BILANCI
Il politologo Ralf Dahrendorf lancia l’allarme: i cittadini contano sempre meno nelle decisioni dei parlamenti e dei governi
Democrazia a metà
«Le persone non hanno fiducia nei rappresentanti politici, tuttavia si rassegnano nell’indifferenza. Questa via prepara derive autoritarie»
di Ralf Dahrendorf (Avvenire, 13.10.2006)
La democrazia è oggi sotto forte pressione, anche in Europa. Questa pressione, in particolare sulla democrazia rappresentativa o parlamentare, è tale da obbligarci a riconsiderare lo statuto stesso della libertà. Essa, inoltre, proviene contemporaneamente da due fronti.
All’interno dei singoli paesi, vari fenomeni concorrono a innescare una sorta di autoritarismo strisciante. Questi fenomeni interni sono rafforzati da quella che è volgarmente chiamata globalizzazione, cioè l’emigrazione delle decisioni importanti verso spazi in cui le istituzioni e i processi democratici non esistono.
Molti di noi ricordano ancora con gioia quei mesi di molti anni fa quando un paese dopo l’altro, a est della Cortina di Ferro che crollava, si liberava dalle regole della nomenclatura per muovere i primi passi esitanti verso la democrazia. Come popperiano, io non sono mai stato d’accordo con l’idea che le minacce alla libertà fossero state debellate per sempre e che si fosse realizzata la sintesi finale di Hegel (o di Kojève). Allo stesso tempo non avevo previsto che, nel giro di poco più di un decennio, i rischi per la democrazia sarebbero diventati tanto gravi.
Negli ultimi anni, due dei maggiori paesi europei, l’Italia e il Regno Unito, hanno subito, pur sopravvivendo, campagne elettorali che sono state l’espressione di ciò che potremmo definire l’anti-politica. Qualcosa di simile è avvenuto anche in Gran Bretagna, con Tony Blair, un leader che evita le istituzioni politiche, come partito e parlamento, e si rivolge direttamente alla gente, o, meglio ancora, a focus groups scelti come campioni rappresentativi della popolazione. Il primo atto di Tony Blair, all’epoca del suo primo mandato, è stato infatti quello di ridurre i giorni dedicati alle interrogazioni parlamentari da due a uno - atto simbolico ma significativo.
C’è anche un’altra faccia della medaglia. Benché l’affluenza alle urne sia ancora alta in Europa, almeno rispetto agli Stati Uniti, nondimeno gli osservatori riscontrano una diffusa apatia, se non un vero e proprio cinismo, nei riguardi della politica. La gente non è interessata e, pur non avendo alcuna fiducia in chi è al potere, non si preoccupa di reagire. È così che emerge la sindrome autoritaria. Diversamente dal totalitarismo, l’autoritarismo non è fondato sulla mobilitazione permanente di tutti i soggetti, ma sul loro disinteresse. Ora, questo autoritarismo strisciante non sempre trionfa.
In Francia c’è una salda tradizione: cittadini e lavoratori sono sempre pronti a scendere in piazza per costringere il governo a rivedere le sue decisioni. Ma nulla di ciò è democrazia nel senso indicato da James Madison o John Stuart Mill. Rafforzare il parlamento è diventato un compito arduo. Democrazia vuol dire tre cose: realizzare i cambiamenti senza l’uso della violenza; rispettare equilibri e controlli nell’esercizio del potere; dare peso all’opinione pubblica.
La democrazia parlamentare o rappresentativa coniuga questi elementi mediante l’elezione di rappresentanti che nel parlamento, e grazie ad esso, possono cambiare gli indirizzi politici e, se necessario, i governi, come pure monitorare e controllare l’esercizio del potere. Tali istituzioni si sono sviluppate storicamente durante la formazione degli stati nazionali. Sia Madison che Mill (e molti altri) offrono riflessioni importanti sulla dimensione e sulla natura - o, meglio, sulla cultura - delle comunità nelle quali operano istituzioni democratiche; Madison parla di uno spazio in cui vi sono "accordi di lealtà", Mill di "nazionalità".
Comunque si definisca o si descriva lo spazio tradizionale delle istituzioni democratiche, almeno da un punto di vista europeo, è certo che esso sta perdendo rapidamente terreno rispetto alle decisioni importanti: è la Banca Centrale Europea a decidere i tassi d’interesse; è la Nato a pianificare gli attacchi aerei; è il Fondo Monetario Internazionale a decidere chi debba o meno ricevere ulteriore aiuto da parte della comunità internazionale. In questi casi, almeno, ci si confronta con delle istituzioni.
Ma ci sono decisioni altrettanto importanti che vengono prese da organismi meno definiti, come quando, per esempio, una società giapponese decide di investire in Galles piuttosto che in Normandia, o quando uno speculatore americano coglie l’occasione più propizia per mandare in tilt il Sistema Monetario Europeo e, così facendo, incassa miliardi di dollari. A volte sembra che a dettare legge siano "mercati" interamente anonimi.
È importante ricordare, all’inizio del XXI secolo, che lo Stato nazionale è ancora lo spazio politico più importante. Può aver perduto parte della sua forza, ma resta comunque la comunità inclusiva più importante per la maggior parte della gente. Per chi è da poco sfuggito alla dominazione imperialistica, come gli stati ex comunisti dell’Europa centrale e orientale, lo Stato nazionale non incarna solo la sovranità, ma anche la libertà.
