Dico, dopo il diktat della Cei I cattolici democratici: "Per noi c’è la Costituzione"
La Nota dei vescovi preoccupa i 60 deputati della Margherita che ribadiscono il loro riferimeno alla Carta costituzionale. Rosy Bindi: "Il nostro ddl ispirato ai princìpi dei vescovi". Esultano i teodem
IL RETROSCENA. Riunione dai toni preoccupati dei firmatari del manifesto dei cattolici democratici dopo la diffusione del testo dei vescovi Il vertice dei 60 della Margherita "Ma la nostra Nota è la Costituzione"
di GIOVANNA CASADIO *
ROMA - A memoria, nessuno dei presenti ricordava un richiamo all’obbedienza tanto perentorio da parte del Vaticano. Eppure nella saletta della Camera, i cattolico-democratici della Margherita riuniti per parlare della Nota della Cei, non mancavano certo d’esperienza in fatto di tensioni con la Chiesa ai tempi del divorzio o per l’aborto. C’erano Sergio Mattarella e Dario Franceschini, Antonello Soro e Gianclaudio Bressa, Franco Monaco e Francesco Saverio Garofani, Giorgio Merlo, Pierluigi Mantini: i parlamentari del "manifesto dei Sessanta" per la laicità e a favore dei Dico, che alla spicciolata si sono autoconvocati.
Pierluigi Castagnetti, l’ultimo segretario del Ppi prima dello scioglimento, è stato sentito al telefono. "Una riunione? Macché un break di mezz’ora", si schermisce Soro, che è coordinatore della Margherita. Non c’è un comunicato alla fine, ciascuno farà una propria dichiarazione, ma la parola d’ordine è una sola: "Evitare lo scontro con il Vaticano, toni pacati e prudenza. Ma senza arretrare di un passo sull’autonomia della politica", né sulla legge per i Diritti dei conviventi. "Non possiamo accettare vincoli d’obbedienza alla Chiesa nell’azione politica, lo Stato è laico e la politica autonoma. La Costituzione è la nostra Nota vincolante", scandisce Dario Franceschini.
Con Rosy Bindi, la ministra autrice (con la ds Barbara Pollastrini) dei Dico parlano dopo il question-time a Montecitorio. Lei si sfoga: i vescovi non si rendono conto che è più pericoloso quanto previsto dal manifesto per il Family day, cioè un contratto tra conviventi che è un simil-matrimonio però privato, piuttosto della soluzione trovata con i Dico. "Il disegno di legge del governo, i cosiddetti Dico è ispirato ai principi dei vescovi", dichiarerà poi. Parole calibrate, d’accordo con la collega Pollastrini, a difesa della legge sulle unioni civili che punta alla "tutela delle persone e non delle coppie" etero e omosessuali. Le reazioni sono improntate tutte a questo concetto: i Dico "non prevedono alcuna equiparazione tra famiglia e coppie di fatto né etero né omosessuali" bensì il riconoscimento di diritti dei conviventi.
Si cerca di passare sopra all’accusa di "politici incoerenti" che la Cei del neo presidente Angelo Bagnasco, gli rivolge. La fibrillazione è alta tra i cattolici dell’Ulivo. La riunione nella saletta del gruppo ex Margherita - ora Ulivo, in attesa di diventare Partito democratico - è tesa. Qualcuno osserva: i vescovi, almeno "questi" vescovi stanno esagerando. Bressa cita Moro: "Il legislatore ha solo nella Costituzione la sua Nota impegnativa - ribadisce - Se si impedisce al politico cattolico di svolgere fino in fondo la sua funzione se ne inibisce il compito. Le interferenze sono inaccettabili. E i vescovi si stanno occupando troppo del nostro mestiere di legislatori e troppo poco del loro".
"Non c’è però nessuna scomunica nella Nota - osserva Garofani - E io comunque non mi sento affatto incoerente o disobbediente". Soro ricorda che nel merito non c’è una grande novità rispetto a quanto il Vaticano ha già fatto sapere: "Le leggi ricadono nell’ambito della mediazione. D’altra parte ci si dice che non dobbiamo legalizzare le coppie di fatto anche omosessuali? Noi non l’abbiamo fatto. Si parla di tutela dei conviventi? Quello che abbiamo fatto". Preoccupati i "Sessanta" per il Partito democratico che in questo momento è "come una cristalleria".
