiji, Taisho, Showa e Heisei) ha mai protestato (anche se probabilmente non avrebbero potuto). In altre parole, sono “ostaggi” o meglio “prigionieri” istituzionali pubblicamente accettati. L’effetto narcotizzante del loro status carismatico (seppure ormai sensibilmente ridotto) occulta indubbiamente tutto questo agli occhi della gente, ma si può capire perché l’Imperatrice Masako, consorte del nuovo Imperatore Naruhito, una ex diplomatica di carriera, appaia sempre così triste. Non è difficile immaginare come una persona che entri adulta in quell’ambiente possa trovare insopportabile viverci. La cosa ancora più assurda, però, è che da sempre e ancora oggi, quando la famiglia imperiale si presenta al pubblico, la folla esclami “Viva l’Imperatore!” senza che la sorda sofferenza di quelle persone prive di diritti e di dignità passi mai per la mente di chi le osanna.
Torniamo al controverso discorso di Akihito. Tutta la faccenda ha avuto inizio quasi tre anni fa, quando l’8 agosto 2016, sul canale della televisione statale NHK, Akihito ha pronunciato l’ormai celebre “discorso imperiale sul suo ruolo simbolico”, che molti media hanno sbrigativamente presentato come “annuncio dell’abdicazione”. In realtà “il discorso” non conteneva alcuna dichiarazione chiara dell’intento di abdicare, anche se la volontà di compiere quel passo era ampiamente allusa. Se Akihito avesse apertamente annunciato l’abdicazione, il “discorso” sarebbe sicuramente stato giudicato incostituzionale. La Costituzione prescrive infatti che la successione imperiale avvenga alla morte dell’Imperatore, e la possibilità per l’Imperatore in carica di fare commenti o obiezioni sul suo status non è prevista (ovvero è proibita) dalla Costituzione.
Questo “discorso” sfiorava abilmente il limite per non incorrere nel rischio di incostituzionalità, ma non ha mancato di scatenare molte polemiche. Al di là dell’incostituzionalità o meno dell’intervento televisivo di Akihito, ci sono state molte discussioni sulla questione dell’eventuale abdicazione in vita, non prevista dalla Costituzione (dimenticando che nella lunga storia del Giappone pre-moderno si contano addirittura 57 precedenti tra i 124 Imperatori nipponici prima di lui). I principali motivi di obiezione all’abdicazione in vita erano tre: 1. Dopo l’abdicazione, l’Imperatore abdicatario potrebbe esercitare influenze dannose sul suo successore. 2. Potrebbe verificarsi la situazione in cui l’Imperatore possa essere costretto ad abdicare contro la sua volontà. 3. Se l’Imperatore potesse liberamente abdicare, lo stesso atto di annunciare l’abdicazione potrebbe in futuro assumere significati politici importanti, eventualità non ammessa dalla Costituzione. Vale a dire: un futuro Imperatore potrebbe usare l’abdicazione per esprimere il suo dissenso contro la politica del governo.
Le stesse obiezioni erano già state sollevate oltre trent’anni fa, ma sono piene di contraddizioni. Quanto al punto 1, la Costituzione giapponese prevede in casi particolari la reggenza, e un eventuale Reggente non potrebbe forse esercitare “influenze dannose”? Il punto 2 paventa una situazione che vada contro la volontà dell’Imperatore, ma dimentica che attualmente la volontà dell’Imperatore non è affatto contemplata dalla Costituzione. Il punto 3 rivela proprio l’intrinseca contraddizione della carta costituzionale: che la Costituzione stessa costringa un individuo (l’Imperatore) a non esprimere mai la sua opinione.
Alla fine, si è deciso di istituire una “commissione di saggi” per elaborare una legge speciale (poi promulgata il 16 giugno del 2017) valida solo in questa circostanza, senza andare a modificare il Kōshitsu Tempan, il Codice della famiglia imperiale.
In realtà, il focus del “discorso” di Akihito non era posto sulla questione dell’abdicazione, ma su un altro argomento: la sua ricerca sul ruolo dell’Imperatore simbolico. Akihito sottolineava nel “discorso” quanto egli “abbia riflettuto quotidianamente sul suo ruolo da simbolo definito dalla Costituzione” e abbia sempre cercato di attuarlo nel migliore dei modi per “partecipare attivamente alla società” e “rispondere alle aspettative del popolo”, oltre al “suo dovere di salvaguardare la tradizione”. E in effetti Akihito da quando è salito al trono ha sempre fatto molto più di quanto prescriva per lui la Costituzione, ma facendo in modo che nemmeno gli ultraconservatori potessero criticarlo (anche se inizialmente non sono mancate critiche). Questo suo attivismo è stato davvero inedito, un passo davvero storico, mai mostrato dai suoi predecessori.
Akihito/La rivoluzione silenziosa dell’Imperatore
di Yosuke Taki (Doppiozero, 28.05.2019 - senza foto)
[...]
Ryuta Imafuku, un noto antropologo e saggista giapponese, ipotizza anche un altro fattore dietro la decisione di Akihito: i pesanti ricordi del periodo prima e dopo la morte del padre Hirohito. Dal ricovero di Hirohito in ospedale fino alla sua morte, a cavallo tra il 1988 e il 1989, c’è stato un lungo periodo di quasi quattro mesi molto particolare, durante il quale tutto il popolo giapponese sembrava trattenere il fiato di fronte al loro dio che si stava spegnendo. Senza che ci fosse una proibizione vera e propria, tutti si trattenevano dal fare qualcosa di festoso, o fastoso, o rumoroso. No emperor, no party. Nessuno si aspettava che potesse accadere un fenomeno sociale del genere nel Giappone moderno. A ripensarci ora, credo che si fosse creata quell’atmosfera perché il lutto per Hirohito, in realtà, non era un lutto per una persona reale, era il lutto per lo stesso sistema dell’Imperatore simbolico, e ciò rendeva molto complesso e oppressivo il clima nel Giappone di allora che sembrava non finire mai. Si dice che durante quei mesi abbiano tenuto artificialmente e inutilmente in vita Hirohito solo per far iniziare la nuova era nell’anno nuovo (ufficialmente è morto il 7 gennaio 1989).
Dopo la sua morte è iniziato il periodo di mogari, una specie di veglia funebre religiosa molto lunga, che è durato due mesi. Poi una serie di cerimonie funebri che si sono protratte per circa un anno. E nel frattempo bisognava procedere contemporaneamente con le cerimonie di insediamento al trono del nuovo Imperatore. Imafuku fa notare l’assurdità disumana delle esperienze davvero pesanti e dolorose che lo Stato imponeva ai familiari dell’Imperatore. Quell’occasione, più di altre, metteva in evidenza come l’Imperatore esistesse solo come istituzione nonostante egli fosse un essere umano vivente (o defunto). È facile ipotizzare che Akihito abbia sviluppato forti dubbi al riguardo e abbia voluto evitare ai suoi un’altra esperienza simile.
L’opinione pubblica che ha sostenuto la decisione di Akihito è stata mossa più emotivamente che razionalmente, e purtroppo temo che i cittadini non abbiano riflettuto a sufficienza sul messaggio che Akihito ha voluto lanciare con il suo “discorso”. I giapponesi si sono tuffati nell’euforia consumistica senza rispondere all’invito di Akihito di riflettere insieme. Invece i politici conservatori che hanno un’idea reazionaria dell’istituzione imperiale, come il premier Abe, hanno cercato di arginare questo Imperatore troppo liberale per i loro gusti cercando di intervenire in qualche modo sul testo del “discorso” e di strumentalizzare l’occasione del kaigen (改元, il cambio di era) solo per aumentare il loro prestigio.
