Regressione costituzionale
di Gianni Ferrara (il manifesto, 18 aprile 2012)
Con l’approvazione del Senato in seconda deliberazione si è concluso ieri il procedimento di revisione dell’art. 81 della Costituzione. Male. Un giudizio non tanto distante da quello che si arguiva dalle parole di chi dichiarava, dai banchi della sinistra, un voto più disciplinato che convinto.
Con l’approvazione di tale legge costituzionale, la politica economica è sottratta al Parlamento italiano, al Governo italiano, al corpo elettorale italiano. Con tale approvazione la nostra Costituzione non è più nostra. È stata trasformata in strumento giuridico funzionale ad un feticcio, quello neoliberista, che la tecnocrazia finanziaria europea interpreterà volta a volta dettando le misure che dispiegheranno la mistica del feticcio.
Con tale approvazione un altro demerito si accompagnerà a quelli sciaguratamente ottenuti dal nostro paese in tema di regimi politici. Il demerito di aver inventato un nuovo tipo di Costituzione. A quelle scritte, consuetudinarie, flessibili, rigide, programmatiche, pluraliste, liberali, democratiche, lavoriste, si aggiungerà la Costituzione abdicataria, una costituzione-decostituzione. Un ossimoro istituzionale che preconizza una recessione seriale che, partendo dalla neutralizzazione della politica, porterà alla compressione dei diritti e poi alla dissoluzione del diritto, sostituito dalla mera forza del dominio economico.
Emerge, improrogabile, la necessità di un intervento. Votando questa autentica regressione costituzionale, i gruppi parlamentari della strana maggioranza delle due camere hanno tenuto in irresponsabile dispregio i giudizi di economisti di molti paesi del mondo, tra i quali 5 premi Nobel, di giuristi di varie discipline.
Su un tema così intrinseco alla sovranità popolare, e su cui, e non per caso, è stato stesa una coltre fittissima di silenzio, hanno escluso che potesse pronunziarsi il corpo elettorale. I fondati dubbi sulla legittimità costituzionale della legge elettorale da cui deriva la loro presenza in parlamento non ne hanno frenato la cupidigia di sottomettersi al diktat della Cancelliera tedesca.
Hanno respinto anche la richiesta di approvarla pure questa legge, ma non con la maggioranza dei due terzi, quella che impedisce l’indizione di un referendum su tale gravissima spoliazione della sovranità nazionale.
Ci resta ora un solo strumento per chiedere a questo o al prossimo parlamento di invertire la rotta.
Un solo modo per impegnarsi nella difesa di una conquista di civiltà arrisa con il riconoscimento, nel secolo scorso, dei diritti sociali. Sono quelli messi per primi in grave ed imminente pericolo dal feticcio liberista.
Lo strumento che ci resta è quello di una proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare, ai sensi dell’articolo 71 della Costituzione, con cui integrare l’art. 81 in modo che le entrate dello stato, delle regioni e dei comuni siano riservate per il cinquanta per cento ad assicurare direttamente o indirettamente il godimento dei diritti sociali.
Imponendo quindi che nei bilanci di previsione dello stato, delle regioni, dei comuni, il cinquanta per cento della spesa risulti complessivamente destinato a garantire direttamente o anche indirettamente i diritti: alla salute, all’istruzione, alla formazione e all’elevazione professionale delle lavoratrici e dei lavoratori, alla retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro, all’assistenza sociale, alla previdenza, all’esistenza dignitosa ai lavoratori e delle loro famiglie.
Si tratta dei diritti riconosciuti dagli articoli da 32 a 38 della Costituzione. Si tratta di creare una garanzia efficace per i diritti, volta sia a neutralizzare gli effetti delle disposizioni inserite nell’articolo 81 della Costituzione e pericolosissime per i diritti sociali, sia a precludere, o almeno a ridurre, la spesa pubblica per armamenti, per grandi e disastrose opere, per variegate clientele.
Ad ipotizzarla non è la stravaganza di un vecchio costituzionalista, testardamente convinto della necessità storica della democrazia di pervadere la base economica della società. È contenuta nella Costituzione della Repubblica del Brasile, all’articolo 159 ed è specificata in quelli lo seguono, la riserva di bilancio a favore dei diritti sociali.
Raccogliere cinquanta mila firme e più, tante, tante altre ancora, per sostenere una proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare con i contenuti indicati è possibile. È doveroso.
