Lettera aperta al Presidente della Repubblica on. Giorgio Napolitano
dei “ragazzi di Barbiana” *
dell’11 aprile 2011
Signor Presidente,
lei non può certo conoscere i nostri nomi: siamo dei cittadini fra tanti di quell’unità nazionale che lei rappresenta.
Ma, signor Presidente, siamo anche dei "ragazzi di Barbiana". Benché nonni ci portiamo dietro il privilegio e la responsabilità di essere cresciuti in quella singolare scuola, creata da don Lorenzo Milani, che si poneva lo scopo di fare di noi dei "cittadini sovrani".
Alcuni di noi hanno anche avuto l’ulteriore privilegio di partecipare alla scrittura di quella Lettera a una professoressa che da 44 anni mette in discussione la scuola italiana e scuote tante coscienze non soltanto fra gli addetti ai lavori.
Il degrado morale e politico che sta investendo l’Italia ci riporta indietro nel tempo, al giorno in cui un amico, salito a Barbiana, ci portò il comunicato dei cappellani militari che denigrava gli obiettori di coscienza. Trovandolo falso e offensivo, don Milani, priore e maestro, decise di rispondere per insegnarci come si reagisce di fronte al sopruso.
Più tardi, nella Lettera ai giudici, giunse a dire che il diritto - dovere alla partecipazione deve sapersi spingere fino alla disobbedienza: “In quanto alla loro vita di giovani sovrani domani, non posso dire ai miei ragazzi che l’unico modo d’amare la legge è d’obbedirla. Posso solo dir loro che essi dovranno tenere in tale onore le leggi degli uomini da osservarle quando sono giuste (cioè quando sono la forza del debole). Quando invece vedranno che non sono giuste (cioè quando avallano il sopruso del forte) essi dovranno battersi perché siano cambiate”.
Questo invito riecheggia nelle nostre orecchie, perché stiamo assistendo ad un uso costante della legge per difendere l’interesse di pochi, addirittura di uno solo, contro l’interesse di tutti. Ci riferiamo all’attuale Presidente del Consiglio che in nome dei propri guai giudiziari punta a demolire la magistratura e non si fa scrupolo a buttare alle ortiche migliaia di processi pur di evitare i suoi.
In una democrazia sana, l’interesse di una sola persona, per quanto investita di responsabilità pubblica, non potrebbe mai prevalere sull’interesse collettivo e tutte le sue velleità si infrangerebbero contro il muro di rettitudine contrapposto dalle istituzioni dello stato che non cederebbero a compromesso.
Ma l’Italia non è più un paese integro: il Presidente del Consiglio controlla la stragrande maggioranza dei mezzi radiofonici e televisivi, sia pubblici che privati, e li usa come portavoce personale contro la magistratura. Ma soprattutto con varie riforme ha trasformato il Parlamento in un fortino occupato da cortigiani pronti a fare di tutto per salvaguardare la sua impunità.
Quando l’istituzione principe della rappresentanza popolare si trasforma in ufficio a difesa del Presidente del Consiglio siamo già molto avanti nel processo di decomposizione della democrazia e tutti abbiamo l’obbligo di fare qualcosa per arrestarne l’avanzata. Come cittadini che possono esercitare solo il potere del voto, sentiamo di non poter fare molto di più che gridare il nostro sdegno ogni volta che assistiamo a uno strappo.
Per questo ci rivolgiamo a lei, che è il custode supremo della Costituzione e della dignità del nostro paese, per chiederle di dire in un suo messaggio, come la Costituzione le consente, chiare parole di condanna per lo stato di fatto che si è venuto a creare.
Ma soprattutto le chiediamo di fare trionfare la sostanza sopra la forma, facendo obiezione di coscienza ogni volta che è chiamato a promulgare leggi che insultano nei fatti lo spirito della Costituzione.
Lungo la storia altri re e altri presidenti si sono trovati di fronte alla difficile scelta: privilegiare gli obblighi di procedura formale oppure difendere valori sostanziali. E quando hanno scelto la prima via si sono resi complici di dittature, guerre, ingiustizie, repressioni, discriminazioni.
Il rischio che oggi corriamo è lo strangolamento della democrazia, con gli strumenti stessi della democrazia. Un lento declino verso l’autoritarismo che al colmo dell’insulto si definisce democratico: questa è l’eredità che rischiamo di lasciare ai nostri figli.
Solo lo spirito milaniano potrà salvarci, chiedendo ad ognuno di assumersi le proprie responsabilità anche a costo di infrangere una regola quando il suo rispetto formale porta a offendere nella sostanza i diritti di tutti. Signor Presidente, lasci che lo spirito di don Milani interpelli anche lei.
Nel ringraziarla per averci ascoltati, le porgiamo i più cordiali saluti
*
Francesco Gesualdi,
Adele Corradi,
Nevio Santini,
Fabio Fabbiani,
Guido Carotti,
Mileno Fabbiani,
Nello Baglioni,
Franco Buti,
Silvano Salimbeni,
Enrico Zagli,
Edoardo Martinelli,
Aldo Bozzolini
* FONTE: FINE SETTIMANA.ORG
Antonio Gramsci
Lettere dal carcere
6 marzo 1933 *
Carissima Tania,
ho ancora vivo il ricordo (ciò non sempre mi capita piú in questi ultimi tempi) di un paragone che ti ho fatto nel colloquio di domenica per spiegarti ciò che avviene in me. Voglio riprenderlo per trarne alcune conclusioni pratiche che mi interessano.
Ti ho detto su per giù cosí: - immagina un naufragio e che un certo numero di persone si rifugino in una scialuppa per salvarsi senza sapere dove, quando e dopo quali peripezie effettivamente si salveranno. Prima del naufragio, come è naturale, nessuno dei futuri naufraghi pensava di diventare... naufrago e quindi tanto meno pensava di essere condotto a commettere gli atti che dei naufraghi, in certe condizioni, possono commettere, per esempio, l’atto di diventare... antropofaghi.
Ognuno di costoro, se interrogato a freddo cosa avrebbe fatto nell’alternativa di morire o di diventare cannibale, avrebbe risposto, con la massima buona fede, che, data l’alternativa, avrebbe scelto certamente di morire. Avviene il naufragio, il rifugio nella scialuppa ecc. Dopo qualche giorno, essendo mancati i viveri, l’idea del cannibalismo si presenta in una luce diversa, finché a un certo punto, di quelle persone date, un certo numero diviene davvero cannibale.
Ma in realtà si tratta delle stesse persone? Tra i due momenti, quello in cui l’alternativa si presentava come una pura ipotesi teorica e quella in cui l’alternativa si presenta in tutta la forza dell’immediata necessità, è avvenuto un processo di trasformazione «molecolare» per quanto rapido, nel quale le persone di prima non sono piú le persone di poi e non si può dire, altro che dal punto di vista dello stato civile e della legge (che sono, d’altronde, punti di vista rispettabili e che hanno la loro importanza) che si tratti delle stesse persone.
Ebbene, come ti ho detto, un simile mutamento sta avvenendo in me (cannibalismo a parte). Il piú grave è che in questi casi la personalità si sdoppia: una parte osserva il processo, l’altra parte lo subisce, ma la parte osservatrice (finché questa parte esiste significa che c’è un autocontrollo e la possibilità di riprendersi) sente la precarietà della propria posizione, cioè prevede che giungerà un punto in cui la sua funzione sparirà, cioè non ci sarà piú autocontrollo, ma l’intera personalità sarà inghiottita da un nuovo «individuo» con impulsi, iniziative, modi di pensare diversi da quelli precedenti.
Ebbene, io mi trovo in questa situazione. Non so cosa potrà rimanere di me dopo la fine del processo di mutazione che sento in via di sviluppo [...].
* FONTE. LIBERLIBER/BIBLIOTECA GRAMSCIANA - RIPRESA PARZIALE.
Sul tema proposto da Gramsci ("immagina un naufragio e che un certo numero di persone si rifugino in una scialuppa per salvarsi senza sapere dove, quando e dopo quali peripezie effettivamente si salveranno"), si cfr.:
Il celebre quadro di Théodore Géricault, La zattera della Medusa (Wikipedia)
Federico La Sala
Europa.
Von der Leyen: "I care" di don Milani diventi il motto Ue
Nel discorso sullo Stato dell’Unione, la presidente della Commissione apre alla decisione Usa di sospendere i brevetti dei vaccini anti-Covid
Von der Leyen: "I care" di don Milani diventi il motto Ue
di Redazione Internet (Avvenire, giovedì 6 maggio 2021)
"A pochi chilometri da Firenze c’è un villaggio che si chiama Barbiana" dove sorge "una piccola scuola di campagna dove, negli anni Sessanta, un giovane maestro, don Lorenzo Milani, scrisse su un muro due semplici parole in inglese: I care". Lo ha ricordato la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, nel corso su The State of the Union, appuntamento annuale organizzato dall’Istituto universitario europeo. "Durante e oltre la pandemia" queste due parole "devono diventare il motto dell’Europa", ha sottolineato nel suo discorso in videoconferenza.
Don Milani "disse ai suoi studenti che quelle erano le due parole più importanti che dovevano imparare", ha aggiunto la presidente. "’I care’ significa prendersi responsabilità e quest’anno milioni di europei hanno detto ’I care’ con le loro azioni" di "volontariato o semplicemente proteggendo le persone che gli stavano attorno". "I care, we care, questa credo che sia la più importante lezione che possiamo imparare da questa crisi".
Sui brevetti dei vaccini "pronti a discutere sulla proposta Usa"
"La nostra campagna di vaccinazione è un successo. Quello che conta sono le ferme e crescenti consegne di vaccini agli europei e al mondo. A oggi 200 milioni di vaccini sono stati distribuiti nell’Ue. Sono abbastanza per vaccinare almeno la metà della popolazione adulta europea almeno una volta. Né Cina o Russia, si avvicinano minimamente" ha detto la presidente Ue.
"Qualcuno potrebbe dire che Paesi come gli Stati Uniti e il Regno Unito sono stati più veloci all’inizio" sulle vaccinazioni. "Ma io dico: l’Europa ha ottenuto" il suo successo, "rimanendo aperta al mondo. Mentre altri tengono per sé la produzione di vaccini, l’Europa è il principale esportatore di vaccini a livello mondiale. Finora, più di 200 milioni di dosi di vaccini prodotti in Europa sono state spedite nel resto del mondo" ha proseguito.
"L’Europa esporta quasi la stessa quantità di vaccini che fornisce ai propri cittadini - ha detto -. Per essere chiari, l’Europa è l’unica regione democratica al mondo che esporta vaccini su larga scala".
Inoltre sulla decisione degli Stati Uniti di sospendere i brevetti dei vaccini anti-Covid: "L’Ue è pronta a discutere qualsiasi proposta che affronti la crisi" del Covid "in modo efficace e pragmatico. Questo è il motivo per cui siamo pronti a discutere di come la proposta degli Stati Uniti per una deroga alla protezione della proprietà intellettuale" dei brevetti "per i vaccini Covid potrebbe aiutare a raggiungere tale obiettivo". ha spiegato Von der Leyen.
L’impegno europeo di Ursula VdL.
I «care» faro per tutti (una scelta da onorare)
di Francesco Gesualdi (Avvenire, venerdì 7 maggio 2021)
Parto da una doverosa precisazione: don Lorenzo Milani, priore di Barbiana, il motto ’I care’ (m’importa, ho a cuore) non lo aveva scritto su un muro, ma sulla porta che separava la scuola dalla sua camera. Un particolare non secondario perché essendo il punto di ingresso nell’unico spazio in cui a sera si ritirava in privato, voleva annunciare lo spirito che aleggiava in quello spazio e quindi nella sua persona. Uno spirito di assunzione di responsabilità verso le creature che la vita gli aveva messo davanti tale da fargli dimenticare totalmente se stesso.
E uno spirito di coerenza verso la verità tale da fargli accettare le conseguenze che la difesa della verità spesso comporta. Don Lorenzo non lo ricordava per narcisismo, ma come invito a noi allievi a fare altrettanto, ricordandoci che se la società è ingiusta, violenta, predatrice, la responsabilità non è solo del ’potere’ che impartisce ordini sbagliati e scrive leggi ingiuste, ma anche di tutti coloro che quegli ordini e quelle leggi eseguono. Ha fatto bene Ursula von der Leyen a ricordare il motto ’I care’ proprio oggi che dall’altra parte dell’Atlantico, Joe Biden ha annunciato di voler appoggiare la richiesta avanzata da Sudafrica e India di sospendere le regole internazionali a difesa dei brevetti sui vaccini e ogni altro farmaco utile a sconfiggere la pandemia.
Ha fatto bene perché ciò che in Europa ci è meno noto è che la decisione di Biden non giunge come un fulmine a ciel sereno, ma come conseguenza di una forte pressione popolare organizzata negli Stati Uniti da parte delle organizzazioni umanitarie che hanno fatto arrivare a Biden milioni di messaggi a favore della sospensione.
Per questo la sua decisione è la vittoria di milioni di persone che in cuor loro hanno detto ’I care’ e hanno preso l’iniziativa di agire per manifestare il proprio pensiero e insistere finché il Presidente di tanti di loro, l’uomo più potente del mondo, ha deciso di stare dalla parte delle persone piuttosto che delle multinazionali farmaceutiche. Un’iniziativa ancor più lodevole perché non attuata a favore di se stessi, ma di persone lontane, africani, asiatici, latino americani, che rischiano di non poter essere vaccinati a causa dei costi imposti dai brevetti. Ma il vero spirito dell’I Care è proprio questo: si agisce non perché se ne trae un vantaggio, ma perché non si tollera la sofferenza, l’ingiustizia, l’umiliazione, il sopruso, il latrocinio, a chiunque sia inflitto.
Ursula VdL, allora, deve ricordarsi che avendo preso l’impegno solenne, per giunta a Firenze, di volere assumere lo spirito di ’I Care’ a livello personale e della politica dell’Unione Europea, si è assunta una grande responsabilità. La responsabilità di agire di conseguenza, applicando il suo e nostro ’I Care’ prima di tutto verso i migranti. Verso tutte quelle donne, quegli uomini, quei bambini che dopo essere fuggiti da zone di guerra si trovano respinti, addirittura aggrediti dai cani alla frontiera est della Ue. Verso tutti coloro che cercando di fuggire dai lager libici si mettono in mare per raggiungere la sponda Sud della Ue, ma in caso di avaria vengono lasciati annegare o sono ripescati dalla cosiddetta Guardia costiera libica che li riporta nei lager dai quali hanno cercato di fuggire.
Verso tutti i cittadini meno protetti della Ue che in tempo di austerità sono stati privati di un lavoro, di cure mediche, di scuola, sacrificati di nuovo sull’altare del debito. Un tema, quello del debito pubblico, tutt’altro che superato, perché ora che la Ue ha deciso di indebitarsi per sostenere la transizione ecologica e la ripresa sociale, sarebbe beffardo se domani, dovesse ripristinare l’austerità per ripagare il debito fatto oggi in nome del suo ’I Care’.