La nuova era si chiama Reiwa (令和). Rei (令) significa “bella”, “raffinata”, ma nel senso di “in ordine”, “senza sbavatura”. Wa (和) significa “armonia”, “concordia”, “pace”. Il significato in sé sembra anche bello. La commissione che aveva il compito di proporre il nome della nuova era ha scelto tra le varie proposte queste due parole prese da una poesia del Man’yōshū, la più antica antologia di poesie giapponesi risalente alla seconda metà dell’VIII secolo, che racchiude oltre 4000 componimenti di autori appartenenti a tutte le categorie sociali, a cominciare da vari imperatori e nobili ma anche contadini, soldati, artigiani e monaci. Ma citare un classico giapponese per il nuovo gengō (元号: il nome dell’era) è una novità assoluta nella storia del Giappone. Fino all’era precedente Heisei (平成), tutti i gengō del passato hanno avuto origine nei classici cinesi. Quindi è una chiara discontinuità rispetto alla tradizione, una direzione voluta dal governo. Il sociologo Shinji Miyadai ci legge un meschino tentativo sovranista del governo attuale che vuole diminuire dal nostro vocabolario le tracce della Cina, un vicino diventato troppo scomodo. Peccato che storicamente la nostra civiltà sia così strettamente fusa e connessa con quella cinese, a cominciare dagli ideogrammi - come gli stessi Rei (令) e Wa (和) - che non è pensabile immaginare una civiltà giapponese senza radici cinesi.
Nella faccenda del kaigen, il governo di Abe ha fatto di tutto per dimostrare di essere lui il suo autore. Anche alla sua presentazione (1° aprile 2019) Abe ha continuato a comportarsi come se il gengō fosse una sua proprietà, presentandosi personalmente davanti alla nazione per spiegarne origine e significato secondo quanto illustrato qui sopra. È stato un gesto molto arrogante e una chiara invasione di campo rispetto all’Imperatore che con il gengō avrebbe un legame più forte. Abe ha esercitato il suo protagonismo anche alla cerimonia dell’insediamento al trono di Naruhito (1° maggio), rivolgendosi all’Imperatore in nome del popolo.
Sotto la superficie dell’acqua della Storia, si stavano consumando invisibili battaglie tra la famiglia imperiale e il governo conservatore. Detto così può sembrare contraddittorio, ma è la realtà. Il pomo della discordia è il nono articolo della Costituzione che “bandisce la guerra come mezzo per risolvere le controversie internazionali che coinvolgono lo Stato”. Akihito, come dimostrano tutte le sue azioni, vuole assolutamente salvaguardare quest’articolo, mentre Abe non vede l’ora di cancellarlo. Forse Akihito ha ritenuto che la sua abdicazione e la salita al trono di Naruhito potessero offrire una grande occasione, davanti all’intera nazione, dove il nuovo l’Imperatore giura di “pregare per la pace”. Il che avrebbe, se pur momentaneamente, allontanato il disegno della riforma costituzionale sperata da Abe. Anche questo può essere stato uno dei motivi della scelta di Akihito.
Ora staremo a vedere quale sarà la statura del nuovo Imperatore, se riuscirà a proseguire le orme del padre oppure sarà costretto a fare marcia indietro. Pur essendo solo un “simbolo” privo di possibilità di esprimersi politicamente, l’atteggiamento che assumerà Naruhito avrà un peso non indifferente sulla sorte della nostra nazione. Perché la società nipponica dovrà prima o poi fare i conti con forti contraddizioni rimaste intorno al suo status simbolico.
Morto Mario Perniola, il filosofo del super-estetico
Da Il sex appeal dell’inorganico a Facebook come cimitero
di Francesco Gallo *
Con Mario Perniola, morto alle quattro di stamani nella sua casa romana, se ne va uno dei più grandi filosofi contemporanei italiani che ha dedicato tutta la sua vita all’estetica, o meglio al super-estetico, e alla cultura del post moderno (da lui non troppo amata). Insomma un pensatore trasgressivo, e non marxista, aperto alla cultura francese come a nuovi territori di indagine che lo rendevano un filosofo volutamente e orgogliosamente non accademico.
Nato a Asti il 20 maggio del 1941, Perniola aveva appena pubblicato con Bompiani ’Estetica italiana contemporanea. Trentadue autori che hanno fatto la storia degli ultimi cinquant’anni’, in cui mostrava come l’estetica "abbia giocato un ruolo essenziale nell’autorappresentazione della società borghese, al punto da costituirne l’inconscio politico". Ma aveva già smosso il panorama culturale italiano con libri eterogenei come ’Il Sex appeal dell’inorganico’ pubblicato da Einaudi nel 2004. In questo libro metteva in luce come rock, fantascienza, realtà virtuale, droga, cyberpunk e splatterpunk, installazioni artistiche e metaletteratura, performance sportive e teatrali siano ormai parte di una stessa cultura. Una cosa che ha determinato il passaggio da una sessualità organica, fondata sulla naturale differenza dei sessi, a una sessualità neutra, inorganica, artificiale, quasi estranea rispetto a bellezza, età e alle forme.
In un altro suo lavoro fondamentale ’L’arte espansa’. (Mimesis 2015) teorizzava appunto l’ampliamento dei confini dell’arte.
Qualunque cosa insomma può essere trasformata in ’’arte’’, consapevolmente o meno, sempre se ci sia la giusta autorevolezza nel farlo, come nel caso degli objet trouvé di Marcel Duchamp. Ordinario di estetica all’Università degli studi di Roma "Tor Vergata", aveva diretto il Centro di Studio e di Documentazione "Linguaggio e pensiero" e la rivista di studi culturali e di estetica Agalma, Rivista di studi culturali e di estetica che ha iniziato le pubblicazioni nel 2000.
Dal 1966 al 1969 era entrato in contatto col movimento d’avanguardia "Internazionale Situazionista", fondato da Guy Debord. E, sempre nel 1966, aveva partecipato a una delle prime manifestazioni della contestazione studentesca in Europa e assistito al Convegno "Le Surréalisme" (Centre culturel international de Cerisy-la-Salle, 10-18 luglio 1966).
Grande il suo interesse per i mezzi di comunicazione di massa fin dal 1968. Tra i libri dedicati a questo tema, ’Miracoli e traumi della comunicazione’ (2009) dove si individuano quattro eventi mediatici che hanno segnato la fine del secolo e l’avvento del nuovo millennio. Ovvero la rivolta degli studenti nel 1968, la rivoluzione iraniana del 1979, la caduta del Muro di Berlino nel 1989, e, infine, l’attacco alle Torri gemelle a New York l’11 settembre 2001. Tutti fatti che hanno messo in crisi la differenza tra reale e impossibile.
Tra i suoi ultimi interventi quelli dedicati ai social network. ’’Negli ultimi anni - diceva in un’intervista a l’Espresso del 2016 - c’è stato un vero e proprio boom di anziani che si sono iscritti a Facebook, il loro numero cresce esponenzialmente e quindi, come dire, è abbastanza naturale che il tema della morte sia diventato più presente, più diffuso. A questa considerazione si aggiunge la possibilità che Facebook offre di trasformare gli account dei morti in memoriali a loro dedicati’’ e il pericolo, sottolineava, che si trasformi in ’’un cimitero ecumenico e globale’’. Perniola è stato anche autore del romanzo Tiresia (1968) e del libro di racconti Del terrorismo come una delle belle arti (2016).
Vattimo, 9 gennaio 2018, parla della morte di Mario Perniola *
Mario Perniola, scomparso prematuramente il 9 gennaio (era nato ad Asti nel 1941).
Ho letto recentemente che il nostro pensiero era in contrapposizione, ma non è così.
Ha costituito una voce estremamente significativa e suggestiva della filosofia italiana degli ultimi decenni. Forse il solo intellettuale italiano capace di misurarsi con le tematiche filosofiche e socio culturali sviluppate negli stessi anni nella cultura francese, a cui Perniola è stato sempre prevalentemente legato.