Bisogna poi stare attenti alla falsa democrazia i cui rappresentanti, in realtà, non danno ascolto alla voce della gente. La Repubblica di Weimar è stata correttamente definita una democrazia senza democratici - ed è questa una delle ragioni per cui non è durata. Il suo contrario offre forse maggiore speranza. Anche se non possiamo avere una democrazia mondiale e neppure europea, almeno abbiamo i democratici: persone coscienti dei propri diritti, che prendono sul serio la responsabilità di difenderli attivamente.
Ralf Dahrendorf
di Benedetto Vecchi (il manifesto, 19.06.2009)
Studioso della società industriale più attento ai conflitti che la attraversavano, ha poi cercato di importare elementi di socialismo in campo liberale, arrivando a definire il Novecento un secolo socialdemocratico. Per poi trovarsi a difendere il modello sociale europeo dagli attacchi dei neoliberisti
Il suo nome è stato quasi sempre accostato a Isaiah Berlin e a Karl Popper, come espressione di un liberalismo che non aveva timore di confrontarsi con i conflitti della modernità. Un triumvirato messo a presidio di una concezione del mondo e della democrazia che trovava piena cittadinanza solo in Europa. Ralf Dahrendorf aveva più volte affermato che il liberalismo, per continuare a esistere, doveva fare propri molti dei principi del suo avversario storico, il socialismo. Una convinzione tanto profonda da portarlo a scrivere, pochi anni prima dell’Ottantanove, che il Novecento non era stato un «secolo americano», bensì socialdemocratico, perché erano stati proprio i socialdemocratici e i laburisti a salvare il capitalismo dal nemico storico, il comunismo. Il welfare state aveva infatti creato le condizioni affinché il capitalismo e la forma politica a esso congeniale, la democrazia liberale e rappresentativa, potessero sopravvivere in un mondo che aveva guardato all’Unione Sovietica prima e la Cina dopo il 1949 come a modelli di società «funzionanti» e che potevano rappresentare un’alternativa credibile al capitalismo.
La caduta del muro di Berlino, la dissoluzione del socialismo reale, la scelta cinese di intraprendere riforme propedeutiche allo sviluppo di una economia capitalistica smentirono le sue tesi, portandolo a guardare al processo di costruzione europea come la strada maestra per salvare il capitalismo dall’estremismo dei neoliberisti. Con la scomparsa di Ralf Dahrendorf scompare però proprio quel liberalismo novecentesco che aveva cercato di innovare la chiave di lettura della modernità. Del «suo» secolo socialdemocratico ci sono solo flebili echi in Germania e Svezia, mentre nel vecchio continente il neoliberismo arretra di fronte alle armate di un populismo tanto feroce, quanto capace di interpretare e dare risposte politiche seppur regressive ai conflitti del capitalismo. E non è un caso che il suo ultimo libro si chiami Quadrare il cerchio ieri e oggi (Laterza) dove lo studioso tedesco propone più che un punto di vista un metodo per diradare le nebbie di uno «spirito del tempo» certo non prodigo né di tolleranza, libertà e tanto meno di eguaglianza.
Autorevole in nome del potere
In questo breve saggio, Dahrendorf propone un ritorno alle sue origini di studioso, quando la questione dell’esercizio del potere diventava il nodo da sciogliere e che per farlo occorreva assumere le ragioni di una delle parti in conflitto e stabilire il frame affinché quelle ragioni fossero inscritte in un quadro di equilibrio tra interessi diversi. Una proposta di metodo avanzata con lo stile piano che gli era proprio, ma segnata dall’inquietudine profonda di chi ha visto svanire il suo mondo.
Ralf Dahrendorf era nato a Amburgo nel 1929 e aveva conseguito la laurea in filosofia per poi trasferirsi in Inghilterra e completare i suoi studi. Ed è stato proprio a Londra che aveva conseguito il Ph. D alla London School of Economics. Ma negli anni Sessanta il nome di Dahrendorf è legato sostanzialmente al volume Classi e conflitto di classe nella società industriale (Laterza), un volume dove lo studioso tedesco analizza il conflitto di classe come espressione di una lotta di potere. Per Dahrendorf, infatti, la società industriale è plasmata nel suo divenire attorno al nodo del potere, inteso come il potere di imporre la propria volontà e le proprie decisioni ad altri.
Nel capitalismo questo significa che i proprietari dei mezzi di produzione impongono ad altri di svolgere alcune mansioni. Da qui il conflitto dei «subordinati» rispetto proprio a quell’esercizio del potere. Ma se questa griglia analitica risente delle tesi weberiana sull’agire strumentale e sulla crescente burocratizzazione della vita sociale, ben diversa è la concezione delle classi che lo studioso tedesco elabora in una polemica a distanza con l’analisi marxiana delle classi sociali. È noto che per Marx le classi sono il risultato di determinati rapporti sociali di produzione, mentre per Dahrendorf invece le classi sono fatte discendere proprio dai rapporti di potere esistenti nella società. Così gli operai diventano classe operaia perché subordinati alla gerarchia di fabbrica, la quale definisce altri figure sociali che possono essere considerate appartenenti a una classe piuttosto che a un altra. Ed è così per l’insieme della società. I conflitti tra le classi sono dunque espressione dei rapporti di potere esistenti e del tentativo di modificarli a proprio vantaggio.
