Il Mussolini di Marco Bellocchio
Da Crono al padre duce
di Giulia Galeotti *
Per molti versi, Vincere di Marco Bellocchio è anche l’emblema di ciò che per secoli è stata la paternità fuori dal matrimonio. Una paternità spietata che poteva disporre a suo completo piacimento dei figli (e, quindi, di riflesso delle loro madri), in nome di un potere maschile che, come un sofisticato Crono, era l’arbitro assoluto delle loro esistenze, autentico signore della vita e della morte.
Nonostante alcune imprecisioni storiche, la bella pellicola di Bellocchio riesce bene a comunicare questo lato oscuro della paternità, che fino all’utilizzo in aula del Dna - negli anni Ottanta del xx secolo - è stata inscindibilmente legata alla volontà maschile: o un uomo si riconosceva volontariamente come padre oppure non vi era modo alcuno (salvo rarissime eccezioni) di ancorarlo alle proprie responsabilità. In questo senso la vicenda di Mussolini che Vincere racconta è assolutamente paradigmatica. Tutto il film è profondamente cupo e buio. L’unico punto di luce sono gli occhi sgranati di Ida Dalser, per la passione travolgente prima e per la follia poi (personaggio ben interpretato da Giovanna Mezzogiorno), e quelli di Benitino, ossessionato sin da piccolo dalla figura del padre sino alla folle chiusura del film (anche Filippo Timi dà un’ottima prova di sé).
Contrariamente alla prassi più in voga, il futuro Duce non si limita a concepire un figlio dalla bella amante per poi abbandonare l’uno e l’altra, ma - come emerge dai documenti d’archivio - l’11 gennaio 1916 si reca nello studio dell’avvocato Guido Gatti e, dinnanzi al notaio Vittorio Buffoni e a due testimoni (Carlo Olivini di Brescia e Irma Marcosanti di Viareggio), sottoscrive una dichiarazione con la quale riconosce, "per ogni conseguente fatto di legge", che il bimbo "chiamato attualmente Benito Dalser, nato a Milano all’Istituto della maternità l’11 novembre 1915" è suo figlio. In questo senso colpisce la scelta di Bellocchio di concentrarsi sul presunto matrimonio tra i due amanti - del quale non v’è traccia storica - piuttosto che soffermarsi su questo aspetto di cui invece ci è giunta ampia documentazione, e cioè il riconoscimento formale di Benito Albino da parte di suo padre (la pellicola lo accenna solo tardi e di sfuggita).
Siamo del resto in un’epoca in cui tale volontaria attestazione dava all’uomo un potere esclusivo anche in caso di nascita fuori dal matrimonio. Come molte donne hanno vissuto drammaticamente sulla loro pelle (Maria Montessori in testa), dinnanzi al riconoscimento maschile la donna - anche se era stata lei concretamente ad occuparsi per anni del nato - si trovava del tutto priva di poteri sulla prole. È proprio il comportamento di Mussolini verso il bambino che per molti versi legittima la spirale di follia da cui Ida, che resterà sempre follemente innamorata di lui, verrà travolta. Se il tribunale di Milano condannerà il futuro Duce a versare 200 lire mensili per il mantenimento del bimbo, ecco che - sebbene solo molto tardi e disordinatamente - Mussolini effettivamente pagherà; nel 1920, quando ormai la relazione tra i due è finita, la Dalser riesce a braccare Mussolini a Napoli, convincendolo a battezzare il figlio; poco dopo, il fratello di Mussolini e Riccardo Paicher, cognato di Ida, che momentaneamente riuscì ad assumere la tutela del nipote, troveranno un nuovo accordo economico; ancora nell’anno scolastico 1924-1925 i documenti parlano chiaro: leggiamo dell’alunno Benito Albino Mussolini "figlio di Benito Presidente del Consiglio dei Ministri e di Ida Dalser".
Bellocchio ben descrive la situazione paradossale in cui la donna si trova: se tutti sanno che la paternità che ella non smette mai di rivendicare è vera, la sua pazzia è nel non voler vedere la crudeltà del comportamento di Mussolini, imputandola a una sorta di prova d’amore a cui l’uomo la starebbe sottoponendo, onde sincerarsi dei suoi veri sentimenti.
