[...] "Associazione a delinquere": esattamente questi furono i termini usati da Marco Tronchetti Provera nei confronti degli scalatori della "Rizzoli Corriere della Sera", compreso Billè, che aveva rifornito di azioni Rcs anche il suo conto personale al Monte dei Paschi di Siena. Il paradosso è che, un anno dopo, mentre si dipanano nuove scene del serial, il presidente di Telecom ha dovuto lasciare il suo incarico dopo uno scontro selvaggio con il presidente del Consiglio e la società ex monopolista telefonica è coinvolta in un caso di spionaggio che oscura tutti i precedenti scandali del genere.
E tutti i fili sembrano riannodarsi in un unico canovaccio che parte, per l’appunto, dalla privatizzazione di Telecom, dall’emergere sei anni fa, regnante il centrosinistra, di quella "Razza padana" che doveva rinnovare il capitalismo senza capitali e che ci lascia, un lustro dopo, come in una palude che ha inghiottito ogni regola e ogni eticità, in un’Italia nella quale l’intreccio tra affari e politica ha creato una patologia che sembra inestirpabile [...]
LA STORIA
L’ultimo colpo dei "furbetti" che volevano scalare l’Italia
Billè, arresti domiciliari l’accusa è di corruzione
di ALBERTO STATERA (www.repubblica.it, 23.09.2006)
Gli mancheranno i dipinti di Amedeo Cignaroli, paesaggista di Casa Savoia, e forse soprattutto il mobile veneto del ’700 acquistato per 250 milioni di lire a spese della Confcommercio, sequestrati dalla magistratura. Ma in fondo Sergio Billè non se la passerà poi così male agli arresti domiciliari a Roma in via dell’Aracoeli numero 4, dove tuttora risiede. Quattrocento metri quadri inzeppati di milioni e milioni di euro in arredi rococò, angeli reggitorcia, fauni danzanti, lampadari di vetro di Murano.
Quattrocento metri di attico locati per centomila euro all’anno pagati dagli associati, compreso il salumiere sotto casa, e che furono già calcati da Raul Gardini ai tempi della tangente Enimont, la madre - forse ormai impallidita - di tutte le tangenti.
È lì, in quel tempio kitsch, che l’ex pasticciere, il quale si dichiara discendente della famiglia di origine francese dei Billet, baroni di Montelupo, si muove come Burt Lancaster nel "Gattopardo". È quello il suo romanzo preferito, secondo quanto ha confessato all’impagabile Anna La Rosa, la signora versata negli affari che di Billè, quando smise di servire cocktail renforcé nel locale di piazza Cairoli a Messina, fece una indelebile guest star della Rai - servizio pubblico, pari a pari con i politici più importanti.
A parte il Visconti del Gattopardo, il film prediletto dall’ex presidente della Confcommercio è "Million dollar baby", ma secondo i magistrati che lo hanno messo agli arresti domiciliari, lui stesso è protagonista di un film che si intitola invece "Fifty millions dollars baby".
Anzi euro. Perché di cinquanta milioni era la tangente promessa - 3 milioni di acconto - da Stefano Ricucci per la realizzazione dell’affare del secolo, la vendita dell’immenso patrimonio immobiliare dell’Enasarco, valutato in 3,25 miliardi di euro, come dire qualcosa di simile a 6500 miliardi di ex lire. Badate, non è, come si potrebbe a prima vista pensare, la storia di folli megalomanie di provincia, di velleitarismi di personaggi che, gomito a gomito col potere, hanno perso la brocca. Non si può più ironizzare sulle caratteristiche antropologiche del pasticciere siculo, sul vernacolo del suo sodale Stefano Ricucci e di tutta la compagnia dei furbetti.
Non è "Totò, Peppino e i fuorilegge". Perché con le nuove accuse e l’arresto di Billè si completa l’affresco del nuovo e organizzato capitalismo delinquenziale, che voleva scalare l’Italia intera. Non l’avventura di newcomers un po’ arruffoni, di raider velleitari, di finanzieri dalle origini oscure, ma un’associazione a delinquere con progetti ben definiti.
"Associazione a delinquere": esattamente questi furono i termini usati da Marco Tronchetti Provera nei confronti degli scalatori della "Rizzoli Corriere della Sera", compreso Billè, che aveva rifornito di azioni Rcs anche il suo conto personale al Monte dei Paschi di Siena. Il paradosso è che, un anno dopo, mentre si dipanano nuove scene del serial, il presidente di Telecom ha dovuto lasciare il suo incarico dopo uno scontro selvaggio con il presidente del Consiglio e la società ex monopolista telefonica è coinvolta in un caso di spionaggio che oscura tutti i precedenti scandali del genere.
E tutti i fili sembrano riannodarsi in un unico canovaccio che parte, per l’appunto, dalla privatizzazione di Telecom, dall’emergere sei anni fa, regnante il centrosinistra, di quella "Razza padana" che doveva rinnovare il capitalismo senza capitali e che ci lascia, un lustro dopo, come in una palude che ha inghiottito ogni regola e ogni eticità, in un’Italia nella quale l’intreccio tra affari e politica ha creato una patologia che sembra inestirpabile.
Via Aracoeli numero 4, quella casona fastosa pagata attingendo alle decine di milioni di euro del fondo "presidenziale" della Confcommercio, è il compendio, la location perfetta per ciò che almanaccava il pasticciere di Messina diventato ricco, potente e politicamente ineludibile per il presunto controllo dei quattro milioni di voti che i sondaggisti elettorali attribuiscono all’organizzazione dei commercianti.
Tra gli stucchi e i fauni danzanti, si alternavano fino a pochi mesi fa il barone Antonio D’Alì, sottosegretario all’Interno forzista, Rocco Crimi, tesoriere del partito di Berlusconi, e tanti altri notabili ben più importanti: soprattutto alte cariche di Alleanza Nazionale, ma persino, secondo le vanterie del padrone di casa, Fausto Bertinotti con la signora Lella.