Travolto dal Sessantotto
Aspre e radicali furono le critiche che i marxisti riservarono a Dahrendorf, ritenendolo un teorico della stratificazione sociale che individuava nelle norme definite dall’amministrazione e dal sistema politico lo strumento per regolare i rapporti di potere, lo status e i livelli di redditi attraverso l’esercizio dell’autorità. L’esaltazione della democrazia liberale e la stigmatizzazione di qualsiasi proposta di una trasformazione radicale dei rapporti sociali lo portarono ad aderire al «Freie Demokratische Partei», il partito liberale della Repubblica federale tedesca, candidandosi alle elezioni. E fece scalpore a quel tempo il confronto serrato tra Dahrendorf e uno dei leader del Sessantotto tedesco Rudi Dutschke, che lo accusò di essere un paladino della società autoritaria e al dominio di classe esercitato dal capitale. Accuse che il sociologo tedesco rifiutò, ma che lo portarono a preferire l’Inghilterra alla «sua» Germania.
Questo è stato il libro più significativo di Dahrendorf dal punto di vista teorico. Il resto della sua produzione editoriale è da considerare una brillante variazione attorno al grumo tematico lì sviluppato. Ben diversa è stata invece le traiettorie impresse alla carriera politica e accademica.
Dahrendorf si trasferisce infatti in Inghilterra e diventa docente alla London School of Economics, diventando anche direttore per poi assumere la carica di amministratore delegato di Oxford. Dopo l’esperienza di deputato liberale al parlamento della Repubblica federale tedesca, è invece chiamato a partecipare a una delle prime commissioni europee per definire le tappe dell’unificazione economica e politica del vecchio continente. Per lo studioso tedesco, il cosiddetto modello renano doveva diventare il modello sociale europeo, anche se questo non gli ha impedito in anni recenti di esprimere dubbi e «scetticismo» su come si stava strutturando l’Unione europea, senza prendere le distanze da un cosmopolitismo old style, molto apprezzato in Inghilterra, una seconda patria che lo premiò con il titolo di lord.
Il crollo del Muro di Berlino, le tante «rivoluzioni di velluto» nell’est europeo, la crisi fiscale del welfare state mandano però in frantumi molte delle sue analisi sulla modernità. E così il vecchio studioso, che aveva lavorato per importare un po’ di socialismo in campo liberale, si ritrovò a polemizzare con quanti, in nome della società aperta e del libero mercato, si definivano liberali, puntando a demolire il suo modello ideale di società liberale. Negli Erasmiani, un libro che può essere considerato una specie di testamento teorico, Dahrendorf propone una figura di intellettuale che interviene nell’arena pubblica per orientare le scelte, senza però mai rinunciare alla ricerca della verità. Con coraggio, ma senza mai rompere le compatibilità di fondo della società capitalistica. Un riformismo debole, il suo, e destinato a essere sommerso dalla marea di un dilagante populismo che ambisce a prendere il posto di potere occupato dai suoi avversari dell’ultima ora, quei neoliberisti che avevano già fatto carta straccia del suo timido liberalsocialismo.
Ansa» 2009-06-18 14:20
MORTO RALF DAHRENDORF, FILOSOFO E LORD
ROMA - E’ morto Ralf Dahrendorf, uno dei maggiori filosofi contemporanei. Era nato ad Amburgo il primo maggio del 1929. LO ha confermato la Laterza, casa editrice dei suoi libri in Italia. Dal 1988 era cittadino britannico e nel 1993 fu nominato lord a vita dalla regina Elisabetta II. Aveva 80 anni.
LA SUA EUROPA TRA PASSIONE E SCETTICISMO Con la abituale passione Ralf Dahrendorf si è occupato dei problemi dell’Europa, arrivando, nel segno del suo legare teoria e impegno personale, a far parte dal 1970 per quattro anni della Commissione europea a Bruxelles. Partito dalla convinzione che "la nascita della Cee è stata l’avvenimento politico più rilevante del XX secolo", dopo quell’esperienza è andata crescendo la sua forte nota critica, con l’intento di mettere soprattutto in guardia dai pericoli di una mancanza di democrazia reale nell’Ue. Così, sin dalla fine degli anni ’80, fu per l’allargamento della Comunità, che vedeva come una questione urgente, perché "come è attualmente, la Comunità economica europea è la migliore possibile, ma non è granché e c’é da essere scettici anche sugli effetti del trattato di Maastricht, che guarda l’Europa dallo specchietto retrovisore, firmato da personalità alla fine delal loro carriera, che in esso hanno visto l’Europa del passato, invece che quella del futuro".
Così, anni dopo, parlando della necessità di aprirsi al mondo, dichiarava: "l’Europa allargata che sta per realizzarsi costituisce un passo in avanti in questa direzione. Ma dobbiamo spingerci molto più oltre, verso quella che definirei una costituzione cosmopolita della libertà. Tutto ciò richiede cittadini attivi, che si impegnino per la democrazia e la libertà". Per capire cosa intendesse, basterebbe una affermazione fatta a Roma nel 1992: "Quando l’Italia si trova sola ad affrontare la questione albanese, questa comunità rivela tutti i suoi limiti" e l’Europa dovrebbe imparare a "affrontare i problemi reali quando essi di presentano, anche se non sono compresi nella sua agenda".