Il governo ha fatto la sua parte, ora "spetta al Parlamento e tutto è in movimento", commenta Franco Monaco per il quale non c’è il "pentimento" di nessuno dei cattolico-democratici. Tuttavia sotto il pressing della Chiesa, qualcuno "potrebbe vacillare". Il ministro Beppe Fioroni, ruiniano di ferro, molto legato alle gerarchie e che sfilerà al Family day, difende i Dico e la posizione equilibrata del suo partito, la Margherita.
Franca Bimbi, anche lei cattolica di Dl, riflette: "Comunque vada in Parlamento, quella della Chiesa è una battaglia persa, o attraverso i Dico o attraverso il cambiamento del codice civile, la barriera giuridica della famiglia fondata sul matrimonio è caduta da un pezzo". E Castagnetti rincara: "Il tono è paterno e comprensivo, è impegnativa per i laici credenti". I Ds, partner con la Margherita nel Partito democratico, affidano al cristiano-sociale Mimmo Lucà l’analisi più articolata:"Attenzione e rispetto per la Nota della Cei ma non si possono negare i diritti". Esultano invece i Teodem (Bobba, Carra, Binetti, Baio, Calgaro) che si riuniscono nel pomeriggio: "Siamo in linea con il documento Cei". Al Senato si comporteranno di conseguenza. Soddisfatto anche l’Udeur: "La Nota è di conforto alla nostra azione, no ai cattolici a tempo determinato".
* la Repubblica, 29 marzo 2007
Conferenza Episcopale Italiana,
Nota del Consiglio Episcopale Permanente a riguardo della famiglia fondata sul matrimonio e di iniziative legislative in materia di unioni di fatto 28.3.2007 *
L’ampio dibattito che si è aperto intorno ai temi fondamentali della vita e della famiglia ci chiama in causa come custodi di una verità e di una sapienza che traggono la loro origine dal Vangelo e che continuano a produrre frutti preziosi di amore, di fedeltà e di servizio agli altri, come testimoniano ogni giorno tante famiglie. Ci sentiamo responsabili di illuminare la coscienza dei credenti, perché trovino il modo migliore di incarnare la visione cristiana dell’uomo e della società nell’impegno quotidiano, personale e sociale, e di offrire ragioni valide e condivisibili da tutti a vantaggio del bene comune.
La Chiesa da sempre ha a cuore la famiglia e la sostiene con le sue cure e da sempre chiede che il legislatore la promuova e la difenda. Per questo, la presentazione di alcuni disegni di legge che intendono legalizzare le unioni di fatto ancora una volta è stata oggetto di riflessione nel corso dei nostri lavori, raccogliendo la voce di numerosi Vescovi che si sono già pubblicamente espressi in proposito. È compito infatti del Consiglio Episcopale Permanente "approvare dichiarazioni o documenti concernenti problemi di speciale rilievo per la Chiesa o per la società in Italia, che meritano un’autorevole considerazione e valutazione anche per favorire l’azione convergente dei Vescovi" (Statuto C.E.I., art. 23, b).
Non abbiamo interessi politici da affermare; solo sentiamo il dovere di dare il nostro contributo al bene comune, sollecitati oltretutto dalle richieste di tanti cittadini che si rivolgono a noi. Siamo convinti, insieme con moltissimi altri, anche non credenti, del valore rappresentato dalla famiglia per la crescita delle persone e della società intera. Ogni persona, prima di altre esperienze, è figlio, e ogni figlio proviene da una coppia formata da un uomo e una donna. Poter avere la sicurezza dell’affetto dei genitori, essere introdotti da loro nel mondo complesso della società, è un patrimonio incalcolabile di sicurezza e di fiducia nella vita. E questo patrimonio è garantito dalla famiglia fondata sul matrimonio, proprio per l’impegno che essa porta con sé: impegno di fedeltà stabile tra i coniugi e impegno di amore ed educazione dei figli.