Democristiano di cuore antico, adoratore di Ciriaco De Mita ai tempi d’oro, Billè arrivò in piazza Gioacchino Belli, dove ancora erano fresche le ferite lasciate dal suo predecessore socialista Francesco Colucci affondato negli scandali, quando la stella di De Mita era già appannata. Tanto che il pasticciere smise di mandargli in regalo a Nusco nel giorno del suo compleanno il solito furgone refrigerato con settanta chili di gelato alla gianduia.
Fu costretto così a guardarsi intorno e a fare un po’ di "shifting" politico. Prima Segni, poi Berlusconi, per transitare a Fini quando il Cavaliere non lo fece ministro. Infine, con tanti mezzi in entrata, l’idea di un partito "fazista", dal nome dell’ex governatore della Banca d’Italia, o di un partito del Sud. Caduta la stella di Fazio, cominciata la frana dei furbetti, prima di finire nei guai per l’acquisto da Ricucci di un palazzo da 60 milioni che valeva sei o sette volte in meno, stava accarezzando l’idea di un saltafosso verso il centrosinistra, se Clemente Mastella gli avesse offerto una candidatura. Ma la tangente di 50 milioni promessa da Ricucci per l’affare Enasarco era già finita nei dossier dei magistrati.
Antico carrozzone previdenziale da sempre lottizzato dai partiti, l’Enasarco, che amministra le pensioni degli agenti di commercio, possiede decine di migliaia di appartamenti in tutta Italia. Quando Ricucci spiega che quel patrimonio si può "valorizzare" con la sua tecnica, con un girotondo di vendite e rivendite finanziate dalle banche e che può diventare l’affare immobiliare del secolo, Billè e Donato Porreca, l’uomo di Fini che presiede il carrozzone, indicono una gara cui partecipano tutti i grandi gruppi, da Generali a Pirelli, dai francesi agli olandesi e soprattutto Ricucci con la Bpl di Gianpiero Fiorani, il banchiere di riferimento di Fazio, e la Deutsche Bank di De Bustis.
Ma il pasticciere e il suo luogotenente finiano fanno un gran pasticcio: Deutsche Bank si ritira, Ricucci non riesce in extremis a partecipare e, per dargli un’altra chance, la gara viene annullata con la spiegazione che le buste di Pirelli e Morly Found sono state presentate rispettivamente con uno e nove minuti di ritardo. Con la gara, l’affare immobiliare del secolo e la tangente (almeno) del decennio, svanisce anche la Confimmobiliare, l’associazione che Billè aveva creato con Ricucci, Caltagirone, Bonifaci, Todini, Livolsi e tanti altri padroni del mattone, in concorrenza con l’analoga organizzazione confindustriale.
Un’associazione a delinquere per far soldi e potere, disse il vicepresidente di Confindustria Tronchetti. Ora "Fifty millions dollars baby" va in scena agli arresti tra gli stucchi, gli ori e i cristalli dell’Aracoeli.
(23 settembre 2006)
Ingroia: «Scardinare la classe dirigente che vive di affari e favori mafiosi»
di Saverio Lodato *
Continuiamo a parlarne di mafia, in un momento in cui il suo profilo - apparentemente - è bassissimo. Dopo il procuratore Francesco Messineo, e gli aggiunti Sergio Lari e Roberto Scarpinato, interviene Antonio Ingroia, pubblico ministero nei processi di mafia più incandescenti ormai da quindici anni.
Dottor Ingroia, il vulcano Napoli e una Sicilia Svizzera...
«Non direi. Penso infatti che sarebbe ora che nella lotta al crimine organizzato, in tutte le sue forme, lo Stato facesse la prima mossa senza aspettare, come è sempre avvenuto, che siano i boss a riaprire la partita. Quello che accade a Napoli è già accaduto in Sicilia tanti anni fa: omicidi, regolamenti di conti fra i clan, taglieggiamenti, i poteri criminali che alzano il tiro. Titoli da prima pagina e finalmente ecco che qualcosa si muove».
Il governo però, questa volta, parla di interventi stabili e duraturi, non emergenziali.
«È un reale segno di discontinuità, rispetto al passato, che ci aspettiamo. Una diversa e permanente attenzione alla questione mafia non cadendo nel solito trabocchetto che se la mafia non spara vuol dire che non c’è».
E questo, mentre si manifesta a Napoli, in Sicilia ancora non si vede. È questo che vuole dire?
«Vorrei dire di più. La storia ci insegna e le risultanze investigative più recenti ci confermano, che la mafia è e si sente più forte quando non spara. Ritorna allora una domanda di fondo: bisogna convivere con la mafia degli affari che fa buona condotta, come auspicava l’ex ministro Lunardi, o la mafia va comunque affrontata senza risparmio di mezzi?»
Il procuratore Messineo non definisce la mafia un gigante inespugnabile. La fotografa per l’altezza che oggi ha. Un’altezza inferiore rispetto alla statura del passato. Concorda?
«Sì. In ogni caso, continuare a disegnare la mafia come un gigante inespugnabile equivale a rassegnarsi alla sua eternità criminale: il contrario del realismo storico propugnato sia da Falcone sia da Borsellino. I capi mafia di oggi non hanno neppure la statura e il prestigio di boss del passato come Stefano Bontate, uomo ben inserito nei salotti palermitani e non a caso definito il Principe di Villagrazia... Il vero problema è semmai scardinare il sistema di potere che della mafia si è sempre servito e che rischia di rimanere immune da ogni ventata repressiva che inevitabilmente colpisce solo chi spara. E quando non si spara, il sistema di potere mafioso si perpetua».
Dottor Ingroia, il suo collega Scarpinato parla apertamente del ritorno del Principe che, in questo caso, non è quello di Villagrazia. E si spinge quasi ad affermare che la mafia viene accesa o spenta a piacimento proprio da quel sistema di potere al quale lei allude. Non potrebbe apparire eccessivo?