Certo, non sempre le sue note vedevano giusto, anche se partivano da considerazioni al momento interessanti. Ancora nel 1998 Dahrendorf era contrario alla moneta unica, "che dividerà l’Europa più che unirla e e continuerà a farlo in futuro (....) Sarà qualcosa di molto impopolare e non farà bene all’integrazione. Non aiuterà l’occupazione e neanche la crescita". L’anno in cui l’Euro entra in vigore, Dahrendorf metteva in guardia su una mancanza grave di democrazia all’interno dell’Europa che le faceva perdere consenso da parte dei cittadini: "Le leggi sono fatte in segreto, le riunioni del Consiglio dei ministri non sono aperte al pubblico e non ci sono meccanismi di controllo e alcun tipo di revisione giudiziaria appropriata". Per molti versi, per le stesse ragioni, non diverso il suo atteggiamento nei confronti della Costituzione, di cui l’Europa riteneva non avesse bisogno, aggiungendo, nel 2002, "mi auguro piuttosto che l’accordo sia realistico e si limiti ad affrontare le esigenze istituzionali di medio periodo", pur riconoscendo che si trattava "dio un passo importante, ma non decisivo".
Sino all’ultimo si è quindi battuto per un governo europeo che affrontasse e avesse la facoltà di risolvere i problemi, senza nascondere i contrasti o far finta di essere d’accordo, come, secondo lui, capitava spesso e come il, fatto che davanti ai nodi di questioni importanti di politica estera ognuno finisse per andare per la propria strada. Così auspicava un New deal tra Usa e Europa, ma ammettendo, solo due mesi fa, di pensare che il G20 di Londra "non riuscirà ad essere il momento decisivo per uscire dalla crisi". "L’Europa non è riuscita a creare ancora una classe dirigente europea" era da tempo uno dei ritornelli fissi dell’autore di ’Perche’ l’Europa? Riflessioni di un europeista scetticò e di ’La democrazia in Europa’, ripetuto anche ufficialmente a Roma, alla presenza dell’allora presidente Ciampi: "Bisogna porsi il problema della democraticità delle istituzioni. I popoli europei, finora, non sembrano affatto entusiasti del processo di costruzione dell’Europa. Si dice che bisogna portare i popoli dell’Europa più vicini alle istituzioni. Ma io credo che sia esattamente il contrario: sono le istituzioni che devono avvicinarsi alla realtà di tutti i giorni", sapendo che "l’ Europa è diversa in tutto, dalle dimensioni degli stati agli interessi economici, dal clima alle tradizioni, dai sistemi elettorali alle lingue. Dobbiamo imparare a convivere con la diversità e guardarci dai tentativi di normalizzazione".
ERIC HOBSBAWM: IL MERCATO UCCIDE LE DEMOCRAZIE
[Dal "Corriere della sera" del 28 ottobre 2007
col titolo "Il mercato uccide le democrazie" e il sommario "Anticipazione. L’allarme dello storico
inglese: le privatizzazioni indeboliscono le istituzioni e la politica.
Decadono gli Stati nazionali. E cosi’ l’unita’ di Italia, Spagna e Gran Bretagna e’ a rischio"
e la nota biobibliogafica "L’autore e le opere.
Timori e interrogativi oltre il Secolo breve. Il testo pubblicato in questa pagina e’ un estratto dal nuovo libro di Eric Hobsbawm, La fine dello Stato (traduzione di Daniele Didero, pagine 123, euro 9) in uscita il 7 novembre per Rizzoli. Il volume raccoglie e rielabora alcuni testi in cui lo storico britannico discute problemi cruciali del nostro tempo, dal destino delle nazioni al futuro della democrazia, fino alle nuove forme assunte dalla violenza politica. Eric Hobsbawm, nato ad Alessandria d’Egitto da genitori ebrei austriaci, ha compiuto novant’anni lo scorso 9 giugno. Vive dal 1933 in Gran Bretagna, dove presiede il Birkbeck College dell’Universita’ di Londra. Storico di formazione marxista, ha acquisito una grande notorieta’
internazionale con i suoi studi sull’eta’ contemporanea: Le rivoluzioni borghesi. 1789-1848 (Laterza), Il trionfo della borghesia. 1848-1875 (Laterza), L’eta’ degli imperi. 1875-1914 (Mondadori), Il secolo breve.
1914-1991 (Rizzoli).
La sua opera piu’ recente tradotta in Italia e’
Imperialismi (Rizzoli). Francis Fukuyama, Norbert Elias e Moises Naim sono alcuni degli autori di cui Hobsbawm discute le tesi nei saggi contenuti all’interno del volume La fine dello Stato. Il brano pubblicato qui accanto e’ tratto da una conferenza tenuta dallo storico britannico al club Athenaeum di Londra".
