di RINO GENOVESE (Il manifesto, 17.03.2009)
Il libro che Peppino Ortoleva pubblica con il titolo Il secolo dei media. Riti, abitudini, mitologie raggiunge due risultati notevoli: quello di offrire una descrizione obiettiva - cioe’ non moralistica, non pregiudizialmente liquidatoria - di cosa sia stato, e di cosa sia diventato con le nuove tecnologie, il sistema dei media; e quello di riaprire il dibattito sul significato generale dei rapporti tra la tecnica e la forma di vita moderna. Corrispondera’ al vero, infatti, il ritornello su cui insiste una vulgata molto pervasiva che fa della tecnica guidata dal capitalismo la grande distruttrice del "legame sociale", il veicolo di un’atomizzazione individualistica pressoche’ irreparabile? O non e’ piuttosto vero il contrario, cioe’ che i media - da non intendere riduttivamente come mezzi soltanto tecnici -, nel corso del Novecento e in questo nostro inizio secolo, hanno costituito il tratto piu’ tipico di una cultura da considerare in senso propriamente antropologico, quindi come una forma di legame perfino soffocante?
Assumere fino in fondo la seconda ipotesi vuol dire fare dell’Occidente moderno non tanto il mondo dell’individualismo, quanto piuttosto quello di un individualismo corretto da forti dosi di comunitarismo neo-arcaico, se cosi’ si puo’ dire; e considerare percio’ il secolo dei media non come contrassegnato dalla semplice fine del mito e del rito, ma come il tempo in cui si forma e si sedimenta quella che Ortoleva chiama una "mitologia a bassa intensita’".
Che cos’e’ una mitologia di tal fatta? Lo spiega bene Ortoleva: "A differenza dei miti classici o di quelli Bororo di Levi-Strauss, a ripetersi e’ la formula, anziche’ la singola storia; sono le situazioni e i tipi (il detective, il potente-corruttore, la dark lady), anziche’ i nomi e i personaggi". Il fruitore in questo modo e’ inserito in una dimensione fatta di accumulo ripetitivo, di abitudini (il che e’ caratteristico del mito), e insieme di piccole variazioni introdotte da storie simili e tuttavia sempre diverse (si pensi al serial televisivo), nei cui confronti puo’ arrivare ad assumere l’attitudine piu’ o meno compulsivamente giocosa di un bricoleur "fai da te".
E’ un accumulo ripetitivo, certo, ma un accumulo di atti di consumo che hanno la forma di acquisizioni di volta in volta connotate individualmente. Proprio questo fa si’ che la cultura di massa diffusa dai media sia un misto di individualismo e conformismo antindividualistico.
Il cosiddetto legame sociale e’ tutt’altro che spezzato. Al contrario, assume la forma compatta di una cultura nel senso dell’antropologia culturale. Sia pure in una maniera "a bassa intensita’", nel cui ambito e’ previsto un allentamento del carattere imperativo del mito e una certa liberta’ dell’individuo, quello dei media e’ pur sempre un mondo fondato sopra abitudini difficili da scalzare una volta instaurate, come appunto quelle di qualsiasi cultura.
Ortoleva si conferma in questo libro un acuto rinnovatore della linea di ricerca che annovera tra i suoi capostipiti Marshall McLuhan, e che consiste nel vedere nei media novecenteschi, cioe’ nella cultura di massa o industria culturale che dir si voglia, non soltanto qualcosa da cui non si puo’ prescindere per una sociologia del presente, ma un succedersi di rotture da collocare in una prospettiva storica.
Rispetto al maestro canadese, tuttavia, Ortoleva e’ piu’ attento nel descrivere gli aspetti di continuita’ e discontinuita’ all’interno di questa storia, che viene presentata talvolta un po’ troppo come aperta al nuovo e per principio inquieta.
Per esempio, un medium del passato come il giornale non e’ affatto sparito, non e’ stato soppiantato dai media recenti e recentissimi, e anzi ha conservato intatta la sua struttura comunicativa fatta di un collage di commenti e "notizie" (un’invenzione storica anche questa, dato che nessuno saprebbe dire cosa veramente sia una notizia).
Al tempo stesso, pero’, la vorticosa comunicazione resa possibile dai media ha mutato, in una maniera non governabile, usi e costumi che affondavano le radici in un tempo molto remoto, facendo cadere i due tabu’ forse piu’ forti che l’Occidente abbia mai conosciuto: quello sul giuramento, sul "dare la parola", e quello sulla rappresentazione del sesso.
Lo sviluppo della pornografia reso possibile dalla riproduzione fotografica e dal cinema ieri, oggi dai video e da Internet, e’ cresciuto in effetti esponenzialmente su se stesso, e non puo’ nemmeno essere ridotto alla sua forma di merce, che pure c’e’. Ha la portata di un’estetizzazione ed esposizione integrale del corpo umano nel cui ambito, come spesso in Occidente, la spinta liberatoria iniziale e la sua impasse finale risultano indistinguibili.
Allo stesso modo, la caduta del tabu’ riguardo all’onore che il giuramento e il "dare la parola" mettevano in gioco e’ certo collegata a un processo di deritualizzazione della vita sociale, che sembrerebbe "liberare" le forze dell’individualismo moderno; ma cede il passo, ancora una volta, alla "bassa intensita’" dei molti riti "fai da te", in cui consumo e sacralizzazione diffusa fanno tutt’uno. Non appare allora strano che chi voglia sul piano mondiale contrastare l’egemonia della cultura occidentale assuma posizioni religiose oltranziste e tradizionaliste.
Il merito principale del libro di Ortoleva e’ dunque in un forte richiamo alla complessita’ e finanche paradossalita’ del mondo contemporaneo. Una lezione a cui qualsiasi sinistra da ripensare e da rifondare non dovrebbe sottrarsi.
*
Peppino Ortoleva,
Il secolo dei media. Riti, abitudini, mitologie,
Il Saggiatore, pp. 334, euro 19.
Sull "due facce" del problema, nel sito, si cfr.:
In memoria dell’aura. La questione del digitale nei musei
Con la diffusione della pandemia, i musei devono sempre più veicolare i propri contenuti attraverso le nuove tecnologie. Ma che fine fa la componente fisica dell’opera d’arte?
di Lorenzo Taiuti *
Nel film di Christopher Nolan Inception, travolgente riflessione sul rapporto fra spazio, memoria e sogno, fra architettura e mente, accade che le immagini inizino a tremare, le pareti crollino, la realtà sfugga alle leggi di gravità e si frantumi. La realtà è ricostruita digitalmente, una Realtà/Falso che vive nel sogno (artificiale, drogato) di uno dei personaggi. Quando qualcosa mette in dubbio la struttura narrativa e visiva creata, l’illusione si autodistrugge. Le forme dell’arte d’oggi sono basate su una serie di codici dove il rapporto fra visione e concetto ispiratore del lavoro crea un’architettura fragile, che si rinnova continuamente con elementi sempre nuovi e imprevedibili. Un effetto di “sfocatura” sulla realtà si accompagna sempre all’esperienza di visione di un lavoro creativo.