A tema centrale della prossima campagna elettorale per il rinnovo del parlamento va posta la garanzia finanziaria dei diritti sociali. Di fronte al pericolo del crollo di un pilastro della civiltà giuridica e politica, dobbiamo usare tutti gli strumenti della democrazia costituzionale che ci sono rimasti. Non possiamo altrimenti.
Fiscal Compact, referendum subito
di Franco Russo (il manifesto, 01.05.2012)
Dalle cronache de il manifesto sull’assemblea di Alba a Firenze emergono due proposte di campagne politiche, sull’art.81 della Costituzione e sul Fiscal Compact, non ben delineate però negli strumenti e negli obiettivi. Voglio riprenderle per contribuire alla loro definizione.
Il 17 aprile, il Senato ha votato in quarta lettura il disegno di legge di revisione dell’art. 81 per introdurre il pareggio di bilancio in Costituzione, e la votazione avvenuta con una maggioranza superiore ai due terzi, così come già era accaduto alla Camera per la terza lettura, impedisce il ricorso al referendum popolare secondo quanto prescrive l’art. 138 Cost. Il nuovo articolo 81 è ormai in Costituzione, anche se ciò non significa rimanere ’inerti e silenti’ di fronte a questa manomissione voluta dall’Ue e attuata dalla maggioranza Pd-PdL-Terzo Polo, che sostiene il governo Monti. L’Associazione per la democrazia costituzionale, nel corso della discussione parlamentare, ha organizzato dibattiti e inviato ripetutamente e-mail a tutti i parlamentari per denunciare la gravità dell’introduzione del pareggio di bilancio in Costituzione, chiedendo al Parlamento un atto di rispetto democratico, quello di non votarla con la maggioranza dei due terzi così da consentire la raccolta delle firme per un referendum popolare, secondo quanto prevede l’art. 138.
Il Comitato No Debito ha organizzato una raccolta di firme e dei sit-in davanti alla Camera e al Senato per rompere il ’silenzio stampa’ sulla questione. Solo il manifesto ha alimentato la discussione pubblicando articoli contro la modifica dell’art. 81. Il Parlamento non ha raccolto questa domanda volta a far svolgere il referendum popolare su una materia così importante come le regole del bilancio dello Stato, cuore del patto fiscale democratico.
Introdurre in Costituzione il pareggio di bilancio significa impedire alle istituzioni pubbliche di intervenire nella gestione dell’economia per orientare l’uso delle risorse rispettando il vincolo dei beni comuni naturali, l’acqua, il territorio, l’energia, l’aria e per attuare i diritti sociali - la salute, l’educazione, l’istruzione, la previdenza.
Ora l’articolo 81 è stato modificato ed è parte integrante della Costituzione aprendo però una contraddizione al suo interno: come si può conciliare il pareggio di bilancio con le disposizioni dell’art. 3 (la rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale), dell’art. 4 (il diritto al lavoro), dell’art. 32 (il diritto alla salute), dell’art. 34 (il diritto all’istruzione), dell’art. 35 (la tutela del lavoro), dell’art. 37 (la tutela della donna lavoratrice e dei minori), dell’art. 38 (diritto all’assistenza, alla previdenza e alla sicurezza sociali)? La contraddizione è tra diritti e mercato, e su di essa occorre far leva.
Qui si inserisce la precisa proposta di Gianni Ferrara, avanzata su il manifesto, di raccogliere 50 mila firme, secondo il dettato dell’art. 71 Cost., per una proposta di legge di iniziativa popolare per un comma aggiuntivo all’attuale testo dell’art. 81 per vincolare almeno il 50 per cento del bilancio dello Stato all’effettiva fruizione dei diritti sociali e del lavoro prescritti in Costituzione.
L’Associazione per la democrazia costituzionale ha già avviato un lavoro per un’iniziativa legislativa popolare, aperta a tutte le forze intenzionate a difendere e sviluppare il costituzionalismo democratico e sociale di cui è espressione la nostra Carta costituzionale.
Il 2 marzo è stato siglato a Bruxelles il Trattato sulla stabilità, sul coordinamento, sulla governance nell’Unione economica e monetaria, noto come Fiscal Compact, chiesto dal presidente della Bce, Mario Draghi, nel suo discorso al Parlamento europeo il 1 dicembre 2011. Con il Fiscal Compact si rendono permanenti i piani di austerità che mirano a tagliare salari, stipendi e pensioni, ad annullare la specialità del diritto del lavoro, a privatizzare i beni comuni, e si chiede, all’art. 3, l’introduzione del pareggio di bilancio negli ordinamenti nazionali, preferibilmente a livello costituzionale. Con questo trattato economico i governi, qualunque siano i loro colori politici, devono nelle politiche di bilancio attuare le decisioni del Consiglio europeo, della Commissione europea e della Bce: la democrazia viene cancellata, il potere è nelle mani dei mercati finanziari, delle banche, della tecnocrazia. Inoltre si prescrive l’abbattimento del debito per riportarlo nel limite del 60 per cento del Pil: per l’Italia venti anni di manovre economiche dell’ordine di 47-48 miliardi l’anno solo per ripagare il debito. Per questo occorre spezzare i vincoli dell’Ue.