Eric J. Hobsbawm, storico inglese, nato ad Alessandria d’Egitto nel 1917, docente, intellettuale impegnato per la democrazia. Ha dedicato libri fondamentali alla rivoluzione industriale, alle rivoluzioni borghesi, all’eta’ dell’ imperialismo e del colonialismo, al movimento operaio, alla storia del Novecento. Opere di Eric J. Hobsbawm: segnaliamo particolarmente le grandi ricostruzioni Le rivoluzioni borghesi. 1789-1848, Il trionfo della borghesia. 1848-1875, L’eta’ degli imperi. 1875-1914, edite in italiano da Laterza, Roma-Bari; le tre vivaci raccolte di saggi su I banditi, I ribelli, I rivoluzionari, edite in italiano da Einaudi, Torino; Studi di storia del movimento operaio, Einaudi, Torino 1973; Storia sociale del jazz, Editori Riuniti, Roma 1982; ed i piu’ recenti Lavoro, cultura e mentalita’ nella societa’ industriale, Laterza, Roma-Bari 1986; Echi della Marsigliese, Rizzoli, Milano 1991; Nazioni e nazionalismo, Einaudi, Torino 1992; (con Terence Ranger),L’invenzione della tradizione, Einaudi, Torino 1994; (a cura di), Gramsci in Europa e in America, Laterza, Roma-Bari 1995; Il secolo breve. 1914-1991, Rizzoli, Milano 1997, 2000; De historia, Rizzoli, Milano 1997; Storia economica dell’Inghilterra. La rivoluzione industriale e l’impero, Einaudi, Torino 1997; Intervista sul nuovo secolo, Laterza, Roma-Bari 1999; Gente che lavora. Storie di operai e contadini, Rizzoli, Milano 2001; l’autobiografia Anni interessanti, Rizzoli, Milano 2002, 2004; L’uguaglianza sconfitta. Scritti e interviste, Datanews, Roma 2006; Gente non comune, Rizzoli, Milano 2007; Imperialismi, Rizzoli, Milano 2007; La fine dello Stato, Rizzoli, Milano 2007]
Oggi "il popolo" e’ il fondamento e il punto di riferimento comune di tutte le forme di governo statali eccetto quella teocratica. E cio’ non e’ soltanto qualcosa di inevitabile, ma e’ qualcosa di giusto, perche’ per avere un qualunque scopo il governo deve parlare in nome e nell’interesse di tutti i cittadini. Nell’epoca dell’uomo comune, ogni governo e’ un governo del popolo e per il popolo, anche se chiaramente non puo’ essere, in nessun senso funzionale, un governo esercitato direttamente dal popolo. Tale principio non si basa solo sull’egualitarismo dei popoli, che non sono piu’ disposti ad accettare una posizione di inferiorita’ in una societa’ gerarchica governata da uomini superiori "per diritto naturale", ma anche sul fatto che finora i sistemi sociali, le economie e gli Stati nazionali moderni non hanno potuto funzionare senza l’appoggio passivo, ma anche la partecipazione attiva e la mobilitazione, di moltissimi dei loro cittadini.
Questo principio rappresenta l’eredita’ del XX secolo. Ma sara’ ancora la base dei governi popolari, incluso quello liberaldemocratico, nel XXI? La mia tesi e’ che la fase attuale dello sviluppo capitalistico globalizzato lo sta minando alle radici, e che cio’ avra’ - anzi, sta gia’ avendo - serie implicazioni per quanto riguarda la democrazia liberale come viene intesa oggi.
L’odierna politica democratica, infatti, si fonda su due assunzioni, una morale - o, se preferite, teorica - e l’altra pratica. Moralmente parlando, essa richiede il supporto esplicito del regime da parte della maggioranza dei cittadini, che si presume costituiscano il grosso degli abitanti dello Stato. Ma per quanto fossero democratici gli ordinamenti in vigore per la popolazione bianca nel Sudafrica dell’apartheid, un regime che privava permanentemente del diritto di voto la maggior parte della sua popolazione non puo’ essere considerato come democratico. Gli atti con cui si esprime il proprio assenso alla legittimita’ di un sistema politico, come votare periodicamente alle elezioni, possono essere poco piu’ che simbolici. Di fatto, e’ da molto tempo un luogo comune tra i politologi dire che solo una modesta minoranza di cittadini partecipa costantemente e attivamente alla vita del proprio Stato o di un’organizzazione di massa. Cio’ torna a vantaggio di coloro che comandano; e, in effetti, e’ da tempo che i pensatori e i politici moderati si augurano la diffusione di un certo grado di apatia politica. Ma questi atti sono importanti.
Oggi ci troviamo di fronte a un’evidentissima secessione dei cittadini dalla sfera della politica. La partecipazione alle elezioni appare in caduta libera nella maggior parte dei Paesi liberaldemocratici. Se le elezioni popolari sono il primo criterio di rappresentativita’ democratica, in che misura e’ possibile parlare di legittimita’ democratica per un’autorita’ eletta da un terzo dell’elettorato potenziale (la Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti) o, come e’ avvenuto di recente per le amministrazioni locali britanniche e il Parlamento europeo, da qualcosa come il 10 o il 20% dell’elettorato? O per un presidente americano eletto da poco piu’ di meta’ del 50% degli americani che hanno diritto di voto?
Sul lato pratico, i governi dei moderni Stati nazionali o territoriali - qualunque governo - si basano su tre presupposti: primo, che abbiano piu’ potere di altre unita’ operanti sul loro territorio; secondo, che gli abitanti dei loro territori accettino, piu’ o meno volentieri, la loro autorita’; e terzo, che tali governi siano in grado di fornire ai cittadini quei servizi ai quali non sarebbe altrimenti possibile provvedere, perlomeno non con la stessa efficacia (come "legge e ordine", per riprendere un’espressione proverbiale). Negli ultimi trenta o quarant’anni, questi presupposti hanno progressivamente perso la loro validita’.