LA STRATEGIA DEL VIDEO NEI MUSEI
Cosa succede al rapporto opera-utente quando questa percezione avviene attraverso un medium di riproduzione? Sta succedendo in musei e gallerie nel periodo della pandemia. I musei hanno per anni tenuto al minimo la strategia del video, nella sacra paura dei diritti d’immagine, della desacralizzazione dell’opera, della perdita di richiamo del museo quando i suoi contenuti diventano “pubblici”, della perdita di aura e di mistero. Il che vorrebbe dire, però, che la riproduzione delle opere di Raffaello su segnalibri, scatole di cioccolatini, pubblicità di intimo e quant’altro ha stancato l’attenzione del pubblico. La mostra di Raffaello alle Scuderie del Quirinale a Roma è stato un successo fra i maggiori. L’oggetto reale resta il punto centrale dell’esperienza estetica.
LA MEDIAZIONE TECNOLOGICA
Il problema è, al contrario, arrivare a costruire un’esperienza mediata dalla riproduzione tecnologica. È un problema di sempre. Il regista francese Henri-Georges Clouzot, nel suo famoso documentario su Picasso, arriva a tradurre l’esperienza statica della pittura in un “time based language” filmando l’atto del dipingere attraverso un vetro. Con i continui cambiamenti e modifiche apportati da Picasso al quadro, quest’ultimo diventava cinema, video, animazione.
Il recente spostamento online di Ars Electronica Festival ha tradotto tutto in video-online con un effetto dominante di “televisione digitale”. Le soluzioni per una virtualità online sono all’inizio, e si ricordano le esperienze della videoarte degli Anni Sessanta e Settanta, che proponevano sia la documentazione (happening, performance) sia l’uso parallelo del video in funzione estetica (come il cinema d’artista), che è un percorso cinetico attraverso idee, immagini e percezioni.
VERSO UN LINGUAGGIO DIGITALE DIFFUSO
Questa ricerca sull’immagine “comunicata” dell’arte si trasforma da “nell’epoca della sua riproduzione” (Walter Benjamin) a “nell’epoca della sua comunicazione”. Nuovi linguaggi comunicativi trasformeranno la testimonianza documentaria in prodotto estetico. Un esempio è il video applicato alla danza contemporanea, la “videodanza” degli Anni Ottanta, che ha portato a significative modifiche linguistiche, facendo aderire il video agli spazi e ai movimenti della danza. Per ultimo, ma non ultimo: quando l’olografia, il 3D e tante altre promesse iniziali del digitale diventeranno linguaggi diffusi? Si apriranno nuove strade.
* Fonte: Artribune, 28.10.2020 (ripresa parziale, senza allegati).
Il tramonto della realtà
di Tiziano Bonini (Doppiozero, 03 Ottobre 2018)
In aula da un paio d’anni faccio sempre questo esperimento: chiedo agli studenti quanti sono secondo loro i migranti che vivono in Italia rispetto al totale della popolazione. Il risultato è sorprendente, anche se molto meno, per fortuna, rispetto al resto della popolazione. Secondo i dati forniti dall’Euro Barometro, l’Italia è il paese dove la distanza tra la percezione e la realtà in tema di immigrazione è più significativa: gli italiani credono, in media, che gli immigrati siano il 27% della popolazione, quando invece rappresentano solo l’8% (anche se nel 2007 erano il 4%).
I miei studenti invece li collocano tra il 10 e il 20% della popolazione, un risultato lievemente migliore, dovuto, credo, al maggiore capitale culturale in loro possesso. Tra la realtà e la sua percezione, c’è sempre stato un fossato, ma la sensazione è che, recentemente, la progressiva mediatizzazione di ogni aspetto della quotidianità stia contribuendo ad allargare questa distanza, tanto quasi da far scomparire la realtà.
È di questo che parla il libro di Vanni Codeluppi, espresso dall’affascinante titolo Il tramonto della realtà, una parafrasi del Tramonto dell’Occidente di Spengler. Codeluppi traccia con sintesi e chiarezza la traiettoria della progressiva mediatizzazione della società occidentale, che l’ha definitivamente trasformata in quella “società dello spettacolo” che Debord aveva solo intravisto. Le forme spettacolari sono tracimate fuori dai confini dei luoghi tradizionali a loro deputate e si sono moltiplicate nello spazio pubblico. Lo spettacolo, come la società e le relazioni sociali, è diventato liquido, è ovunque. Mini schermi touch e grandi schermi sono collocati ovunque nello spazio urbano: “lo spettacolo si presenta qui come totalmente fuso con la cultura sociale e, pertanto, sono i media e le loro rappresentazioni a dominare” (Codeluppi, p. 26). Allo stesso tempo però, sostiene Codeluppi, più aumenta la diffusione di dispositivi per la mediazione della realtà e più proliferano le forme spettacolari che assorbono il tempo e l’attenzione degli individui, più la realtà declina, tramonta, scompare:
Codeluppi si inserisce consapevolmente all’interno di un dibattito ormai molto corposo, da Debord e Baudrillard in avanti: la scomparsa della realtà, o la sua riduzione a “spettacolo” o a “simulacro” è già in corso da molto tempo, prima ancora della comparsa dei media digitali. Potremmo ricordare quello che scriveva J. B. Thompson nel 1995 (Mezzi di comunicazione e modernità), quando ancora il web era nella culla, quando sosteneva che i media del novecento avevano contribuito al “sequestro della realtà”: “viviamo in un mondo in cui la capacità di fare esperienza si è separato dall’incontro. Il sequestro dell’esperienza da luoghi spazio-temporali della nostra vita quotidiana va di pari passo con la diffusione di esperienze mediate” (1998 edizione italiana, p. 291).
Se la “scomparsa della realtà” è quindi un processo già noto, già evidenziato in passato e con una sua consistente bibliografia, secondo Codeluppi la più recente diffusione di massa di diversi dispositivi digitali ha accelerato questo processo di dissoluzione della realtà e ne ha intensificato gli effetti.
Se è vero, come ci ricorda Codeluppi, che Umberto Eco, già nel 1975, sosteneva che i media, per loro natura, sono fatti per mentire - “Se qualcosa non può essere usato per mentire, allora non può neppure essere usato per dire la verità: di fatto non può essere usato per dire nulla” (p. 17). Ne deriva che tutti i media devono essere visti come “strumenti particolarmente efficaci a esercitare l’arte della menzogna.” (p. 38) - è anche vero che oggi la capacità di usare un medium per “mentire” si è estesa oltre i tradizionali confini di stati e istituzioni.
Le “fake news” sono la parola-ombrello contemporanea per definire questa pratica “democratica” di produrre informazione non attendibile o propaganda, una pratica un tempo sotto il monopolio di stati, governi e media “opinionated” e oggi invece praticabile da tutti, umani di ogni ceto sociale e anche non umani, come i famosi bot “macedoni”.
Di fronte alla semplicità con la quale è possibile contraffare l’audio di un video per far pronunciare a un capo di stato frasi che non ha mai detto - i cosiddetti “deep fake” - sembra davvero che la realtà sia ormai impossibile da cogliere, che la verità, se mai è esistita, è oggi sempre più complessa e indistinguibile dalla finzione.
Ma il panorama è così desolante, come sembra suggerire il testo di Codeluppi? C’è un modo per non soccombere al declino della realtà? La risposta ha bisogno di un contesto, e forse anche di una lente di ingrandimento differente.