Anche per la società l’esistenza della famiglia è una risorsa insostituibile, tutelata dalla stessa Costituzione italiana (cfr artt. 29 e 31). Anzitutto per il bene della procreazione dei figli: solo la famiglia aperta alla vita può essere considerata vera cellula della società perché garantisce la continuità e la cura delle generazioni. È quindi interesse della società e dello Stato che la famiglia sia solida e cresca nel modo più equilibrato possibile.
A partire da queste considerazioni, riteniamo la legalizzazione delle unioni di fatto inaccettabile sul piano di principio, pericolosa sul piano sociale ed educativo. Quale che sia l’intenzione di chi propone questa scelta, l’effetto sarebbe inevitabilmente deleterio per la famiglia. Si toglierebbe, infatti, al patto matrimoniale la sua unicità, che sola giustifica i diritti che sono propri dei coniugi e che appartengono soltanto a loro. Del resto, la storia insegna che ogni legge crea mentalità e costume.
Un problema ancor più grave sarebbe rappresentato dalla legalizzazione delle unioni di persone dello stesso sesso, perché, in questo caso, si negherebbe la differenza sessuale, che è insuperabile. Queste riflessioni non pregiudicano il riconoscimento della dignità di ogni persona; a tutti confermiamo il nostro rispetto e la nostra sollecitudine pastorale. Vogliamo però ricordare che il diritto non esiste allo scopo di dare forma giuridica a qualsiasi tipo di convivenza o di fornire riconoscimenti ideologici: ha invece il fine di garantire risposte pubbliche a esigenze sociali che vanno al di là della dimensione privata dell’esistenza.
Siamo consapevoli che ci sono situazioni concrete nelle quali possono essere utili garanzie e tutele giuridiche per la persona che convive. A questa attenzione non siamo per principio contrari. Siamo però convinti che questo obiettivo sia perseguibile nell’ambito dei diritti individuali, senza ipotizzare una nuova figura giuridica che sarebbe alternativa al matrimonio e alla famiglia e produrrebbe più guasti di quelli che vorrebbe sanare.
Una parola impegnativa ci sentiamo di rivolgere specialmente ai cattolici che operano in ambito politico. Lo facciamo con l’insegnamento del Papa nella sua recente Esortazione apostolica post-sinodale Sacramentum Caritatis: "i politici e i legislatori cattolici, consapevoli della loro grave responsabilità sociale, devono sentirsi particolarmente interpellati dalla loro coscienza, rettamente formata, a presentare e sostenere leggi ispirate ai valori fondati nella natura umana", tra i quali rientra "la famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna" (n. 83). "I Vescovi - continua il Santo Padre - sono tenuti a richiamare costantemente tali valori; ciò fa parte della loro responsabilità nei confronti del gregge loro affidato" (ivi). Sarebbe quindi incoerente quel cristiano che sostenesse la legalizzazione delle unioni di fatto. In particolare ricordiamo l’affermazione precisa della Congregazione per la Dottrina della Fede, secondo cui, nel caso di "un progetto di legge favorevole al riconoscimento legale delle unioni omosessuali, il parlamentare cattolico ha il dovere morale di esprimere chiaramente e pubblicamente il suo disaccordo e votare contro il progetto di legge" (Considerazioni della Congregazione per la Dottrina della Fede circa i progetti di riconoscimento legale delle unioni tra persone omosessuali, 3 giugno 2003, n. 10).
Il fedele cristiano è tenuto a formare la propria coscienza confrontandosi seriamente con l’insegnamento del Magistero e pertanto non "può appellarsi al principio del pluralismo e dell’autonomia dei laici in politica, favorendo soluzioni che compromettano o che attenuino la salvaguardia delle esigenze etiche fondamentali per il bene comune della società" (Nota dottrinale della Congregazione per la Dottrina della Fede circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica, 24 novembre 2002, n. 5).
Comprendiamo la fatica e le tensioni sperimentate dai cattolici impegnati in politica in un contesto culturale come quello attuale, nel quale la visione autenticamente umana della persona è contestata in modo radicale. Ma è anche per questo che i cristiani sono chiamati a impegnarsi in politica.