In primo luogo, pur essendo ancora di gran lunga piu’ potenti di qualunque rivale interno, anche gli Stati piu’ forti, piu’ stabili e piu’ efficienti hanno perso il monopolio assoluto della forza coercitiva, non ultimo grazie alla marea di nuovi strumenti di distruzione portatili, oggi facilmente accessibili ai piccoli gruppi dissidenti, e all’estrema vulnerabilita’ della vita moderna di fronte agli sconvolgimenti improvvisi, per quanto leggeri possano essere.
In secondo luogo, hanno iniziato a vacillare anche i due pilastri piu’ solidi di un governo stabile, ossia (nei Paesi che godono di una legittimita’ popolare) la lealta’ dei cittadini e la loro disponibilita’ a servire gli Stati, e (nei Paesi dove questa legittimita’ popolare manca) la pronta obbedienza a un potere statale schiacciante e indiscusso. Senza il primo pilastro, le guerre totali basate sulla coscrizione obbligatoria e sulla mobilitazione nazionale sarebbero state impossibili, cosi’ come sarebbe stata impossibile la crescita degli introiti erariali degli Stati fino all’odierna percentuale dei Pil (introiti che possono oggi superare il 40% del Pil in alcuni Paesi e il 20% anche negli Stati Uniti e in Svizzera).
Senza il secondo pilastro, come ci mostra la storia dell’Africa e di ampie regioni dell’Asia, piccoli gruppi di europei non avrebbero potuto mantenere per generazioni il controllo sulle colonie a un costo relativamente modesto.
Il terzo presupposto e’ stato minato non solo dall’indebolimento del potere statale ma anche, a partire dagli anni Settanta, da un ritorno, tra i politici e gli ideologi, a una critica dello Stato basata su un laissez-faire ultraradicale, secondo la quale il ruolo dello Stato stesso dev’essere ridimensionato a tutti i costi.
Questa critica afferma, piu’ per una sorta di fede teologica che non sulla base di evidenze storiche, che ogni servizio che le autorita’ pubbliche possono fornire o e’ qualcosa di indesiderabile, oppure potrebbe essere fornito in modo migliore, piu’ efficiente e piu’ economico dal "mercato". A partire da quel periodo, la sostituzione dei servizi pubblici con servizi privati o privatizzati e’ stata massiccia. Attivita’ caratteristiche di un governo nazionale o locale come gli uffici postali, le prigioni, le scuole, l’approvvigionamento idrico e anche i servizi assistenziali e previdenziali sono stati ceduti a (o trasformati in) imprese commerciali; i dipendenti pubblici sono stati trasferiti ad agenzie indipendenti o rimpiazzati con subappaltatori privati. Anche alcune parti dell’apparato bellico sono state subappaltate. E, naturalmente, il modus operandi delle aziende private - che mirano alla massimizzazione dei profitti - e’ diventato il modello al quale ogni governo aspira a uniformarsi. E nella misura in cui cio’ avviene, lo Stato tende a fare affidamento su meccanismi economici privati per sostituire la mobilitazione attiva e passiva dei propri cittadini. Allo stesso tempo, e’ impossibile negare che nei Paesi ricchi del mondo gli straordinari trionfi dell’economia mettono a disposizione della maggior parte dei consumatori piu’ di quanto i governi o l’azione collettiva abbiano mai promesso o fornito in tempi piu’ poveri.
Ma il problema sta proprio qui. L’ideale della sovranita’ del mercato non e’ un complemento, bensi’ un’alternativa alla democrazia liberale. Di fatto, esso e’ un’alternativa a ogni sorta di politica, poiche’ nega la necessita’ di decisioni politiche, che sono esattamente le decisioni sugli interessi comuni o di gruppo in quanto distinti dalla somma di scelte, razionali o meno che siano, dei singoli individui che perseguono i propri interessi personali. Si aggiunga che il continuo processo di discernimento per scoprire che cosa vuole la gente, processo messo in atto dal mercato (e dalle ricerche di mercato), deve per forza essere piu’ efficiente dell’occasionale ricorso alla grezza conta elettorale. La partecipazione al mercato viene a sostituire la partecipazione alla politica; il consumatore prende il posto del cittadino. Francis Fukuyama ha di fatto sostenuto che la scelta di non votare, cosi’ come la scelta di fare la spesa in un supermercato anziche’ in un piccolo negozio locale, "riflette una scelta democratica fatta dalle popolazioni. Esse vogliono la sovranita’ del consumatore". Senza dubbio la vogliono, ma questa scelta e’ compatibile con cio’ che abbiamo imparato a considerare come un sistema politico liberaldemocratico?
Cosi’, lo Stato territoriale sovrano (o la federazione statale), che forma la cornice essenziale della politica democratica e di ogni altra politica, e’ oggi piu’ debole di ieri. La portata e l’efficacia delle sue attivita’ sono ridotte rispetto al passato. Il suo comando sull’obbedienza passiva o il servizio attivo dei suoi sudditi o cittadini e’ in declino. Due secoli e mezzo di crescita ininterrotta del potere, del raggio d’azione, delle ambizioni e della capacita’ di mobilitare gli abitanti degli Stati territoriali moderni, quali che fossero la natura o l’ideologia dei loro regimi, sembrano essere giunti al termine. L’integrita’ territoriale degli Stati moderni - cio’ che i francesi chiamano "la Repubblica una e indivisibile" - non e’ piu’ data per scontata. Fra trent’anni ci sara’ ancora una singola Spagna - o un’Italia, o una Gran Bretagna - come centro primario della lealta’ dei suoi cittadini? Per la prima volta in un secolo e mezzo possiamo porci realisticamente questa domanda. E tutto cio’ non puo’ non influire sulle prospettive della democrazia.