Cultore dell’eredità di Bataille, del situazionismo, e specialmente vicino agli studi di Jean Baudrillard, ha portato nella sua considerazione della cultura e della società attuale gli elementi più vivi di queste varie eredità.
Fondatore e direttore di numerose riviste, tra cui l’ultima è stata Agalma, ha sempre rifiutato una pratica filosofica troppo attenta all’attualità; e tuttavia la sua passione teorica lo ha condotto a cercare di comprendere e analizzare aspetti anche estremi della condizione umana presente.
Poco tenero con la tematica del post-modernismo, vi ha tuttavia recato contribuiti originali, come per esempio con il libro “Il sex appeal dell’inorganico”.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Cultura. Sessualità, etica, psicoanalisi ...
"PERVERSIONI" di Sergio Benvenuto. UN CORAGGIOSO PASSO AL DI LA’ DELL’EDIPO - di Federico La Sala
La mente estatica e l’accoglienza astuta degli apprendisti stregoni. Una nota sul sex-appeal dell’inorganico di Mario Perniola.
Se l’inconscio è made in Cina
di Luciana Sica (la Repubblica, 15 settembre 2013)
Dice molto della stoffa dell’autore, delle sue escursioni intellettuali nel segno di un rigore sempre coniugato all’originalità, quest’ultimo libro di Christopher Bollas pieno di suggestioni così diverse, di digressioni dal sapore spesso personale, che certo si presenta anche come una singolare ricognizione di natura letteraria e filosofica su “La mente orientale” (è “China on the Mind” il titolo originale).
Non è però un sinologo Bollas, che a dicembre festeggerà settant’anni, ma una delle teste più brillanti della psicoanalisi contemporanea, un battitore libero che mai si è lasciato chiudere nei recinti di una certa psicoanalisi autocompiaciuta e ripetitiva. La riflessione anche eccentrica sull’Oriente che interessa Bollas - e vistosamente lo coinvolge su un piano non solo intellettuale - si basa su un’ipotesi ardita, ma non azzardata, strettamente correlata alla tradizione psicoanalitica britannica da cui senz’altro l’autore deriva senza esserne rimasto prigioniero. Non a caso sono soprattutto due i grandi nomi che ricorrono nelle pagine di questo libro: Donald Winnicott e il suo geniale e controverso allievo Masud Khan.
La tesi di fondo di Bollas è che la psicoanalisi ha operato una integrazione inconscia tra la struttura della mente orientale e quella occidentale. Il silenzio intenso dell’“ordine materno”, quel “conosciuto non pensato” che rimanda a un Sé preedipico fondamentale per la psicoanalisi, rappresenta la stessa modalità orientale di essere e di relazionarsi, non basata sulla “autorappresentazione” del linguaggio, ma piuttosto sulla “autopresentazione”: sull’essere e sulla forma come modalità di comunicazione. Quell’“ordine materno”, per quanto rimosso a favore di un “ordine paterno” decisamente più affidato al mondo simbolico del linguaggio, è il regalo che l’Oriente ha fatto alla psicoanalisi, non inventata ma trovata da Freud. Soprattutto la poesia, dove la forma prevale sul contenuto, fa da sfondo alla tesi di Bollas secondo cui «il processo analitico ha una sua poetica della forma che si collega al modo di essere orientale».
Leggendo queste pagine e tentando di riassumerle senza tradire il pensiero di un autore che già negli anni Ottanta ha scritto libri folgoranti come L’ombra dell’oggetto e Forze del destino (usciti in Italia da Borla),si comprende anche come Bollas sia sempre stato allergico alle pigrizie culturali e alle ritualità politiche di un certo establishment. Non ha mai amato le istituzioni psicoanalitiche e naturalmente non ne è stato particolarmente riamato. Da noi ci sono analisti che lo conoscono e lo ammirano (come Vincenzo Bonaminio, che ha curato Il momento freudiano, Franco Angeli), ma il più delle volte Bollas viene citato qua e là, senza che gli venga riconosciuto il suo ruolo che è invece indiscutibilmente quello di un fuoriclasse.
Eppure è stato un analista a volte idolatrato come André Green, l’allievo di Lacan scomparso all’inizio dello scorso anno, a dire di Bollas: «È uno psicoanalista, ma non scrive come uno psicoanalista, cioè evita miracolosamente di essere noioso, pedante, dogmatico. Non è sufficiente dire che è umano perché la sua sensibilità non è solo commovente, ma riflessiva. Non solo la sua scrittura è vivace e brillante, è anche profonda. Le persone di cui scrive - le persone, non i pazienti - non solo sono come noi, ma sembrano quasi la nostra ombra...».
È vero: Bollas scrive in modo magnifico, a tratti può ricordare Hillman, e non a caso è anche l’autore di tre romanzi psicoanalitici di un certo successo: il terzo uscirà da noi all’inizio del prossimo anno con il titolo Scompiglio, da Antigone. Di tempo per scrivere ne avrà ancora Bollas, ora che vive prevalentemente in un casolare di campagna in California e anzi fa sapere con tutta tranquillità che ormai lui l’analisi la fa solo al telefono o via Skype. C’è chi se lo può permettere.
Le “geografie della psicoanalisi”
sabato alla Luiss
la Repubblica, 01.10.2015
ROMA. Si intitola Geografie della psicoanalisi (Psychoanalysis in the world - Crosses between cultures) il convegno che si terrà sabato 3 ottobre a Roma, nell’Aula Chiesa dell’Università Luiss “Guido Carli”, in Viale Romania.
Un incontro che intende affrontare la problematica delle interconnessioni tra la psicoanalisi e le varie culture del mondo. Tra i temi della discussione, il modo in cui culture lontane - Asia, paesi arabi e dell’Est Europa - rispetto a quella occidentale dove la psicoanalisi è nata e si è sviluppata possano portare nuovi apporti alla disciplina. E se, tramite le loro specifiche mitologie, siano in grado di dare una nuova e diversa visione dell’uomo proposta finora dalla psicoanalisi.
Ci si interrogherà, poi, sul fatto se ci siano o meno dei principi universali sui quali si basa la visione della mente che la psicoanalisi propone. La partecipazione è gratuita e aperta a tutti.
TENDENZE
Giappone, largo agli uomini "erbivori"
Cambia il modello maschile nel Sol Levante: addio samurai, seduttori e impiegati modello, si fa largo una generazione di uomini che coltiva anche il proprio lato femminile
di Fabiola Palmeri
Niente a che fare con i samurai, né col mito degli impiegati modello dediti all’azienda. Ora in Giappone fanno tendenza gli “Erbivori”, o Soshokukei danshi: i ragazzi giapponesi under 30 che stanno lentamente rivoluzionando l’universo maschile. Perché loro sono teneri con le proprie mamme e vanno con loro a fare shopping, stanno molto attenti ai prezzi, sono decisamente poco interessati alla carriera lavorativa e pur non disdegnando la compagnia femminile non sono particolarmente interessati né al sesso né ai fidanzamenti. E visto che in lingua nipponica sesso vuol dire "relazione di carne”, si spiega il nome Erbivori.
Guarda: Le immagini
La definizione è di Maki Fukasawa, scrittrice che per prima, nel 2007, cominciò a scrivere del fenomeno. Poi l’anno successivo la presidente dell’agenzia di ricerca Infinity, Megumi Ishikubo, pubblicò nel 2008 "Gli uomini erbivori che assomigliano alle donne stanno per cambiare il Giappone": un libro con interviste a circa 100 giovani uomini fra i 20 e i 30 anni. In un articolo apparso sul Japan Times, la Ishikubo spiega che molti dei ragazzi da lei incontrati confessano che non uscirebbero mai di casa senza un look perfetto e che la propria autostima cresce quando si sentono carini. Inoltre affermano di non inseguire il sogno di un impiego a vita e che preferiscono guadagnare di meno piuttosto che essere costretti ad orari e ritmi di lavoro stressanti.