Il film è sapientemente diviso in due parti. Nella prima il giovane Mussolini - arrogante, brutale e violento - domina la scena in prima persona, mentre nella seconda, quando ormai la sua carriera politica è decollata, lo vediamo e ascoltiamo solo attraverso i filmati dell’istituto Luce. Difficilmente Bellocchio avrebbe potuto scegliere un modo migliore per segnare il cambiamento nella vita di Ida (e di Benitino): l’ottica dalla quale la vicenda si muove è proprio quella dei loro occhi, sgranati e impotenti dinnanzi al potere di un uomo che, da lontano e passo dopo passo, li schiaccia fino a ridurli entrambi al silenzio. È il padre inutilmente rincorso, atteso e desiderato per tutta la vita.
In questi giorni nelle sale v’è un altro film italiano che parla di paternità: questa volta però è protagonista la paternità del nuovo millennio. Ci riferiamo a La casa sulle nuvole in cui v’è il padre adolescente che (inutilmente) rincorre un’età ormai superata anagraficamente, venendo prima odiato, poi perdonato e infine accudito dai figli ben più maturi di lui.
In Vincere, del resto, Bellocchio inserisce - involontariamente? - una scena che anticipa la tappa successiva della storia della paternità: mentre è detenuta in manicomio, Ida si commuove dinnanzi a Il Monello di Charlie Chaplin. È la storia nella storia: il celebre attore-regista ha svolto infatti un ruolo chiave nella vicenda della paternità occidentale. Ma questo capitolo lo lasciamo al prossimo film.
* ©L’Osservatore Romano - 28 maggio 2009
Perché fa ancora scandalo il Duce seduttore?
Benito Mussolini aveva carisma. È ora di accettarlo
Le critiche di Natalia Aspesi al film di Bellocchio derivano dall’impossibilità di ammettere la capacità di seduzione del Duce. Basta con la favola degli italiani stupidi e accecati, ieri con lui e oggi con Berlusconi
di Lucetta Scaraffia (il Riformista, 21.05.2009)
In Italia, quando si parla di Mussolini, tutti si agitano ancora, e molto. Come sta avvenendo per il film di Bellocchio presentato a Cannes Vincere, che, come ormai ben si sa, riprende una storia d’amore della sua gioventù con Ida Dansen, dalla quale nacque un figlio, Benito. Il giorno dopo l’anteprima, Natalia Aspesi sgridava il regista su Repubblica, dicendo che era sbagliata la rappresentazione di Benito Mussolini, secondo lei macchiettistico. Peccato però avesse detto, appena qualche riga prima, che nei cinegiornali dell’epoca, che inframezzano la finzione cinematografica, il dittatore vero appariva macchiettistico.
Forse la Aspesi non possiede una collezione di fotografie di famiglia, in cui gli uomini di quell’epoca si mostrano con colletti duri e facce feroci in mezzo a donne e bambini, in una rappresentazione esasperata e guerriera della mascolinità che certo poco si addiceva magari a tranquilli borghesi ma che era tipica e ampiamente diffusa.
Il mio nonno, che aveva fatto il bersagliere nella prima guerra mondiale, e che era l’uomo più buono che io ricordi di avere conosciuto, nelle foto ha una faccia da cattivo che avrebbe dovuto terrorizzare noi nipoti, che invece lo adoravamo.
Anche l’idea di fascino maschile è molto cambiata: ai nostri occhi appare buffo il grande seduttore Rodolfo Valentino, per cui si sono addirittura suicidate delle donne, mentre troviamo affascinante l’eleganza spiegazzata di un Jeremy Irons e l’autoironia di Sean Connery, tanto per citare solo due seduttori di lungo corso.
Quindi è chiaro questo primo punto: macchiettistico è un comportamento, un modo di proporsi di altri tempi, che oggi ci infastidisce perché non corrisponde per nulla alla nostra concezione della vita, ma che può essere perfettamente autorizzato in un film storico, o meglio addirittura richiesto dal soggetto. Ma quello che disturba la Aspesi, mi viene il dubbio, non è questo, ma piuttosto il fatto che Mussolini viene rappresentato come affascinante sciupafemmine di sinistra invece che il dittatore rigido e imbolsito quale ormai siamo abituati a vedere. Certo, è un mascalzone, ma come ben si sa i mascalzoni sono sempre piaciuti, come ben prova il fatto - verità storica - che la povera Ida Dalsen, se pure non richiesta, vende il suo istituto di bellezza e tutti i suoi averi per fornirgli i soldi necessari a iniziare la pubblicazione del nuovo giornale nazionalista, Il Popolo d’Italia.