«Non credo proprio. L’altalena dei consensi attorno all’azione giudiziaria antimafia non è estranea a precisi interessi diffusi nella società siciliana. I rapporti fra braccio armato della mafia e classe dirigente siciliana e nazionale sono costituiti dall’alternanza di alleanze e contrapposizioni che talvolta sfociano nella guerra. Proprio nei momenti di crisi dei rapporti fra i due mondi il consenso rispetto all’azione antimafia dei magistrati si dimostra frutto non di una disinteressata opzione a favore della legalità, bensì di smaliziati interessi di parte».
Può fare degli esempi?
«Prendiamo la stagione post stragi. Come si spiega l’unanime consenso all’azione della magistratura finalizzata alla cattura dei grandi latitanti da Riina a Provenzano? E come si spiega l’enorme divario di consenso all’azione dei magistrati a seconda che si occupi della cattura dei latitanti ovvero che si occupi dei rapporti mafia classe dirigente? C’è qualcosa che non funziona. Non c’è solo una finalità autoprotettiva da parte della classe dirigente, c’è qualcosa di più...»
Cosa?
«Da una parte l’esigenza di ridimensionare l’aggressività di Cosa Nostra nei momenti in cui affronta a viso aperto lo Stato, ma anche l’inconfessabile finalità di mantenere l’operatività di una mafia sommersa con la quale continuare a concludere affari nell’ombra».
Se è così la mafia ce la porteremo dietro ancora per parecchio...
«Il rischio c’è. Ecco perché occorre un urgente segnale di discontinuità rispetto al passato. Un aperto segno di rottura con questa classe dirigente siciliana che ha vissuto di affari e favori e che, tutt’ora, si dichiara antimafiosa. Siamo in una fase di grande confusione, anche di ruoli, e compenetrazione fra mondi diversi. Sarebbe sbagliato parlare di società civile per bene separata dal mondo mafioso. Abbiamo oggi una mafia più civile e una società più mafiosa».
Siamo all’imbarbarimento?
«Una mafia sempre più in giacca cravatta e una società che cambiandosi abito troppe volte al giorno sceglie il travestimento. Insomma, abbiamo interi pezzi di società che hanno ormai introiettato i modelli comportamentali dei mafiosi. E lo si vede in tutti i campi».
Quali?
«Temo che nessuna figura sociale ne sia risparmiata. Mi preoccupa che nei più disparati ambienti, compresi quelli istituzionali, il dossieraggio e il ricatto sembrano essere all’ordine del giorno».
Sente odore di servizi?
«Ciò che si legge sui giornali è certamente allarmante».
Si riferisce al fatto che Gian Carlo Caselli era nell’elenco dei magistrati "pericolosi" per i settori occulti del Sismi?
«Evidentemente Caselli, come procuratore di Palermo, dava fastidio. Del resto non sarebbe l’unico intervento contra personam che Caselli ha subito... Se questo è lo scenario, il vero segno di discontinuità non si dà solo arrestando i mafiosi e con uno straordinario impegno di uomini sul territorio, lo si dà soprattutto con un taglio netto con quel pezzo di classe dirigente che è il vero nucleo del sistema di potere mafioso».
Ricorda Leonardo Sciascia quando diceva che lo stato italiano se volesse fare davvero la guerra alla mafia dovrebbe decidere di suicidarsi?
«Aveva ragione. Ma è anche vero che è possibile una dolorosa operazione chirurgica, salvando le parti sane che sono la maggioranza. La questione è essere disposti a pagare un prezzo, se parliamo di politica, in termini di voti e di consenso».
Sintetizza un pacchetto di misure antimafiose che la politica potrebbe varare e non vara?
«Tirare fuori dai cassetti del ministero della giustizia - tanto per cominciare - il progetto del testo unico della legislazione antimafia varato dal primo governo Prodi e mai proposto in Parlamento».
Che c’era scritto?
«La revisione e l’aggiornamento dei più importanti strumenti per colpire i due nodi del rapporto mafia - classe dirigente siciliana: la riforma del concorso esterno sul terreno mafia-politica, e la revisione degli strumenti per colpire i patrimoni dei mafiosi sul terreno mafia-economia. Sarebbe un’ottima partenza».
* www.unita.it, Pubblicato il: 11.11.06 Modificato il: 11.11.06 alle ore 12.28
E, se insieme a quanto raccontato da Statera, mettiamo insieme quanto scrive ZAGREBELSKY, relativamente al problema e allo ’scandalo’ delle INTERCETTAZIONI, il quadro d’insieme incute spavento, è “una vicenda che solleva interrogativi sulla nostra democrazia” - in apnea da anni, per golpismo strisciante ... e galoppante!
Il consiglio di ZAG. è saper affrontare alla radice il problema - la "mala" educazione - il conflitto d’interessi: " [...] affrontare il problema alla radice. La radice è la distinzione che manca tra interessi pubblici e interessi privati; è l’assenza di autonomia tra le due sfere; è la tentazione dell’una a ricercare il favore dell’altra; è, in definitiva, la corruzione del senso delle responsabilità pubbliche come di quelle private. Chi, nel mondo politico, è disposto a far a meno di cercare cointeressenze col mondo economico? E chi nel mondo economico è disposto a non cercare protezione in quello politico?". Sapremo aprire gli occhi e decidere per il meglio - e non per "mammasantissima"? Boh e bah?!!
L’arbitrio senza lo Stato
di Gustavo Zagrebelsky (La Repubblica, 22.09.200&)
Le trecentoquarantaquattro pagine dell’analitica, e per nulla indulgente alla retorica giustizialista, ordinanza del Gip di Milano si leggono in preda a un vivo senso crescente di spaesamento, nel senso preciso della parola: in che paese ci siamo ridotti a vivere?