*LA DOMENICA DELLA NONVIOLENZA, Numero 174 del 27 luglio 2008
Supplemento domenicale de "La nonviolenza e’ in cammino"
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo,
tel. 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it
LE IDEE
I sette peccati capitali di Internet (e le sue virtù)
di STEFANO RODOTA’ *
Qual è il destino dei parlamenti nell’età dell’informazione e della comunicazione? Alcuni anni fa, quando cominciò il dibattito sulla democrazia elettronica, sembrava che le nuove tecnologie avrebbero portato ad una progressiva scomparsa della democrazia rappresentativa, sostituita da forme sempre più diffuse di democrazia diretta. Nel nuovo agorà elettronico i cittadini avrebbero potuto prendere sempre la parola e decidere su tutto.
La memoria dell’antica Atene e il modello dei town meetings del New England apparivano come la forma nuova della democrazia, con un intreccio tra antico e nuovo che avrebbe via via cancellato il ruolo dei parlamenti. Oggi queste ipotesi sono lontane, e la democrazia elettronica segue strade diverse da quelle di una brutale e ingannevole semplificazione dei sistemi politici. Ma questo non vuol dire che i parlamenti possano trascurare le grandi novità determinate dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, che incidono profondamente sul loro ruolo e sul modo in cui si struttura il loro rapporto con la società. Non siamo di fronte a semplici strumenti tecnici, ma ad una forza potente, la tecnologia nel suo complesso, che sta trasformando in modo radicale le nostre società.
Stiamo passando, su scala mondiale, da un equilibrio tecnologico all’altro. Il primo, grande compito dei parlamenti, oggi, è dunque quello di cogliere questo momento, di compiere tempestivamente le scelte intelligenti necessarie perché l’insieme delle tecnologie si risolva in un rafforzamento complessivo della democrazia.
Sono divenute chiare alcune linee di analisi e di intervento, che possono essere così riassunte:
evitare che le nuove tecnologie portino ad una concentrazione invece che ad una diffusione del potere sociale e politico;
evitare che le nuove tecnologie si consolidino come la forma del populismo del nostro tempo, con un continuo scivolamento verso la democrazia plebiscitaria.
evitare che ci si trovi sempre più di fronte a tecnologie del controllo invece che a tecnologie delle libertà;
evitare che nuove disuguaglianze si aggiungano a quelle esistenti;
evitare che il grande potenziale creativo delle nuove tecnologie porti non ad una diffusione della conoscenza, ma a forme insidiose di privatizzazione.
Pure l’età digitale, dunque, ha i suoi peccati, sette come vuole la tradizione, e che sono stati così enumerati: 1) diseguaglianza; 2) sfruttamento commerciale e abusi informativi; 3) rischi per la privacy; 4) disintegrazione delle comunità; 5) plebisciti istantanei e dissoluzione della democrazia; 6) tirannia di chi controlla gli accessi; 7) perdita del valore del servizio pubblico e della responsabilità sociale. Non mancano, tuttavia, le virtù, prima tra tutte l’opportunità grandissima di dare voce a un numero sempre più largo di soggetti individuali e collettivi, di produrre e condividere la conoscenza, sì che ormai molti ritengono che la definizione che meglio descrive il nostro presente, e un futuro sempre più vicino, sia proprio quella di "società della conoscenza".
Al di là delle immagini e delle metafore, i parlamenti non sono chiamati a scegliere tra il bene e il male. Di fronte ad una realtà complessa, nella quale convivono società della conoscenza e società del rischio, i parlamenti non sono chiamati scegliere tra bene e male. Devono ribadire la loro storica e insostituibile funzione di custodi della libertà e dell’eguaglianza. Non sono riferimenti retorici. La tecnologia è prodiga di promesse.
Alla democrazia offre strumenti per combattere l’efficienza declinante, e arriva fino a proporne una rigenerazione. Ma, se guardiamo al mondo reale, alle tendenze in atto, rischiamo di incontrare sempre più spesso un uso delle tecnologie che rende capillare e continuo il controllo dei cittadini. A queste tendenze bisogna reagire, non solo per sfuggire ad una sorta di schizofrenia istituzionale che spinge verso la costruzione di un mondo diviso tra le speranze di libertà e l’insidia della sorveglianza. E’ necessario soprattutto considerare realisticamente le dinamiche sociali, a cominciare da quelle che rischiano di produrre nuove diseguaglianze.
Questo problema viene solitamente indicato con l’espressione digital divide, ed effettivamente l’uso delle tecnologie, di Internet in primo luogo, produce stratificazioni sociali, l’emergere di nuove categorie di haves e di have nots, di abbienti e non abbienti proprio per quanto riguarda la fondamentale risorsa dell’informazione. Ma le più attendibili ricerche sul digital divide mettono in evidenza che il divario tra paesi sviluppati e paesi meno sviluppati, per quanto riguarda l’accesso ad Internet, non può essere esaminato riferendosi prevalentemente alle differenze di reddito. Pur rimanendo profondissime, infatti, le distanze riguardanti Internet tendono a ridursi più rapidamente di quelle relative alla ricchezza.