Un netto cambiamento generazionale dei maschi nipponici? Sembra proprio di sì. Secondo quella ricerca il 60% degli uomini fra i 20 ed i 34 anni appartiene in qualche modo alla categoria Soshokukei. E, riflettendoci, la cosa non è poi così strana. In fondo dalla fine della seconda guerra mondiale il Giappone ha potuto godere di 60 anni di pace, non ha quasi un esercito, niente servizio di leva obbligatori, e il tasso di omicidi commessi da giovani uomini è il più basso del mondo.
Secondo Masahiro Morioka, professore di filosofia all’Università di Osaka, in Giappone l’ideale di maschio violento e forte, tipico ad esempio dei soldati, non ha riscontro e gli uomini sono cresciuti liberi da tali limiti di genere. C’è poi un’altra interessante spiegazione alla tendenza erbivora, che si lega alla tradizione. Già nell’epoca Edo (1603-187), quando per 260 anni durò la pace sotto lo shogunato di Tokugawa, l’androginia era di moda. A teatro giovani uomini interpretavano i ruoli femminili e le donne quelli maschili. Nelle stampe erotiche Shunga si dipingevano uomini vestiti con kimono magnifici e truccati proprio come le loro compagne di giochi, tanto che è molto difficile distinguerli.
Tornando a oggi, c’è da dire che in molti blog femminili è palpabile la preoccupazione per questa evoluzione del mondo maschile. Tante donne si lamentano perché gli erbivori sono sì molto belli, delicati, dolci, gentili ma non hanno corpi virili, non prendono decisioni e hanno pochissimo denaro.
A pesare sul tracollo dei liberaldemocratici la crisi economica e l’occupazione ai minimi storici
Il futuro premier Hatoyama convoca un vertice per preparare il nuovo Governo
Giappone, dalle urne svolta storica
Vincono i democratici, Aso si dimette *
TOKYO - I democratici giapponesi (Minshuto) spediscono i liberaldemocratici (Jiminto) all’opposizione dopo 54 anni di potere quasi ininterrotto. E’ quanto indicano gli exit poll della tv pubblica incoronando come uomo della svolta Yukio Hatoyama, ex membro del Jiminto, figlio dell’establishment nipponico che fondò il Partito democratico proprio per scalzare i suoi ex colleghi. L’attuale premier Taro Aso si dimette: "E’ colpa mia".
Gli exit poll. La televisione nazionale giapponese e il sito internet del quotidiano Yomiuri Shinbun hanno pubblicato le stime subito dopo la chiusura delle urne alle 20 locali (ore 13 in italia): il Partito democratico, nato 11 anni fa dalla confluenza di diverse anime politiche, dovrebbe ottenere oltre 300 seggi sui 480 in palio. Hatoyama, secondo la prassi che vuole il leader del partito di maggioranza diventare premier, dovrebbe formare un nuovo governo in coalizione con altre piccole formazioni: il Partito socialdemocratico (tra i 4 e i 15 seggi), il Nuovo partito del popolo (3-6) e i comunisti (7-18). La maggioranza potrebbe quindi contare su un blocco di 302-350 seggi sui 480.
Una svolta storica. Il risultato, ampiamente previsto dai sondaggi delle scorse settimane, rende per la prima volta il Jiminto partito di minoranza: la continuità al Governo era già stata interrotta nel 1993-94 per 11 mesi da una coalizione coagulatasi attorno a Morihiro Hosokawa, ma i liberaldemocratici erano comunque usciti dalle urne come il partito di maggioranza relativa. Taro Aso, il leader del Kiminto e primo ministro ha cercato fino agli ultimi appelli elettorali di attribuire al suo Governo, in coalizione col partito neobuddista Komeito, una politica economica che avrebbe portato a una ripresa nel secondo trimestre dell’anno. Non è bastato ad annullare un’immagine negativa che ha spinto i livelli di consenso al suo esecutivo attorno al 20 per cento nei sondaggi degli ultimi mesi. Tra l’altro, la diffusione del dato sulla disoccupazione di luglio, al record storico negativo (5,7%), sembra aver pesato fortemente sugli orientamenti elettorali.
Le dimissioni di Taro Aso. Il segretario generale Hiroyuki Hosoda, ha annunciato le dimissioni sue e dell’intera segreteria. A stretto giro di posta sono arrivate anche le dimissioni di Taro Aso, il premier amante dei "manga": "Il risultato è molto severo e credo che dobbiamo riflettere su questo per avere una nuova partenza. Per parte mia, mi prendo la responsabilità della sconfitta". Aso, considerato un falco per le nette posizioni conservatrici e nazionaliste, è discendente di una grande dinastia imprenditoriale del Kyushu, nell’estremità meridionale dell’arcipelago. Primo premier di fede cattolica, è nipote del primo ministro Shigeru Yoshida, il padre del Giappone del dopoguerra: una parentela pesante e importante che, secondo alcuni, è stata la ragione stessa della sua presenza nella Dieta, partita nel 1979 con l’elezione alla Camera bassa. Più che per i successi politici, Aso è diventato popolare per le dichiarazioni controverse che gli sono valse la fama di incorreggibile gaffeur: molti i commenti di tipo razziale (il Giappone è "Paese di una sola razza, di una sola lingua, di una sola cultura"), sociale (si è fatto beffa dei problemi di memoria citando i malati di Alzheimer) e, soprattutto, diplomatico, come quando ha definito la Cina una "minaccia". Negli ultimi giorni della legislatura, sopravvissuto agli attacchi frontali di illustri compagni di partito che chiedevano la sua testa, Aso ha giocato a sorpresa la carta dell’umiltà, scusandosi con la nazione per gli insuccessi del suo Governo e chiedendo un’altra chance. Un appello risultato inutile visto come si è espresso l’elettorato nipponico.
Il nuovo Governo. Yukio Hatoyama ha già convocato per domani un vertice di maggioranza per la formazione di un nuovo Governo e ha ringraziato pubblicamente i suoi elettori, parlando di "voto di cambiamento". Il suo programma prevede infatti una serie sostanziosa di aiuti alle famiglie, ai precari e alle piccole e medie imprese, con l’idea di far ripartire la domanda interna. In politica estera Hatoyama, pur ribadendo la centralità dell’alleanza strategica con gli Stati Uniti, ha promesso un ruolo più incisivo nell’Asia orientale e un rapporto più disteso con la Cina.
L’ingegnere del cambiamento. Sessantadue anni, Yukio Hatoyama è il classico esponente dell’establishement "dinastico" della politica nipponica, membro di una famiglia spesso definita i Kennedy del Giappone. Nipote di un ex presidente, figlio di un ex ministro degli Esteri e fratello dell’ex titolare della Giustizia, anche lui viene dalle file del Jiminto. L’ha lasciato nel 1993 per fondare il Partito democratico. Il futuro premier del giappone è un ingegnere laureato all’università di Tokyo e specializzatosi a Stanford, negli Usa. E’ al suo sesto mandato parlamentare ed è nipote, da parte di madre, del fondatore della multinazionale del pneumatico Bridgestone. Un esponente, insomma, dell’élite politica ed economica dell’arcipelago. Cosa che però non gli impedisce di farsi paladino di una politica che promette di aggredire il monopolio della burocrazia e ridurre gli sprechi per sostenere il reddito delle famiglie. La moglie si chiama Miyuki ed è un’ex attrice nata a Shanghai quando la città cinese era occupata dai giapponesi. Si dice che proprio la consorte spinga il futuro premier a guardare di buon occhio un rapporto più stretto con Pechino. E’ comunque certo che romperà la tradizione di "first lady" invisibile tipica delle mogli dei primi ministri nipponici.