Il libro di Codeluppi enfatizza, già nel sottotitolo, come i media “stiano trasformando le nostre vite” e attribuisce ai media digitali in particolare, la responsabilità di una trasformazione profonda, epocale, che sembra assestare un colpo definitivo, esiziale, alla nostra capacità di comprendere la realtà. Eppure dovremmo ricordarci che i media hanno sempre trasformato le nostre vite e che da quando sono comparsi, non hanno fatto che attirare critiche proprio sugli effetti negativi di queste trasformazioni. Quando comparve la fotografia Baudelaire la definì una “grande follia industriale” e parlò di “idiozia della massa”, molto prima che qualcuno cadesse in un burrone mentre si faceva un selfie. “Trasformare le nostre vite” non è solo una prerogativa dei media contemporanei.
Ciò che è forse inedita, e qui ha pienamente ragione Codeluppi, è l’intensità di questa trasformazione, frutto della saturazione mediale in cui siamo immersi. La realtà “tramonta” sotto una miriade di strati di mediazione: i media sono come dei prismi frapposti tra noi e il mondo, che influenzano la nostra percezione di esso. Anche attività un tempo non mediate tecnologicamente, come la ricerca di un partner, oggi ricadono dentro i confini della mediazione: milioni di persone nel mondo trovano un fidanzato o un amante attraverso applicazioni come Tinder.
Il problema è che oggi sappiamo pochissimo delle regole che governano questi prismi che influenzano la nostra percezione del mondo: gli algoritmi proprietari che regolano l’incontro di domanda e offerta nei campi della cultura - film (Netflix), musica (Spotify), informazione (Google, Facebook, Twitter) -, del trasporto (Uber), delle relazioni sociali (Facebook), delle relazioni affettive (Tinder), sono tutti “prismi” opachi, o “scatole nere” (black boxes, come le chiama Frank Pasquale nel libro The Black Box Society, Harvard University Press, 2015). La “realtà” soccombe e si frammenta perché non esiste più una sfera pubblica comune per milioni di persone, ma tante diverse bolle, sfere pubbliche semi-private, dentro le quali le persone sono divise in “pubblici” con determinate qualità, che non si incontreranno mai.
Ad esempio, l’algoritmo di Tinder assegna un punteggio ad ogni suo utente, in base alla sua bellezza (misurata in termini di quanti like riceve e da chi li riceve) e fa in modo che nella sua attività di ricerca di altri partner, l’utente non incontri mai persone con un punteggio troppo più alto o troppo più basso rispetto al suo. Una persona considerata “brutta”, finché rimane dentro i confini di Tinder, non avrà mai la possibilità di vedere una persona “bella”.
Codeluppi ha il merito di individuare questo fenomeno e di renderlo intelligibile, collocandolo nella lunga durata del processo storico di mediatizzazione della società e ha l’intuizione di coniare una fortunata espressione, ovvero la trasformazione degli strumenti di comunicazione in “media biologici”, cioè strumenti che tendono a fondersi sempre più con i corpi umani e diventare sempre più parte integrante della vita quotidiana. Questa idea dei media “biologici” è, credo, in continuità col suo libro del 2008 sul “biocapitalismo”, dove aveva già anticipato la capacità dell’attuale forma del capitalismo di “sussumere”, assorbire, creare valore a partire dalle forme di vita. I media biologici sono sempre più fusi ai nostri corpi, ce li portiamo sempre più con noi, non li lasciamo più a casa, come facevamo con la tv. Tramite orologi, occhiali, telefoni e braccialetti intelligenti, scambiamo continuamente informazioni col mondo esterno ma veniamo anche costantemente de-privati di dati sul funzionamento del nostro corpo (pensate a dove finiscono le informazioni che Apple acquisisce su di voi tramite la sua app Salute) per essere trasformati in pubblici attraenti per la pubblicità (qui è molto efficace il cap. 13 del libro di Codeluppi, “Il potere della pubblicità sui media”). Ed è proprio in questo nesso tra corpi, biocapitalismo e media “biologici” che forse sta la risposta alla domanda precedente (come non soccombere al tramonto della realtà).
Codeluppi fornisce una appassionata risposta nell’epilogo del libro. Chiedendosi se “esiste una maniera di attribuire di nuovo un ruolo importante all’essere umano” (p. 110) per sfuggire alla mediatizzazione del mondo e la conseguente scomparsa della realtà, individua nel pensiero di Walter Benjamin e Bernard Stiegler una possibile via d’uscita: interpretando il loro pensiero si augura che questo bombardamento di stimoli mediali possa anche avere l’effetto di renderci più consapevoli, diventare più “esperti” e sviluppare una competenza mediale che ci permetta di curarci dal diluvio di immagini e messaggi prima che ci avvelenino del tutto: “per Stiegler è necessario considerare ogni dispositivo tecnologico, mediatico e non, come un vero e proprio pharmakon per l’intelligenza umana. In quanto tale, esso opera simultaneamente come veleno e come rimedio, come dipendenza e come autonomia, come passività e come creatività” (p. 114). Ma possiamo davvero curarci da soli, come auspica Stiegler?
È sicuramente una risposta che chiude con un po’ di speranza un testo molto preoccupato degli effetti negativi di questa ultima tappa di trasformazione della società operata dai media digitali, ma che forse non basta a sollevare lo spirito. Forse c’è bisogno di una risposta più politica, che Codeluppi in realtà aveva già anticipato nel 2008 col suo libro sul Biocapitalismo.
La risposta forse sta in un’analisi più politica, che metta a fattore gli effetti del biocapitalismo, più che quelli dei media biologici: non è solo la natura e lo “specifico” dei media digitali a produrre il declino della realtà, come sembra suggerire questa volta Codeluppi, ma è soprattutto l’assetto capitalistico di questi media. È il processo costante, e oggi ancora più efficiente, di estrazione di valore dalle nostre attività di spettatori e prestatori di attenzione che ci allontana dalla realtà, per convincerci a spendere più tempo possibile dentro i recinti digitali di piattaforme commerciali.
Non è stata tanto la diffusione dei media digitali di per sé, quanto la diffusione dei media digitali commerciali, ad aver trasformato l’esperienza di vita in uno spettacolo costante di intrattenimento. È il biocapitalismo, non i media biologici di per sé, ad aver offuscato la realtà. Questi stessi media che oggi vengono accusati di essere untori di fake news e armi di distrazione di massa potrebbero funzionare diversamente, se operanti al di fuori della logica del semplice profitto. Possono esistere media digitali “conviviali”, come ho scritto qui su Doppiozero. Possono esistere anche media biologici capaci di trasmettere sì i dati sulla nostra salute ad un computer situato a migliaia di chilometri di distanza, ma se questi dati vengono protetti, non rivenduti per fini commerciali e usati solo dal ministero della sanità, forse possono essere utili alla collettività. Così come non vedo perché un’azienda di servizio pubblico come la BBC o la Rai non possa competere, magari riunendosi in un consorzio europeo di servizi pubblici, con le piattaforme commerciali di Amazon, Netflix e Apple, per fornire un servizio non orientato al profitto ma orientato alla valorizzazione della produzione culturale europea, per fare un esempio.