Cerchiamo di comprendere il senso d’insieme, nel modo più freddo possibile. Si tratta di dati contenuti in un’ordinanza di custodia cautelare, quindi non di prove nel senso della condanna penale delle numerose persone coinvolte, condanna che non c’è ora, e potrebbe non esserci alla fine del processo. Ma certo siamo di fronte almeno a quei “gravi indizi di colpevolezza” che la legge richiede perché si possa limitare la libertà delle persone e sequestrarne i beni, sia pure solo in via provvisoria. Da questi “gravi indizi”, emerge quanto segue. All’interno di Telecom, la più grande impresa di telecomunicazioni operante in Italia, è esistito un soggetto responsabile della sicurezza, facente capo direttamente al vertice dell’azienda, sostanzialmente esente da controlli interni che non fossero - come è detto pudicamente -“soft”, dotato di un’elevatissima capacità di spesa (si parla di un “fiume di denaro”, più di 20 milioni di euro in otto anni, gestiti “in nero” e sottratti ai bilanci sociali e quindi agli azionisti), il quale, in base a un suo rapporto personale col titolare di un’agenzia investigativa, ha stabilito con questa un rapporto di collaborazione stabile. I clienti di gran lunga più importanti di tale agenzia sono Pirelli e Telecom. Gli incarichi che essi conferivano erano, per così dire, molto informali. Questa agenzia madre, a sua volta collegata ad altre due società fasulle, con sede all’estero - due “scatole vuote”, per la circolazione del denaro estero-su-estero - ha progressivamente costruito una ramificata struttura investigativa capace di operare in tutta Italia, anche grazie a sub-appalti con soggetti d’investigazione locali. L’attività di questa rete si è avvalsa, e non in modo episodico, anche di personale in servizio presso le forze di polizia, agenti di polizia giudiziaria, pubblici ufficiali infedeli e sedicenti ispettori di polizia, disponibili a farsi corrompere, e si è svolta attraverso gravi reati: associazione per delinquere, corruzione, rivelazione e utilizzazione del segreto d’ufficio, violazione dei doveri d’ufficio, appropriazione indebita, eccetera (sullo sfondo, almeno per ora, stanno reati societari).
Questa rete non lascerebbe esenti nemmeno i Servizi segreti, dei cui “rapporti pericolosi” con gli indagati principali si parla diffusamente nell’ordinanza. Lo strumento principale di questa attività illecita sono state le intercettazioni telefoniche illegali, disposte non dall’autorità giudiziaria per fini investigativi, ma da privati per i loro interessi. Che questi facessero capo al responsabile della sicurezza della società che, a favore degli utenti che pagano il servizio, dovrebbe garantire il buon funzionamento della rete telefonica potrebbe sembrare un’ironia del destino, ma è invece un dato che fa seriamente pensare sulla necessità di garanzie per tutti, in questo settore.
Nella rete nazionale di ascolto illegale sono cadute migliaia di persone (e dall’ordinanza risulta che si tratta solo di risultanze provvisorie), tra cui diversi esponenti noti del mondo dell’economia, della politica, dello spettacolo e dello sport, oltre a innumerevoli cittadini ignoti alla grande cronaca, ma non per questo meno titolari di diritti costituzionali alla riservatezza delle loro comunicazioni. Per una parte, questi controlli illeciti si sono indirizzati a dipendenti, o aspiranti tali, di Pirelli e Telecom (“operazione filtro”), per un’altra e maggior parte fuori della cerchia aziendale. Si può congetturare a che cosa queste potessero servire: carpire notizie del mondo finanziario da usare per operazioni sul mercato a proprio favore, insider trading, ricatti del più vario genere per i più diversi fini, eccetera.
Resta da aggiungere, per completare il quadro, sperando in una smentita, che quel tale responsabile della sicurezza in Telecom avrebbe svolto anche un ruolo direttivo della struttura addetta alla messa sotto controllo legale delle utenze telefoniche per disposizione dell’autorità giudiziaria!
Dati di un’ordinanza emessa nelle indagini preliminari, ripetiamo; non prove che suffragano sentenze di condanna. Ma c’è da trasecolare a leggere il modo di intendere e presentare questi dati da parte di molta stampa: la riduzione o a un’intrigante spy story o a un episodio degli interessi turbolenti attorno a Telecom e al suo ex-presidente.
C’è ben altro e qui è difficile tenere la freddezza di chi semplicemente mette una vicina all’altra le tessere di un mosaico, come fa l’ordinanza del Gip di Milano. Il quadro d’insieme incute spavento. A ragione, a partire da questo giornale, si è parlato di una vicenda che solleva interrogativi sulla nostra democrazia e sullo Stato di diritto, ridicolizzando tanti retorici discorsi in proposito. Da questa vicenda non c’è tanto da essere esterrefatti per la sua estensione, quanto per la sua qualità. Anche se l’intercettazione illegale fosse stata una soltanto, non sarebbe per questo men grave, date le sue modalità. L’allarme maggiore deriva dall’intreccio di poteri e soggetti pubblici e privati che si legano (e si combattono) in attività deviata e illegale, e dunque segreta, per interessi comuni o contrapposti. La democrazia ha un’esigenza primaria: che i circuiti del potere si manifestino in pubblico. Quelli occulti la svuotano dall’interno.
In passato, si è adoperata la formula del “doppio Stato”. Essa è nata per designare il potere parallelo allo Stato di diritto che si era formato in Germania attorno al movimento nazionalsocialista, per eroderlo progressivamente. In Italia, quella formula è stata ripresa negli anni ‘70 del secolo scorso per indicare l’esistenza di strutture parallele dello Stato, le une visibili, depositarie della legalità e soggette alle regole e ai controlli della democrazia, e le altre invisibili, che conducevano una propria politica attraverso atti illegali (la “strategia della tensione”, ad esempio.), al riparo di sguardi indiscreti. L’impressione, addirittura, è che questa formula si presti poco e male per descrivere quello che oggi abbiamo visto esistere, e che potrebbe esistere in chissà quanti altri casi che non vengono nemmeno alla luce. Non c’è “doppio”, per la ragione che c’è invece una profonda immedesimazione: soggetti sociali e soggetti pubblici (o addirittura organi dello Stato, come è detto in un passo dell’ordinanza), nel loro intreccio, formano tutt’uno. Notiamo una “statizzazione” della società, cui corrisponde una “socializzazione” dello Stato, realizzata nel modo peggiore, attraverso la corruzione reciproca dell’una e dell’altro. Ma non c’è neppure “Stato”, perché si farebbe fatica a usare questo nome, che allude alla cura di interessi generali come definiti dalla legge comune, per designare quest’indegna mistura di arbitrio.