* la Repubblica, 30 agosto 2009
I giovani giapponesi
Hikikomori e il mondo nascosto
Una generazione che rifiuta la luce del sole: vivono la notte, chiusi dentro casa, senza alcuna relazione sociale
di Massimo Ammaniti (la Repubblica, 05.03.2009)
Il giovane Jun a 18 anni fa il test di ammissione in una università ma non lo supera. Cerca di non scoraggiarsi, continua a studiare da solo, ma lentamente va alla deriva, fin quando si chiude nella sua stanza, dorme durante il giorno, di notte legge i testi di filosofia e guarda la televisione. Occasionalmente prende la sua mountain-bike e di notte scorrazza per le strade solitarie della città che dorme. E quando incontra qualcuno dei suoi vicini - racconta ancora Jun - si sente guardato con diffidenza e a volte con ostilità: è troppo diverso dagli altri ragazzi.
In un recente congresso sulla salute mentale in Giappone gli psichiatri hanno discusso la condizione degli hikikomori, i giovani giapponesi, come il giovane Jun, che rifiutano in modo drastico il mondo della scuola e le prospettive offerte dalla società degli adulti, rinchiudendosi nella loro stanza dove si costruiscono un mondo alternativo abitato esclusivamente da loro.
La condizione sociale degli hikikomori è molto diversa da quella dei ragazzi e delle ragazze che vivono in occidente, ed è difficilmente riconducibile a una diagnosi psichiatrica nonostante ne parlino soprattutto gli psichiatri, forse perché più attenti a queste forme di disagio sociale. Ancora una volta, come occidentali, ci troviamo disorientati nei confronti di questo fenomeno giapponese, anche perché le categorie psichiatriche di più frequente uso circoscrivono il malessere individuale, ma non possono trasferirsi ai comportamenti collettivi.
La storia emblematica dell’hikikomori Jun è raccontata dal giornalista americano Michael Zielenziger in un importante testo, Non voglio più vivere alla luce del sole (Elliot, pagg. 408, euro 22; sottotitolo, nell’originale "How Japan Created its own Lost Generation") che esplora il mondo nascosto degli hikikomori. Probabilmente l’occhio del ricercatore Zieleziger, che si occupa dei rapporti socio-economici fra occidente e oriente, può farci entrare in questo mondo senza tradurlo nella terminologia psichiatrica. Che sia una sindrome sociale è confermato dal numero di hikikomori: circa 850 mila giovani fra i 14 e i 30 anni che vivono praticamente rinchiusi in casa, a carico della famiglia, incapaci o determinati a non rientrare nel grande flusso sociale. Quando le pressioni della famiglia, della scuola o del mondo della produzione diventano troppo opprimenti e allo stesso tempo ci si sente vittime del conformismo e del rifiuto da parte degli altri, inizia il progressivo distacco dei giovani dal mondo. E infatti nelle storie di molti hikikomori ritorna frequentemente il senso di essere stati rifiutati dal gruppo e di non aver mai trovato nessuna comprensione da parte degli altri nei momenti di difficoltà.
È solo da poco che la società giapponese ha riconosciuto la difficile condizione dei giovani che rimangono ai margini della vita sociale. E anche nella letteratura si riflette il mondo degli hikikomori. Ad esempio nel romanzo La fine del mondo e il paese delle meraviglie (Einaudi), Murakami Haruki crea uno scenario che ricorda le stanze in cui si rinchiudono i giovani hikikomori, una piccola città spettrale, chiusa dentro le sue mura che la separano dal resto del paese, il mondo di qua e il mondo di là, due realtà parallele e distanti. E in questa città gli abitanti si aggirano senza la propria ombra, privi di ogni sentimento in una sorta di distacco che li mette al riparo dai sentimenti.
Anche in un altro libro di Murakami, Norwegian Wood (Einaudi), viene esplorato il mondo segreto dei sentimenti e della solitudine degli adolescenti giapponesi. Il protagonista Toru si sente diverso rispetto al mondo intorno a lui, continuamente tormentato dal dubbio di aver sbagliato o di poter sbagliare vincolato a un alto senso di giustizia personale. Toru, come era successo più di cinquanta anni prima al giovane Holden, va all’università di Tokyo per studiare, ma si sente estraneo ai compagni e all’ambiente del suo dormitorio.
Affetti da un’anoressia sociale gli hikikomori rifiutano le suggestioni e le promesse del mondo degli adulti e si costringono a vivere in modo monastico circondandoti dai gadget elettronici, con i quali continuano a comunicare col mondo esterno. In questo modo sfuggono alle pressioni della scuola e dell’università prima e del mondo del lavoro dopo, rimanendo fedeli a se stessi e alle proprie aspirazioni interiori.
Aspiranti suicidi. Ne parla Gustavo Charmet
Quelli che flirtano con la morte
di Luciana Sica (la Repubblica, 05.03.2009)
Radicale, lugubre, profondo, inconfessabile: Gustavo Pietropolli Charmet usa questi aggettivi per descrivere il dolore di un ragazzo che decide di togliersi la vita. Un dolore più diffuso di quanto s’immagini, se è vero che il sessanta per cento degli adolescenti "flirta" con l’idea della morte. Quasi sempre sono solo pensieri neri, ma possono diventare ossessivi e trasformarsi in "fantasie suicidarie", secondo la definizione tecnica: si coltivano a lungo e nel segreto più assoluto, si basano su sentimenti poco dicibili come la vergogna dovuta a un’inadeguatezza (reale o immaginaria) o anche la vendetta per qualche forma di risentimento che non lascia tregua.
Gustavo Charmet è uno studioso brillante, un clinico da sempre in trincea. Settant’anni, psichiatra di formazione freudiana, ha insegnato per una vita alla "Bicocca" ed è ancora attivissimo a Milano con i suoi giovanissimi pazienti, quelli che con disarmante semplicità definisce tristi, più rassegnati che nichilisti, spesso enigmatici se non indecifrabili per il mondo adulto. È lui il cantore della generazione senz’altro più mutante rispetto al passato, anche quello recentissimo: I nuovi adolescenti s’intitola il suo volume più importante uscito qualche anno fa da Cortina, e ora è lo stesso editore a pubblicare Uccidersi - sottotitolo "Il tentativo di suicidio in adolescenza" (pagg. 336, euro 24).
È un libro collettaneo che Charmet firma con un terapeuta di formazione filosofica, Antonio Piotti, tracciando il ritratto sorprendente di questi ragazzi a tratti anche spavaldi, in realtà spesso fragilissimi. È una raccolta di saggi che non nascono nel segno dell’astrattezza teorica, ma piuttosto dall’esperienza clinica in un Crisis Center milanese: è durata sette anni, ha interessato circa ottocento adolescenti reduci da un tentato suicidio e comunque attratti dal desiderio di distruggersi.
Il Centro ha una storia di per sé drammatica. Si chiama "L’amico Charly" e la denominazione sembra piuttosto leggera, ma Charly aveva appena sedici anni quando si è ucciso con un colpo di pistola. È stato poi suo padre a volere la nascita dell’associazione, per aiutare altri ragazzi in bilico tra la vita e la morte e per sostenere i loro genitori a volte del tutto ignari, spesso disperati, quasi sempre soli.
Il responsabile scientifico del Centro è stato Charmet, alla guida di un’équipe capace di contenere sentimenti del tutto legittimi come l’ansia o anche la paura. «Nessuno dei nostri giovani pazienti è mai morto», è lui a dirlo con sollievo e una punta d’orgoglio. E in effetti il risultato è straordinario: «Ci siamo ritrovati alle prese con ragazzi che tramavano in continuazione qualcosa di terribile come buttarsi dalla finestra, anche del nostro studio. O tornare a casa per annodarsi una corda al collo... Ci mettevano anche nelle condizioni di prevederlo e quindi nell’obbligo di indovinare come impedirlo, senza nessuna ricetta magica a portata di mano».