Finché siamo in tempo sarebbe meglio proporre di rivedere i Trattati, in particolare quelli che regolano le funzioni e i meccanismi di funzionamento della Banca centrale europea affinché la moneta, al pari dei vaccini, sia gestita come un bene comune al servizio della piena occupazione, della promozione dei servizi pubblici e della tutela della natura.
Grazie dunque alla signora Ursula VdL, per averci ricordato il valore di ’I Care’, ma per favore l’Europa un faro per i tanti cittadini che la guardano affinché di quello spirito sia dato l’esempio migliore.
Barbiana e la scuola 2020
di Dimitris Argiropoulos (Comune-info, 14 Settembre 2020) *
La pedagogia di Barbiana
Lorenzo Milani ha dedicato la vita alla formazione dei giovani delle classi popolari. La sua azione educativa era ispirata al Vangelo e partiva dalla valutazione dell’inferiorità sociale e culturale dei giovani montanari, con l’obiettivo di emanciparli dalla timidezza1, e aiutarli nello sviluppo di personalità libere e autonome.
La sua concezione pedagogica emerge dagli scritti e dalle Lettere collettive, tuttavia è nella strutturazione della scuola di Barbiana che trova la sua più chiara espressione. La sua idea di educazione non è concettualizzata in modo rigoroso e inflessibile, il priore non era un improvvisatore: la sua azione educativa restò sempre sottesa da pensiero costante, studio, attenzione e cura. Nonostante fosse isolato sul monte Giovi, leggeva2 molto, si confrontava con amici e intellettuali, contribuendo al dibattito europeo del suo tempo, intuendo verità che anni più tardi avrebbero trovato conferma e riconoscimento scientifico.
Con il suo operato don Milani ha incarnato il proprium della pedagogia, cioè «quello di essere disciplina prassica che deve continuamente porre le teorie al vaglio della prassi, autoregolando il “pensare su... con l’agire per...»3. Il pensiero pedagogico del priore si sviluppa in due direzioni.
1. Critica del sistema scolastico: a partire dall’esperienza di San Donato don Milani comprende il legame tra origine sociale ed esito scolastico, rapporto che diventa palese nelle sue drammatiche conseguenze con l’avvio della scuola media unica.
Don Lorenzo è convinto che per adempiere al dettato costituzionale l’uguaglianza non vada calcolata sulla libertà di accesso ma sulle opportunità di riuscita (uguaglianza sostanziale). Sviluppando queste riflessioni il priore, lettore accanito di saggistica francese4, si trova in linea con le idee su cui dibattevano in quegli anni i cosiddetti sociologi della “riproduzione sociale”: Louis Althusser, Pierre Bourdieu, Raymond Boudon e Claude Passeron. In particolare Bourdieu e Passeron con i concetti di capitale culturale ed ethos di classe dimostravano che la scuola non riconosce le disuguaglianze di base degli allievi, riproducendo in questo modo le classi sociali esistenti e perpetuando le disuguaglianze5.
2. Manifesto di istruzione alternativa a quella istituzionale ufficiale e pubblica, espressione di un modo inconsueto di guardare al sapere e alla formazione, che mette al centro la persona e la varietà di competenze e culture6. Don Milani è portatore di istanze egualitarie: lotta alla dispersione scolastica, valorizzazione della dimensione educativa comunitaria e promozione di una coscienza critica e autonoma. Dona tutto il suo tempo alla scuola perché è convinto di poter migliorare l’esistente: crede nell’istanza trasformativa dell’educazione, che richiede impegno, personale e seducente7. Per questo costruisce una scuola a pieno tempo basata sulla cura e sulla responsabilità reciproca, dove nessuno è “negato per gli studi”8 e dove ognuno è allievo e contemporaneamente maestro9. Un’educazione appropriata a fornire i mezzi per l’emancipazione sociale. Questa impresa si trova in linea con le idee dei teorici dell’attivismo pedagogico e del movimento delle “scuole nuove”: Dewey10, Claparède (e la scuola di Ginevra), Decroly, Montessori, Freinet11e il gruppo dei pedagogisti fiorentini12.
Don Milani è conscio dell’immenso valore della persona, di ogni persona. Concepisce l’educazione come emancipazione, un processo che non è conformazione, cioè adattamento acritico alla società, che è, invece, l’opposto dell’indottrinamento13.
Per don Lorenzo l’educazione è liberazione - di pensieri e identità - dai soprusi, dall’ignoranza, dalle ingiustizie. Pur considerando le differenze di contesto, la sua era un’idea di paideia, cioè di formazione all’interezza, all’integrità dell’uomo. Una formazione vista come processo educativo, come personalizzazione della cultura che sviluppa l’io e gli dà una forma personale, dura tutta la vita e si sviluppa attraverso la cura di sé. Formare significa “dare forma” (in greco Morphepoiesis - μορφοποίηση): la formazione per divenire tale richiede attivazione, il soggetto è parte attiva del processo: è formato e contemporaneamente si dà forma15. Per questo il fine della sua opera educativa era quello di formare cittadini sovrani16, in grado di analizzare la realtà a mente aperta e prendere coscienza della propria condizione, per uscire dai condizionamenti e autodeterminarsi.
Don Lorenzo è convinto che la scuola e la politica non debbano riprodurre le gerarchie esistenti ma essere comunità aperte che interagiscono con la società civile per la crescita di tutta la popolazione17. Ha fiducia nella cittadinanza democratica e nel progresso come elementi di cambiamento qualitativo dell’esistente. Le ingiustizie sociali restano tali a causa del consenso che il potere riceve dal basso, da parte di chi non ha gli strumenti per capire e prendere una posizione. Il sapere consente invece la presa di coscienza dei meccanismi dell’ingiustizia e deve essere usato dalle persone per liberarsi insieme dalla sopraffazione, essendo strumento di forza per organizzarsi, rivendicare i propri diritti, correggere l’esistente18. È questa la concezione di rivoluzione non violenta di don Milani, «per il bene dei poveri. Perché si facciano strada senza che scorra il sangue»19.
La scuola è concepita dal priore come un ponte tra passato e futuro: «deve formare al senso di legalità (rispetto delle leggi) e formare al senso politico (volere leggi migliori)»20. Fino a quando le classi popolari continueranno a restare in posizione di subalternità rispetto alla classe dirigente, non avranno un ruolo nella decisione politica:
L’insegnamento fondamentale che lascia ai ragazzi di Barbiana coincide con la motivazione per strutturare il loro impegno.
Per formare cittadini sovrani non basta trasmettere una serie predefinita di saperi: serve che i ragazzi abbiano gli strumenti critici per analizzare la realtà.
La scuola dovrebbe essere come una palestra, che allena i suoi alunni all’esercizio della democrazia, alla discussione, a far valere i propri diritti nel confronto con gli altri, in una prospettiva creativa e dagli esiti non definiti24. Per questo Lorenzo Milani scrive all’amico Meucci:
Si tratta dell’esigenza di formare nei ragazzi una coscienza critica, in grado di valutare la realtà rendendosi conto delle contraddizioni, sviluppando un pensiero autonomo che può arrivare a mutare l’esistente.26
1 «Due anni fa, in prima magistrale lei mi intimidiva. Del resto la timidezza ha accompagnato tutta la mia vita. Da ragazzo non alzavo gli occhi da terra. Strisciavo alle pareti per non essere visto». Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa,cit., p. 9.
2 In una lettera del 1962 all’amico Giorgio Pecorini don Lorenzo richiede libri di pedagogia per i ragazzi, con riferimenti a testi di Dewey e Makarenko. Cfr. E. Butturini, Lorenzo e Adriano Milani: un’identica passione educativa, in Don Lorenzo Milani e la scuola della parola, cit.
3 Cfr. Riccardo Pagano, La pedagogia generale. Fondamenti ontologici e orizzonti ermeneutici, in R. Pagano La pedagogia generale,Monduzzi, Milano, 2011.
4 Cfr. Peter Mayo, I contributi di Don Lorenzo Milani e Paulo Freire per una pedagogia critica, in Don Lorenzo Milani e la Scuola della parola, cit., p. 250.
5 Cfr. Elena Besozzi, Società, cultura, educazione,Carocci, Roma 2006, p.173.
6 Crf. Roberto Sani e Domenico Simeone (a cura di), Don Lorenzo Milani e la scuola della parola, cit., p. 8.
7 Cfr. Antonio Michelin Salomon, In difesa della pedagogia, attualità di don Milani, in L’eredità pedagogica di don Milani, a cura di De cit., p. 39.
8 Ivi, p.11.
9 «Il più vecchio di quei maestri aveva sedici anni. Il più piccolo dodici e mi riempiva di ammirazione». Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, cit. p.12.
10 Col grande pedagogista americano il priore di Barbiana condivide l’idea che l’insegnamento democratico debba partire dall’esperienza della vita quotidiana e debba essere incentrato sull’attività (learning by doing), sull’interesse e sulla cooperazione sociale. Cfr. C. Laneve, I modelli didattici del XX secolo, in R. Pagano, La pedagogia generale,cit., p.128.
11 Cfr. Franco Cambi, Manuale di storia della pedagogia, Laterza, Bari 2011, pp. 274-291. Il pensiero di Celéstin Freinet e il suo modello didattico basato sulla cooperazione e sulla Stamperie à l’ecole, fu diffuso in Italia dal Movimento di Cooperazione Educativa (MCE), che annoverava Lodi tra i suoi seguaci. Col maestro di Piadena don Milani ebbe una fitta corrispondenza e grazie a lui introdusse a Barbiana il metodo della scrittura collettiva.
12 Cfr. Ivi, p.290. Ernesto Codignola, Lamberto Borghi, Aldo Visalberghi, Raffaele Laporta svilupparono la lezione deweiana, in particolare il collegamento tra educazione e democrazia.
13 L’indottrinamento è «la perversione dell’educazione, capace di presentarsi come educazione ma di seguire [...] modalità e procedimenti razionali che non tengono conto degli effettivi bisogni dei soggetti, ma solo di questioni di principio: presentando, ad esempio, in veste di conoscenza, ciò che altro non è che un credo o, peggio, legittimando l’odio e conseguentemente la violenza». In Alessia Malta, Sul significato attuale de L’obbedienza non è più una virtù, in «Quaderni di Intercultura», a. III, 2011, numero monografico L’eredità pedagogica di don Milani, a cura di Dario De Salvo, p. 26.
14 Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, cit. p. 96.
15 Cfr. F. Cambi, Pedagogia generale, cit., p. 35.
16 Art.1 della Costituzione italiana: «La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione».
17 Cfr. Maria Quartarone, Don Milani tra pedagogia e impegno sociale, in L’eredità pedagogica di don Milani, a cura di D. De Salvo, cit., p. 56.
18 Cfr. Patrizia Panarello, Il consumo critico viene da Barbiana, Ivi, p. 45.
19 L. Milani, Lettere di don Lorenzo Milani priore di Barbiana, cit., p.79.
20 L. Milani, L’obbedienza non è più una virtù, cit., p. 46.
21 Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, cit., p. 93.
22 Ivi, p. 92.
23 Ivi, p. 94.
24 Cfr. A. Malta, Sul significato attuale de L’obbedienza non è più una virtù, cit. p. 28.
25 L. Milani, Lettere di don Lorenzo Milani priore di Barbiana, cit., p.54.
26 Cfr. M. Quartarone, Don Milani, tra pedagogia e impegno sociale, cit., p. 56.
27 L. Milani, Lettere di don Lorenzo Milani priore di Barbiana, cit., p. 200.
*
Dimitris Argiropoulos è docente di Pedagogia speciale e Educazione interculturale presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Parma. Autore di diversi saggi, è tra i redattori del Manifesto dell’educazione diffusa. Altri suoi articoli sono leggibili qui.
Quella buona educazione (anche fisica) che ci serve
di Mauro Berruto (Avvenire, mercoledì 8 agosto 2018)
Agosto del 1918, esattamente cento anni fa. Mancano pochi mesi alla fine della Prima Guerra mondiale e l’Italia sta uscendo dalla spirale di un conflitto feroce. Le cicatrici, la rabbia, il dolore, il risentimento dominano il Paese. Antonio Gramsci, che tre anni più tardi sarebbe stato fra i fondatori del Partito comunista italiano, pubblica sul giornale torinese L’ordine nuovo un articolo, poi inserito in un volume intitolato Scritti sotto la Mole.
È una riflessione sullo sport e sul modo di intendere, da parte degli italiani, quel fenomeno. Il pezzo, che ha un vero e proprio senso didascalico, si intitola “Il calcio e lo scopone”. È un’analisi sociologica molto seria che, riletta cento anni dopo, fa ancora pensare.
Gramsci descrive la partita di calcio come l’emblema della democrazia, perché si disputa a cielo aperto e sotto gli occhi del pubblico. «Ci sono movimento, gara, lotta, ma regolate da una legge non scritta che si chiama lealtà che viene continuamente ricordata dalla presenza dell’arbitro». Insomma, l’agone è definito da regole certe che permettono di distinguere e apprezzare i calciatori grazie alle loro capacità.
Di tutt’altro spirito, sostiene Gramsci, è impregnata la cultura dello scopone: «Una partita allo scopone: clausura, fumo, luce artificiale. Urla, pugni sul tavolo e spesso sulla faccia dell’avversario o del complice. Lavorio perverso del cervello. Diffidenza reciproca. Diplomazia segreta. Carte segnate. Strategia delle gambe e della punta dei piedi. Una legge? Dov’è la legge che bisogna rispettare? Essa varia di luogo in luogo, ha diverse tradizioni, è occasione continua di contestazione e litigi“. Per Gramsci «lo sport suscita anche in politica il concetto di “gioco leale”», mentre la cultura dello scopone è l’espressione più retrograda e anti-progressista della società: «Lo scopone è la forma di sport della società economicamente arretrata, politicamente e spiritualmente, dove la forma di convivenza civile è caratterizzata dal confidente di polizia, dal questurino in borghese, dalla lettera anonima, dal culto dell’incompetenza, dal carrierismo (con relativi favori e grazie del deputato)».
Che sia specchio o struttura della nostra società civile, il nostro modo di intendere lo sport è oggi molto vicino al nostro atteggiamento verso le istituzioni, verso tutte le forme di convivenza o tolleranza a cui siamo chiamati.