Ora, dalle sedi della politica, si levano voci sdegnate: ispettori, decreti-legge, commissioni parlamentari d’indagine... Buone cose, buoni propositi, ma del tutto insufficienti ad affrontare il problema alla radice. La radice è la distinzione che manca tra interessi pubblici e interessi privati; è l’assenza di autonomia tra le due sfere; è la tentazione dell’una a ricercare il favore dell’altra; è, in definitiva, la corruzione del senso delle responsabilità pubbliche come di quelle private. Chi, nel mondo politico, è disposto a far a meno di cercare cointeressenze col mondo economico? E chi nel mondo economico è disposto a non cercare protezione in quello politico?
Non riduciamo il significato di quanto vediamo a una brutta storia di spioni. E rendiamoci conto che la reazione è difficile - più difficile di quella dei tempi del nostro “doppio Stato” - perché non è contro qualcuno che sta fuori di noi, ma è contro una parte che sta dentro di noi.
“COGLIONI”, DAVVERO !!!
LA PAROLA RUBATA
Una lettera aperta all’ ITALIA (e un omaggio agli intellettuali: Gregory Bateson, Paul Watzlawick, Jacques Lacan, Elvio Fachinelli).
di Federico La Sala*
L’ITALIA GIA’ DA TEMPO IN-TRAPPOLA-TA.................e noi - alla deriva - continuiamo a ’dormire’ , alla grande!
"IO STO MENTENDO": UNA LETTERA APERTA SULL’USO E ABUSO ISTITUZIONALE DELL’ "ANTINOMIA DEL MENTITORE".
Cara ITALIA
MI AUGURO CHE LE GIUNGA DA LONTANO IL MIO URLO: ITALIA, ITALIA, ITALIA, ITALIA, ITALIA, ITALIA, ITALIA! IL NOME ITALIA E’ STATO IN-GABBIA-TO NEL NOME DI UN SOLO PARTITO....E I CITTADINI E LE CITTADINE D’ITALIA ANCHE?!!
NON E’ LECITO CHE UN PARTITO FACCIA PROPRIO IL NOME DELLA CASA DI TUTTI I CITTADINI E DI TUTTE LE CITTADINE! FERMI IL GIOCO! APRA LA DISCUSSIONE SU QUESTO NODO ALLA GOLA DELLA NOSTRA VITA POLITICA E CULTURALE! NE VA DELLA NOSTRA STESSA IDENTITA’ E DIGNITA’ DI UOMINI E DONNE D’ITALIA!
Cosa sta succedendo in Italia? Cosa è successo all’Italia? Niente, non è successo niente?! Semplicemente, il nome Italia è stato ingabbiato dentro il nome di un solo PARTITO e noi, cittadini e cittadine d’ITALIA, siamo diventati tutti e tutte cret... ini e cret..ine. Epimenide il cretese dice: "Tutti i cretesi mentono". E, tutti i cretini e tutte le cretine di ’Creta’, sono caduti e cadute nella trappola del Mentitore.... e, imbambolati e imbambolate come sono, si divertono persino. Di chi la responsabilità maggiore?! Di noi stessi - tutti e tutte!
Le macchine da guerra mediatica funzionano a pieno regime. Altro che follia!: è logica di devastazione e presa del potere. La regola di funzionamento è l’antinomia politico-istituzionale del mentitore ("io mento"). Per posizione oggettiva e formale, non tanto e solo per coscienza personale, chi sta agendo attualmente da Presidente del Consiglio della nostra Repubblica non può non agire che così: dire e contraddire nello stesso tempo, confondere tutte le ’carte’ e ’giocare’ a tutti i livelli contemporaneamente da presidente della repubblica di (Forza) Italia e da presidente del consiglio di (Forza) Italia, sì da confondere tutto e tutti e tutte... e assicurare a se stesso consenso e potere incontrastato. Se è vero - come ha detto qualcuno - che "considerare la politica come un’impresa pubblicitaria [trad.: un’impresa privata che mira a conquistare e occupare tutta l’opinione pubblica, fls] è un problema che riguarda tutto l’Occidente"(U. Eco), noi, in quanto cittadini e cittadine d’Italia, abbiamo il problema del problema, all’ennesima potenza e all’o.d.g.! E, per questo e su questo, sarebbe bene, utile e urgentissimo, che chi ha gli strumenti politici e giuridici (oltre che intellettuali, per togliere l’uso e l’abuso politico-istituzionale dell’antinomia del mentitore) decidesse quanto prima ... e non quando non c’è (o non ci sarà) più nulla da fare. Se abbiamo sbagliato - tutti e tutte, corriamo ai ripari. Prima che sia troppo tardi!!!
ITALIA! La questione del NOME racchiude tutti i problemi: appropriazione indebita, conflitto di interessi, abuso e presa di potere... in crescendo! Sonnambuli, ir-responsabili e conniventi, tutti e tutte (sia come persone sia come Istituzioni), ci siamo fatti rubare la parola-chiave della nostra identità e della nostra casa, e il ladro e il mentitore ora le sta contemporaneamente e allegramente negando e devastando e così, giocati tutti e tutte, ci sta portando dove voleva e vuole ... non solo alla guerra ma anche alla morte culturale, civile, economico-sociale e istituzionale! Il presidente di Forza Italia non è ...Ulisse e noi non siamo ... Troiani. Non si può e non possiamo tollerare che il nome ITALIA sia di un solo partito... è la fine e la morte della stessa ITALIA!