Affidiamo queste riflessioni alla coscienza di tutti e in particolare a quanti hanno la responsabilità di fare le leggi, affinché si interroghino sulle scelte coerenti da compiere e sulle conseguenze future delle loro decisioni. Questa Nota rientra nella sollecitudine pastorale che l’intera comunità cristiana è chiamata quotidianamente ad esprimere verso le persone e le famiglie e che nasce dall’amore di Cristo per tutti i nostri fratelli in umanità. Roma, 28 marzo 2007
I Vescovi del Consiglio Permanente della C.E.I.
Una legge sulle unioni di fatto avrebbe effetti deleteri sulla famiglia perché toglierebbe al matrimonio la sua unicità: è durissima la presa di posizione della Conferenza episcopale italiana sui Dico, affidata a una nota del 28 marzo, immediatamente diffusa. Secondo i vescovi italiani è inaccettabile anche la legalizzazione delle unioni di persone dello stesso sesso perché in questo modo si negherebbe la differenza sessuale che è "insuperabile". La nota dei vescovi esprime però rispetto verso gli omosessuali, perché queste osservazioni non pregiudicano il riconoscimento della dignità della persona. Il diritto, avverte anche la Cei, ha il fine di garantire risposte pubbliche a esigenze sociali che vanno al di là della dimensione privata dell’esistenza. (28 marzo 2007)
Sul tema, nel sito, si cfr.:
La fine del dialogo
di GIAN ENRICO RUSCONI (La Stampa, 29/3/2007)
La Nota del Consiglio episcopale italiano rappresenta una svolta nella definizione della natura e del ruolo del laicato cattolico. Contiene un passaggio centrale che è la campana a morto del cattolicesimo liberale o «progressista» in Italia. Leggiamo infatti che il cattolico «non può appellarsi al principio del pluralismo e dell’autonomia dei laici in politica, favorendo soluzioni che compromettano o che attenuino la salvaguardia delle esigenze etiche fondamentali per il bene comune della società».
Va da sé che, nel caso specifico del dibattito sulla legge delle unioni di fatto, sono i vescovi a decidere che cosa è il «bene comune». Al laico cattolico impegnato nella società e nella politica non resta che aderire senza riserve alla linea dettata dall’episcopato. Ogni altra posizione è definita «incoerente».
«Incoerenza» può essere intesa come un’espressione relativamente morbida, in un contesto che evita di menzionare o minacciare sanzioni ai disobbedienti. Ma il testo è netto nell’escludere ogni opinione deviante che, non a caso, viene collegata ai due principi-cardine della laicità, «pluralismo» e «autonomia». Sono dunque proprio i principi laici che vengono evocati e negati.
Ma è prevedibile che nel campo cattolico italiano non si alzino proteste o dissensi. Soltanto qualche voce isolata e molto silenzio, compensato dalla soddisfazione degli agnostici clericalizzanti. Adesso lo schieramento tra i cattolici obbedienti e gli altri è chiuso a battaglia.
E manda il segnale della fine del già faticosissimo dialogo tra cattolici e laici (presuntivamente non credenti e diffamati come «laicisti»).
Perché si è arrivati a questa situazione? La Nota dell’episcopato italiano si inserisce perfettamente nella logica della sfera pubblica aperta al confronto di tutte le opinioni. E le opinioni sono tanto più forti quanto meglio mediaticamente organizzate. Da qualche anno questo riesce bene alla Chiesa e alle sue agenzie. Mi auguro quindi che adesso cessi il lamento che la sfera pubblica in Italia esclude o mortifica la Chiesa (rimane l’equivoco di confondere la dottrina della Chiesa con la voce di Dio, ma questo è un altro discorso serio).
Non diremo neppure che è in pericolo la democrazia. Si può anzi dire che gli uomini di Chiesa hanno imparato a usare tutte le tecniche democratiche per garantire e promuovere la specifica identità dei cattolici. Le «procedure» democratiche, che un tempo erano guardate con sospetto perché presuntivamente estranee ai valori, sono utilizzate ora spregiudicatamente per difendere le proprie posizioni. Il ricorso all’«obiezione di coscienza» viene disinvoltamente evocato e usato per delegittimare normative di carattere generale.