Ciò che sta trasformando la nostra vita è l’esasperazione del modo di produzione capitalista, l’estensione di transazioni commerciali ad ogni dominio della vita (bio-capitalismo). Ecco secondo me, per concludere, una risposta più politica alla domanda del libro: non possiamo fermare la mediatizzazione del mondo, ma possiamo, forse, parzialmente, inceppare il modello bio-capitalista di produzione del valore, alimentare, progettare, immaginare media, anche digitali, che si muovono e si sostengono al di fuori del capitalismo (non è utopia, i media no profit, civici o di stato, hanno una lunga storia, non ancora conclusa). Per restituire capacità di azione, agency, non basta criticare o abbandonare Facebook, servono piattaforme mediali che, di default, attribuiscano maggiore potere agli utenti.
Dove gli utenti non hanno voce (tradotto: potere) nella progettazione di piattaforme e nei processi decisionali si creano i presupposti per la creazione di beni, flussi e servizi di tipo autoritario, top-down. E questo è ancora più pericoloso perché in molti settori e mercati, da quello del trasporto urbano (Uber), dell’ospitalità (Airbnb), della comunicazione interpersonale (Facebook), della logistica (Amazon), questo tipo di piattaforme autoritarie e anti-conviviali stanno guadagnando posizioni di monopolio (come spiega questo articolo del New York Times), all’interno delle quali gli utenti non avranno alternative. Per la comunicazione interpersonale dovremo sottostare al recinto di regole di Facebook, per il trasporto urbano a quelle di Uber e così via.
Se il capitalismo di piattaforma conquisterà il monopolio delle piattaforme digitali disponibili sul mercato, la struttura profonda di questi strumenti risponderà a un solo imperativo, e sarà molto, molto lontano da quell’idea di società conviviale, attiva, socievole, “gracefully playful” che immaginava Ivan Illich, ma che, forse, è ancora possibile.
LE TECNOLOGIE DIGITALI E IL LEGAME SOCIALE. Il rimorso dell’incoscienza....*
Animali politici
Quando la solitudine genera i tiranni
Otto milioni e mezzo di italiani vivono soli
L’individuo separato, diceva Aristotele, o è bestia o è dio. Ma il rischio è di essere bestie al servizio di un dio
Eravamo un popolo, siamo una somma di egoismi, dunque più deboli rispetto alla stretta del potere dispotico
di Michele Ainis (la Repubblica, 03.09.2018)
Ci si può sentire soli vivendo in compagnia di sessanta milioni di persone? È quanto sta accadendo agli italiani: una solitudine di massa, un sentimento collettivo d’esclusione, di lontananza rispetto alle vite degli altri, come se ciascuno fosse un’isola, una boa che galleggia in mare aperto.
La solitudine si diffonde tra gli adolescenti, presso i quali cresce il fenomeno del ritiro sociale, altrimenti detto hikikomori. Diventa una prigione per gli anziani, la cui unica compagna è quasi sempre la tv. Infine sommerge come un’onda ogni generazione, ogni ceto sociale, ogni contrada del nostro territorio.
Ne sono prova le ricerche sociologiche, oltre che l’esperienza di cui siamo tutti testimoni: 8,5 milioni di italiani (la metà al Nord) vivono da soli; e molti di più si sentono soli, senza un affetto, senza il conforto di un amante o d’un amico. Così, nel 2015, Eurostat ha certificato che il 13,2 per cento degli italiani non ha nessuno cui rivolgersi nei momenti di difficoltà: la percentuale più alta d’Europa.
Mentre l’11,9 per cento non sa indicare un conoscente né un parente con cui parli abitualmente dei propri affanni, dei propri problemi. Non a caso Telefono Amico Italia riceve quasi cinquantamila chiamate l’anno. Non a caso, stando a un Rapporto Censis (dicembre 2014), il 47 per cento degli italiani dichiara di rimanere da solo in media per 5 ore al giorno. E non a caso quest’anno, agli esami di maturità, la traccia più scelta dagli studenti s’intitolava «I diversi volti della solitudine nell’arte e nella letteratura».
Questa malattia non colpisce soltanto gli italiani. È un fungo tossico della modernità, e dunque cresce in tutti i boschi. Negli Stati Uniti il 39 per cento degli adulti non è sposato né convive; mentre l’Health and Retirement Study attesta che il 28 per cento dei più vecchi passa le giornate in uno stato di solitudine assoluta. Succede pure in Giappone, dove gli anziani poveri e soli scelgono il carcere, pur di procurarsi cibo caldo e un po’ di compagnia; o in Inghilterra, dove la metà degli over 75 vive da sola.
Tanto che da quelle parti il governo May, nel gennaio 2018, ha istituito il ministero della Solitudine, affidandone la guida a Tracey Crouch; ma già in precedenza funzionava una commissione con le medesime funzioni, inventata da Jo Cox, la deputata laburista uccisa da un estremista alla vigilia del referendum su Brexit. Insomma, altrove questo fenomeno viene trattato come un’emergenza, si studiano rimedi, si battezzano commissioni e dicasteri. In Italia, viceversa, viaggiamo a fari spenti, senza interrogarci sulle cause delle nuove solitudini, senza sforzarci di temperarne gli effetti. Quanto alle cause, l’elenco è presto fatto.
In primo luogo la tecnologia, che ci inchioda tutto il giorno davanti allo schermo del cellulare o del computer, allontanandoci dal contatto fisico con gli altri, segregandoci in una bolla virtuale.
In secondo luogo l’eclissi dei luoghi aggreganti - famiglia, chiesa, partito - sostituiti da una distesa di periferie che ormai s’allargano fin dentro i centri storici delle città.
In terzo luogo le nuove forme del commercio e del consumo: chiudono i negozi, dove incontravi le persone; aprono gli ipermercati, dove ti mescoli alla folla.
In quarto luogo l’invecchiamento della popolazione, che trasforma una gran massa d’individui in ammalati cronici, e ciascuno è sempre solo dinanzi al proprio male.
In quinto luogo e infine, la precarietà dell’esistenza: una volta ciascuno moriva nel paesello in cui era nato, dopo aver continuato lo stesso mestiere del nonno e del papà; ora si cambia città e lavoro come ci si cambia d’abito, senza trovare il tempo di farsi un nuovo amico, di familiarizzare con i nuovi colleghi.
Con quali conseguenze?
Secondo un gruppo di ricercatori della Brigham Young University, la solitudine danneggia la salute quanto il fumo di 15 sigarette al giorno: giacché provoca squilibri ormonali, malumore, pressione alta, insonnia, maggiore vulnerabilità alle infezioni. Altri studiosi (John e Stephanie Cacioppo, dell’Università di Chicago) mettono l’accento sull’aggressività dei solitari, le cui menti sviluppano un eccesso di reazione, uno stato di perenne allerta, come dinanzi a un pericolo incombente. C’è un altro piano, tuttavia, ancora da esplorare: la politica, il governo della polis. L’individuo separato o è bestia o è dio, diceva Aristotele. Ma nelle società contemporanee la solitudine di massa ci rende tutti bestie alla mercé di un dio.
Sussiste una differenza, infatti, tra solitudine e isolamento. La prima può ben corrispondere a una scelta; il secondo è sempre imposto, è una condanna che subisci tuo malgrado. Nell’epoca della disintermediazione, della crisi di tutti i corpi collettivi, della partecipazione politica ridotta a un tweet o a un like, questa condanna ci colpisce uno per uno, trasformandoci in una nube d’atomi impazziti. Eravamo popolo, siamo una somma d’egoismi, senza un collante, senza un sentimento affratellante. Dunque più deboli rispetto alla stretta del potere.