La situazione politica ormai non è più riconducibile all’interno del ’gioco’ democratico e a un vivace e normale confronto fra i due poli, quello della maggioranza e quello della minoranza. Da tempo, purtroppo, siamo già fuori dall’orizzonte democratico! Il gioco è truccato! Cerchiamo di fermare il ’gioco’ e di ristabilire le regole della nostra Costituzione, della nostra Legge e della nostra Giustizia. Ristabiliamo e rifondiamo le regole della democrazia. E siccome la cosa non riguarda solo l’Italia, ma tutto l’Occidente (e non solo), cerchiamo di non andare al macello e distruggerci a vicenda, ma di andare avanti .... e di venir fuori da questa devastante e catastrofica crisi. Io, da semplice cittadino di una ’vecchia’ Italia, penso che la logica della democrazia sia incompatibile con quella dei figli di "dio" e "mammasantissima" che si credono nello stesso tempo "dio, papa, e re" (non si sottovaluti la cosa: la questione è epocale e radicale, antropologica, teologica e politica - e riguarda anche le religioni e la stessa Chiesa cattolica) si danno da fare per occupare e devastare le Istituzioni! Non si può tornare indietro e dobbiamo andare avanti.... laici, cattolici, destra, sinistra, cittadini e cittadine - tutti e tutte, uomini e donne di buona volontà.
Allora facciamo che il gioco venga fermato e ... e che si apra il più ampio e diffuso dibattito politico e culturale - si ridia fiducia e coraggio all’ITALIA, e a tutti gli Italiani e a tutte le Italiane. E restituiamo il nome e la dignità all’ITALIA: a noi stessi e a noi stesse - in Italia e nel mondo...... cittadini e cittadine della Repubblica democratica d’Italia.
Un semplice cittadino della nostra bella ITALIA!
Federico La Sala
*
www.ildialogo.org, Mercoledì, 05 aprile 2006
LA "GOMORRA" ITALICA: UN IMMENSO CONFLITTO DI INTERESSI STRINGE ALLA GOLA TUTTA L’ITALIA !!!
Intanto al Senato
di Furio Colombo *
Vi ricordate il giuramento di Pontida, non quello della Storia, ma la sgangherata rivisitazione di Bossi e della Lega Nord che poi è diventato "il Pratone", che poi è diventata la penosa cerimonia dell’ampolla con le acque del Po prelevate al Monviso e buttate vie a Venezia, tra l’attenzione compunta del miglior giornalismo italiano, mentre, da sola, la signora Lucia Massarotti nella sua finestra di cittadina, espone la bandiera italiana (quella "da mettere nel cesso" secondo la raccomandazione dell’ex ministro delle Riforme) perché tutti, anche coloro che parlano di Borghezio come "un politico" e di Bossi come di "uno statista" vedessero la clamorosa distanza tra leghisti e la normalità, distanza oscurata dalle Tv, dai talk-show, da molti giornali?
Bene, di esso non resta nulla, salvo qualche maceria da spazzare via al più presto (soprattutto la cosiddetta "riforma" dell’ordinamento giudiziario, un attentato all’indipendenza della magistratura condotto in nome e per conto del proprietario Berlusconi). Non resta nulla salvo Castelli e Calderoli, l’uno noto per aver rifiutato di condannare il razzismo, unico ministro della Giustizia in Europa; l’altro per aver raccomandato la castrazione mediante forbici da giardiniere, per prevenire i pericoli causati dai nuovi immigrati del nostro civile Paese.
Bene, Castelli e Calderoli adesso controllano il Senato della Repubblica. Lo so perché ne faccio parte e sono testimone ogni giorno dell’infinita gentilezza del presidente Marini, che ha adottato la pedagogia degli istruttori più umani nei riformatori minorili: fare appello agli istinti migliori che a volte si nascondono anche in coloro che si sono messi fuori dalla comunità civile. Invano. L’ex ministro Castelli vigila in piedi dal seggio che ha scelto molto in alto nell’Aula affinché non si componga mai una sequenza normale di pareri contrapposti fino al momento risolutivo del voto. E’ un percorso che si chiama "funzionamento delle Camere" e che non è nella mentalità di Castelli. La sua idea è la maleducazione che il potere (e la benevolenza o timore dei media) ti permette. E, se non sei al potere, boicotti, interrompi, butti massi dal cavalcavia. Quanto agli insulti, bisogna dargli atto che sono stati sempre il suo marchio di fabbrica, al potere e fuori potere.
Calderoli non è quasi mai fermo in un punto dell’Aula. A lui importa che la pentola bolla. E la pentola bolle. Democristiani e "liberali", Forza Italia doc e Forza Italia acquisti, i senatori di Alleanza Nazionale, di Alleanza Ospedaliera e di Alleanza Intercettante si tengono pronti. Poi c’è la partecipazione straordinaria del senatore Schifani. Lo impegna in interventi che sono - bisogna dirlo - non solo fittamente ripetuti (anche nel senso che a distanza di minuti il grande performer ripete esattamente le cosa appena dette, pur di aggiungere al tempo già perso altro tempo perso) ma anche bene organizzati. Si fa così. Schifani inizia una frase, diciamo le prime tre parole, e parte un furibondo applauso. Ma alla fine la frase - anche se è solo meteorologica - è seguita da un applauso molto più lungo che copre l’inizio del segmento oratorio successivo e così via; finché dai banchi in delirio se necessario si alzano in piedi. L’effetto alla Petrolini (l’applauso che precede e anticipa le parole) è gustosa dal punto di vista dello spettacolo (specialmente per il fatto che il terzo intervento del senatore Schifani è identico al primo; e dunque si può capire perché gli applausi possono partire in anticipo), se non fosse dannoso per la funzione di questo ramo del Parlamento. Ma il più delle volte Castelli e Calderoli non ne hanno abbastanza e spingono in sequenza altri senatori di tutte le destre e di tutti i centri disponibili in natura a intervenire, ciascuno con un pezzo o con tutto l’intervento già svolto. A loro non toccano gli applausi a raffica che sono riservati esclusivamente al mito di Schifani (forse le parole a mitraglia e l’impressione che l’illustre statista stia pronunciando la condanna definitiva e senza appello di qualcuno o qualcosa sono il vero motore psicologico di quella reazione di folla). Ma - come Schifani e come tutti coloro che, per conto di Berlusconi, possono dare una mano - servono a mangiarsi il tempo. Sedute intere vengono dissipate in questo modo non per fare opposizione al punto a o al punto b di qualcosa. Solo per fermare la macchina.