L’invito al laicato cattolico di aderire senza riserve alla linea della gerarchia è l’ultimo atto di questa strategia. Il cattolicesimo italiano si presenta (deve presentarsi, secondo la Cei) come un corpo compatto di convinzioni e di tattiche politiche vincenti.
Certo, è paradossalmente insicuro se rimanere orgogliosamente una minoranza di «veri credenti» o viceversa avanzare come unico rappresentante della «maggioranza degli italiani», che non sarebbero affatto rappresentati dai laici. La gestione di Camillo Ruini ha oscillato tra queste due concezioni. La prima uscita pubblica del nuovo vertice Cei non ha ancora sciolto questo nodo.
Don Gino Gallo: «La Chiesa non sia arrogante. Ma ho fiducia in Bagnasco» Roberto Monteforte *
«È l’ora della speranza. Il tempo del partito di Dio, dell’era ruiniana è finito. Ci vorrà del tempo, ma la linea di monsignor Bagnasco è quella di una Chiesa più pastorale e collegiale». Parla don Gino Gallo, prete da 48 anni. L’uomo di Chiesa che non ha timore di dire la sua. Di esprimere il suo dissenso. Lo ha fatto nei tempi del divorzio. Ora vive il disagio della Nota Cei sui Dico. Ma è fiducioso.
Perché la preoccupa quel pronunciamento?
«Parlo come uno che ama la sua Chiesa. Negare la pluralità dei valori presenti anche in una società secolarizzata o non cristiana, significa contraddire l’insegnamento evangelico. Già il Concilio Vaticano II aveva sottolineato la distinzione tra le competenze della religione e della società politica, ribadita da Giovanni Paolo II e da Benedetto XVI. Papa Ratzinger lo dice chiaramente: la Chiesa non deve imporre ai non credenti una prospettiva di fede o modi di comportamento che appartengono ad essa. La Chiesa non si può porre come gruppo di pressione, che si presenta con intransigenza arrogante, in contrapposizione a una società giudicata malsana e priva di valori. Non è con questo giudizio di disprezzo dell’altro, ritenuto incapace di etica, o misconoscendo la pluralità dei valori presenti anche nella società non cristiana, che si può stare nella storia. La Chiesa ha assolutamente il diritto di intervenire e ribadire i suoi principi. Il problema è quello del modo, dello stile che sembrano alimentare lo scontro tra clericali e anticlericali. Deve difendere la famiglia, ma non fomentare inimicizie, né tanto meno farsi percepire lontana nella misericordia a quanti percorrono sentieri difficili nella ricerca dell’amore. E mostrare attenzione alla sofferenza degli uomini e far risultare l’amore e il bene presenti anche in situazioni giudicate moralmente non conformi all’etica cattolica e dare testimonianza a tutti della “Buona notizia”».
Come giudica il richiamo della Cei ai politici cattolici?
«I vescovi devono mostrare fiducia nei deputati cattolici. Non umiliarli o tenerli sotto tutela. Si parla di libertà di coscienza e si dice che in nome di questa libertà non bisogna votare questo o quello. Ma questa è dittatura di coscienza. È la dittatura del principio di soggettività. Così il deputato non si fa carico di alcuna responsabilità collettiva. La politica è mediazione. Una coscienza che non assuma nessuna responsabilità sociale è un po’ troppo ristretta per essere retta a principio della decisione. Se poi alle sue spalle vi è l’obbedienza a principi posti come vincolanti dalle autorità religiose, allora si giunge a quella autolimitazione della responsabilità conosciuta da quelli della mia età in epoca dittatoriale».
Quei vincoli vengono posti...
«Ma è Benedetto XVI a dirlo: la Chiesa si deve fermare al pre-politico e al pre-economico. Solo così la profezia si fa ispiratrice di soluzioni tecniche che spettano ai cittadini, cristiani e non cristiani, tutti chiamati a pari titolo con gli stessi diritti e doveri a concorrere alla costruzione della Polis. Il 12 maggio si celebra la festa della famiglia che è il culmine dell’amore, negando i diritti di tanti altri, di un pluralismo etico. È possibile?».