Sono passati cent’anni dalle suggestioni di Gramsci e, ahimè, lo sport, compreso quel calcio un po’ idealizzato, ha spostato le sue dinamiche verso quelle dello scopone che, peraltro, non si gioca quasi più e ha, a sua volta, lasciato il passo a partite da bar che si giocano con quelle stesse “carte segnate” (oggi si chiamano fake news), diffidenza, contestazioni, urla e pugni sul tavolo. Quelle partite le “giochiamo” sui temi dell’immigrazione, sul diritto di asilo, sull’opportunità dei vaccini, sul diritto al lavoro e diventano territorio di fazioni, di tifo da stadio, di ultrà che parteggiano per una o per l’altra squadra senza nessun tipo di competenza o di riferimento a regole certe, tantomeno ad arbitri riconosciuti e rispettati come tali. Sono passati cent’anni, il calcio non è più quello idealizzato e suggerito come esperienza civile da Gramsci. Le non-regole dello scopone sono diventate la forma del nostro confronto politico e civile. O incivile, forse.
Certo lo sport non è un paradiso di virtù, ma uno sport capace di recuperare il senso di quelle origini sarebbe uno strumento capace di rendere più civili le strutture della nostra vita associata che, tuttavia, è la lente che ci fa leggere anche lo sport secondo i propri parametri. Un cortocircuito da disinnescare, insomma. Come?
C’è un’unica soluzione che richiede tempo e investimenti: la scuola. Il ministro dell’Istruzione Marco Bussetti, insegnante di educazione fisica ed ex allenatore di basket, lo aveva dichiarato al suo insediamento: avrebbe voluto finalmente portare lo sport in modo strutturale nella Scuola Primaria.
Purtroppo il ministro Bussetti e i suoi ottimi programmi sembrano travolti dalle dichiarazioni di alcuni suoi colleghi su porti da chiudere, troppi vaccini o legge Mancino da rivedere, e quella voce che sembrava davvero di “cambiamento” in meglio, non la sentiamo più, neanche in lontananza. Ministro Bussetti, certo sta lavorando, ma ci dia certezze, che qui tira un’aria pesante: ci stiamo imbruttendo come squallidi giocatori di scopone di inizio secolo. Abbiamo bisogno di un po’ di educazione. Anche fisica.
LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico. ... *
Disobbedienza, cattolici più avanti della sinistra
di Michele Prospero (il manifesto 27.07.2018)
Vade retro, Salvini si presenta ai lettori con questo titolo, forte e pieno di coraggio civile, il settimanale Famiglia cristiana. Il ministro degli interni lepenista è affrontato senza remore. Con il suo volto in copertina, il leader padano viene indicato come bersaglio esplicito di un mondo cattolico che non tentenna neanche ora che i sondaggi danno il governo oltre il 62 per cento e pure le toghe sono in sintonia con il vento nuovo della destra al comando.
Famiglia cristiana non è sola nella sua azione di denuncia. Anche sul quotidiano Avvenire, molto sensibile ai temi sociali, la comprensione critica del fenomeno delle destre di governo è molto acuta.
Le stesse pratiche di resistenza civile, abbozzate nei giorni scorsi dalle camicie rosse, sono state promosse da don Ciotti e hanno visto quindi la presenza in prima fila del cattolicesimo. Molti e autorevoli sono poi i pronunciamenti di prelati e della stessa gerarchia, che non rimane indifferente alle prove di regime, con tracce inequivoche di etnopopulismo sperimentate nei palazzi del potere.
C’è, in questo impressionante esercizio dell’etica della convinzione da parte dell’universo cattolico, un fatto di straordinaria rilevanza e novità: la fede come assunzione di responsabilità pubblica contro gli abusi del potere che nella costruzione del nemico indossa i simboli del sacro. I cattolici non avvertono esitazione alcuna a scagliarsi contro un potente che, in maniera blasfema, brandisce il rosario per incitare all’inimicizia verso l’altro.
Nessuna giustificazione è possibile per chi, coltivando le ambizioni di un consenso facile, gioca con la vita dei profughi. L’indignazione dell’uomo di fede è incontenibile quando il vice presidente del consiglio, che vuole il censimento degli zingari giusto per esibire la forza persuasiva della ruspa sui loro campi, e si scaglia contro il buonismo della «Corte di Strasburgo sui diritti dei rom», per fondare su solide basi etiche il respingimento dei naufraghi propone di esibire un crocefisso nei porti chiusi.
Scrittori, sindacalisti, intellettuali di sinistra hanno votato in gran numero per il non-partito padronale di Casaleggio e ora sono afoni dinanzi alle regressioni di civiltà promosse dal governo del cambiamento. La confusione è così grande, sotto il cielo di una sinistra ormai perduta nelle idee, che lo scrittore Domenico Starnone si meraviglia perché «nel decreto dignità ci sono un bel po’ di cose che così di sinistra ce le eravamo dimenticate».
Le apparenti (e modiche) aperture in campo sociale sono sempre necessarie alle destre radicali quando inaspriscono il volto repressivo del potere e conferiscono una pericolosa curvatura etnica alle loro politiche. I cattolici questo nesso eversivo lo hanno colto e per questo si indignano dinanzi a un governo che nella gestione del potere esibisce i simboli del sacro per delimitare una comunità etnica che si ritrova solo se si difende dallo straniero. A sinistra invece si balbetta sui principi e non manca chi contrappone l’anima sociale (!) del governo a una componente più di destra e suggerisce di differenziare e civettare con i grillini per impedire che la mucca si trasformi in toro.
Si spiega con la riluttanza ad assumere le implicazioni definitive del contratto di governo, l’incapacità della sinistra di rispondere alle provocazioni della destra con il gusto della rottura simbolica, della disobbedienza. Al potere ci sono due forze, le unisce una sola cultura, che ha i tratti inconfondibili di una destra postmoderna. Le ossessioni a sfondo etnico di Salvini, che intende destinare alla polizia i soldi tolti ai rom e ai migranti, sono le stesse di Grillo che nel suo blog difese la sacralità dei confini e scrisse che le invasioni dei rom erano la vera «bomba sociale».
Peraltro quando l’imprenditore Casaleggio prospetta che solo tra qualche lustro il parlamento deve essere chiuso come un ente inutile, svela con trasparenza assoluta la vocazione illiberale del suo non-partito a proprietà privata: alla fine della guerra, urlava già Grillo nelle piazze, solo uno deve rimanere. E appunto la chiusura di Montecitorio evoca un mondo ideale senza più partiti, pluralismo, organizzazioni in conflitto. Uno solo al potere, con il popolo passivizzato che fa un clic sulla piattaforma e nel cassetto conserva una pistola.
Per tornare al popolo e riconquistare le periferie a sinistra c’è chi pensa persino di scoprire il nucleo di verità del salvinismo che denuncia una mutazione antropologica degli italiani per le invasioni dei neri.
La strada più giusta è quella indicata da settori di un mondo cattolico che non va verso il popolo, sfida il suo popolo sedotto dal male, come è necessario in fasi di regressione etico-politica.
La sinistra deve fare lo stesso, organizzarsi come minoranza dalle grandi idealità che punge il governo e strattona il suo popolo di un tempo e la sua classe dormiente che ora inneggia a Salvini e a Grillo. La disobbedienza, il terreno della resistenza culturale e civile, in attesa che si riscaldi quello sociale, sono i cardini di una controffensiva possibile dopo la catastrofe che prepara una democratura a cemento etno-populista.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA TEOLOGIA DI "MAMMONA" ("caritas"), LA LEZIONE DI MARX, E IL MESSAGGIO EVANGELICO ("Charitas").
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico. Una nota (del 2006)
IL SONNO MORTIFERO DELL’ITALIA. In Parlamento (ancora!) il Partito al di sopra di tutti i partiti.
Federico La Sala
Cattolici e politica.
Capire il «secolarismo», dare alternativa al nulla
di Raffaele Vacca (Avvenire, sabato 28 luglio 2018)
Nel marzo del 1994, parlando al clero di Pordenone, Giuseppe Dossetti disse che tutta la sua azione «così detta politica» era stata un’opera di educazione e di formazione, per alimentare e sostenere «la coscienza politica del nostro popolo, che matura non era e non è neanche oggi». Anche Giuseppe Lazzati, a un’azione politica concreta, aveva privilegiato il servizio di aiutare a formare al «pensare politicamente».
Nonostante la proposta e la promozione di scuole di politica negli stessi partiti e soprattutto nell’ambito dell’associazionismo cattolico, la coscienza politica della maggior parte degli italiani non solo non si è fortificata, ma si è indebolita sotto l’urto di una secolarizzazione, tendente a trasformarsi spesso in secolarismo (ovvero in una visione di vita che ritiene Dio superfluo).
Come aveva scritto Paolo VI nella Evangelii nuntiandi, che è del 1975, la secolarizzazione «è lo sforzo in sé giusto e legittimo, per nulla incompatibile con la fede e la religione, di scoprire nella creazione, in ogni cosa ed in ogni evento dell’universo, le leggi che li reggono, con una certa autonomia, nell’intima convinzione che il Creatore ha posto queste leggi».
Ma, come notò Pietro Scoppola dieci anni dopo, in Italia, con il rapidissimo espandersi del sistema industriale-tecnologico-capitalista, si era imposta un differente tipo di secolarizzazione, che aveva cercato di distruggere tutti i valori di cui aveva bisogno per nascere, e di consumare tutti i valori che non era in grado di riprodurre.
Questa secolarizzazione aveva picconato non solo la cultura cattolica (intendo per tale anche il modo di vivere), ma anche le stesse culture laiche. Con potenti mezzi di comunicazione e introducendo la spettacolarizzazione in ogni campo del vivere, aveva sempre di più diffuso l’opinione che si viene dal nulla e si va verso il nulla, per cui non bisogna pensare ad altro che a conseguire il massimo profitto economico possibile, soddisfare bisogni materiali sia naturali sia artefatti, tralasciare il ’pensare politicamente’ e dare deleghe in bianco a durante le elezioni.
Quantunque potentissimo, il sistema è tuttavia in crisi. Quando si ritrovano con se stessi non pochi avvertono un grave disagio nel vivere. Non lo avvertirebbero se avessero una visione cristianamente ispirata, che rivelerebbe a loro come agire. È questa visione di vita (che parecchi segretamente hanno) che bisognerebbe riproporre e lentamente riportare nella cultura italiana, che è anche cultura europea. Avendo consapevolezze di esperienze del passato (ma senza restare isterilmente in esse), ed avendo precisa consapevolezza della situazione esistente, ad alimentare questa cultura potrebbero essere nuove scuole di educazione e di formazione politica, tendenti non solo a educare e formare coloro che intendono candidarsi a svolgere attività politica in sede nazionale o locale, ma anche a educare e formare cittadini che sappiano comprendere, valutare e sostenere la politica, non restando oggetti passivi della sua azione, ma diventando soggetti consapevoli di questa. Ed aiutando altri a esserlo.
Raffaela Vacca è fondatore del Premio Capri-San Michele
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’ITALIA E L’ANNO DELLA VERGOGNA (1994): L’ALLARME DI DON GIUSEPPE DOSSETTI E IL SILENZIO GENERALE SULL’INVESTITURA ATEO-DEVOTA DEL "NUOVO" PRESIDENTE DELLA "REPUBBLICA" ("FORZA ITALIA").
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico. Una nota (del 2006)
Federico La Sala
MEMORIA E STORIA. COSTITUZIONE ED EDUCAZIONE CIVICA....*
La legge proposta dai Sindaci. Educazione civica ora tocca ai cittadini
di Luciano Corradini (Avvenire, domenica 22 luglio 2018)
Caro direttore,
il termine indugio indica il ritardo, più o meno motivato, rispetto alla tempestività di un inizio o la regolarità di uno svolgimento. Si tratta di un termine illustre, indicato da un ordine del giorno votato all’unanimità dall’Assemblea Costituente l’11 dicembre 1947, primo firmatario Aldo Moro, per dire che la nuova Carta costituzionale doveva trovare «senza indugio adeguato posto nel quadro didattico della scuola di ogni ordine e grado».
Ora i Sindaci invitano i cittadini a chiedere a Parlamentari e Ministri, in nome e con metodi previsti dalla Costituzione di rompere quegli indugi che hanno afflitto l’ultimo decennio. Il 20 luglio in diverse sedi comunali è stato dato avvio alla raccolta di firme per la ’proposta di legge di iniziativa popolare’, promossa dal sindaco Nardella di Firenze e fatta propria dall’Anci, presieduta dal sindaco Decaro di Bari, «sull’introduzione dell’educazione alla cittadinanza nei curricoli scolastici di ogni ordine e grado».
Entro sei mesi, si dovranno raccogliere le prescritte 50mila firme, con le modalità ricordate dal comunicato dell’Anci. Si chiede cioè che il Parlamento vari una legge in cui si dice, all’art. 2: «È istituita un’ora settimanale di educazione alla cittadinanza come disciplina autonoma con propria valutazione, nei curricoli e nei piani di studio di entrambi i cicli di istruzione. Sono conseguentemente da ritenersi modificati, in armonia con quanto disposto dal comma precedente, tutti gli articoli di legge che disciplinano i curricoli, i piani di studio e la loro articolazione. Il monte ore necessario (non inferiore alle 33 ore annuali) - ove non si preveda una modifica dei quadri orario che aggiunga l’ora di educazione alla cittadinanza - dovrà essere ricavato rimodulando gli orari delle discipline storicofilosofico- giuridiche».
Gli autori di questa proposta di legge non si nascondono la complessità dell’operazione e prevedono che il Parlamento dialoghi in certo senso con organi tecnici del Ministero dell’Istruzione. Si dice infatti all’art. 3: «È istituita presso il Miur una commissione ad hoc, che, sentito il comitato scientifico per le indicazioni nazionali e il Cspi, assuma: 1) il compito di elaborare entro sei mesi dall’entrata in vigore della presente legge, gli obiettivi specifici di apprendimento per i diversi cicli di istruzione, e di provvedere, entro il medesimo termine, alla corretta collocazione dell’insegnamento in seno ai curricula e ai piani di studio dei diversi cicli di istruzione, nonché di optare per l’aggiunta di un’ora ai curricula o per la sua individuazione nell’ambito degli orari di italiano, storia, filosofia, diritto, tenendo conto dei quadri orari e del numero di materie per ciascun tipo di scuola; 2) la decisione se optare per un’ora di nuova istituzione che si aggiunga in tutti o in alcuni cicli di istruzione e tipologie di indirizzo scolastico, o per un’ora da ricavare nell’ambito dei quadri orari esistenti».
Sotto il termine generale ’cittadinanza’, si precisa che «Gli obiettivi specifici di apprendimento dovranno necessariamente comprendere nel corso degli anni: lo studio della Costituzione, elementi di educazione civica, lo studio delle istituzioni dello Stato italiano e dell’Unione Europea, diritti umani, educazione digitale, educazione ambientale, elementi fondamentali del diritto e del diritto del lavoro, educazione alla legalità, oltre ai fondamentali princìpi e valori della società democratica, come i diritti e i doveri, la libertà e i suoi limiti, il senso civico, la giustizia». Nell’art. 4 si dice che «L’insegnamento potrà essere affidato ai docenti abilitati nelle classi di concorso che abilitano per l’italiano, la storia, la filosofia, il diritto, l’economia».