Ma come sono questi aspiranti suicidi? A leggere le pagine del libro: abbastanza "normali", quasi tutti, almeno all’apparenza. Non sembrano particolarmente sofferenti, depressi, sconfitti, solitari. Nella grande maggioranza dei casi non presentano sintomi. Il tentativo di considerarli malati, d’infilarli in una casella diagnostica della psichiatria, è destinato a fallire e comunque non spiega nulla della particolare relazione che questi giovanissimi coltivano con la morte.
Charmet: «Sono autorizzati a non dare nell’occhio perché sono dei clandestini all’interno della famiglia, della scuola, della coppia. I ragazzi che aspirano a togliersi la vita si consolano delle frustrazioni e tollerano molto bene le regole perché hanno già preso le loro decisioni. Se poi il progetto non viene attuato, non dipende dal mondo esterno, ma piuttosto dall’evoluzione di alcune complicatissime vicende interiori che chiamano in causa il processo di soggettivazione e il passaggio dalle forme estreme di immaturità narcisistica a modalità più mature».
Narcisismo è la parola chiave per capire quello che c’è dentro la testa di questi ragazzi privi di progetti vitali, orfani non tanto dell’infanzia quanto del futuro, un tempo che non promette niente di buono e in cui si annida la loro mancanza di speranza, quella sensazione allarmante che l’ex bambino prodigio tanto venerato non potrà trasformarsi in un ragazzo miracoloso destinato a essere un vincente. È la cultura ossessiva della celebrità ad avere un impatto devastante sul funzionamento mentale dei più giovani, a diventarne padrona incontrastata e pericolosissima.
"Campo edipico e campo narcisistico" s’intitola non a caso il primo capitolo firmato da Charmet e Piotti. Racconta i giovani di una volta, definiti appunto "edipici", provati dalla colpa, la rinuncia, il castigo. E quelli di oggi, sregolati, immersi in un sistema mediale che ha amplificato a dismisura l’obbligo alla fama e all’esibizione del godimento. «La società del narcisismo - dice ancora Charmet - indubbiamente favorisce la rincorsa spesso affannosa e rischiosa dei ragazzi verso la conquista a tutti i costi di livelli sempre più magici ed elevati di visibilità sociale».
Se il successo è l’unico valore di riferimento, non sentirsi all’altezza di un imperativo categorico così perentorio - per quanto mascherato in forme anche seduttive - diventa uno degli ingredienti del sentimento di vergogna sociale che attanaglia i ragazzi. La morte si presenta allora paradossalmente come una risorsa: una scorciatoia per rinunciare in partenza alla gara e anche un colpo magistrale per diventare famosi.
Frammenti di memoria dall’Oriente
Narrazioni in forma di diario o di fiction dai padiglioni asiatici della Biennale. Flussi cibernetici e giochi di prestigio fra allucinazione e tragedia
di Arianna Di Genova (il manifesto, 10.06.2007)
Se l’occidente è attanagliato da un claustrofobico senso di decadenza che lo spinge a raccontare frammenti di realtà, storie, favole, prima che sia troppo tardi, anche il grande mosaico dell’umanità asiatica non sceglie vie di fuga e si impegna nella medesima direzione. Così, in questa edizione della Biennale, costellata di umori necrofili (l’invasione di teschi) e imbevuta di sdoppiamenti di identità (gli specchi e i labirinti, strumenti privilegiati di rappresentazione da molti artisti presenti), il visitatore non può fare a meno di avvertire l’urgenza di una affabulazione che attraversa l’intero globo, da est a ovest e ritorno.
Narrare, spesso su un registro parallelo di parola e immagine, in forma diaristica oppure di fiction, sembra essere l’unica possibilità consentita a una comunità umana che, nel XXI secolo, vive sporgendosi sull’orlo del baratro. Gli artisti thailandesi lanciano il loro «memento mori». La globalizzazione macina vite e costringe a una progressiva sparizione della consapevolezza. Bisogna invertire la marcia e procedere lentamente. Gli abitanti del loro padiglione sono fantasmi che si confrontano con la natura effimera e immutabile della sabbia, dell’acqua, del nulla. Ogni elemento del mondo terreno «parla» se ascoltato. Non importa poi, se i brani esistenziali che si cuciono nel racconto sono una cronaca reale o virtuale.
Come accade alla cinese Cao Fei, la più giovane fra le quattro invitate da Hou Hanru a Venezia in rappresentanza del proprio paese. In un padiglione tutto al femminile, nato per creare un’alternativa alla modernizzazione cinese guidata da uno spirito maschile che si richiama a «velocità, linearità, razionalità», secondo quanto afferma il curatore, Fei sguinzaglia il suo cyber cittadino nei meandri della Second Life. Dentro un igloo gonfiabile, l’artista invita tutti a spogliarsi dell’identità quotidiana per immergersi nel flusso cibernetico di China Tracy, ragazza-ghost che attraversa il mondo vagabondando ventiquattro ore su ventiquattro.
Shen Yuan, classe 1959, invece, compie un solo, unico viaggio. Il primo, come specifica nel titolo della sua opera Le premier voyage, composta da enormi biberon, bavaglini e ciucci sparsi a terra. E sceglie di testimoniare quello dei bambini cinesi adottati in occidente. Trasferitasi ormai da anni a Parigi, Yuan vive sulla sua pelle lo sradicamento come sorgente creativa ma anche come smacco esistenziale: «Ho ragionato sul futuro di quei bambini. Probabilmente cresceranno in un ambiente confortevole ma dovranno sempre confrontarsi con la loro differenza etnica e culturale». Saranno persone integrate socialmente, professionisti, studenti, persone depresse o felici, ma mai individui profondamente liberi.
Sul conflitto fra occidente e oriente gioca con raffinatezza Huyngkoo Lee, nel padiglione della Corea. L’artista rivela di aver studiato in Usa e di aver vissuto il «complesso dell’uomo asiatico» dovuto alla statura e alla scarsa potenza del suo fisico rispetto a quello dei colleghi americani. Così, ha inventato un museo quasi fantascientifico con fossili di animali che ricordano i cartoon (Tom e Jerry) e mutazioni del corpo che, con ironia, ricostruiscono l’homo sapiens. Un set di pura finzione è allestito anche dalla taiwanese Huang Chen Tang nella mostra Atopia, ovvero non-luogo. L’artista prende cartoline turistiche dalla Francia, Corea o Taiwan e mette in posa gruppi di persone per rimodellare la stessa immagine. È un album di famiglia ambiguo, sospeso fra immaginario collettivo e individuale, una manipolazione della realtà. «La condizione umana - spiega l’artista - è un processo di costanti rivelazioni. Il mio lavoro non è qualcosa di nostalgico ma, soprattutto, è una allucinazione».
Fandonie, finzioni, fantasie è il titolo sotto il quale si racchiude la mostra del padiglione di Singapore: una dichiarazione di intenti. Il bersaglio è il concetto di Impero nella sua rigidità da abbattere qui attraverso assemblage di ex voto buddisti o esperienze sensoriali fuori dal tempo che mixano Venezia e Singapore, come ci induce a credere la campana dei suoni di Zulkifle Mahmod da «vivere» in relax su rossi velluti. Trucchi e illusionismo sono gli «espedienti» utilizzati da Hiran To (Hong Kong) per narrare le mutazioni della storia, in una specie di gioco di magia che continuamente spiazza la percezione, come i prestigiatori dello scorso secolo. Tutto appare e scompare, finisce imbrigliato in olografie che dissolvono e ricompongono. Anche la rivoluzione culturale di Mao viene irretita da quelle slot machine dell’immaginario.