Perché è la massa, non il singolo, che può arginarne gli abusi. E perché il potere dispotico - ce lo ha ricordato Hannah Arendt (Vita activa), sulle orme di Montesquieu - si regge sull’isolamento: quello del tiranno dai suoi sudditi, quello dei sudditi fra loro, a causa del reciproco timore e del sospetto.
Sicché il cerchio si chiude: le nostre solitudini ci consegnano in catene a un tiranno solitario.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA "PROFEZIA" DI MARSHALL MCLUHAN: NARCISO E LA MORTE DELL’ITALIA. Il "rimorso di incoscienza" di Marshall McLuhan
LA CONCESSIONE PIU’ GRANDE. Cedere occhi, orecchie e nervi a interessi commerciali è come consegnare il linguaggio comune a un’azienda privata o dare in monopolio a una società l’atmosfera terrestre.
Federico La Sala
POLITICA, CONFLITTO D’INTERESSE, E "GLI STRUMENTI DEL COMUNICARE" ... *
Internet
Eravamo persone ora siamo solo dati
Il valore umano viene stabilito da algoritmi che studiano le abitudini in Rete. E questo ha dei riflessi anche sulla nostra identità, sul nostro senso di precarietà, sulla nostra psiche
di Michele Ainis (la Repubblica 13.06.2018)
I neri d’America ridotti in schiavitù - diceva Tocqueville - non s’accorgevano della loro disgrazia: avevano assimilato i pensieri d’uno schiavo, e in genere ammiravano i propri tiranni più di quanto li odiassero. La nostra condizione non è troppo dissimile. Guardiamo alla Silicon Valley come a un Eldorado, un paradiso tecnologico. Siamo grati ai giganti della Rete per le opportunità sempre più allettanti che ci offrono. Usiamo ogni nuova diavoleria come un giocattolo, e guai a chi ce lo toglie dalle mani. Infine tutto questo Bengodi è gratis, non costa nulla.
Ma non è affatto un regalo, casomai uno scippo. Lo scippatore ci svuota le tasche sia quando digitiamo qualcosa su un motore di ricerca, sia quando rimaniamo inerti: basta possedere un dispositivo mobile perché ci arrivi un consiglio non richiesto, la réclame d’un ristorante che si trova proprio sul nostro itinerario, il titolo del film proiettato nel cinema che stiamo oltrepassando.
E dalle nostre tasche lo scippatore estrae di tutto, non soltanto i gusti di consumo: dati sanitari, opinioni politiche, predisposizione al rischio, inclinazioni sessuali, convinzioni religiose. Qualche esempio. A febbraio si è saputo che Facebook aveva costruito un algoritmo per dedurre dall’enorme quantità di dati in suo possesso il livello economico e sociale dei suoi 2 miliardi di utenti. Il risultato si ottiene combinando altri parametri: per esempio dove vai in vacanza, se hai una laurea oppure no, di quali apparecchi elettronici è composta la tua dotazione personale, se vivi in affitto o a casa tua. Da qui una classificazione degli utenti che riesce a suddividerli fra poveri, ceto medio, ricchi.
Da qui, di conseguenza, la pubblicità di un viaggio in business class oppure in treno merci. D’altronde la stessa Facebook, un paio di mesi prima, tenne una riunione con gli inserzionisti che avrebbe dovuto restare riservata; e in quella riunione comunicò di possedere la capacità d’individuare i teenager più vulnerabili, perché tristi, stressati, insicuri, depressi. Anche in questo caso, il valore economico dell’informazione consiste in una pubblicità mirata, come un fucile di precisione.
E il fucile spara sulla preda colpendoci in ogni istante della nostra giornata, non solo quando posiamo gli occhi sullo schermo d’un computer. Giacché loro, gli algoritmi, possono stimare la probabilità di malattie attraverso l’iscrizione alle liste elettorali: difatti quanti si curano della comunità, partecipando al voto, probabilmente si prenderanno cura anche del loro corpo (su tale presupposto opera LexisNexis).
Possono misurare la nostra emotività dal modo con cui usiamo la tastiera del computer. Possono tutto, mentre noi non possiamo quasi nulla. La Magna Carta per l’era digitale - invocata da Anthony Giddens su questo giornale - rimane sulla carta.
In questo tempo nuovo si materializza così il fantasma di Michel Foucault. «È il fatto di essere visto incessantemente, di poter sempre essere visto, che mantiene in soggezione l’individuo disciplinare», scriveva nel 1975 il filosofo francese. Del resto, come potremmo ribellarci?
Se lo facessimo, se negassimo il consenso alla radiografia che ci somministrano i Big Data, perderemmo l’accesso a Google, la principale fonte d’informazioni nella società contemporanea. Non potremmo usare i social network, ossia gli strumenti che ormai nutrono la nuova forma della cittadinanza, la cittadinanza digitale. Sarebbe come venire ricacciati fuori dalle mura della città, espulsi, stranieri, derelitti.
Come imbarcarci nella Nave dei folli immaginata - di nuovo - da Foucault, senza mai il permesso di ormeggiare, di mischiarci alla folla urbana. Sicché rimaniamo in città, però come merci, non come persone. Merci di valore, dal momento che secondo una stima di International Data Corporation il business in questione valeva, già nel 2017, oltre 150 miliardi di dollari. Tuttavia la mercificazione della nostra identità ha un effetto sull’identità medesima, la plasma, la conforma. Al culmine del trattamento che profila i singoli individui, diventiamo un unico individuo, amorfo, senz’anima né pelle. E quest’individuo unico e plurimo soffre una pressione psicologica che ne comprime l’autostima, la considerazione di se stesso. Per forza, se il tuo valore non dipende più da ciò che sei, né da ciò che sai. Dipende piuttosto dalle informazioni che trasmetti, dal loro valore commerciale. Eri una persona, adesso sei un informant. E ciò che resta di te come persona subisce un senso di precarietà, di smarrimento.
D’altronde in Rete tutto è cangiante e provvisorio. Tutto, salvo la vacuità dell’esperienza digitale, che l’accompagna come un’ombra. Da qui un degrado interiore, che si riflette sulla stessa psiche degli utenti: secondo l’American Journal of Epidemiology, a un aumento dell’1 per cento dei like su Facebook, dei click e degli aggiornamenti, corrisponde un peggioramento dal 5 all’8 per cento della salute mentale. Un danno, ma altresì una beffa: perché il profilo elettronico catturato dai mille filtri che agiscono sul web è sempre parziale, approssimativo. Chi lo compra a scopi commerciali s’accontenta di un’identificazione precisa magari all’80 per cento. E il restante 20? Un falso digitale, che tuttavia si sovrappone alla nostra vera identità. Ammesso che ne rimanga qualche scampolo.
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
ESPERIMENTO ITALIA. L’ANNO DELLA VERGOGNA (1994): NASCE IL PARTITO DEL "NUOVO" PRESIDENTE DELLA "REPUBBLICA" ... E C’E’ ANCORA!!!
CERVELLO, POLITICA, E TECNICHE DI DOMINIO: L’USO ISTITUZIONALE DEL "PARADOSSO DEL MENTITORE" IN ITALIA E LE ULTIME NOVITA’ DALL’INGHILTERRA.