L’art. 5 aggiunge: «Sono istituiti percorsi di formazione dei docenti e azioni di sensibilizzazione sull’educazione digitale, ai sensi del comma 124 dell’art.1 legge 13.7.2015, n.107». A conclusione dell’art. 6 si dice: «Nell’ipotesi in cui si opti per l’aggiunta di un’ora agli orari delle discipline storicofilosofico- giuridiche, i maggiori oneri saranno a carico dei Fondi di riserva e speciali del bilancio dello Stato». A parere di chi scrive l’iniziativa, nonostante alcuni limiti che saranno affrontati in seguito, presenta caratteri di trasversalità, di necessità e urgenza, e non merita né ulteriori indugi né frettolose conclusioni. Intanto i ’cittadini praticanti’ dovrebbero impegnarsi a firmare entro i sei mesi previsti.
Professore emerito di Pedagogia generale nell’Università di Roma Tre,
già presidente del Consiglio superiore della Pubblica istruzione
Sul tema, nel sito, si cfr.:
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico.
TRE PRESIDENTI DELLA REPUBBLICA SENZA "PAROLA", E I FURBASTRI CHE SANNO (COSA SIGNIFICA) GRIDARE "FORZA ITALIA". In memoria di Sandro Pertini e di Gioacchino da Fiore, alcuni appunti per i posteri
Federico La Sala
"PIGMALIONE", UNA "FIGURA" NARCISISTICA ED EDIPICA, ANCORA MODELLO DI ESSERE UMANO E DI MAESTRO?!
Diffido dell’istruzione
di Alessandro D’Avenia (Corriere della Sera, 05.02.2018)
«Caro professore, sono un sopravvissuto di un campo di concentramento. Ho visto ciò che nessuno dovrebbe vedere: camere a gas costruite da ingegneri istruiti, bambini avvelenati da medici ben formati, lattanti uccisi da infermiere provette, donne e bambini uccisi e bruciati da diplomati e laureati. Diffido - quindi - dell’istruzione. Aiutate i vostri allievi a diventare esseri umani. I vostri sforzi non devono mai produrre dei mostri formati, degli psicopatici qualificati, degli Eichmann istruiti. La lettura, la scrittura, l’aritmetica non sono importanti se non servono a rendere i nostri figli più umani».
Fu il compianto dirigente della mia scuola, qualche anno fa, a condividere questa lettera apparsa su Le Monde in un pezzo della scrittrice Annick Cojean. L’occasione era il Giorno della Memoria, ricorrenza sterile se non ricorda un fatto che il XX secolo ha inciso nella storia a caratteri di sangue: non basta essere istruiti per essere umani.
Il divorzio tra istruzione ed educazione è uno dei mali peggiori della scuola, frutto del luogo comune secondo cui esisterebbe un’istruzione neutra. Invece sempre si educa mentre si istruisce, perché la prima comunicazione è quella dell’essere, e solo dopo arrivano le parole, altrimenti non sarebbe necessaria la relazione viva con i ragazzi, ma basterebbe caricare le lezioni sulla rete. In senso stretto non esiste insegnamento in differita , ma solo in diretta.
Insegnare è una branca della drammaturgia. È l’essere dell’insegnante che genera la conoscenza, perché apre la via al desiderio dello studente, che scorge nel docente una vita più viva e libera grazie alla cultura e al lavoro ben fatto, e la vuole anche per sé. Lo ricordava con precisione il Nobel Canetti nella sua autobiografia: «Ogni cosa che ho imparato dalla viva voce dei miei insegnanti ha conservato la fisionomia di colui che me l’ha spiegata e nel ricordo è rimasta legata alla sua immagine. È questa la prima vera scuola di conoscenza dell’uomo».
Le nozioni più raffinate da sole non rendono umani, tutto dipende da come gli insegnanti si relazionano tra loro e con i ragazzi, perché, prima delle nozioni, sono le relazioni a essere generative dell’io e del sapere. È nella relazione che si impara a sentire il valore del sé come destinatario del dono del sapere. Quali insegnanti siete tornati a ringraziare e per cosa? Per la lezione sulle leggi della termodinamica e su Leopardi, o per come vivevano e offrivano la termodinamica e Leopardi proprio a voi?
Qualche tempo fa mi scriveva uno studente: «Le racconto due esperienze. La prima: la faccia polverosa della scuola. Un professore, che aveva esordito in prima liceo con “siete troppi: vi ridurremo”, pochi giorni fa ha condensato l’amore per il suo lavoro in questa frase: “Un insegnante non deve avere cuore, deve avere un cuore di pietra... altrimenti farà preferenze”. Uno scherzo, pensavamo. Un mio compagno ribatte: “Ma no, prof! Un insegnante deve avere un cuore talmente grande da non fare nessuna preferenza!”. “No, no: un cuore di pietra”. Parlava seriamente. La seconda: la faccia luminosa della scuola. Quest’anno ho scoperto la poesia grazie al gesto straordinario di un ordinario professore di filosofia, che un giorno ci ha parlato della sua giovinezza e di come la poesia ai tempi occupasse la sua vita e impegnasse la sua fantasia. Interessato anche io dal momento che non avevo letto nessun grande poeta ho chiesto un consiglio. Il giorno seguente lo vedo estrarre dalla sua ventiquattrore un libricino invecchiato. Viene verso di me. “Questo è per te”. Mi ha regalato una delle sue copie di Elegie duinesi, di R.M. Rilke, il suo libro di poesia preferito. Il libro della sua giovinezza!».
La differenza tra le due impostazioni è proprio quella che corre tra chi si illude si possano separare istruzione ed educazione e chi invece le tiene naturalmente unite. Nel primo caso si pensa che il docente sia un distributore di nozioni, nel secondo la didattica è conseguenza della relazione. Il primo professore educa all’insensibilità di cuore, a non sentire l’unicità del tu, il secondo rende Rilke interessante prima di averne letta una riga. Il nesso che tiene unite istruzione ed educazione è nella realtà, e nessuna presa di posizione teorica le può nei fatti separare. L’elemento che fa sì che educazione e istruzione siano in efficace armonia è l’amore.
Niente di sentimentale: l’amore è una presa di posizione nei confronti della realtà e ne permette la conoscenza, perché ne coglie il valore ancora potenziale da portare a compimento con l’impegno personale. Non si può aumentare la conoscenza di qualcosa senza che prima aumenti l’interesse nei confronti del soggetto in questione (vale per l’amicizia come per la chimica). L’amore genera conoscenza e la conoscenza ampliata rinnova l’amore: se il docente non «erotizza» la materia, la materia per quanto ben conosciuta resta inerte, come spiega Massimo Recalcati.
Non esistono cose poco «interessanti», ma uomini e donne poco «interessati», perché le emozioni (la neurobiologia qui ci conforta) sono le guide che aprono la strada allo sviluppo cognitivo. Solo così gli studenti diventano soggetti di possibilità e non oggetti al peggio da ridurre o al meglio da riempire. È questa la rivoluzione copernicana chiesta a ogni docente: non sono gli alunni a ruotare attorno a lui ma il contrario. Un professore - il letto da rifare oggi lo suggerisce lo studente della lettera - è chiamato ad avere un cuore tale da non far preferenze perché preferisce tutti e ciascuno diversamente: sfida difficilissima (quanti errori, quante gioie...) ma decisiva.
È la stessa sfida narrata da Ovidio, nelle sue Metamorfosi, a proposito del mito di Pigmalione. Uno scultore che, deluso da tutte le donne, si innamora della donna ideale che ha scolpito nel marmo. Il suo trasporto è tale che gli dei trasformano la statua in una donna in carne e ossa. Il mito viene usato per descrivere lo sguardo educativo, il cosiddetto effetto-Pigmalione, per il quale se un docente (ma vale per ogni educatore) guarda un alunno convinto che farà bene, genererà in lui una fiducia in sé tale che, nella quasi totalità dei casi, anche a fronte di un’inadeguata disposizione iniziale, otterrà risultati positivi.
L’effetto vale anche in negativo: se sono convinto che non vali, l’effetto sui risultati sarà coerente, anche a fronte di buone capacità. Lo sguardo educante non è mai neutro ma sempre profetico, nel bene e nel male. Ne abbiamo conferma quotidiana nel bambino che, appena caduto, si volge verso i genitori: se si mostrano allarmati ne provocano il pianto, se sorridenti il sorriso, quasi che il dolore, pur oggettivo, venga trasformato nello e dallo sguardo.
I ragazzi non hanno bisogno di insegnanti amiconi né aguzzini, ma di uomini e donne capaci di guardarli come amabili soggetti di inedite possibilità a cui non fare sconti. E non è questione di missione o di poteri magici, ma di professionalità. Per questo l’appello è il momento chiave della giornata scolastica: segna il tono della relazione e fa sì che ognuno senta su di sé lo sguardo profetico che spinge a far bene come conseguenza dell’ esser bene. Il contrario del «siete troppi, vi ridurremo», sterile autoritarismo, è il fecondo «sei unico, ti aumenterò».
La parola autorità viene da augeo (aumentare): la esercita non chi ha il cuore molle o sprezzante, ma chi si impegna ad aumentare la vita che ha di fronte, per quanto fragile, difficile, resistente possa sembrare. Questa è l’istruzione di cui non diffido, perché ispirata da un umanesimo maturo, l’umanesimo dell’altro uomo, come lo chiama il filosofo Lévinas, che fa del tu il cuore dell’etica e smaschera il falso umanesimo dell’istruito incapace di sentire il tu, tanto da distruggerlo proprio attraverso l’istruzione.
Non è facile però essere educatore in un sistema scolastico che asfissia di burocrazia e svilisce la dignità sociale ed economica, e in un contesto culturale che spesso attacca dall’alto (genitori) e dal basso (studenti). Ma questi elementi possono anche diventare scuse per non fare ciò che è alla portata di un uomo libero: prendersi cura di chi gli viene affidato.
Soltanto così diventiamo pigmalioni di ragazzi dal cuore caldo e la testa fredda, a fronte del dilagare, tra gli adulti prima che tra i giovani, di teste calde e cuori freddi.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
Ricordando Michele Gesualdi*
Ci uniamo alla preghiera di tanti per la morte di Michele Gesualdi, l’allievo di don Lorenzo Milani, e porgiamo le nostre più sentite condoglianze alla figlia Sandra e al fratello Francuccio.
A noi tocca, più che mia, cogliere l’eredità di don Lorenzo e attualizzarla. Perché tutti abbiano diritto di parola.
«Crediamo che di fronte a una persona che come don Lorenzo ha lasciato un segno nella storia - scrivevano Michele e Francuccio in Toscana Oggi il 21 aprile 2017 -, l’unico atteggiamento corretto è capire cosa ha ancora di importante da dirci, per assumerci le nostre responsabilità. Ossia per chiederci come applicare nel nostro tempo la sua proposta intramontabile. Don Lorenzo ha speso la sua vita per ridare dignità ai contadini e agli operai, che a causa della propria inferiorità culturale, erano umiliati, oppressi e saccheggiati da imprenditori, proprietari terrieri e ogni sorta di profittatori».
La redazione di Mosaico di pace
https://www.mosaicodipace.it/mosaico/i/3779.html
Don Lorenzo Milani, la Scuola di Barbiana --- «A noi ragazzi disse: dall’ingiustizia si esce insieme». Intervista a Michele Gesualdi, a cura di Osvaldo Sabato (2013)
Milani, Gramsci e i bisogni educativi speciali
di Antonio Vigilante*
Negli anni Sessanta uno degli studenti della scuola di Barbiana venne bocciato all’esame presso la scuola statale. Don Lorenzo Milani ne ragionò con i ragazzi della sua scuola, e ne venne fuori quel durissimo atto d’accusa contro la scuola pubblica italiana che è la Lettera a una professoressa. Oggi le cose sarebbero andate diversamente. In quanto contadini e montanari, gli studenti di Barbiana sarebbero stati considerati studenti con bisogni educativi speciali (la direttiva ministeriale sui bisogni educativi speciali del 27 dicembre 2012 ricomprende in questa categoria anche lo svantaggio «socio-economico, linguistico, culturale»); si sarebbe fatto per loro un piano educativo personalizzato, e con ogni probabilità sarebbero stati promossi.
Don Milani ne sarebbe stato contento? Per nulla. Anzi: si sarebbe indignato come solo lui sapeva fare. Perché il centro del discorso della Lettera non è, come molti che l’hanno letta distrattamente o che non l’hanno letta affatto credono, la richiesta di non bocciare. C’è anche questo, nel libro; ma c’è soprattutto la denuncia del carattere esclusivamente ‒ nel senso etimologico: che esclude ‒ borghese della cultura scolastica. La scuola è quel posto in cui il ragazzino figlio di contadini, abituato a salire sugli alberi, deve saper giocare a basket. La capacità di salire sugli alberi non conta nulla, non è una cosa borghese e non ha dunque nulla a che fare con la scuola. Il gioco della scuola è truccato: è un campo sul quale giocano borghesi e proletari, ma le regole sono quelle decise dai borghesi. E i proletari, inevitabilmente, perdono. Non perché siano meno capaci, non perché siano idioti: semplicemente perché la cultura scolastica non è la loro cultura.
Voleva, don Milani, che la scuola non fosse più espressione della sola classe borghese, che si aprisse ad accogliere le culture altre, che comprendesse il mondo dei contadini e degli operai non meno del mondo borghese. Voleva una scuola in cui si studiasse il contratto dei metalmeccanici, e non solo i classici della letteratura.
Ed ecco invece cosa succede. Chiunque provenga da una cultura non borghese viene dichiarato svantaggiato. «Svantaggio socio-culturale» è il nome che si dà ora qualsiasi modo di essere che non rientri nei canoni borghesi, così come comportarsi in modo non conforme alle aspettative della scuola borghese significa essere non scolarizzati (espressione atroce tristemente diffusa nel linguaggio dei docenti).
Invece di fare una scuola diversa, che dia voce anche a chi non è borghese, consideriamo chi non è borghese come un poveraccio di cui avere compassione, uno che senza avere colpa si trova indietro, e nei cui confronti bisogna essere comprensivi. Se don Milani era esigentissimo con i suoi ragazzi, non risparmiando loro nemmeno la frusta, ora agli svantaggiati si dà una scuola diluita, meno impegnativa, più facilmente digeribile. Ricorrere all’etichettamento - un etichettamento che avrà naturalmente conseguenze non lievi - è molto più semplice ed economico che ripensare a fondo la scuola.
Accade, insomma, quello che per Antonio Gramsci bisognava evitare. Nei Quaderni del carcere il filosofo prevedeva la situazione che si sarebbe creata con la nascita della scuola di massa: il figlio dell’operaio, non abituato al lavoro intellettuale, va a scuola e trova molte più difficoltà del ragazzino di una famiglia con tradizione intellettuale.