Mussolini, quindi, è un seduttore dei primi decennidel 900, con una vita sentimentale complicata e confusa, in cui si barcamena a fatica: l’unica cosa ben chiara è che il suo interesse principale non sono le donne - che pure gli piacciono molto - ma il suo destino futuro, la sua ambizione smisurata di figlio del popolo che vuole disperatamente arrivare in alto, il più alto possibile.
In questo senso agli sceneggiatori del film si può imputare un’assenza importante, quella di Margherita Sarfatti, in quegli stessi anni certo la donna più influente nella vita di Mussolini, non tanto per amore, ma perché estremamente utile alla sua scalata sociale. A differenza di Ida e di Rachele, Margherita era una donna colta e ricca, di alta classe sociale, moglie di un avvocato socialista che era stato parlamentare, e soprattutto molto intelligente: non solo è lei che insegna a Mussolini a vestirsi e a mangiare in modo decente, dirozzandolo dal punto di vista sociale, ma è anche una utilissima ed esperta consigliera culturale. È lei che lo mette in contatto con i futuristi - che compaiono nel film - e con vari intellettuali, che gli suggerisce di utilizzare il mito di Roma imperiale e che scrive la biografia Dux, tradotta in molte lingue, che contribuirà in modo decisivo a creare consenso e approvazione intorno al dittatore non solo in Italia. E fu Margherita a suggerirgli di sposare Rachele, e non Ida, perché pensava che una povera contadina le avrebbe dato meno ombra: si sbagliava, però, e le leggi razziali avrebbero dato il colpo definitivo ad una influenza già declinata.
Invece nel film è molto ben ricostruita la figura di Ida, certo vittima di una situazione sbagliata e di un uomo di potere senza cuore, ma anche artefice essa stessa, con la sua fissazione amorosa, della sua fine tragica.
Mussolini non fa certo bella figura, ma neppure risulta un mostro di cattiveria: è un uomo ambivalente ed egoista, e anche un po’ vigliacco con le donne, come spesso i seduttori, ma si capisce, almeno, quale fascino abbia potuto esercitare sulle donne, e in generale sugli italiani. Perché non si può continuare a dire che gli italiani che hanno favorito e accettato l’ascesa di Mussolini erano solo stupidi e accecati, esattamente come oggi si dice di chi vota Berlusconi: nella vita politica moderna il fascino carismatico occupa un posto importante, e bisogna farsene una ragione.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
MUSSOLINI, IDA DALSER, E BENITO ALBINO MUSSOLINI: UNA TRAGEDIA ITALIANA.
MESSAGGIO EV-ANGELICO E SANTO PADRE?! ABUSO DEL TITOLO E MENZOGNA. L’ERRORE DI RATZINGER.
LA STORIA DI UNA PAROLA: COME PAPA’ DIVENNE PAPI. LA VOCE "ABATE" DAL "DIZIONARIO FILOSOFICO" DI VOLTAIRE:
ABATE (Abbé)
di VOLTAIRE *
«Dove andate, Signor abate?» ecc. (1). Vi rendete conto che abate significa padre? Se voi lo diverrete, renderete un servizio allo Stato; e senza dubbio compirete l’opera più alta che possa compiere un uomo: nascerà da voi un essere che pensa. C’è qualcosa di divino in quest’azione.
Ma se siete il signor abate solo per il fatto che avete la chierica e portate un collarino e una mantellina, e ve ne state lì alla posta di qualche beneficio, il nome d’abate non lo meritate.
Gli antichi monaci chiamarono così il superiore che essi eleggevano. L’abate era il loro padre spirituale. Quanti significati diversi assumono, col passare del tempo, gli stessi nomi! L’abate spirituale era un povero a capo di tanti altri poveri; ma i poveri padri spirituali giunsero poi ad avere duecento, quattrocentomila franchi di rendita; e ci sono, oggi, in Germania, dei poveri padri spirituali che posseggono un reggimento di guardie.