Federico La Sala
Il mondo nella rete
“Da Seul a New York tre miliardi di persone connesse a Internet”
È una delle innovazioni con il più alto tasso di crescita: vent’anni fa solo l’1% della popolazione era online, oggi è il 40%
Al top Corea del Sud e Canada dove navigano nove abitanti su dieci
di Riccardo Luna (la Repubblica, 01.11.2014)
SIAMO tre miliardi. Tre miliardi di persone connesse a Internet. Il record è stato toccato in qualche istante ieri. Ed è un record pesante. Se si pensa che il primo miliardo è stato raggiunto nel 2005, il secondo nel 2010. E adesso siamo tre. Tanti? Pochi in fondo. Appena il 40 per cento degli abitanti della Terra ma è un dato che nasconde differenze sostanziali: nove su dieci in Corea del Sud e in Canada, seguono Stati Uniti e Regno Unito mentre in Africa le percentuali sono infinitamente più basse se si fa eccezione per il Sud Africa (46 per cento) e la Nigeria (37).
Ma sono tanti, se si considera che solo vent’anni fa meno dell’1 per cento della popolazione mondiale era in rete. Internet si sta rivelando una delle innovazioni tecnologiche con un tasso di diffusione più rapido della storia: più dell’automobile e del telefono, la crescita ha un andamento simile a quello che ebbe la radio.
Eppure quando è nato nessuno o quasi se ne è accorto. Anche perché non c’è stato un vero momento eureka , un attimo in cui il mondo è rimasto con il fiato sospeso e poi ha esultato. Anche perché non c’è stato nessun attimo: si può anzi dire che l’invenzione di Internet è iniziata negli anni ‘60 e dura ancora oggi con una task force mondiale di ingegneri informatici che ragiona su come sviluppare una rete che ha tre miliardi di umani ma alcuni triliardi di oggetti connessi.
Internet insomma non è stato come mandare il primo uomo sulla luna. È stato l’esperimento finanziato con soldi pubblici del governo americano ma nei fatti clandestino, perché condotto nel disinteresse dell’opinione pubblica, di un gruppo di pionieri che sognava un mondo connesso. Ma rileggendo i documenti dell’epoca appare chiaro che nemmeno loro avevano idea di quello che davvero stavano facendo.
Ha scritto per esempio uno dei padri della rete, Vint Cerf, in occasione di uno dei tanti compleanni (non essendoci un vero momento di nascita, il compleanno di Internet viene festeggiato praticamente ogni anno): «Non ci fu nessun festeggiamento, non c’era nemmeno un fotografo. L’unica cosa che ricordo era la spilletta che indossavamo con la scritta Sono sopravvissuto al trasferimento della rete ».
E lo stesso è accaduto una decina di anni dopo, con la nascita del world wide web che è stato il vero motore della diffusione, a quel punto sì, rapidissima della rete. In questo caso la scena si sposta in Europa al Cern di Ginevra, ai tempi guidato dal Nobel Carlo Rubbia, ma non si deve a lui l’intuizione di un linguaggio che rendesse Internet comprensibile e usabile a tutti.
Si deve a uno studente di fisica inglese che era lì per fare altro e che si mise a lavorare ad uno strumento che consentisse alle persone di collaborare attraverso Internet, per condividere lavori e conoscenza.
Si chiamava Tim Berners Lee e assieme all’informatico belga Robert Caillau ha fatto una delle cose più rilevanti per la storia della innovazione quasi senza accorgersene: «Non avevamo capito la portata di quello che avevamo creato». In verità all’inizio non lo aveva capito quasi nessuno: persino Bill Gates, il fondatore di Microsoft, nel suo curriculum ha anche una profezia totalmente sballata su quello che sarebbe stato l’impatto della rete.
Questo per dire che era difficile immaginare quel che sarebbe accaduto perché in fondo tutti si sono fatti ingannare dall’apparenza, ovvero il fatto che Internet sia (soltanto) una rete di computer, di cavi sotterranei, di dati che viaggiano alla velocità della luce.
Ma Internet è soprattutto una rete di persone che in questo modo hanno trovato una strada diversa per informarsi, apprendere, condividere, partecipare, creare, inventare, consumare e persino curarsi. E per questo ha cambiato e sta cambiando così profondamente la società in cui viviamo.
Certo, un lato oscuro esiste e non è soltanto il fatto di non essere connessi come disse una volta il profeta digitale Nicholas Negroponte: è l’uso spregiudicato che alcuni governi e molte agenzie pubblicitarie fanno dei nostri dati personali. Ma in definitiva resta valido quello che una grande neuroscienziata, Rita Levi Montalcini, disse nel 2009 quando compì 100 anni: «La più grande invenzione del ‘900? E me lo chiede? Internet!».
Mezzo e messaggio quei cortocircuiti al tempo delle mail
Una riflessione su quanto il modo di comunicare influenzi il contenuto della comunicazione
Da McLuhan a oggi
di Umberto Eco (la Repubblica, 13.09.2014)
COMUNICAZIONE è una parola di cui tutti credono di conoscere il significato e viene usata nelle circostanze più diverse... Per esempio, sin da tempi immemorabili, si è parlato di vie di comunicazione, come le strade romane, e di mezzi di comunicazione per quelli che si chiamano anche mezzi di trasporto, come i carri, le navi, i treni e gli aerei. Pensate alla sorpresa del turista che ad Atene vede grandi automezzi con sopra scritto metaphora. Dapprima si ammira la grandezza umanistica di quel popolo, poi ci si accorge che si tratta di automezzi che si occupano di traslochi: E infatti trasporto è stato chiamato nel mondo classico l’artificio metaforico che traspone il significato di un termine letterale a un termine figurato. Quindi si ha trasporto quando trasferisco una mia idea nella mente di qualcun altro e trasporto quando si trasferisce un pacco postale da Milano e Roma.
Si tratta soltanto di una semplice omonimia? Torniamo indietro alle prime teorie della comunicazione che potremmo riassumere come passaggio di messaggio da un emittente al destinatario lungo un canale, sulla base di un codice comune. In effetti il modello funzionava benissimo per la comunicazione di messaggi molto elementari come quelli in Morse - che possono essere decodificati e trascritti anche da un apparato meccanico. La teoria considerava anche il canale attraverso il quale passava il messaggio (come aria, fili elettrici o onde hertziane) ma il canale era una componente puramente meccanica che non incideva sulla natura dei messaggi, salvo casi accidentali di rumore...
Oltre a varie altre complicazioni del modello iniziale, una rivoluzione è avvenuta all’inizio degli anni sessanta con la focalizzazione del problema del canale. Nel modello comunicativo elementare il canale era come un tubo attraverso il quale passava informazione. Era neutro. È stato McLuhan a concentrare le propria attenzione sul medium, che altro non era che un altro nome per il canale.
Con la formula il medium è il messaggio McLuhan ha sostenuto che coi nuovi mezzi elettronici il medium poteva rendere il destinatario talmente dipendente dal canale da rendere irrilevante la natura del messaggio. La posizione di Mc Luhan è stata criticata, osservando che infinite volte l’informazione rimane costante e indipendente dal canale attraverso cui passa.
Il 10 giugno 1940 il fatto che l’Italia avesse dichiarato guerra alle potenze alleate rimaneva indiscutibile sia che lo si fosse appreso per radio in diretta dal discorso del Duce sia che lo si fosse letto il giorno dopo su L’Osservatore romano. Ma rimane indiscutibile che la partecipazione emotiva del destinatario e quindi la valutazione dell’evento veniva influenzata dalla natura del medium.