Ecco perché ‒ scriveva ‒ molti del popolo pensano che nella difficoltà dello studio ci sia un «trucco» a loro danno (quando non pensano di essere stupidi per natura): vedono il signore (e per molti, nelle campagne specialmente, signore vuoi dire intellettuale) compiere con scioltezza e apparente facilità il lavoro che ai loro figli costa lacrime e sangue, e pensano ci sia un «trucco». In una nuova situazione, queste quistioni possono diventare asprissime e occorrerà resistere alla tendenza di render facile ciò che non può esserlo senza essere snaturato. (Gramsci 1975, 1549-1550)
Il trucco in effetti c’era e c’è, e non è soltanto nel fatto che chi viene da una famiglia di operai e contadini non è avvezzo a certe fatiche. L’esperienza di Barbiana dimostra che dei figli di contadini possono sobbarcarsi un lavoro intellettuale anche molto consistente, se si tratta di un lavoro che ha contatti reali con la loro vita e la loro cultura. La disaffezione per la scuola nasce da altro. I figli dei contadini provano disaffezione per una scuola in cui si impara a vergognarsi dell’essere contadini; l’alternativa è che amino la scuola e si vergognino delle loro origini.
La scuola attuale si pretende multiculturale, anzi interculturale. I documenti che la riguardano sostengono che le differenze culturali di cui i sempre più numerosi studenti stranieri sono portatori devono essere valorizzate nel modo migliore, e ciò può accadere solo se la cultura dominante, quella che ospita, entra in dialogo con esse, in un fecondo rapporto di scambio reciproco. Chiacchiere.
Quella che abbiamo è, invece, una scuola penosamente monoculturale. Il crocifisso alle pareti, difeso con un fanatismo degno di miglior causa, esprime la chiusura sostanziale dell’istituzione a qualsiasi identità religiosa che non sia quella cattolica. La storia, la filosofia, la poesia, l’arte che si studiano sono quelle occidentali. La cultura manuale ed il lavoro, di cui i più grandi pedagogisti hanno affermato l’insostituibile valore educativo, sono banditi dalla scuola.
L’ideale umano che la scuola impone oscilla tra l’intellettuale borghese, l’impiegato statale e l’uomo d’affari. Buona parte del compito sociale della scuola consiste nel giustificare le attribuzioni di status e la distribuzione dello stigma sociale. Grazie alla scuola, chiunque aderisca alla cultura borghese, ai suoi valori, al suo stile di vita (che, ricordava Illich, è anche uno stile di consumo) ha uno status sociale elevato; chi lo contesta, in modo più o meno consapevole, è colpito dallo stigma sociale. Grazie alla scuola, la mano che tiene la penna è più socialmente apprezzata e riconosciuta della mano che tiene la zappa.
Il compianto Gianfranco Zavalloni, preside-contadino, raccontava la sua esperienza come presidente di commissione all’esame di licenza media (Zavalloni 2012). Agli orali gli annunciarono che lo studente che stavano per esaminare era il peggiore della scuola. Si trattava di un ragazzone di campagna, che lavorava le terre insieme a suo nonno. Zavalloni lo interrogò di persona: non sul programma scolastico, ma sui dettagli del suo lavoro, sul passaggio dei prodotti dalla terra al mercato, fino alla vendita. Lo studente si espresse con proprietà di linguaggio, mostrando il possesso di conoscenza multidisciplinari connesse al suo lavoro. Fece, insomma, un buon esame; e «i professori commentarono il tutto dicendo “ma noi in tre anni non l’abbiamo mai sentito parlare così bene e con tale competenza” e poi “non sapevamo nulla di tutto questo”». Con i bisogni educativi speciali i professori potranno continuare a «non sapere nulla di tutto questo» ‒ dei mondi culturali che sono oltre il raggio della cultura scolastica ‒, illudendosi per giunta di essere inclusivi.
Riferimenti bibliografici
Gramsci A. (1975), Quaderni del carcere, Einaudi, Torino, vol. III.
Zavalloni G. (2012), L’esame di Stato del peggiore della scuola, nel blog «...Tutti possono dipingere», https://zavallonigianfranco.wordpress.com, 17 maggio.
* Antonio Vigilante vive a Siena, dove insegna psicologia e scienze umane in un istituto professionale. Si occupa di teoria e storia della nonviolenza, di pedagogia e di filosofia interculturale. Il suo ultimo libro è: L’educazione è pace (Edizioni del Rosone, Foggia 2014). Possiede un blog personale all’indirizzo: http://antoniovigilante.blogspot.it
Questo articolo è tratto dal nuovo numero di Educazione democratica (n.9, gennaio 2015, Oltre la medicalizzazione. Tornare a educare): qui l’indice completo.
DA LEGGERE
Apprendere facendo
Come ripensare il mondo a partire della scuola? Servono pensiero critico e spazi comuni. Occorre creare quelle che Ivan Illich chiama trame dell’apprendimento, dove imparare facendo. Uno spazio web con articoli, saggi, notizie, interviste, link, video sull’universo dell’apprendere, sulla scuola, sull’imparare ad imparare
* Fonte: comune-info.net
L’ Amore (Charitas) non è lo zimbello del tempo e di Mammona (Caritas)!!!
Papa Francesco: «Pregate perché io prenda esempio da don Milani»
Nelle parole del Papa l’abbraccio della Chiesa che don Lorenzo Milani ha desiderato fino alla morte, il riconoscimento del suo essere sacerdote, non solo maestro non solo pacifista. Un fatto storico, ecco perché
di Elisa Chiari *
«Pregate per me perché anche io sappia prendere esempio da questo bravo prete». Quel bravo prete è don Lorenzo Milani e più chiaro e diretto di così Papa Francesco non avrebbe potuto essere. Non c’era questa frase nel discorso preparato, non c’era la frase finale rivolta ai sacerdoti: "Prendete la fiaccola e portatela avanti». Le ha aggiunte a braccio.
Don Milani aveva ragione, quando nel suo tono sempre un po’ provocatorio diceva: «Mi capiranno tra 50 anni». Forse faceva un numero, per dirla con parole sue, «per dar forza al discorso». Ma la contingenza della storia ha voluto che fosse una cifra esatta, che servissero davvero 50 anni - don Milani è morto il 26 giugno del 1967 - perché un papa venisse quassù, a Barbiana - una Barbiana restaurata con la vasca azzurra come allora non era-, al margine del margine del mondo, nella parrocchia che doveva chiudere e che fu tenuta aperta per isolare un sacerdote che allora si diceva "scomodo" e che oggi papa Francesco dice «ha lasciato una traccia luminosa».
Per molto tempo, don Lorenzo Milani è stato raccontato come l’educatore, il maestro, l’obiettore di coscienza - non senza distorsioni e strumentalizzazioni da parti assortite -: quasi che fosse marginale nella sua presenza storica il suo essere prete. Lo si è raccontato lasciando nell’ombra il lato che a don Milani premeva di più, perché fondava il senso della sua esistenza cristiana: il riconoscimento del suo sacerdozio da parte della Chiesa.
Cinquant’anni dopo Papa Francesco sana, dichiarandolo esplicitamente, questa mancanza. Mette il punto più importante alla fine, Papa Francesco, quasi per lasciarne il significato scolpito - come a segnare un passaggio che chi studierà il rapporto tra don Lorenzo Milani e la Chiesa di qui in poi non potrà ignorare -: «Non posso tacere che il gesto che ho oggi compiuto vuole essere una risposta a quella richiesta più volte fatta da don Lorenzo al suo Vescovo, e cioè che fosse riconosciuto e compreso nella sua fedeltà al Vangelo e nella rettitudine della sua azione pastorale. In una lettera al Vescovo scrisse: "Se lei non mi onora oggi con un qualsiasi atto solenne, tutto il mio apostolato apparirà come un fatto privato...". Dal Cardinale Silvano Piovanelli, di cara memoria, in poi gli Arcivescovi di Firenze hanno in diverse occasioni dato questo riconoscimento a don Lorenzo. Oggi lo fa il Vescovo di Roma. Ciò non cancella le amarezze che hanno accompagnato la vita di don Milani - non si tratta di cancellare la storia o di negarla, bensì di comprenderne circostanze e umanità in gioco -, ma dice che la Chiesa riconosce in quella vita un modo esemplare di servire il Vangelo, i poveri e la Chiesa stessa. Con la mia presenza a Barbiana, con la preghiera sulla tomba di don Lorenzo Milani penso di dare risposta a quanto auspicava sua madre: "Mi preme soprattutto che si conosca il prete, che si sappia la verità, che si renda onore alla Chiesa anche per quello che lui è stato nella Chiesa e che la Chiesa renda onore a lui... quella Chiesa che lo ha fatto tanto soffrire ma che gli ha dato il sacerdozio, e la forza di quella fede che resta, per me, il mistero più profondo di mio figlio... Se non si comprenderà realmente il sacerdote che don Lorenzo è stato, difficilmente si potrà capire di lui anche tutto il resto"».
Non per caso nelle parole del Papa emerge più di tutto il don Milani sacerdote: le definizioni che dà di don Milani lungo tutto lo snodo del discorso non sono scelte a caso. «Sono venuto a Barbiana» esordisce papa Francesco «per rendere omaggio alla memoria di un sacerdote che ha testimoniato come nel dono di sé a Cristo si incontrano i fratelli nelle loro necessità e li si serve». Agli allievi dice: «Voi siete i testimoni di come un prete abbia vissuto la sua missione, nei luoghi in cui la Chiesa lo ha chiamato, con piena fedeltà al Vangelo e proprio per questo con piena fedeltà a ciascuno di voi, che il Signore gli aveva affidato». E ancora: «La scuola, per don Lorenzo, non era una cosa diversa rispetto alla sua missione di prete, ma il modo concreto con cui svolgere quella missione, dandole un fondamento solido e capace di innalzare fino al cielo. Ridare ai poveri la parola, perché senza la parola non c’è dignità e quindi neanche libertà e giustizia: questo insegna don Milani. Ed è la parola che potrà aprire la strada alla piena cittadinanza nella società, mediante il lavoro, e alla piena appartenenza alla Chiesa, con una fede consapevole».
Papa Francesco sottolinea l’attualità di don Milani: «Questo vale a suo modo anche per i nostri tempi, in cui solo possedere la parola può permettere di discernere tra i tanti e spesso confusi messaggi che ci piovono addosso». Il papa parla esplicitamente di "umanizzazione", facendo riferimento a un concetto milaniano: la parola ai poveri non per farli diventare più ricchi, ma per farli diventare più uomini. Non per caso c’è più di Esperienze pastorali sotteso al discorso di don Milani a Barbiana di quanto non ci sia di Lettera a una professoressa. La cita, certo, quando parla agli educatori: ma al centro c’è il sacerdote non il maestro. «La vostra è una missione piena di ostacoli ma anche di gioie. Ma soprattutto è una missione. (...) Questo è un appello alla responsabilità. Un appello che riguarda voi, cari giovani, ma prima di tutto noi, adulti, chiamati a vivere la libertà di coscienza in modo autentico, come ricerca del vero, del bello e del bene, pronti a pagare il prezzo che ciò comporta. E questo senza compromessi».
Ai sacerdoti papa Francesco ricorda che «la dimensione sacerdotale di don Lorenzo Milani è alla radice di tutto quanto sono andato rievocando finora di lui. Tutto nasce dal suo essere prete. Ma, a sua volta, il suo essere prete ha una radice ancora più profonda: la sua fede. Una fede totalizzante, che diventa un donarsi completamente al Signore e che nel ministero sacerdotale trova la forma piena e compiuta per il giovane convertito. Sono note le parole della sua guida spirituale, don Raffaele Bensi, al quale hanno attinto in quegli anni le figure più alte del cattolicesimo fiorentino, così vivo attorno alla metà del secolo scorso, sotto il paterno ministero del venerabile Cardinale Elia Dalla Costa. Così ha detto don Bensi: "Per salvare l’anima venne da me. Da quel giorno d’agosto fino all’autunno, si ingozzò letteralmente di Vangelo e di Cristo. Quel ragazzo partì subito per l’assoluto, senza vie di mezzo. Voleva salvarsi e salvare, ad ogni costo. Trasparente e duro come un diamante, doveva subito ferirsi e ferire". Essere prete come il modo in cui vivere l’Assoluto. Diceva sua madre Alice: "Mio figlio era in cerca dell’Assoluto. Lo ha trovato nella religione e nella vocazione sacerdotale". Senza questa sete di Assoluto si può essere dei buoni funzionari del sacro, ma non si può essere preti, preti veri, capaci di diventare servitori di Cristo nei fratelli". Don Lorenzo ci insegna anche a voler bene alla Chiesa, come le volle bene lui, con la schiettezza e la verità che possono creare anche tensioni, ma mai fratture, abbandoni».
E ancora: «La Chiesa che don Milani ha mostrato al mondo ha questo volto materno e premuroso, proteso a dare a tutti la possibilità di incontrare Dio e quindi dare consistenza alla propria persona in tutta la sua dignità».
Quelle ultime parole: «prendete e portate la fiaccola» sono l’abbraccio che don Lorenzo Milani ha desiderato una vita. Chi stava ascoltando sulle seggiole bianche di Barbiana lo sapeva, per aver vissuto con lui il dolore dell’incomprensione, e non per caso ha applaudito proprio i passaggi in cui ha sentito il riconoscimento atteso dal Priore per mezzo secolo.
fuoritempio
Dal potere alla comunione
di Francesco Gesualdi *
Io non so se i magi siano realmente esistiti, né se siano mai andati a rendere omaggio a Gesù bambino inseguendo una stella. Né mi scandalizzerei se si trattasse di un’invenzione ai fini narrativi, una sorta di leggenda che ha cominciato a strutturarsi da esempi e immagini usati dai primi testimoni per rendere più comprensibile il loro messaggio.
Del resto chiunque si prefigga di trasmettere messaggi nuovi, di quelli che rompono con l’impostazione mentale dominante, sperimenta la necessità di ricorrere ad allegorie, metafore, accostamenti per trovare dei modi per farsi intendere.
E può succedere che certe rappresentazioni colpiscano così tanto l’immaginario collettivo da imporsi come fatti avvenuti. Forse nascono così le leggende, i fatti epici che finiscono per entrare se non nella storia, nella cultura e nelle visioni dei popoli.
Ma se la mitologia può servire a darci carica, bisogna stare attenti a non farne il centro dell’attenzione, altrimenti può impedirci di cogliere l’essenziale, come succede quando ci si concentra sul dito invece che sulla luna.
Come in molti altri episodi del Vangelo, anche nel racconto dell’Epifania l’essenziale che vi scorgo è il sovvertimento dell’ordine costituito nei suoi principi fondanti. Di mira in questo caso è il sapere, il suo ruolo, la sua legittimità.