A porsi tragicamente l’interrogativo se sia ancora possibile appellarsi alla memoria, è il giapponese Masao Okabe con il suo frottage ossessivo. Nel padiglione del Sol Levante presenta un’installazione poderosa: Okabe ha dedicato nove anni della sua vita per realizzare quattromila frottage nel tentativo di bloccare per sempre il quartiere Ujina, a Hiroshima, un luogo di smistamento delle merci e di emigrazione umana, infine colpito dalla bomba atomica. Con il suo speciale ricalco l’artista ha «ritratto» le pietre lungo il marciapiede della pensilina ferroviaria. Ora il quartiere non esiste più se non in quelle ombre prelevate per l’ultima volta.
Si perde di vista il fatto che, come in Occidente, la filosofia giapponese è divisa in moltissime correnti contrapposte tra loro. Ci sono nelle cattedre giapponesi degli eminenti seguaci di Popper, di Wittgenstein, di Klossowski, di Kripke, di Rorty e di Russell: ci sono egregi studiosi della logica aristotelica e dell’epistemologia della scienza e via dicendo, i quali non parlano mai di ’pensiero giapponese’ perché il tema fu esausto molti decenni fa, e finì sotto le ceneri della seconda guerra mondiale. Quel stile di ragionare fu (ed è ancora) totalizzante, in quanto attribuiva a tutti i membri di una etnia lo stesso modo di comportarsi, rapportarsi e pensare. Abbiamo (o no?) imparato la stessa lezione da queste parti. Chi mira a pensare è tenuto a non nascondere i lineamenti di un approccio individuale dietro il modo con cui si confronta con un concetto. Quando un pensiero va spacciato per ’collettivo’ ((orientale o occidentale che si voglia) non si può sapere mai di chi è la responsabilità, da che contesto storico deriva. Riprende perciò un carattere etnico-trascendentale che rifiuta la possibilità stessa di dialogo perché privo di storicità.
I pensatori scelti per il volume recensito rappresentano un piccolo cenacolo di postmodernisti, Nietscheanetti riciclati, che si sono formati studiando le varie scuole francesi (Lacan, Foucault, Derrida et cetera). Parlano della giapponesità perché fa audience, è l’unico tema che riesce a attrarre un pubblico al di là dei confini delle varie torri d’avorio in cui questi programmi di studio si elaborano.
In un’epoca neo-totalizzante come la nostra. in cui il potere non si appoggia più sulle mobilizazzioni di masse, ma prospera nella frammentarietà di esse, l’idea dell’individuo già sociale fin dalla nascita promossa dai seguaci di Watsuji, (chi alla sua volta fu leale inserviente dell’ideologia imperialista giapponese), riprende vita, spacciandosi per un concetto ’orientale’ quando nei fatti fu adattato da Hegel. Tutto questo però ricalca tematiche oramai vecchie. Se si rivuole che torni in voga Giovanni Gentile, sarebbe meglio ripristinare la sua dottrina direttamente dalle fonti locali, invece di cercare una sponda lontana da cui far ripartire, mutatis mutandis, lo stesso concetto, ingarbugliato da idiomi in apparenza ’orientali’.
Cordialmente Peter Dale
Caro Peter Dale
apprezzo e condivido il tuo intervento. Ho ripreso l’articolo e la recensione di Perniola, proprio per sottolinearne - dal mio p.d.v.- la "visione" tutta "eurocentrica", e nemmeno critica!!!
M. grazie per l’intervento e m. coprdiali saluti,
Federico la Sala
GIAPPONE RIVOLUZIONE POLITICA: CANDIDATA LESBO IN PARLAMENTO *
Otsuji sta realmente aiutando la comunità gay giapponese, radicata principalmente a Tokyo, a risollevarsi e a far sentire la propria voce, senza paure né intimidazioni.
Osaka - Una parlamentare lesbica in rappresentanza dei diritti della comunità LGBT. Una tendenza comune alle democrazie più avanzate, quella di dar voce a personalità politiche schierate nella difesa dei diritti di cittadini gay, lebo e transgender, se non fosse per il fatto che lo scenario in questione altro non è che la Kokkai, il Parlamento del Giappone: una realtà austera, che ancora oggi lascia davvero poco spazio alla partecipazione femminile e ad ampi slanci di dialogo democratico.
Ma la rigida tradizione politica maschilista e non di rado conservatrice della scena politica giapponese, dominata dal Partito Liberal Democratico, guidato da Shinzo Abe, non sembra intimorire né tantomeno rassegnare la giovane Kanako Otsuji, il primo lesbo politico ad aver fatto outing nella storia del Giappone. Schierata con il Partito Democratico (DPJ), 32 enne ed eletta nel 2003 nella circoscrizione di Osaka, ha deciso di non concorrere nelle ultime elezioni amministrative locali, proprio per prepararsi ad una scalata più grande, quella che la porterebbe a diventare deputato nel Parlamento giapponese. La prima deputata lesbica, e pubblicamente dichiarata nella storia del Giappone. Non sembra fermarla più nessuno, Otsuji, dopo il Gay Pride di Tokyo del 2005 in cui partecipò in veste ufficiale e si schierò per la difesa dei diritti delle coppie di fatto e della comunità lesbo, gay e transgender, ha le idee chiare: "Voglio contribuire a costruire una società in cui ognuno sia libero di essere ciò che è, senza vergogne"
La questione continua ad essere delicata in una realtà socio -- culturale, come quella giapponese, che pur non considerando illegale l’omosessualità, rifiuta il confronto aperto su queste tematiche e tende a ignorare la portata della problematica d’integrazione e di riconoscimento dei diritti per le coppie gay. Otsuji sta realmente aiutando la comunità gay giapponese, radicata principalmente a Tokyo, a risollevarsi e a far sentire la propria voce, senza paure né intimidazioni. Sondaggi alla mano, la giovane politicante lesbo sembra godere di grande popolarità e ammirazione soprattutto fra i giovani, anche eterosessuali.
Tra l’altro il contributo di Otsuji nella prefettura di Osaka sembra aver lasciato il segno: già nell’ottobre del 2005 difatti è stato inaugurato un progetto di riconoscimento del diritto di convivenza per le cosiddette "coppie di fatto", a cui la Prefettura ha addirittura destinato una serie di case in cui poter iniziare la convivenza come una sorta di "primo tetto coniugale". E’ di quest’anno poi la presentazione sempre per opera dell’innarrestabile Otsuji, di un documento per la tutela e il riconoscimento dei diritti d’assistenza e supporto per ragazzi e ragazze in crisi identitaria e di genere. La richiesta, approvata dall’amministrazione di Osaka, e supportata dal New Komeito e da altri gruppi politici minori e d’opposizione alla maggioranza, è quella di assistere questi giovani in strutture e con il supporto di esperti senza inibire il naturale percorso di "maturazione sessuale", come l’ha definito Otsuji, anche nel caso in cui conduca a risvolti transgender. Un programma volto ad evitare l’emarginazione sociale e a combattere la convinzione dell’omosessualità quale patologia.
Dalle file del Partito (DPJ) arriva solo supporto. A quanto pare tutto sembra pronto per fare di Kanako Otsuji la prima candidata lesbo della storia del Giappone, in corsa alla Kokkai.
CINA, EDIFICIO TRA GUERRIERI DI TERRACOTTA *
PECHINO - La tomba del primo imperatore cinese, sorvegliata per duemila anni da ottomila guerrieri e cavalli di terracotta, ha svelato un altro segreto archeologico. Dopo cinque anni di ricerche, è stata confermata la presenza di un edificio alto 30 metri sepolto nel vasto mausoleo di Quinshihuang, vicino all’antica capitale Xian, nella provincia nord occidentale di Shaanxi. Lo rivela l’agenza Xinhua citando un ricercatore dell’istituto di archeologia, Duan Qingbo, secondo il quale l’edificio sarebbe stato costruito per favorire la salita al cielo dell’anima dell’imperatore.