McLuhan, generalizzando, usava dei paradossi, ma qualcosa aveva capito. Pensiamo per esempio alla polemica nata in Italia quando si doveva decidere se passare dalla televisione in bianco e nero a quella a colori. Le preoccupazioni erano allora di carattere economico, ma il risultato è stato di carattere psicologico. La televisione a colori ha dato inizio al riflusso degli anni ottanta, alla perdita d’interesse nei messaggi, e alla pura degustazione delle meraviglie del nuovo mezzo.
E pensiamo al dibattito politico che infuria sui nostri teleschermi: tranne casi virtuosi, il pubblico non è interessato a quello che vi si dice, anche perché le voci sovrapponendosi l’una all’altra rendono irrilevante il contenuto delle affermazioni: il vero messaggio è il diverbio, il confronto quasi circense tra gladiatori, non si è conquistati dagli argomenti dei parlanti, ma dalle prodezze dei reziari.
Ho intitolato questo mio intervento agli aspetti soft e hard della comunicazione. Pensiamo che in principio sia hard il canale, la ferraglia, che può essere fatta da un corriere cavallo, da un vagone postale o da onde hertziane. In linea di principio la ferraglia non ha mai interferito con la natura del messaggio. Il messaggio dipendeva invece dal programma e soft era il rapporto tra tenore del messaggio e codice. E quello che caratterizzava la ferraglia era che essa prendeva tempo: di qui le lancinanti attese per una lettera di risposta e i lunghi intervalli comunicativi nel corso dei quali l’emittente si chiedeva se il destinatario avesse ricevuto e come avrebbe risposto, e il destinatario attendeva emozionato la lettera che tardava a venire.
Il rapporto ha iniziato a mutare col telegrafo senza fili, con la radio e con il telefono. Il telegrafo consentiva ricezione e risposta immediata, ma implicava delle istanze mediatrici (l’andata all’ufficio telegrafico, la trascrizione del telegrafista in partenza e la nuova trascrizione in arrivo, oltre ai tempi di consegna del messaggio - salvo ovviamente comunicazioni militari o marittime). La radio e la televisione consentivano una emissione immediata ma non consentivano risposta. Il telefono consentiva rapporti istantanei di azione-reazione tra emittente e destinatario, ma occupava solo parte della nostra giornata, e prendeva tempo se si doveva ricorrere alla mediazione di un centralino.
La vera rivoluzione è avvenuta col computer, l’e-mail e i telefonini cellulari. In questi casi il rapporto è temporalmente immediato. Sia nel caso del nerd che passa le notti on line, che in quello dei telefona- tori compulsivi che vediamo camminare per strada parlando a qualcuno, abbiamo un processo domanda- risposta che non prende tempo. In che modo questa modificazione della ferraglia viene a incidere sulla natura del messaggio?
Per il telefonino la situazione è intuitiva ed è stata ampiamente studiata. Tranne casi estremi il drogato del cellulare non parla o risponde per comunicare pensieri o fatti urgenti, ma per mantenere il contatto e quindi per mantenersi in contatto. Di solito parla a vuoto. Questo gli evita la solitudine ma lo relega a un rapporto meramente virtuale in cui la personalità di emittente e destinatario si vanificano sempre più...
Altro accade con la e-mail. Mi limiterò a considerare un evento di cui sono stato testimone... Un tale (lo chiameremo Pasquale) ha passato alcuni anni in una azienda, stimato da superiori e colleghi per la sua cortesia e disponibilità. Magari covava delle insoddisfazioni, ma non lo lasciava capire. Pasquale viene inviato all’estero per una missione di fiducia, e si tiene in contatto con i colleghi via e-mail. Un amico gli comunica (via e-mail) che gli è stato fatto un torto: un suo progetto, che aveva lasciato prima di partire, è stato giudicato insufficiente e affidato a un altro che lo ha rifatto. Giusto o meno che fosse, è comprensibile che Pasquale si prenda una grande arrabbiatura.
Quando ci arrabbiamo per una presunta ingiutorto stizia, nel momento dell’ira siamo disposti a dire che chi ci ha fatto il torto è un imbecille, che “quelli” non ci hanno mai capito, che ci hanno fatto passare davanti dei leccapiedi, e ci viene voglia di mandare tutti al diavolo. Poi di solito si lascia sbollire l’ira, si chiede un colloquio (a cui ci si prepara nel corso di alcune notti insonni) e, con tono fermo e dolente, si domandano spiegazioni. Se si è lontani si scrive una lettera, la si rilegge prima di spedirla, la si corregge più volte per ottenere il tono più efficace.
Invece Pasquale ha ricevuto la notizia e immediatamente (come gli consentiva la e-mail) ha scritto al responsabile del presunto torto trattandolo da mascalzone, accusandolo di aver concesso favori aziendali in cambio di prestazioni sessuali, e quando quello ha risposto irritato (via e-mail), chiedendogli se era matto, Pasquale ha rincarato la dose, spiegandogli quali menomazioni fisiche gli avrebbe fatto subire se non fosse stato per la distanza geografica. E siccome un messaggio e-mail può essere inviato contemporaneamente a più persone, Pasquale ne ha inviato copia al capo dell’azienda e ad altri colleghi, aggiungendovi altre riflessioni sulla considerazione che egli aveva per quel luogo, da lui fermamente ritenuto non dissimile da una discarica di rifiuti organici.
Era un modo originale di dare le dimissioni? Niente affatto, tutti sono convinti che Pasquale desiderasse continuare a lavorare, il subìto (presunto) non era drammatico, forse il suo informatore aveva esagerato. Pasquale si è probabilmente rovinato la carriera. Che cosa gli è successo? Ha ricevuto una notizia inquietante e l’email lo ha incoraggiato a reagire subito, nonché a dare eccessiva pubblicità alla sua reazione. Isolato dal mondo, lui e la sua rabbia, era solo di fronte allo schermo del computer, che aveva eccitato la parte più oscura del suo animo. Il messaggio ricevuto ha mandato in cortocircuito il suo inconscio, senza lasciargli il tempo di consultare il Superego, come di solito accade. La macchina lo metteva in contatto immediato con tutto il mondo, ma gli imponeva le sue regole di accelerazione, facendogli dimenticare che, nel corso dei secoli, il contratto sociale ha imposto tempi diversi di azione e reazione. Il che ci dice come anche la e-mail (invenzione grande almeno quanto i jet intercontinentali) ponga dei nuovi problemi di maillag al contrario, ai quali dobbiamo psicologicamente adattarci.
Ed ecco che possiamo tornare alla sinonimia apparente di cui ho detto all’inizio, quella tra rapporto comunicativo e trasporto: pareva che si trattasse di due fenomeni diversi, ma abbiamo visto come spesso il modo di trasporto del messaggio possa interferire con la natura del messaggio stesso e sulla forma della sua ricezione.
Se crolla internet
di Federico Rampini (la Repubblica, 13 aprile 2014)
«Se esistesse una scala Richter da 1 a 10 per i terremoti su Internet, quello che abbiamo subìto pochi giorni fa sarebbe a quota 11». L’esperto di crittografia Bruce Schneier ha fatto questo bilancio drammatico sul New Yorker, a proposito del super-virus Heartbleed. 500.000 siti violati per due anni, inclusi colossi come Twitter, Yahoo, Amazon, Dropbox, Tumblr.