Se aggiungete a questo rito - non proprio nobile e non proprio tipico dei grandi parlamenti del mondo - l’altra liturgia, che consiste nel far seguire a un voto che li ha battuti, una sequenza di sgarbi e di espressioni maleducate verso i senatori a vita che non si sono prestati ad essere comparse nel varietà di Castelli e Calderoli, avete un’immagine nitida del Senato italiano, oggi. Seduta dopo seduta. * * * Qualche lettore si domanderà se non sto cercando altre strade pur di non parlare del percorso disagiato in cui si trova il Governo, e chi sostiene il Governo in queste ore, frasi infelici, passaggi da chiarire, portavoci che non portano voci (o portano voci non chiare, non con la diretta semplicità che era giusto aspettarsi, conoscendo i protagonisti). L’obiezione è importante, il disagio esiste, anche perché ci sono molte ragioni per dare sostegno al Governo (soprattutto i primi interventi a sostegno dei cittadini consumatori, la politica estera, il Libano). Ma ci sono anche alcune ragioni di incertezza e di ansia. Un governo così, eletto da gente così, deve avere la pazienza, ma anche l’impegno di spiegare uno per uno tutti gli eventi di cui è protagonista. Deve sapere che alcuni di quegli eventi - visti da lontano e da fuori - non si capiscono. Per esempio, le armi alla Cina, facile da capire come business, difficile da ingoiare come valore morale. O l’incontro con Ahmadinejad, che certo fa parte di un difficilissimo percorso che cerca pace invece di guerra, ma va spiegato, specialmente sul punto che riguarda la sicurezza di un paese amico e feribile come Israele. Per esempio, la questione Telecom, dove è facile stare dalla parte di Prodi, ma c’è bisogno di spiegare bene e di capire bene per coloro che - da lontano - vedono due scene opposte che non decifrano: Governo contro impresa. Oppure Governo dentro impresa. Certo che non è così, ma ditecelo. Però, se questa è l’obiezione, essa rende ancora più grave la scena del Senato che ho narrato da non lieto testimone oculare. Perché in questi giorni una delle due Camere rinuncia al suo prestigio non per alzare una barricata contro ciò che fa - bene o male - un governo. Ma contro la pura e semplice esistenza di quel governo. E’ bene non dimenticare che stiamo parlando di quella Camera che tutto il centrodestra, con la sua riforma costituzionale, avrebbe voluto abolire.
La vera conseguenza è una sequenza di atti ostili, continuamente ripetuti, contro il Senato da parte di metà dei senatori. In nessun punto in nessun momento la nostra controparte vuole dimostrare a noi - o persuadere l’opinion pubblica - che ci sono gravi e urgenti ragioni per fermare qualcosa al Senato. L’idea sembra essere di impedire qualsiasi efficacia istituzionale a questo ramo del Parlamento e dunque liquidarlo da ogni rilevanza. Gli argomenti - o meglio i pretesti - sono poco importanti, Per qualunque ragione, la fatica riprende continuamente, sempre con la stessa routine: Castelli che si alza a proporre un alt, un rifiuto, un fermo; Calderoli che incoraggia l’emiciclo, i parlamentari che, nonostante la loro dignità e il loro prestigio personale, si presentano allo spettacolo, che richiede un siparietto dopo l’altro, un comizietto dopo l’altro, e tutti partecipano, indifferenti al ridicolo e alla mancanza di senso. Anzi, si dotano di "faccia feroce" (penso all’editoriale di Scalfari su "La Repubblica" di due domeniche fa) e si scagliano quasi con le stesse parole su qualunque argomento all’ordine del giorno, pur di fermare - o almeno di rallentare immensamente - il lavoro, come se la sosta quasi ininterrotta nell’Aula di un Parlamento fosse senza costo.
Quando la temperatura conflittuale è abbastanza alta, entra in scena Schifani, lo abbiamo già detto. E subito, a raffica, partono gli applausi; una sequenza che deve essere stata provata più volte per dare la sensazione di una drammatica ma anche euforica tensione. Evidentemente gli ordini di Berlusconi non hanno subito variazioni. Evidentemente l’importante è che non si entri mai nel merito di nulla, che non si discuta nulla. Anche perché la maggioranza rifiuta di partecipare a un gioco così basso; e, quasi sempre, sceglie di restarne fuori, salvo denunciarlo con fermezza. Una prova di ciò che sto raccontando è nella paziente buona fede del presidente Marini, che continua a tentare nella speranza che, lasciando spazio, venga fuori, almeno da qualcuno, il buon senso, la voglia di comportarsi in modo normale, parlare di politica invece che arruolarsi nella maxi sceneggiata senza fine che tiene in ostaggio il Senato ormai da mesi.
E così Marini continua a ridare la parola, fingendo (o sperando) di non sapere che il prossimo intervento sarà - come in un happening dell’assurdo - identico al precedente, ma con la faccia e con la reputazione di un altro senatore che però si presta - perché questi sono gli ordini di Berlusconi e gli ordini di Berlusconi non li discutono né i "fierissimi" di Alleanza Nazionale, né i "miti" democristiani né gli "impavidi" liberali. E, comunque, tutti attendono le parole ispirate e stentoree del tribuno Schifani, mentre affonda - agitando i suoi fogli, scritti, presumibilmente, una volta per tutte - in un mare di applausi. Regia a cura di Castelli e Calderoli - cupi Garinei e Giovannini di questa politica-varietà - che proprio in questo hanno il senso del teatro: lo spettacolo si deve ripetere sempre. Un’ultima speranza probabilmente guida il presidente del Senato a non chiedere perché uno o l’altro o l’altro, nel cast fisso dello spettacolo, si alzi di nuovo a chiedere la parola, dopo avere già parlato. Forse qualcuno sa che è privilegio di chi presiede una Camera di voler conoscere sempre le ragioni per cui un membro di quella Camera chiede la parola, specialmente se ha già parlato molte volte. Il presidente Marini preferisce scommettere sul lato buono della natura umana. Vuoi vedere che uno si alza per dire una cosa che ha a che fare con il mestiere di stare al Senato e di lavorare perché il Senato funzioni? Il momento spettacolarmente più alto e il più paradossale si verifica quando il regolare ostruzionismo di ogni giorno al Senato viene interrotto dall’ostruzionismo speciale contro il presidente del Consiglio che, per riferire al Parlamento, ha scelto la Camera (ma poi ha fatto sapere che si recherà anche in Senato).