Gli archeologi stanno sondando l’area fin dal 2002 con sofisticati strumenti di rilevazione per studiare la struttura del mausoleo ancora interrato. E’ stato ora accertato che l’edificio, situato sopra la tomba principale, era circondato da muri digradanti, formati da nove scalini ciascuno. Qinshihuang é l’imperatore che ha unificato la Cina nel 221 avanti Cristo. L’esercito di terracotta a grandezza naturale era stato scoperto accidentalmente da alcuni contadini nel 1974.
ANSA » 2007-07-01 11:33
FRONTIERE
Cina, India e altre tigri asiatiche non vedono più nei Paesi europei dei modelli a cui adeguarsi. Uno sganciamento culturale, una de-occidentalizzazione dalle conseguenze imprevedibili. Solo nel XXI secolo il mondo si scopre una sfera: ogni punto della sua superficie ne è il centro
Il mondo in fuga dall’Occidente
Delle 33 megalopoli annunciate entro il 2015 27 apparterranno ai Paesi meno sviluppati, e Tokyo sarà la sola rappresentante del mondo ricco a restare nella lista delle 10 più grandi città. L’epoca attuale segna la fine di un ciclo cominciato nel ’500
di Olivier Mongin *
Se i tratti distintivi della globalizzazione sono all’opera nei diversi Paesi del mondo, colpisce l’«orizzontalità» della rappresentazione che ne risulta. La storia non è più declinata in funzione dei soli Paesi europei, come se l’Europa o l’Occidente fossero il polo motore, e come se i Paesi della periferia dovessero necessariamente avvicinarsi al centro.
Parallelamente, le cifre dei cambiamenti demografici nelle realtà urbane sono note: se si contano 175 città i cui abitanti superano il milione, 13 dei più grandi agglomerati urbani del pianeta si trovano oggi in Asia, Africa o America Latina. Delle 33 megalopoli annunciate entro il 2015, 27 apparterranno ai Paesi meno sviluppati, e Tokyo sarà la sola grande città ricca a restare sulla lista delle dieci più grandi città.
Allargata al pianeta, la globalizzazione rompe con la centralità europea, con ogni prospettiva storica presentata nei termini di un’ascesa verso un centro o del riconoscimento di un ordine universale. È in questo senso che essa non si sviluppa «verticalmente» ma «orizzontalmente», allorché i Paesi europei soffrono di un doppio restringimento (demografia, invecchiamento della popolazione). Oggi la visione «centralista» e «gerarchica» è spesso qualificata come «postcoloniale», anzi come «posteuropea», dalle élite intellettuali, politiche ed economiche dei Paesi non europei. Mentre l’Europa, qualunque sia il destino dell’Unione Europea stessa, crede sempre di essere l’unico modello di riferimento e di detenere i valori votati ad essere universali, i Paesi non europei considerano l’Europa come una realtà che alla stregua del resto del mondo è «parte ricevente» degli effetti della globalizzazione in corso. Se i Paesi non europei erano ieri «de-centrati» rispetto al Vecchio Continente, i Paesi europei stanno oggi per divenire «de-decentrati» rispetto ai Paesi-continenti quali la Cina e l’India, ma anche rispetto alle «città globali» (secondo la definizione del sociologo americano Saskia Sassen) ch e sono i nodi di un’economia d’arcipelago non più circoscritta a spazi nazionali.
Ciò che fa la specificità dell’epoca attuale è la fine del ciclo del colonialismo cominciato nel XVI secolo. Se l’Europa aveva preso possesso del mondo durante tre secoli, la Cina e l’India perturbano oggi l’antica spartizione coloniale del mondo. La globalizzazione non rappresenta solo l’approfondimento dell’interdipendenza fra Paesi, ma è anche l’allargamento geografico e politico di quest’interdipendenza. L’impressione di un’accelerazione della globalizzazione alla fine degli anni Novanta coincide col momento storico in cui, sulla scia dei cosiddetti Paesi emergenti, l’India e la Cina stanno per decollare. Ora, questi Paesi-continenti si considerano come autonomi, possono in effetti rappresentarsi come una «civiltà madre» per il sub-continente (Cina), o rivendicare valori specifici in parte estranei a quelli dell’Occidente (India).
Si può dunque parlare della globalizzazione come di una de-occidentalizzazione. In modo significativo, una scuola transnazionale detta «postcoloniale», i cui protagonisti si trovano soprattutto in India, ma anche in Cina, in Sudafrica o in Giappone, immagina un mondo post-europeo il cui senso è che la storia dell’Europa non è più il destino obbligato degli altri Paesi del mondo. E ciò tanto sul piano economico che sul piano dell’immaginario storico e delle rappresentazioni del mondo. È la ragione per la quale la globalizzazione è un fenomeno multidimensionale non riducibile a un approccio strettamente economico. Al suo ritmo avanzano sia l’Europa che i Paesi non europei. All’interno di questa scuola detta «post-coloniale», caratterizzata dai global studies, che ha il grande merito di sottolineare quanto le rappresentazioni reciproche fra i Paesi europei e non europei mutino rapidamente, emerge un dibattito fra i sostenitori di un relativismo delle identità (i subaltern studies), e coloro che sottoscrivono i valori universali che sono storicamente em ersi in Europa (Amartya Sen).
Ma, qualunque sia l’atteggiamento adottato, i valori universali non sono più considerati in questo contesto come una proprietà storica e geografica dei soli Paesi europei. Dal momento in cui l’universalità non riveste più un carattere né geografico né storico, essa non è più un privilegio strettamente europeo. Il che non significa che si cede così alla tentazione del relativismo. Se si parla della percezione francese della globalizzazione, è significativo che i cinesi o gli indiani portino il loro sguardo specifico sugli altri Paesi del mondo. Con la globalizzazione contemporanea è dunque lo sguardo degli altri Paesi su di noi che sta cambiando. La Cina ad esempio osserva la Francia come un Paese che contribuisce all’avventura della globalizzazione alla stregua di qualsiasi altro Paese del pianeta, e dunque la Francia non ha più un monopolio dello sguardo. E ciò è all’origine di uno spostamento storico le cui conseguenze non sono sempre percepite, ma anche di uno sganciamento storico, anzi di un ritardo, rispetto alle nuove rappresentazioni che la globalizzazione, un mutamento profondo che ci prende alla sprovvista, sta generando.
© «Esprit» e per l’Italia «Avvenire» (traduzione di Daniele Zappalà)
Saskia Sassen
Rottura dei confini: la rete apolide delle città globali *
Nata in Olanda nel 1949, Saskia Sassen è una sociologa ed economista nota per le sue analisi su globalizzazione e processi transnazionali. Attualmente insegna sociologia all’Università di Chicago e alla London School of Economics. Secondo la Sassen, la globalizzazione dell’economia, accompagnata dall’emergere di modelli di potere transnazionali, ha profondamente alterato il tessuto sociale, economico e politico degli stati-nazione, di vaste aree sovranazionali e, non da ultimo, delle città. La Sassen sviluppa il concetto di «città globale» nel suo celebre saggio Le città nell’economia globale (2004). L’autrice dimostra come numerose metropoli mondiali si siano sviluppate all’interno di mercati transnazionali e abbiano ormai più caratteri in comune tra loro che con i rispettivi contesti regionali o nazionali. Le città globali sono quindi il centro di snodo per commerci, finanza, attività bancarie, innovazioni e sbocchi economici. New York, Tokyo, Parigi, Londra, Seul, Pechino, Shangai e Miami sono città connesse globalmente ma disconnesse localmente, fisicamente e socialmente, al punto che non ha più senso parlare di città.
* Avvenire, 02.09.2007