Ai miei occhi, i magi che si prostrano davanti al bambino Gesù rappresentano la potenza del sapere che si inchina di fronte alla grandiosità dell’etica. È il riconoscimento che il sapere non può vivere senza la guida dell’etica, che ha bisogno del suo sostegno per capire che strada imboccare.
Mi rendo conto che il discorso si fa scivoloso perché assume un sapore oscurantista.
Ma l’etica a cui sto pensando non è quella delle ideologie, bensì l’etica dell’equità, della sostenibilità, della dignità umana, su cui Gesù ha così tanto insistito.
In un momento in cui la scienza è dominata dal potere industriale e le multinazionali pretendono di impossessarsi della natura, di manipolarla e brevettarla per arrogarsi il diritto di vendita esclusiva delle sementi, affamando milioni di contadini e spingendo l’agricoltura sempre di più verso la chimica, dovremo decidere se continuare a dare briglia sciolta a questo uso del sapere o se porgli dei limiti.
Allo stesso modo dovremo interrogarci sulla liceità di miliardi di euro investiti in farmaci contro le rughe, mentre non si investe nella prevenzione della malaria e altre malattie endemiche del Sud del mondo, solo perché i soldi si fanno vendendo prodotti di bellezza ai vecchi ricchi piuttosto che salvando le vite di giovani poveri.
Potremmo continuare col sapere usato ai fini bellici, ma senza scomodare la guerra, penso che ne abbiamo abbastanza per affermare che il sapere è vera ricchezza solo se è concepito come un bene comune da mettere al servizio dell’umanità per l’elevazione di tutti.
E mentre è poco fecondo se coltivato solo per l’erudizione personale, è sicuramente nocivo quando è usato come strumento di sopraffazione e violenza.
Non a caso la prima decisione che i magi dovettero prendere, dopo la visita a Gesù, fu se condividere le loro informazioni con Erode. E conosciute le intenzioni decisero per il no.
Da sempre il sapere è espressione di potere. Don Milani l’aveva capito così bene che si mise a fare scuola ai poveri nella convinzione che liberandoli dalla schiavitù dell’ignoranza li avrebbe messi in condizione di riscattarsi.
Ma a Barbiana eravamo costantemente stimolati a non usare il sapere per la carriera personale, bensì per la liberazione di tutti. Il motto era: «Uscirne da soli è l’avarizia, uscirne tutti insieme è la politica».
L’informazione stessa rischia di diventare una forma di consumismo se non si trasforma in azione. A che serve conoscere tutte le miserie del mondo se poi non ci trasformiamo in soggetti di cambiamento?
Mi piace pensare ai magi che andandosene dalla stalla di Betlemme vissero il sapere come una delle forme più alte di comunione.
* “discepolo” di don Milani, è fondatore del Centro Nuovo Modello di Sviluppo (www.cnms.it), ha da poco pubblicato “Risorsa umana. L’economia della pietra scartata”, San Paolo (v. Adista Documenti n. 26/15; il volume è acquistabile presso Adista)
* ADISTA, 12 DICEMBRE 2015 - Anno XLIX - n. 6300
Don Milani: «Volevo dipingere il mondo»
di Michele Brancale (Avvenire, 26 giugno 2012)
Nell’estate del 1942 Lorenzo Milani (1923-1967) in vacanza nella tenuta di famiglia a Gigliola, nei pressi di Montespertoli, entra nella cappellina sconsacrata della villa, vi rinviene un messale e lo legge avidamente, rimanendone prima attratto dall’estetica della liturgia («è più interessante dei Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello») e poi dai contenuti. È una componente essenziale del suo cammino di conversione, compiuta la prima fase del quale entra in seminario e finisce la sua attività di pittore, cominciata a Milano circa due anni prima.
Conclusi gli studi al liceo Berchet, infatti aveva rifiutato di iscriversi all’università a favore, invece, dell’apprendimento della pittura. Alcuni passaggi sono noti. Il professor Giorgio Pasquali presenta alla famiglia Milani il pittore Hans Joachim Staude (1904-1973), perché segua la formazione nelle arti figurative del giovane Lorenzo che, nel ’41, si iscrive all’Accademia di Brera, affitta uno studio e firma le sue opere "Lorenzino Dio e pittore".
Da una parte spinto alla ricerca dell’essenziale da Staude, Milani si lascia attrarre dalle opere dei pittori Bruno Cassinari (1912-1992) ed Ennio Morlotti (1910-1992), non trascurando la lettura di Le Corbusier che accompagna le sue passeggiate nelle chiese di Milano (già prete, diventerà amico di Giovanni Michelucci).
Di quella stagione, la Fondazione don Lorenzo Milani, presieduta da Michele Gesualdi, ha rintracciato, per ora, 45 quadri e 20 disegni anatomici, che sono al centro di un progetto di esposizione, in autunno, a Firenze e Milano. Ne saranno promotori la Fondazione, la Provincia di Firenze, il Comune di Milano e il liceo Berchet della città ambrosiana.
Vi stanno lavorando uno dei "ragazzi" di don Milani, Michele Gesualdi per l’appunto, il professor Cesare Badini, l’architetto Bernardo Delton e la curatrice Sandra Gesualdi. Alla luce delle ricerche compiute, quest’attività, più che finire, diventa uno degli strumenti dell’attività pastorale di don Lorenzo. Gli studi di disegno e pittura si riveleranno, ad esempio, preziosi nella progettazione delle opere utili all’attività didattica (don Milani non era un dilettante, nemmeno in questo) e pastorale (la cartina della Terra Santa, il mosaico del "Santo scolaro").
«Credo che alcune inquietudini che lo avrebbero spinto alla conversione - sottolinea Gesualdi - siano nate dagli studi anatomici compiuti sui cadaveri. Le note di accompagnamento ai disegni rivelano una volontà di comprendere a fondo chi era il soggetto ritratto, ricostruirne la storia». L’osservazione è confortata dai ricordi di Adele Corradi, insegnante che condivise a Barbiana la conduzione della scuola, nel recente Non so se don Lorenzo (Feltrinelli).
«Non gli ho mai chiesto nulla sulla sua conversione - spiega Corradi - Mi limitavo a registrare nella memoria quello che lui diceva. Capitava infatti che raccontasse di momenti in cui era avvenuto come un "incontro": la lettura del libro Il ponte di San Luis Rey, la scoperta del tendine di Achille mentre sezionava un cadavere (faceva il pittore e, diceva, "un pittore doveva conoscere l’anatomia"), la visita al convento di Monte Oliveto Maggiore ("chi ci pensava più agli affreschi... sentendo il canto dei monaci")».
Dal seminario Lorenzo troverà tempo per tornare a trovare il suo maestro Staude, che tutto era tranne che cattolico (si avvicinerà al buddismo, per apprendere alcune tecniche) e che gli chiede il motivo della sua scelta di farsi prete. «È tutta colpa tua - risponde il giovane Milani -. Perché tu mi hai parlato della necessità di cercare sempre l’essenziale, di eliminare i dettagli e di semplificare, di vedere le cose come un’unità dove ogni parte dipende dall’altra. A me non bastava fare tutto questo su un pezzo di carta. Non mi bastava cercare questi rapporti tra i colori. Ho voluto cercarli tra la mia vita e le persone del mondo. E ho preso un’altra strada».
Proprio oggi, a Barbiana, si ricorderanno i 45 anni dalla scomparsa di don Milani, con un convegno nei locali della Scuola di Barbiana (Vicchio di Mugello) a cui prenderà parte il sottosegretario alla Pubblica istruzione Marco Rossi Doria sul tema "La scuola è malata, ripartiamo da Barbiana". Don Renzo Rossi invece parlerà del "Prete don Lorenzo". Alle 17 liturgia presieduta dal cardinale Silvano Piovanelli, arcivescovo emerito di Firenze, in suffragio di don Lorenzo e anche di Eda Pelagatti, sua principale collaboratrice a Barbiana. Il 15 settembre, a Firenze, convegno su "La paternità di don Lorenzo Milani" con la pubblicazione di nuovi scritti inediti. Quindi la mostra.
Il piccolo grande Gramsci
Anche da studente di IV elementare, era già lui
di Sandra Amurri (il Fatto, 12.11.2011)
La grafia è quella di un bambino di dieci anni. Il contenuto è quello di un bambino che a dieci anni già parlava agli uomini di domani. Il suo nome è Antonio Gramsci. Questo è il suo tema di italiano all’esame di quarta elementare: “Se un tuo compagno benestante e molto intelligente ti avesse espresso il proposito di abbandonare gli studi, che cosa gli risponderesti?". Scuola elementare di Ghilarza, 15 luglio 1903. Non si può che restare colpiti da un maestro che chiede a dei bambini di affrontare un argomento così centrale per una società giusta e uguale: il diritto allo studio che nel 1948 diverrà un diritto sancito dalla Carta costituzionale, oggi così discussa. Ma non solo: lo studio come forma più alta della libertà di un individuo a prescindere dalle sue condizioni economiche. Non è il denaro, che la modernità ha posto al centro della vita di relazione e neppure lo sfarzo che ne deriva, per il piccolo Gramsci, a garantire un futuro onorato e dignitoso.
IL SOLO strumento per combattere l’ingiustizia sociale è la cultura. La conoscenza, perché chi non conosce non sceglie e chi non sceglie non è una persona capace di esercitare a pieno il suo compito di cittadino attivo. Più o meno le stesse cose rivendicate dagli studenti scesi in piazza contro la Riforma Gelmini, per una scuola pubblica di tutti e per tutti. Ma veniamo al tema. Antonio Gramsci si rivolge all’ipotetico amico che chiama Giovanni per fargli sapere: “Quanti ragazzi poveri ti invidiano, loro che avrebbero voglia di studiare, ma a cui Dio non ha dato il necessario, non solo per studiare, ma molte volte, neanche per sfamarsi. Io li vedo dalla mia finestra, con che occhi guardano i ragazzi che passano con la cartella a tracolla, loro che non possono andare che alla scuola serale”.
E lo stupore cresce di fronte alla consapevolezza che il suo compagno di banco Giovanni abbia deciso di non andare più a scuola, lui che è un privilegiato: “Un punto solo mi fa stupire di te; dici che non riprenderai più gli studi, perché ti sono venuti a noia. Come, tu che sei tanto intelligente, che, grazie a Dio, non ti manca il necessario, tu vuoi abbandonare gli studi? Dici a me di far lo stesso, perché è molto meglio scorrazzare per i campi, andare ai balli e ai pubblici ritrovi, anziché rinchiudersi per quattro ore al giorno in una camera, col maestro che ci predica sempre di studiare perché se no resteremo zucconi. Ma io, caro amico, non potrò mai abbandonare gli studi che sono la mia unica speranza di vivere onoratamente quando sarò adulto, perché come sai, la mia famiglia non è ricca di beni di fortuna”.
E quanta amorevole insistenza nelle sue parole: “Torna agli studi, caro Giovanni, e vi troverai tutti i beni possibili. Chi non studia in gioventù se ne pentirà amaramente nella vecchiaia. Un rovescio di fortuna, una lite perduta, possono portare alla miseria il più ricco degli uomini. Ricordati del signor Francesco; egli era figlio di una famiglia abbastanza ricca; passò una gioventù brillan-tissima, andava ai teatri, alle bische, e finì per rovinarsi completamente, ed ora fa lo scrivano presso un avvocato che gli da sessanta lire al mese, tanto per vivacchiare. Questi esempi dovrebbero bastare a farti dissuadere dal tuo proposito”.
INFINE, il saluto, Antonio si rivolge a Giovanni scusandosi per la franchezza del suo dire, dettata dal cuore e dall’affetto: “Non pigliarti a male se ti parlo col cuore alla mano, perché ti voglio bene, e uso dire tutto in faccia, e non adularti come molti. Addio, saluta i tuoi genitori e ricevi un bacio dal Tuo amico Antonio”.
Le fotocopie di questo “tema d’autore” appartiene a Giovanni Cocco, giovane ricercatore dell’Università di Sassari, segretario provinciale del Pdci, che a sua volta l’ha ricevuta da suo padre Agosti-no, per oltre 20 anni segretario della scuola elementare intitolata ad Antonio Gramsci nel 1985, occasione in cui a tutti i bambini, venne regalato L’albero del riccio. Ma l’originale dove si trova, visto che all’Archivio di Stato di Oristano, dove Agostino Cocco lo aveva inviato assieme a tutti gli altri, non è mai arrivato? Un giallo che siamo riusciti a risolvere a patto che il nome di chi lo conserva - con la stessa gelosia con cui si ha cura di un tesoro - resti misterioso. L’originale del tema di quarta elementare di Gramsci ce l’ha il figlio della domestica del maestro di Antonio Gramsci, che ha ereditato la sua casa.
NELLA BIBLIOTECA, nascosto tra le pagine di un libro, c’era il tema di quel bambino che a dieci anni dava lezione di latino ai compagni del ginnasio. Una sola volta lo ha prestato alla Casa Museo Gramsci di Ghilarza perché fosse esposto durante un convegno, ma restando di guardia finché non gli è stato restituito. “È un vecchio compagno, cresciuto come me a pane e Gramsci”, dice Giovanni Cocco “che grazie ad Antonio ha appreso le cose veramente importanti per ognuno di noi, come il senso critico, e ha imparato - per fare un esempio di attualità stretta - che bisogna guardare alla speculazione finanziaria dando priorità alla speculazione mentale”. Eppure in Italia Antonio Gramsci non è così studiato, mentre è il terzo autore più letto a livello planetario dopo Karl Marx e Jean-Jacques Rousseau. Fino a diventare l’autore più studiato nei club neoliberisti americani. Una malattia tutta italiana quella della perdita della memoria, che condanna chi non è padrone della sua storia a non esserlo neppure del suo futuro.
DON MILANI E SOCRATE
IL VERO AMORE ALLA LEGGE
di Raffaello Saffioti
Due grandi maestri della storia: Socrate e don Milani *
Nei giorni in cui il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi è chiamato a difendersi nei processi in tribunale, se si osserva il suo comportamento nei confronti dei giudici, vengono in mente due processi famosi, uno della storia antica, un altro della storia contemporanea, che videro come imputati Socrate e don Lorenzo Milani.
Socrate e don Milani sono tra i grandi maestri nella storia dell’educazione, ma furono accusati uno di corruzione dei giovani e di empietà, l’altro di apologia di reato, come dire accusati di essere cattivi maestri. Socrate fu condannato a morte dal Tribunale di Atene alla fine del V secolo a. C. e morì bevendo la cicuta. Don Milani, assolto in primo grado dal Tribunale di Roma nel 1966, venne condannato in appello, e “il reato estinto per morte del reo”.
Quale fu il comportamento durante e dopo il processo dei due imputati?
Quale l’insegnamento dei due grandi maestri?
“Il vero amore alla legge”
Don Milani nella “Lettera ai giudici” ha scritto:
“In quanto alla loro vita di giovani sovrani domani, non posso dire ai miei ragazzi che l’unico modo d’amare la legge è d’obbedirla.