Lo chiedono i vescovi...
«La Nota sui Dico annunciata da Ruini era cosa già fatta. La si è potuta solo moderare nei toni. Ma per la Chiesa sono felice. Con monsignor Bagnasco vi sono segnali nuovi. Nella lettera che gli ha inviato il segretario di Stato cardinale Bertone, vi era la richiesta di maggiore collegialità,pastoralità e meno politica. Sono punti chiave che esplicitano tutto il mal contento che si respirava sotto la cappa di quel riuniano “partito di Dio”, del cattolico intransigente e arrogante, crociato di valori”. Alla Cei si chiede di essere un organismo vivo, meno burocratico, collegiale. Sono sollecitazioni che Bagnasco è pronto a recepire. È una svolta attesa da tanti cattolici costretti al silenzio, all’anonimato. Sono teologi, preti, religiosi. Siamo davanti ad un impoverimento del cattolicesimo italiano che non può non preoccupare i vescovi. Bagnasco lo ho conosciuto da giovane prete. Ha preparazione, profondità e spiritualità che mi ricordano quella di Papa Luciani. Mi dà fiducia. Non è certo per una Chiesa lobby, potente nelle finanze, schierata con il centrodestra, sempre pronta agli irriducibili scontri frontali. È la fine dell’era Ruini».
* l’Unità, Pubblicato il: 30.03.07, Modificato il: 30.03.07 alle ore 8.23
Nuovo attacco sulle coppie di fatto del presidente Cei e arcivescovo di Genova. "Maggioranze vestite di democrazia possono diventare antidemocratiche"
Bagnasco: "Diciamo no ai Dico
come a incesto e pedofilia"
Secondo il numero uno dei vescovi difficile dire ’no’, "se cade il criterio antropologico dell’etica che è anzitutto un dato di natura e non di cultura" *
GENOVA - Perché dire no, oggi a forme di convivenza stabile alternative alla famiglia, ma domani alla legalizzazione dell’incesto o della pedofilia tra persone consenzienti? L’interrogativo, destinato a rinvigorire ulteriormente la polemica sui Dico, è stato posto dall’ arcivescovo di Genova e presidente della Cei, monsignor Bagnasco, durante un incontro nella serata di ieri con gli animatori della comunicazione della diocesi.
"Nel momento in cui si perde la concezione corretta autotrascendente della persona umana - ha affermato Bagnasco -, non vi è più un criterio di giudizio per valutare il bene e il male e quando viene a cadere un criterio oggettivo per giudicare il bene e il male, il vero e il falso, ma l’unico criterio o il criterio dominante è il criterio dell’opinione generale, o dell’opinione pubblica, o delle maggioranze vestite di democrazia - ma che possono diventare ampiamente e gravemente antidemocratiche, o meglio violente - allora è difficile dire dei no, è difficile porre dei paletti in ordine al bene".
"Perché - ha proseguito l’arcivescovo di Genova - dire di no a varie forme di convivenza stabile giuridicamente, di diritto pubblico, riconosciute e quindi creare figure alternative alla famiglia? Perché dire di no? Perché dire di no all’incesto come in Inghilterra dove un fratello e sorella hanno figli, vivono insieme e si vogliono bene? Perché dire di no al partito dei pedofili in Olanda se ci sono due libertà che si incontrano? E via discorrendo, perchè poi bisogna avere in mente queste aberrazioni secondo il senso comune e che sono già presenti almeno come germogli iniziali".
"Oggi ci scandalizziamo - ha concluso il presidente della Cei - ma, a pensarci bene, se viene a cadere il criterio antropologico dell’etica che riguarda la natura umana, che è anzitutto un dato di natura e non di cultura, è difficile dire ’no’. Perché dire no a questo a quello o a quell’altro. Se il criterio sommo del bene e del male è la libertà di ciascuno, come autodeterminazione, come scelta, allora se uno, due o più sono consenzienti, fanno quello che vogliono perché non esiste più un criterio oggettivo sul piano morale e questo criterio riguarda non più l’uomo nella sua libertà di scelta ma nel suo dato di natura".
* la Repubblica, 31 marzo 2007