Un povero che ha fatto giuramento d’essere povero e che, di conseguenza, diventa sovrano! Già lo si è detto; e va ridetto mille volte: questo è intollerabile. Le leggi protestano contro questo abuso, la religione se ne indigna, e i veri poveri, nudi e affamati, assordano il cielo di lamenti davanti alla porta del signor abate.
Li sento rispondere, i signori abati d’Italia, di Germania, delle Fiandre, della Borgogna: «E perché non dovremmo accumulare anche noi ricchezze ed onori? Perché non dovremmo essere principi? I vescovi lo sono. Una volta erano poveri come noi, e poi si sono arricchiti, si sono innalzati; uno di loro è ora più in alto dei re; lasciate che li imitiamo per quel che ci è possibile.»
Avete ragione, signori; invadete la terra; essa appartiene ai forti e ai furbi che se ne impossessano. Avete approfittato dei tempi dell’ignoranza, della superstizione, della demenza per spogliarci delle nostre eredità e calpestarci; per ingrassarvi con le sostanze degli sventurati: tremate, chissà che non arrivi il giorno della ragione.
* VOLTAIRE, Dizionario filosofico
(1) Accenno a una canzoncina dell’epoca in cui un abate cammina furtivamente al buio, correndo il rischio di rompersi il collo, "pou voir les demoiselles" (Voltaire, Dizionario filosofico, Bur, Milano 1979, p. 47).
RICOMINCIARE DA “CAPO”! PER LA CRITICA DEL “SOGNO D’AMORE” ... *
” Degli scritti che, quasi contemporaneamente al mio, si occuparono dello stessa argomento , solo due sono, degni di nota : Napoléon le Petit di Victor Hugo e il Coup d’Etat di Proudhon.
Victor Hugò si limita a un’invettiva amara e piena di sarcasmo, contro l’autore responsabile del colpo di stato. -L’avvenimento in sé gli appare come un fulmine a ciel sereno. Egli non vede in esso altro che l’atto di violenza di un individuo. Non si accorge che ingrandisce questo individuo invece di rimpicciolirlo, in quanto gli attribuisce una potenza di iniziativa personale che non avrebbe esempi nella storia del mondo.
Proudhon, dal canto suo, cerca di rappresentare il colpo di stato come il risultato di una precedente evoluzione storica ; ma la ricostruzione storica dei colpo di stato si trasforma in lui in una apologia storica dell’eroe del colpo di stato. Egli cade nell’errore dei nostri cosiddetti storici oggettivi. Io mostro, invece, come in Francia la lotta di classe creò delle circostanze e una situazione che resero possibile a un personaggio mediocre e grottesco di far la parte dell’eroe.”
(K. Marx, Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte. Prefazione dell’autore alla seconda edizione, [1869] ).
“Non basta dire come fanno i francesi che la loro nazione è stata colta alla sprovvista. Non si perdona a una nazione, come non si perdona a una donna, il momento di debolezza in cui il primo avventuriero ha potuto farle violenza. Con queste spiegazioni l’enigma non viene risolto, ma soltanto formulato in modo diverso. Rimane da spiegare come una nazione dì 36 milioni di abitanti abbia potuto essere colta alla sprovvista da tre cavalieri di industria e ridotta in schiavitù senza far resistenza”
(K. Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, 1852).
SIMONE WEIL: “L’immagine del corpo mistico di Cristo è molto seducente, ma l’importanza che si annette oggi a questa immagine mi pare uno dei sintomi più gravi della nostra decadenza. La nostra vera dignità infatti non sta nell’essere membra di un corpo, anche se mistico, anche se quello di Cristo, ma in questo : nello stato di perfezione, al quale tutti aspiriamo, noi non viviamo più in noi stessi, ma è Cristo che vive in noi ; in questa condizione, Cristo nella sua integrità, nella sua unità indivisibile, diviene, in certo senso, ognuno di noi, come è tutto intero nell’ostia. Le ostie non sono frammenti del suo corpo.