Posso solo dir loro che essi dovranno tenere in tale onore le leggi degli uomini da osservarle quando sono giuste (cioè quando sono la forza del debole).
Quando invece vedranno che non sono giuste (cioè quando sanzionano il sopruso del forte) essi dovranno battersi perché siano cambiate.
La leva ufficiale per cambiare la legge è il voto. La Costituzione gli affianca anche la leva dello sciopero.
Ma la leva vera di queste due leve del potere è influire con la parola e con l’esempio sugli altri votanti e scioperanti. E quando è l’ora non c’è scuola più grande che pagare di persona un’obiezione di coscienza. Cioè violare la legge di cui si ha coscienza che è cattiva e accettare la pena che essa prevede. (...)
Chi paga di persona testimonia che vuole la legge migliore, cioè che ama la legge più degli altri. Non capisco come qualcuno possa confonderlo con l’anarchico. Preghiamo Dio che ci mandi molti giovani capaci di tanto.
Questa tecnica di amore costruttivo per la legge l’ho imparata insieme ai ragazzi mentre leggevamo il Critone, l’Apologia di Socrate, la vita del Signore nei quattro Vangeli, l’autobiografia di Gandhi, le lettere del pilota di Hiroshima. Vite di uomini che son venuti tragicamente in contrasto con l’ordinamento vigente al loro tempo non per scardinarlo, ma per renderlo migliore”.
(Documenti del processo di don Milani, L’obbedienza non è più una virtù, Libreria Editrice Fiorentina, 1969, pp. 37-9)
Socrate in carcere prima della esecuzione della sentenza riceve la visita dell’amico Critone che gli propone di mettersi in salvo evadendo dal carcere. Socrate ragionando rifiuta la proposta e dimostra che bisogna obbedire alle leggi della città, anche se ingiuste.
Il dialogo di Socrate con le Leggi
Nel dialogo Socrate dice a Critone:
“Per nessuna ragione mai si deve fare ingiustizia; neanche se ingiustizia ci è fatta”. “... non è mai cosa retta né fare ingiustizia né rendere ingiustizia, né, chi soffra male, vendicarsi restituendo male”.
Socrate immagina cosa gli chiederebbero le leggi se egli evadesse. E’ la famosa prosopopea.
“Se ci venissero incontro le Leggi e la città tutta quanta, e ci si fermassero innanzi e ci domandassero: - Dimmi, Socrate, che cosa hai in mente di fare? ... Che cosa hai da reclamare tu contro di noi e contro la città, che stai tentando di darci la morte? ...
Ma ora che sei nato, che sei stato allevato, che sei stato educato, potresti tu dire che non sei figliolo nostro e un nostro servo e tu e tutti quanti i progenitori tuoi? E se questo è così, pensi tu forse che ci sia un diritto da pari a pari fra te e noi, e che, se alcuna cosa noi tentiamo di fare contro di te, abbia il diritto anche tu di fare altrettanto contro di noi? O che forse, mentre di fronte al padre tu riconoscevi di non avere un diritto da pari a pari, e così di fronte al padrone se ne avevi uno; il diritto, dico, se alcun male pativi da costoro, di ricambiarli con altrettanto male; e nemmeno se oltraggiato di oltraggiarli, e se percosso percuoterli, né altro di questo genere: ecco che invece, di fronte alla patria e di fronte alle leggi, questo diritto ti sarà lecito; cosicché, se noi tentiamo di mandare a morte te, reputando che ciò sia giusto, tenterai anche tu con ogni tuo potere di mandare a morte noi, che siamo le Leggi e la Patria, e dirai che ciò facendo operi il giusto, tu, il vero e schietto zelatore della virtù?
O sei così sapiente da avere dimenticato che più della madre e più del padre e più degli altri progenitori presi tutti insieme è da onorare la Patria ... e che, o si deve persuaderla o s’ha da fare ciò che ella ordina di fare, e soffrire se ella ci ordina di soffrire...
... che se a taluno queste leggi non piacciono è libero di prender seco le cose sue e di andarsene dove vuole... Ma chi di voi rimane qui, e vede in che modo noi amministriamo la giustizia e come ci comportiamo nel resto della pubblica amministrazione, allora diciamo che costui si è di fatto obbligato rispetto a noi a fare ciò che noi gli ordiniamo...
... Diciamo o non diciamo la verità quando affermiamo che tu, realmente e non a parole, avevi convenuto di regolare secondo noi la tua vita di cittadino?
Che cosa dobbiamo rispondere a queste parole, o Critone? Non dovremo consentire che le Leggi dicono la verità?”.
(Platone, Critone, Laterza, 1967, pp. 49, 52, 54, 56, 57, 59)
“Elogio dei giudici scritto da un avvocato”, di Piero Calamandrei
Ricordiamo che è stato un insigne giurista e avvocato del secolo scorso, Piero Calamandrei, a fare l’elogio dei giudici, richiamando il processo di Socrate.
“Socrate nel carcere spiega serenamente ai discepoli, con una eloquenza che mai nessun giurista ha saputo uguagliare, qual è la suprema ragione sociale che impone, fino all’estremo sacrificio, di prestare ossequio alla sentenza anche se ingiusta: il passaggio in giudicato della sentenza importa che essa si distacchi dai suoi motivi, come la farfalla che esce dal bozzolo, e diventi da quel momento inidonea ad esser qualificata giusta o ingiusta, posto che essa è destinata a costituire d’ora in poi l’unico e immutabile termine di paragone, cui gli uomini dovranno riferirsi per conoscere qual era in quel caso la parola ufficiale della giustizia. ... Il giudice è il diritto fatto uomo; solo da quest’uomo io posso attendermi nella vita pratica quella tutela che in astratto la legge mi promette ... Per questo si indica nella iustitia, non semplicemente nel ius, il vero fundamentun regnorum...”.
(Piero Calamandrei, Elogio dei giudici scritto da un avvocato, Ponte alle Grazie, 2009, pp. 10-11)
Il vero amore alla legge e l’obiezione di coscienza
“I care”
In questi giorni dei “ragazzi della scuola di Barbiana” in cui vive “lo spirito di don Milani”, diventati nonni, hanno scritto una “lettera aperta” al Presidente della Repubblica con la quale testimoniano quanto hanno appreso dal loro Maestro sul tema del “vero amore alla legge”. In essa si legge:
“Il degrado morale e politico che sta investendo l’Italia ci riporta indietro nel tempo, al giorno in cui un amico, salito a Barbiana, ci portò il comunicato dei cappellani militari che denigrava gli obiettori di coscienza. Trovandolo falso e offensivo, don Milani, priore e maestro, decise di rispondere per insegnarci come si reagisce di fronte al sopruso. Più tardi, nella Lettera ai giudici, giunse a dire che il diritto-dovere alla partecipazione deve sapersi spingere fino alla disobbedienza.
(...) Questo invito riecheggia nelle nostre orecchie, perché stiamo assistendo ad un uso costante della legge per difendere l’interesse di pochi, addirittura di uno solo, contro l’interesse di tutti. Ci riferiamo all’attuale Presidente del Consiglio che in nome dei propri guai giudiziari punta a demolire la magistratura e non si fa scrupolo a buttare alle ortiche migliaia di processi pur di evitare i suoi”.
(...) Quando l’istituzione principe della rappresentanza popolare si trasforma in ufficio a difesa del Presidente del Consiglio siamo già molto avanti nel processo di decomposizione della democrazia e tutti abbiamo l’obbligo di fare qualcosa per arrestarne l’avanzata”. Gli autori della “Lettera aperta” chiedono al Presidente della Repubblica di fare “obiezione di coscienza ogni volta che è chiamato a promulgare leggi che insultano nei fatti lo spirito della Costituzione”.
E concludono: “Solo lo spirito milaniano potrà salvarci, chiedendo ad ognuno di assumersi le proprie responsabilità anche a costo di infrangere una regola quando il suo rispetto formale porta a offendere nella sostanza i diritti di tutti. Signor Presidente, lasci che lo spirito di don Milani interpelli anche lei”.
Ma oggi siamo tutti interpellati dallo “spirito di don Milani”.
E’ lo stesso spirito che si esprime nella “Lettera ai giudici”(1965).
In essa leggiamo:
“Dovevo ben insegnare come il cittadino reagisce all’ingiustizia. Come ha libertà di parola e di stampa. Come il cristiano reagisce anche al sacerdote e perfino al vescovo che erra. Come ognuno deve sentirsi responsabile di tutto.
Su una parte della nostra scuola c’è scritto grande: ‘I care’. E’ il motto intraducibile dei giovani americani migliori. ‘Me ne importa, mi sta a cuore’. E’ il contrario esatto del motto fascista ‘Me ne frego’” (Documenti del processo di don Milani, L’obbedienza non è più una virtù, cit., p. 34).
Palmi, 20 aprile 2011
Raffaello Saffioti
rsaffi@libero.it
Privatizzare la libertà statale
di Adriano Prosperi (la Repubblica, 17.04.2011)
Sulle mura di Milano è ancora fresca la colla dei manifesti che attaccano i giudici come terroristi dando voce alle irresponsabili piazzate di un capoparte populista: e oggi è sempre lo stesso capoparte che si lancia in un nuovo attacco a testa bassa, questa volta contro la scuola pubblica. Si tratta di attacchi eversivi.
Nel senso proprio del termine, diretti cioè a distruggere le istituzioni statali. Non è per caso se si è passati dai giudici delle Procure alla scuola pubblica. Sono i luoghi dove per definizione tutti i cittadini sono o dovrebbero essere posti in condizioni di uguaglianza nel godimento di diritti fondamentali. Se non lo sono, questo accade per strozzature sociali a monte che i padri costituenti della Repubblica ebbero ben presenti e indicarono come ostacoli da rimuovere. Oppure accade per strozzature a valle, perché le risorse disponibili sono scarse, perché si taglia il personale che dovrebbe garantire il funzionamento delle istituzioni pubbliche più delicate. Sappiamo molto bene come, riducendo mezzi e persone, chi manovra le finanze statali possa uccidere le reti istituzionali della vita associata: lo vediamo tutti i giorni sotto i nostri occhi.
Non è difficile però comprendere le ragioni dell’odierno attacco contro la scuola pubblica. Vediamole, premettendo che l’accusa alla scuola pubblica di essere un luogo di indottrinamento ideologico da parte della sinistra è una tesi indimostrabile e speciosa. Ma è probabile che l’attacco del premier sia stato ispirato dalla scoperta fatta dai 19 deputati del Pdl guidati dall’onorevole Gabriella Carlucci che nei manuali di storia c’è chi "getta fango su Berlusconi", da cui la richiesta di una commissione d’indagine. Se tutto il problema si riduce a questo, si faccia pure l’indagine: ma non certo per sostituire i manuali oggi scelti autonomamente dagli organi scolastici competenti con la lettura obbligatoria dell’autobiografia del premier.
La scuola pubblica è tale proprio perché è il luogo della serietà e della libertà dell’apprendimento, cioè l’esatto contrario dell’indottrinamento passivo. La scuola pubblica come palestra di formazione non può che essere luogo di responsabile libertà del docente e dell’impegno serio e assiduo dei discenti, mentre allo Stato deve garantire quel principio liberale del premiare i capaci e meritevoli tra i docenti e tra i discenti. Su questi e non su altri fondamenti è nata la scuola che, dai tempi di Napoleone, si definisce "pubblica" per distinguerla da quella "privata".
C’è però una ragione più generale alla radice di questa polemica: l’avversione contro tutto ciò che è pubblico, dall’ordinamento istituzionale del paese ai valori della carta costituzionale che lo tengono unito. È questo che suscita la reazione dell’uomo che sta risucchiando nei gorghi del suo privato tutto ciò che tocca.
Quello che vediamo è la versione italica di un conflitto profondo e sostanziale tra la privatizzazione capitalistica delle risorse pubbliche e i fondamenti stessi della democrazia. In un progetto che tende allo svuotamento della sostanza democratica e costituzionale del paese la scuola non è un obbiettivo secondario.
Come ha ricordato il presidente Napolitano, è alla scuola e all’istruzione pubblica che spetta un compito fondamentale: «Diffondere tra le nuove generazioni una più approfondita conoscenza dei diritti e dei doveri che da più di mezzo secolo la Costituzione repubblicana garantisce e indica a tutti i cittadini». Un compito importante e delicato : è stato ancora Napolitano a sottolineare quanto ne dipenda la crescita del paese nel contesto del sistema e dei valori dell’Europa unita. Ecco perché non bisogna stancarsi di difendere i diritti alla scuola dall’attacco dei privatizzatori; ed ecco perché agli studenti bisogna chiedere che non si stufino di difendere la scuola pubblica dagli attacchi di chi avrebbe tante ragioni per dichiarare fallimento e ritirarsi da una scena politica dove ha portato solo divisione e scandali.
Le ossessioni del capo
di Carlo Galli (la Repubblica, 17.04.2011)
Nella prossimità delle elezioni Berlusconi si scalda e ricorre ai suoi cavalli di battaglia più logori e pericolosi. Qualcosa è cambiato, tuttavia; il tono è sempre più esasperato, minaccioso, truce, come di chi - nonostante i successi in Parlamento e le mille trappole legali a cui si dedicano i suoi avvocati - si sente perseguitato, colpito, braccato.
E reagisce con crescente furore. Così, i giudici sono ormai comunisti, eversori, un’associazione a delinquere che complotta per indebolire il premier, per danneggiarlo; ed è giusto e opportuno che il Legislativo, le Camere, organizzi una commissione d’inchiesta per appurarlo.
Così, il Capo va protetto da indagini e processi, perché il suo ruolo è troppo importante perché lo si possa disturbare con "bazzecole" mentre "deve difendere il suo Paese in politica estera" (la citazione letterale è dovuta). Così, è ormai venuto il momento di vibrare il colpo finale: andare alle urne per elezioni anticipate e confermare l’attuale maggioranza, coesa, dura e pura, per potere finalmente, nel quarto tempo della parabola tendenzialmente infinita di Berlusconi, riformare la Costituzione e in particolare la Giustizia.
Così, soprattutto, si potrà mettere in chiaro che la sovranità appartiene al popolo, che la "cede" (letterale) al Parlamento; e che quindi questo - naturalmente si parla della maggioranza, opportunamente prodotta da un’apposita legge elettorale - deve essere lasciato legiferare in santa pace, al riparo dalle pretese di una Corte Costituzionale oggi in mano ai comunisti e ai pm di sinistra, che non si potrà più permettere di disfare con un tratto di penna i frutti di un lungo lavoro parlamentare (con particolare riguardo al lodo Schifani, al lodo Alfano e alla legge sul legittimo impedimento). Il registro espressivo di questa politica è ormai paradossale, isterico, estremistico: è strutturato per ossessioni. Che sono certamente rivolte a utilizzare e attizzare pulsioni di lungo periodo dell’elettorato del Pdl, ma che ormai sono, altrettanto certamente, condivise anche da Berlusconi, che ne è come prigioniero, in una sorta di perfetta identificazione tra se stesso e il suo popolo. In una solitaria prefigurazione di un regime monocratico.