Centinaia di milioni di password, carte di credito, accessi bancari potrebbero essere finiti in mano a hacker, ladri, truffatori. Il bilancio è ancora provvisorio. Questi disastri si susseguono sempre più spesso e con un’intensità crescente: è di pochi mesi fa il maxifurto di milioni di carte di credito dei clienti di Target, la catena di grandi magazzini.
Tra le cause, spiccano due anomalie. Primo, nella Rete la sicurezza non è una priorità così stringente come lo è per esempio nel trasporto aereo (dove gli incidenti diminuiscono da anni anziché aumentare). Secondo punto, a conferma del primo: molti dispositivi di sicurezza (come il software di crittografia OpenSsl che è stato vittima del supervirus Heartbleed) sono frutto di lavoro volontario, semi-gratuito o scarsamente remunerato, nonostante gli immensi profitti incassati dai giganti dell’economia digitale.
Ma questa sottovalutazione potrebbe portarci verso un cataclisma molto peggiore. È il Grande Blackout della Rete, evocato in una conferenza Ted da Dan Dennett, raccogliendo plausi e allarme nel mondo degli esperti. «Cerchiamo almeno di prepararci a sopravvivere per le prime 48 ore di caos e paralisi totale», è una delle esortazioni di Dennett. In quei primi due giorni forse ci giocheremmo tutto, l’umanità (almeno quella che abita nei paesi avanzati) rischierebbe di retrocedere in una sorta di Medioevo. «L’11 settembre 2001 sembrerebbe un episodio minore al confronto», rincara Dennett, ricordando che in effetti l’attacco alle Torri Gemelle avvenne in un’era quasi preistorica dal punto di vista della nostra dipendenza digitale.
Dennett non è un apocalittico. Al contrario, a 72 anni il celebre scienziato e filosofo cognitivo è considerato uno dei più grandi esponenti di un pensiero laico, iper-razionale. Direttore del Center for Cognitive Studies alla Tufts University di Boston, Dennett è autore di numerosi saggi tradotti in italiano (tra gli ultimi La religione come fenomeno naturale da Raffaello Cortina, Coscienza da Laterza). Ai cicli di conferenze Ted, affollati di esperti di informatica, lui viene presentato come “il filosofo preferito dagli studiosi dell’intelligenza artificiale” per le sue analisi sull’analogia tra il pensiero umano e il funzionamento della robotica. Quando lo intervisto, partiamo dallo scalpore che ha suscitato la sua profezia sul Grande Blackout.
Questo pericolo è sempre apparso remoto, per via della struttura stessa di Internet: agli antipodi di un sistema centralizzato, la Rete è stata concepita fin dalle origini per essere policentrica, federata, non gerarchica, diffusa, flessibile, perciò stesso non esposta ad un collasso generale. «Verissimo - mi dice Dennett - e infatti tutti sono ammirati dalla robustezza, anzi dalla resilienza di Internet. E tuttavia il monito che ho lanciato non è un’idea mia, l’ho raccolta consultando molti esperti di tecnologia.
Per quanto la Rete sia meravigliosamente elastica e resistente, non possiamo dimenticare che fu concepita alle origini per qualche milione di utenti al massimo, ora siamo miliardi. È un sistema che si sta avvicinando al livello di guardia, nel senso che sta raggiungendo quel limite oltre il quale potrebbe sfuggire al controllo umano.
Alcuni esperti calcolano che un Grande Blackout abbia probabilità remote, ma non nulle. Potrebbe accadere fra moltissimo tempo, o la settimana prossima ». Evento improbabile ma non impossibile, un po’ come il Big One nella versione estrema (con mezza California che sprofonda nel Pacifico).
Ieri, intanto, si è registrato il down di Instagram, il social network di condivisione di fotografie, rimasto fermo per ore. Quello che preoccupa Dennett è la totale mancanza di preparativi. O perfino di immaginazione. «La gente non si rende conto che oggi tutto dipende dalla Rete, nessuna funzione vitale può continuare se si blocca Internet. Qui negli Stati Uniti si spegnerebbero tv e cellulari, si fermerebbero bancomat, supermercati, distributori di benzina. Ecco perché il maggiore pericolo sarebbe il panico, il folle panico delle prime 48 ore, quando la gente non sa che fare, non ha notizie, non ha istruzioni, non ha mai fatto un’esercitazione per prepararsi. Occorre un piano B per resistere le prime 48 ore, in attesa che si riattivi qualche funzione essenziale della società. Altrimenti si rischia la disperazione di massa, e dunque la disintegrazione di una civiltà».
Il piano B, come “battello di salvataggio”. Dennett usa proprio quest’immagine, il vecchio canotto di salvataggio in dotazione obbligatoria sulle navi e i traghetti, con torce elettriche, acqua potabile e altri strumenti di soccorso. Ma il suo canotto di salvataggio dovrebbe includere «una seconda Rete, un Internet isolato e autonomo, pronto a mettersi in funzione, riservato esclusivamente agli scopi vitali, alle comunicazioni di emergenza ». Quando ci fu l’attacco dell’11 settembre, c’erano ancora delle tecnologie pre-digitali che ora stanno scomparendo. Molti telefonini a Manhattan si ammutolirono, ma le tv funzionavano, la radio pure.
Oggi è tutto talmente interconnesso che il Grande Blackout sarebbe davvero totale. Proprio perché è uno dei massimi pensatori della razionalità, Dannett mi spiega di aver lanciato il suo appello «anche per dare un’alternativa ai Survivalist, quei movimenti apocalittico-religiosi che hanno una presa sull’opinione pubblica americana, ispirano filoni di cinema e tv, s’impadronirebbero del Grande Blackout digitale per immaginare un mondo post-civilizzato, uno scenario da Independence Day». Curiosamente, mentre nella Silicon Valley è obbligatorio fare esercitazioni regolari per le evacuazioni in caso di terremoto (la zona è sismica), non esiste nulla di simile per un cataclisma digitale. Presunzione? O avarizia?
«Certo i costi del piano B sono elevati - riconosce Dennett - ma bisogna prendere sul serio questo pericolo, il buio elettronico non è abitabile per gli occidentali del 2014, abituati ad avere un intero universo d’informazione alla portata dei polpastrelli sul display dello smartphone. In uno scenario di caos generale, molti di noi hanno perso da tempo quei nuclei locali di sostegno che un tempo si chiamavano la parrocchia, il club, le associazioni di quartiere. Una parte delle spese per attrezzarci collettivamente dovrebbero sostenerle le banche, che sono tra le più vulnerabili».
E la Casa Bianca, dopo gli avvertimenti dei cyber-attacchi contro i suoi siti? È possibile che Washington non abbia pensato di prepararsi all’ipotesi finale, la più estrema? «Ci pensano, c’è dell’interesse - risponde - ma c’è anche una reticenza, un gioco di veti. La destra repubblicana non vuole che sia un’amministrazione democratica ad aprire un cantiere di sicurezza di queste dimensioni, che potrebbe sfociare in nuovi poteri per il governo federale ». Di certo lui trova paradossale che «Internet ci abbia reso così dipendenti, al punto da poterci ricacciare verso l’età della pietra».