Questo vuol dire che i fattori influenti non sono tanto quelli economici, quanto piuttosto quelli sociali e culturali.
Conoscenza è parola che sintetizza le possibilità di accedere alle fonti, di elaborare il materiale, raccolto, di diffondere liberamente le informazioni. Già nell’articolo 19 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite si è affermato il diritto di ogni individuo alla libertà di opinione e di espressione "e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere". Oggi questo diritto è in pericolo per la pretesa di molti Stati di controllare Internet, per l’esercizio di veri poteri di censura, per le condanne di autori di quelle particolari comunicazioni in rete che sono i blog.
Questa situazione non può essere ignorata, soprattutto perché alcune grandi società - Microsoft, Google, Yahoo!, Vodafone - hanno annunciato per la fine dell’anno la pubblicazione di una "Carta" per tutelare la libertà di espressione su Internet. I parlamenti non possono accettare che la garanzia del free speech, che gli Stati Uniti vollero affidare al Primo Emendamento della loro Costituzione, divenga materia di cui si occupano solo i privati, che evidentemente offriranno solo le garanzie compatibili con i loro interessi. Internet è il più grande spazio pubblico che l’umanità abbia conosciuto, dove si sta realizzando anche una grande redistribuzione di potere. Un luogo dove tutti possono prendere la parola, acquisire conoscenza, produrre idee e non solo informazioni, esercitare il diritto di critica, dialogare, partecipare alla vita comune, e costruire così un mondo diverso di cui tutti possano egualmente dirsi cittadini.
Ma tutto questo può diventare più difficile, per non dire impossibile, se la conoscenza viene chiusa in recinti proprietari senza considerare proprio la novità della situazione che abbiamo di fronte e che impone di guardare alla conoscenza come il più importante tra i beni comuni.
La questione dei beni comuni è essenziale. Parole nuove percorrono il mondo - open source, free software, no copyright - dando il senso di un cambiamento d’epoca. Oggi, infatti, il conflitto tra interessi proprietari e interessi collettivi non si svolge soltanto intorno a risorse scarse, in prospettiva sempre più drammaticamente scarse come l’acqua. Nella dimensione mondiale assistiamo ad una creazione incessante di nuovi beni, la conoscenza prima di tutto, rispetto ai quali la scarsità non è l’effetto di dati naturali, ma di politiche deliberate, di usi impropri del brevetto e del copyright, che stanno determinando un movimento di "chiusura" simile a quello che, in Inghilterra, portò alla recinzione delle terre comuni, prima liberamente accessibili. Questa scarsità artificiale, creata, rischia di privare milioni di persone di straordinarie possibilità di crescita individuale e collettiva, di partecipazione politica.
La sfida lanciata ai parlamenti non riguarda soltanto la necessità di trovare nuovi equilibri tra logica della proprietà e logica dei beni comuni. Investe lo stesso modo d’intendere la cittadinanza. La vera novità democratica delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, infatti, non consiste nel dare ai cittadini l’ingannevole illusione di partecipare alle grandi decisioni attraverso referendum elettronici. Consiste nel potere dato a ciascuno e a tutti di servirsi della straordinaria ricchezza di materiali messa a disposizione dalle tecnologie per elaborare proposte, controllare i modi in cui viene esercitato il potere, organizzarsi nella società. Con questo vasto mondo - in cui la democrazia si manifesta in maniera "diretta", ma senza sovrapporsi a quella "rappresentativa" - i Parlamenti devono trovare nuove forme di comunicazione, attraverso consultazioni anche informali, messa in rete di proposte sulle quali si sollecita il giudizio dei cittadini, procedure che consentano di far giungere in parlamento proposte elaborate da gruppi ai quali, poi, vengano riconosciute anche possibilità di intervento nel processo legislativo.
La rigida contrapposizione tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta potrebbe così essere superata, e la stessa democrazia parlamentare riceverebbe nuova legittimazione dal suo presentarsi come interlocutore continuo della società. In questa prospettiva, i parlamenti debbono soprattutto impedire che le esigenze di lotta a terrorismo e criminalità e le richieste del sistema economico portino alla nascita di una società della sorveglianza, della selezione e del controllo, alterando quel carattere democratico dei sistemi politici di cui proprio i parlamenti sono i primi ed essenziali garanti. Proprio le tecnologie, con la loro apparente neutralità, hanno rafforzato le spinte verso la creazione di gigantesche raccolte di dati personali.
La politica sta delegando alla tecnica la gestione dei più diversi aspetti della società, dimenticando, ad esempio, un principio chiaramente indicato nell’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. In questa norma si ammettono limitazioni dei diritti per diverse finalità, compresa la sicurezza nazionale, a condizione però che si tratti di misure compatibili con le caratteristiche di una società democratica. I parlamenti devono esercitare con il massimo rigore questa funzione di controllo, senza delegarla ad altri organi dello Stato, fossero pure le corti costituzionali. Solo così possono evitare la trasformazione dei cittadini in sospetti, ed impedire che, con l’argomento della difesa della democrazia, sia proprio la democrazia ad essere perduta.
Questo è il discorso
che Stefano Rodotà
ha tenuto a Montecitorio
per l’apertura della
Conferenza internazionale
dell’Unione interparlamentare
* la Repubblica, 6 marzo 2007