La prima è quella del comunismo: Berlusconi lo vede ovunque, nei pm, nei giudici, nel personale politico dei partiti d’opposizione. Non sa bene che cosa è, e non si cura di definirlo per i suoi ascoltatori; al riguardo s’intendono benissimo: c’è una sorta di precomprensione empatica tra di loro. Comunismo è una natura diabolica che si impossessa di una persona e non la abbandona mai più, rendendola per sempre malvagia e animata da spirito critico verso la tradizione, il buon senso, le persone per bene e i buoni sentimenti; e soprattutto istillando odio per lui, per Berlusconi. Comunista, anzi, è chiunque si opponga al Cavaliere e alla sua politica, anche se - poniamo - è liberale. Questo anticomunismo è la vendetta postuma del moderatismo italiano contro la sinistra, nell’epoca storica che sta vedendo l’estinzione di questa.
L’altra ossessione, fondamentale, è quella della magistratura - che va insultata e minacciata con particolare enfasi e vigore -; e qui emerge un altro elemento storico chiarissimo: Berlusconi è la rivincita postuma di Craxi su Mani Pulite, ed è al tempo stesso l’esorcisma collettivo della maggioranza degli italiani verso il soprassalto di legalità che li colse vent’anni fa, e che ora va dimenticato come un lontano errore.
L’ultima ossessione - anche questa condivisa da Berlusconi e dalla sua ‘gente’ - è quella del popolo; entità misteriosa, evocata continuamente come ‘sovrana’ contro le élites, anzi contro l’ultima élite sopravvissuta: appunto la magistratura. Che questo sovrano sia maneggiato, attivato e disattivato a piacere da Berlusconi e dalle sue molte macchine comunicative non è percepito dal popolo stesso, che ha appreso da tempo a sentirsi libero solo quando per bocca del Capo può sfogare il proprio rancore postumo contro gerarchie sociali e culturali ormai tramontate. Il trionfo della maggioranza sulla competenza, dell’omogeneità sulla distinzione, si compie così, felicemente, attraverso il magnate populista, attraverso colui che sta costruendo per sé solo l’eccezione assoluta che lo rende superiore a ogni norma e a ogni regola.
È, quello di Berlusconi, un populismo monocratico, reso profondamente antidemocratico appunto dal richiamo al popolo a vantaggio di una persona sola. E soprattutto dalla necessità che il cavaliere ha di alimentarlo con l’attivazione di un conflitto permanente tra il popolo e le istituzioni. Un populismo di micidiale efficacia, che viene da un passato collettivo potenziato dalla volontà di Uno, e che cerca di impadronirsi del futuro; un populismo che è frenato solo, per ora, da ciò che - giustamente - esso identifica come il proprio avversario: il moderno costituzionalismo, il sistema di equilibri e di garanzie, che informa di sé la nostra Costituzione. Il baluardo che ci separa da una postmodernità squilibrata, informe e feroce.
FONDAZIONE Don Lorenzo Milani
Barbiana 16 Aprile 2011
Inaugurazione del ’SENTIERO DELLA COSTITUZIONE’ *
In occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia la Fondazione don Lorenzo Milani, il Comune di Vicchio e l’ Istituzione culturale don Lorenzo Milani ripropongono i valori costituzionali attraverso il Sentiero della Costituzione a Barbiana.
Sono stati allestiti dalla fondazione Don Lorenzo Milani, lungo un sentiero di oltre un chilometro, 44 grandi bacheche con gli articoli della Costituzione illustrati dai disegni dei ragazzi di diverse scuole d’Italia che per l’occasione hanno collaborato al progetto.
Il percorso scelto è lo stesso che fece a piedi don Lorenzo Milani il primo giorno che fu mandato a Barbiana.
Nella scuola di Barbiana la Costituzione era molto studiata, era considerata la bussola per non smarrirsi, la guida del futuro cammino dei ragazzi nella società. In essa i barbianesi vedevano non solo la Legge fondamentale dello Stato, ma anche il punto d’equilibrio sociale capace di costruire una società nuova, più giusta ed equilibrata. Così come in quella scuola era valorizzato l’impegno politico e sindacale. Un concetto riassunto nella lettera ai giudici con la frase "la leva ufficiale per cambiar la legge è il voto, la Costituzione gli affianca la leva dello sciopero".
Del resto l’affermazione contenuta in - Lettera a una professoressa - "uscire insieme dai problemi è la politica, uscirne da soli è l’avarizia" rappresenta una sintesi molto efficace del valore della solidarietà praticata alla scuola di don Milani e prevista dai primi articoli della Costituzione.
PROGRAMMA
ore 9,30
Vicchio - Teatro Giotto
Incontro dei ragazzi delle scuole con il Presidente della Corte Costituzionale
ore 11
Barbiana
Inaugurazione del Percorso Costituzionale
Saluto:
del Presidente della Fondazione Don Lorenzo Milani
Michele Gesualdi
del Sindaco di Vicchio
Roberto Izzo
del Presidente della Provincia di Firenze
Andrea Barducci
della Vice Presidente della Regione Toscana
Stella Targetti
Intervento del Presidente della Corte Costituzionale
Prof. Ugo De Siervo
Salita per il "Sentiero della Costituzione" fino alla scuola di Barbiana
Visita del Percorso Didattico
Per comunicazioni e informazioni:
Fondazione don Lorenzo Milani Tel/Fax 055418811
e mail: contatti@donlorenzomilan.it
"Vous etes embarqué" (Blaise Pascal, Pensieri) ...... Come un certo numero di persone rifugiati in una scialuppa per salvarsi senza sapere dove, quando e dopo quali peripezie effettivamente si salveranno:
LA ZATTERA DELLA MEDUSA...
FASCINO DEL POTERE, CONFORMISMO GIORNALISTICO, E OPINIONE PUBBLICA.
di Roberto Beretta (Avvenire, 13 aprile 2011)
Don Milani garante della Costituzione. Per chi conosce il Priore, non è affatto una novità: «Tutti i cittadini sono uguali senza distinzione di lingua», citava la Lettera a una professoressa; «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli», stava scritto nella Lettera ai cappellani militari che costerà all’autore un processo per apologia di reato. È tuttavia alquanto curioso che due suoi discepoli, due fratelli di sangue - Michele e Francesco Gesualdi -, in modo praticamente contemporaneo benché da prospettive politiche differenti evochino la figura del prete toscano per difendere la nostra Carta fondamentale, tirando in ballo - in modi diversi - il presidente Napolitano in quanto garante appunto della Costituzione.
Francuccio, infatti, ha appena firmato con altri ex alunni di Barbiana una veemente lettera aperta in cui chiede al Quirinale - «nello spirito di don Milani» - di pronunciarsi con un pubblico messaggio a difesa della Costituzione e di praticare l’«obiezione di coscienza ogni volta che è chiamato a promulgare leggi che ne insultano nei fatti lo spirito».
Il fratello maggiore Michele invece, già presidente della Provincia di Firenze, ha invitato il medesimo presidente della Repubblica a seguire (forse avverrà a settembre) il «percorso costituzionale » che la Fondazione Don Lorenzo Milani inaugura sabato alle 11 a Barbiana, alla presenza del presidente della Corte costituzionale Ugo De Siervo. Un sentiero appositamente ripristinato (è lo stesso percorso a piedi dal sacerdote fiorentino la prima volta che giunse nella sua destinazione «punitiva») che si snoda per oltre un chilometro lungo il bosco, fino alla canonica del Mugello dove don Lorenzo visse dal 1954 al 1967 e dove è sepolto.
Un grande «libro di strada» permanente costituito da 44 cartelloni con gli articoli della «magna charta» italiana, illustrati dagli studenti di alcune scuole della Penisola (Rovereto, Firenze, Milano, Montebelluna, Pieve a Nievole...). Un percorso didattico che, d’ora in poi, sarà obbligatorio per le migliaia di giovani che ogni anno si recano in pellegrinaggio civile nella sperduta eppure «centrale» località: nemmeno oggi, infatti, i pullman arrivano fin lassù e dunque tutti i visitatori percorreranno l’ultimo tratto a piedi sotto l’ombra delle nuove bacheche «costituzionali». Un’ottima introduzione alla «lezione» che poi riceveranno nella scarna aula dove si faceva scuola 365 giorni l’anno, 10 ore al giorno, e senza annoiarsi.
Lì sono cresciuti anche fisicamente i due Gesualdi (il Priore li aveva praticamente adottati e sono gli unici allievi citati per nome nel suo testamento) ed è sintomatico che oggi, ragionando sulla situazione del Paese e anche come segno per il 150° dell’unità, abbiano avuto uno spunto simile: ricorrere al libro che il loro maestro indicava come garanzia per poter essere cittadini sovrani.
«Lo studio della Costituzione era costantemente presente nell’insegnamento di don Milani - testimonia Michele -. Se ne trovano ampi riferimenti in Esperienze pastorali, nella Lettera ai cappellani militari e in quella ai giudici, in Lettera a una professoressa e nelle lettere pubblicate postume. Alla scuola di Barbiana il suo studio era molto considerato, non solo come legge fondamentale, ma anche come punto di equilibrio sociale capace di indicare soluzioni per la costruzione di una società diversa». Lo testimoniano ancor oggi vari grafici su temi di educazione civica (il diritto al voto, la storia del Parlamento dal 1921 al 1968, l’iniquità fiscale, la piramide della selezione scolastica, il diritto al lavoro...) che stavano appesi al muro dell’aula di Barbiana e oggi sono riprodotti nel percorso didattico.
La Costituzione era considerata dal Priore un’arma fondamentale di difesa degli ultimi, i figli dei contadini semi-analfabeti ai quali egli voleva fornire la cultura come mezzo per emanciparsi da una situazione di inferiorità economica e sociale; il Vangelo infatti vale solo per i credenti, ma la Costituzione - quella - è obbligatorio rispettarla.
Non per nulla il prete Milani nella Lettera ai cappellani militari rinuncia ad usare argomenti religiosi (troppo facile dimostrare che Gesù era contro la violenza!) e scegli di basarsi solo sulla carta repubblicana fondamentale.«Agli occhi dei barbianesi - sostiene ancora Michele Gesualdi - i valori e le promesse costituzionali apparivano elementi di grande novità con una forte carica innovativa, tesa al riscatto delle persone deboli. È proprio a quella società diversa che guarda don Lorenzo e forma i suoi ragazzi ad impegnarsi nella vita per eliminare le disuguaglianze che creano ingiustizie sociali. Quando il contadinello Luciano che, per andare a scuola, cammina solo solo nel bosco per più di un’ora e mezzo, cade in un fosso d’acqua che sbarra la strada rischiando di affogare, don Lorenzo trasuda d’indignazione e sdegno e reagisce insieme ai ragazzi della scuola impugnando di fronte al sindaco di Vicchio l’articolo 3 della Costituzione: la Repubblica si impegna a rimuovere gli ostacoli economici e sociali che limitano di fatto l’eguaglianza di tutti i cittadini...
E ottiene che venga costruita una passerella sul ruscello. Oggi che si invoca da più parti una revisione della Costituzione, sarebbe utile rammentare come - per il Priore - «le leggi degli uomini sono giuste quando sono la forza del debole... e non sono giuste quando sanzionano il sopruso del forte».
Ne conviene il presidente della Fondazione Don Milani, sostenendo che i valori costituzionali sono semmai da rafforzare: «Sembra lontana la tensione morale di quando don Lorenzo indicava nella Costituzione il fondamento e la formazione civile dei suoi ragazzi. Allora nessuno metteva in discussione l’attualità e la lungimiranza della nostra Carta. Oggi il clima è un po’ diverso, non è più unanimemente riconosciuta la fecondità di quel documento; ma proprio per questo si rende più necessario riproporne la forza». Magari facendo quattro passi in Mugello, sulle pendici del Monte Giovi, destinazione Barbiana.
La Stampa 14.4.11
Napolitano: no al populismo
La democrazia, per essere solida e vitale, deve incardinarsi su un sistema di istituzioni ben bilanciate, sostenute da una partecipazione ordinata e razionale, che esclude sensazionalismo e populismo. Uomo delle istituzioni per cultura oltre che per ruolo, Giorgio Napolitano, impegnato in una visita di Stato nella Repubblica Ceca, ha lanciato ieri questo messaggio sia in chiave di politica interna, sia con un riferimento all’Unione Europea, scossa attualmente dalle polemiche sull’immigrazione.
Proprio mentre affrontava questi temi con le autorità ceche, a cominciare dal presidente Vaclav Klaus, il Capo dello Stato ha fatto pervenire un messaggio in questo senso alla presidenza della Biennale Democrazia in corso a Torino, imperniata appunto sul tema della partecipazione democratica. Napolitano condivide la «viva preoccupazione circa le insidie che la concentrazione dei poteri comporta per la vita democratica» e sottolinea «la grande attenzione posta dalla nostra Carta al bilanciamento dei poteri e alla presenza nel corpo sociale e istituzionale di formazioni intermedie», che costituiscono la base imprescindibile di una democrazia sana.
«Nulla - sostiene il Presidente della Repubblica - potrebbe essere più lontano dall’idea di una democrazia temperata e funzionante dell’idea di un corpo sociale indistinto, in grado di esprimersi solo elettoralmente, cui corrispondano ristrette oligarchie dotate di poteri economici e sociali senza contrappesi, resi più insidiosi dagli effetti del progresso tecnologico, impensabili solo sessanta anni fa».
Si tratta di concetti facilmente traducibili in linguaggio quotidiano. Una democrazia «bilanciata», infatti, presuppone che tutti i poteri fondamentali, Parlamento, governo e giustizia siano ugualmente forti e in grado di controbilanciarsi. E dunque sia la funzione legislativa sia quella giudiziaria non possono essere sottomesse all’esigenza dell’esecutivo. Si ricorderà che, due anni fa, nella sua prolusione alla prima edizione della Biennale, Napolitano fece una significativa citazione di Norberto Bobbio, quando ricordò che «la denuncia dell’ingovernabilità tende a suggerire soluzioni autoritarie».
Ma il riferimento ai «poteri delle oligarchie» resi «più insidiosi dagli effetti del progresso tecnologico» non può non essere interpretato come una messa in guardia da forme di democrazia plebiscitaria innervate, invece che su un’intelligente partecipazione popolare, su proclami unidirezionali, cioè dall’alto verso il basso, convogliati da televisione, pubblicità o anche Internet. I riferimenti a un certa cultura politica propagandata anche da una parte non irrilevante dell’attuale classe politica nazionale sono evidenti. [P. PAS.]