L’importanza attuale dell’immagine del corpo mistico dimostra quanto i cristiani siano miseramente esposti alle influenze esterne. certo inebriante sentirsi membro del corpo mistico del Cristo : ma oggi molti altri corpi mistici, che non hanno Cristo come capo, procurano alle proprie membra un’ebbrezza, a mio parere, della stessa natura” (Simone Weil, 1942.)
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LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE : LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA “CAPO”!
I. BENITO MUSSOLINI E MARGHERITA SARFATTI - II. ARNALDO MUSSOLINI E MADDALENA SANTORO.
KANT, GRAMSCI, E SIMONE WEIL. PER LA CRITICA DELL’IDEOLOGIA DELL’UOMO SUPREMO E DEL SUPERUOMO D’APPENDICE.
“Il fascismo da stato d’animo a regime: “Vincere” di Marco Bellocchio”
di Mario Pezzella *
All’inizio di Vincere, Benito Mussolini, giovane e ancora socialista, sfida Dio - se esiste - a fulminarlo entro cinque minuti. Apparentemente vince la scommessa, di fronte a un pubblico ammutolito dalla sua trovata fanfaronesca: ma, alla fine del film, dopo una sequenza documentaria in cui vengono mostrati la rovina dei bombardamenti e la desolazione dell’Italia al termine della guerra, viene ripresa l’immagine di Mussolini che fissa l’orologio, e il suo ticchettio ci avverte che quei cinque minuti non sono mai passati, che giungono ora a scadenza, non hanno mai cessato di passare, mentre la storia faceva il suo corso: in un tempo più profondo e misterioso, dotato di un ritmo e di scansioni diverse da quelle cronologiche. Il film si chiude su una testa bronzea di Mussolini, frantumata da uno schiacciasassi. Una stessa dismisura, una stessa hybris, congiunge la sfida iniziale e la rovina finale, l’evocazione del fulmine e il fulmine che arriva, su di lui e sul popolo che con lui si era identificato[1].
Quasi un avvertimento ci pare allora la carovana dei ciechi (forse ricordo di un celebre quadro di Brueghel), che in una sequenza del film sfila davanti a Mussolini, che ha appena finito di vantare le sue qualità di superuomo: «Ma è la marcia nel buio che Bellocchio davvero racconta, e che davvero fa riemergere dalle ombre del passato. E da ombre Vincere è di continuo percorso. Ombre sono i ciechi che si affidano a ciechi»[2].
[...]
La differenza fra democrazia e totalitarismo risiede anche nel diverso rapporto con la corporeità del potere sovrano: per una democrazia rappresentativa essa dovrebbe essere teoricamente indifferente, mentre il totalitarismo del 900 ha restaurato forme giubilatorie di sovranità “incarnata” (il Capo, la sua virilità, torsi nudi, baffi di foggia varia, ostentazioni muscolari, l’ebbrezza fusionale ed erotica tra il condottiero e la massa). Questo corpo sovrano, tuttavia, non deve il suo carisma alla grazia di Dio, come i Re medievali, o gli esempi di sovranità studiati da Kantorowicz, ma alla fantasmagoria immaginaria della società spettacolare, nel caso del fascismo quella che Debord ha definito come società spettacolare concentrata.
Il Duce non riceve il suo potere da nessuna volontà sacra o trascendente (tanto meno quanto più si presenta egli stesso come una controfigura di Cristo). È un dittatore e un decisore, non un sovrano legittimo[19]: ciò non toglie che intorno al suo corpo si cristallizzi una sorta di teologia immanente e demonica, che ne fa il rappresentante incarnato dell’idea della storia. Così la simbologia cristologica del martirio, del Salvatore e e della redenzione, può essere recuperata e attribuita in forma profana al dittatore. Il film di Bellocchio studia attentamente il passaggio da un Mussolini esaltato, certo, ma ancora umano, a colui che invaso da una inflazione psichica incontrollabile diviene preda della propria immagine grandiosa, diffondendola come un contagio nelle masse che si identificano con lui.
[...]