E’ difficile restare seri mentre loro, proprio loro, chiedono "il rispetto di questo ramo del Parlamento". Pensate: il coro di indignazione è composto dai quegli adoratori di un primo ministro - Berlusconi - che al Senato e alla Camera non si è presentato mai in cinque anni di governo, forse per non dover parlare mai del suo immenso conflitto di interessi. Allora diventa inevitabile prendere un impegno solenne. Del conflitto di interessi parleremo noi, con le nostre proposte di legge, con i nostri dibattiti. Sarà la prima grande occasione di ascoltare con attenzione i nostri oppositori non come protagonisti e comparse nel varietà Calderoli-Castelli; ma per proporre qualche straccio di argomento che si possa pubblicare e divulgare, sul conflitto di interessi del padre-padrone di Forza Italia. E’ un conflitto immenso che hanno coperto, nascosto, curato, usato, allargato fino a quando, un bel giorno, l’Italia legale è diventata maggioranza. Dunque, a fra poco.
* www.unita.it Pubblicato il: 24.09.06 Modificato il: 24.09.06 alle ore 14.04
Piange lacrime di coccodrillo chi si accorge ora che l’Italia postmoderna cade a pezzi, uno scandalo dopo l’altro.
Una spy story già scritta
di Ida Dominijanni (www.ilmanifesto.it, 23.09.2006)
Basta consultare gli archivi, non della Telecom ma dei giornali. L’allarme sulla società della sorveglianza il Garante per la privacy, all’epoca nella persona di Stefano Rodotà, l’aveva lanciato per tempo svariati anni fa, ammonendo il parlamento a guardare le trasformazioni tecnologiche come processi rilevanti per il profilo dello stato di diritto e della cittadinanza. Anno dopo anno, le puntuali relazioni del Garante al parlamento introducevano un nuovo lessico politico, anzi tecnopolitico e biopolitico: nell’epoca in cui tutto di noi può essere schedato, dal numero di telefono al corredo genetico, la garanzia dell’habeas corpus deve diventare garanzia dell’habeas data, la tutela della privacy non è più un privilegio ma un diritto fondamentale, la politica deve occuparsene se non vuole che sia la tecnologia, in alleanza con il mercato, a dettare la regola del più forte o del più furbo.
Più tecnologia, più informazioni personali, più invasività nella vita di ciascuno: se la politica non interviene, la deriva è segnata. L’ultimo scandalo italico, l’agenzia privata di intercettazioni abusive che operava a braccetto con i vertici Telecom nonché avvalendosi di personale e archivi della polizia, dice che quella deriva è diventata rapidamente realtà. Non faccia velo l’incoerenza o la casualità degli spiati - lavoratori, politici, imprenditori, gente di spettacolo, gente qualsiasi: siamo tutti schedati e tutti intercettabili. Non faccia velo neanche il paragone con l’italico passato delle strutture parallele e deviate: il «doppio stato», ha ragione Zagrebelsky, stavolta non c’entra niente. Stavolta lo stato non si duplica ma si scioglie, nel liberismo del «fai da te» che tutto pervade, dall’impresa al lavoro allo spionaggio.
Qualche competenza tecnologica, qualche banca dati accessibile, qualche appoggio nell’azienda regina delle telecomunicazioni e il gioco è fatto. I giochi anzi: dall’insider trading che fa tanto capitalismo finanziario alle schedature dei dipendenti che fanno tanto Fiat di Valletta, perché sia chiaro che lo stile italiano è sempre lo stesso.
Vietare la conservazione e l’uso di questo immondezzaio era il minimo che il governo potesse e dovesse fare «per tentare almeno che il marcio non dilaghi», come dice Prodi. E c’è da sperare che l’urgenza con cui il decreto sulle intercettazioni illegali è stato varato, e la convergenza con l’opposizione, non siano dovuti solo a un riflesso di autotutela della classe politica presa dal panico della violazione della sua privacy. Ma con ciò il caso non si chiude: si apre.
Non è in questione solo l’uso e l’abuso delle intercettazioni, illegali e legali, e la loro diffusione senza remore da parte di un giornalismo più voyeur degli spioni. E’ in questione tutta la materia della raccolta dei dati, della loro conservazione, della loro accessibilità, del loro uso. E non solo dei dati telefonici e telematici, ma di quelli biometrici e di quelli genetici. Se un dipendente Telecom può essere messo sotto controllo per una telefonata, che gli può succedere se il suo capo sa che può ammalarsi di qualche cosa?
Suona la sveglia per una politica fin qui sorda e muta: ed è davvero singolare che Prodi (un’altra gaffe?) bacchetti per inefficienza il Garante, che non ha il potere di legiferare e che al parlamento ha tentato invano di aprire gli occhi e le orecchie. Nei gloriosi anni d’insediamento della cosiddetta Seconda Repubblica, quando il ceto politico aveva occhi solo per se stesso e la società dei telespettatori veniva educata dai reality show all’idea di avere un occhio o una telecamera in casa. Intanto la tecnologia faceva da sé. Piange lacrime di coccodrillo chi si accorge ora che l’Italia postmoderna cade a pezzi, uno scandalo dopo l’altro.