Il cinema serve alla costruzione del mito totalitario, ma può divenire anche la sua critica e il suo smascheramento. Una vera cesura nella vita di Ida avviene quando uno psichiatra, che a differenza degli altri cerca di comprenderla e ascoltarla, fa proiettare Il monello di Chaplin su uno schermo eretto nel giardino dell’ospedale. Il montaggio alternato fra il film e il volto di Ida, che si identifica sempre più con il vagabondo innocente a cui vogliono sottrarre il bambino, mette in rilievo la distanza di Ida dall’immagine grandiosa del Duce e la carica antiautoritaria della comicità di Charlot. È proprio questo raccordo a porre una cesura significativa nel film di Bellocchio. Questo schermo cinematografico, montato nel giardino del manicomio, si oppone diametralmente all’altro, sospeso come un lenzuolo funebre sui feriti, nella sequenza in cui Mussolini si trova nell’ospedale di guerra; così come la retorica solenne e sacrificale del film sulla Passione di Cristo si oppone alla carica sovversiva e dirompente di Chaplin. L’immagine cinematografica può non essere strumento passivo del potere spettacolare, può esserne la critica espressiva.
[...] Non è un caso se Ida, dopo la proiezione del Monello, non si preoccupa più della sua identità immaginaria di moglie ed “eletta” del Capo e scopre un amore reale per il figlio, nella sua sofferenza e nella sua alterità. Ella non accetta il consiglio dello psichiatra di mettersi una maschera e recitare ciò che il potere vuole che sia. Il suo specchio si è rotto, l’immagine narcisista si è disgregata e ora ella si ostina a testimoniare della verità e dell’opposizione all’abuso. È un desiderio di Parresia a guidarla, non più la speranza delirante di assurgere al ruolo di moglie-madre del Capo patriarcale e padrone: «La parresia implica un contropotere esercitato nei confronti di chi ha il potere. Il rischio cui si espone parlando, le sue stesse qualità morali, la critica esercitata come dovere e la capacità di autocritica...fanno sì che il parresiastes sia nel vero, in quanto si colloca all’interno di un determinato potere-sapere con i suoi effetti e controeffetti di verità»[22].
In una delle sequenze più belle del film Ida è sospesa alla cancellata del manicomio mentre i fiocchi di neve che cadono, alla controluce, sembrano scintille bianche, come quelle che scendono dal cielo del Presepe, in una natività solitaria e riscoperta; come un natale, che riprenda il senso di un essere-per-l’inizio, di principio di un mondo altro. Ida getta al nulla e all’iridescenza della neve, a un dio che non conosce, le sue lettere. Il destinatario che ne raccoglierà la memoria è senza figura: ma siamo forse noi stessi, gli spettatori, dal nostro presente, a ritrovare la leggiblità di quelle lettere. In montaggio alternato, la sequenza mostra il figlio di Ida nel collegio, che vuole riconosciuto il suo vero cognome, che fronteggia un volto bronzeo di Mussolini nel corridoio, che lo rovescia a terra, e inizia quel tormentoso rapporto di identificazione e di rovesciamento mimetico che lo porterà alla follia.
È un’immagine di sogno la sequenza in cui Ida fugge dal manicomio, grazie a una suora che le cede i suoi vestiti liberando il suo volto di donna, torna a casa e poi, quando la riconducono via, è riconosciuta e salutata da tutti gli abitanti del paese, che vorrebbero liberarla. Come alla fine di Buogiorno notte o in Sangue del mio sangue e in altri film di Bellocchio, emerge un’improvvisa immagine utopica di liberazione, della storia come avrebbe dovuto essere o come potrebbe essere, che disloca il fatto accaduto o fa sì che il compiuto diventi incompiuto e l’incompiuto compiuto. Il suo cinema è rivolto alla redenzione di un possibile, schiacciato sotto la necessità della storia e la violenza sulla psiche. Gli uomini, le donne, i bambini che si raccolgono intorno a Ida sembrano improvvisamente consapevoli che l’oppressione subita da lei è la stessa che si è diluita per tutti nelle tetre giornate del regime declinante. Bellocchio inserisce nel film questa pausa-sogno di libertà, vita che scioglie il suo fluire irrigidito, riattualizzazione di un possibile sconfitto o dimenticato.
* Le parole e le cose, 3 Luglio 2020 (ripresa parziale - senza note).