In Italia la ratifica dei trattati internazionali, qual è il Fiscal Compact, è di competenza esclusiva del Parlamento tanto che l’art. 75 Cost. non ammette il referendum per le leggi di autorizzazione a ratificare trattati internazionali. Ora i Trattati Ue vanno cambiando radicalmente le Costituzioni fino al loro sovvertimento, come avviene con il Fiscal Compact che, insieme con la modifica dell’art. 81, introduce una ’costituzione di mercato’ contro il costituzionalismo dei diritti.
Certo importante sarà una campagna d’opinione contro la sua ratifica, ma questa campagna sarà tanto più incisiva se sarà centrata sulla richiesta che anche in Italia si svolga un referendum popolare. Ho ricordato il divieto dell’art. 75, ma i Trattati Ue hanno una tale incidenza sugli assetti costituzionali che il Parlamento italiano varò nel 1989 una legge costituzionale per consentire un referendum popolare di indirizzo su una questione fondamentale: l’attribuzione di un potere costituente al Parlamento europeo. A convincere un restio Pci a sostenerla furono in prima fila Ferrara, Bassanini e Rodotà.
Oggi occorre chiedere che il Parlamento, con la stessa rapidità con cui ha approvato la revisione dell’art. 81, vari una legge costituzionale per un referendum di indirizzo sul Fiscal Compact. I/le cittadini/e devono decidere sulle scelte europee: se vogliono un’Europa liberista, o un’Europa guidata dai valori del costituzionalismo democratico.
Monti sbaglia tutto: e da oggi, salvare l’Italia sarà illegale *
Il pareggio di bilancio, di fatto, sancisce l’illegalità del keynesismo. Secondo John Maynard Keynes, nei periodi di recessione, con la “domanda aggregata” insufficiente, era lo Stato, tramite il deficit spending, a far ripartire l’economia. Secondo questo principio, il deficit si sarebbe poi ripagato quando la crescita fosse ripresa. Ora, impedendo costituzionalmente il deficit di bilancio dello Stato - se non per casi eccezionali e comunque per periodi di tempo limitati - tutto ciò sarà impossibile. Da oggi il nostro paese abbraccia ufficialmente l’ideologia economica per la quale la priorità è evitare il deficit spending, ossia che lo Stato possa finanziare parte della domanda indebitandosi. Questa cosa può sembrare apparentemente ragionevole per paesi indebitati come il nostro, ma in realtà è assolutamente folle. Così facendo, si stanno replicando gli errori drammatici degli anni ’30.
Quando ci si trova alle prese con la recessione, oggi come ottanta anni fa, accade che i privati investono meno. Ed è qui che sarebbe fondamentale un Vladimiro Giacchèdeciso intervento pubblico, con investimenti che facciano in modo che la “domanda aggregata”, cioè l’insieme dell’economia, aumenti, per ripresa. Questi effetti benefici, poi, si riassorbirebbero negli anni a seguire con effetti positivi sui conti pubblici. Ad esempio, con un maggior introito di tasse, il governo avrebbe avuto un rientro maggiore. Da oggi, invece, questo non sarà più possibile. Cosa significa questo per un paese come l’Italia? Semplicemente che sarà impossibile mettere soldi nei settori che invece richiedono un forte investimento. Ad esempio nella cultura, nella ricerca o nelle infrastrutture “utili”: come la Salerno-Reggio Calabria, per intenderci, e non come il Ponte sullo Stretto.
Non è un caso se il nostro è un paese che per la ricerca spende meno della media europea. Non è un caso se il nostro è un paese con un sistema scolare e post-scolare che versa in condizioni drammatiche a causa dei tagli iniziati nel 2008. Non è un caso se tra gli Stati europei il nostro è ai primi posti, insieme ai paesi più arretrati d’Europa (in primis Portogallo e Grecia), per bassa qualifica dei nostri lavoratori. Oggi abbiamo reso illegale il deficit spending. Questo significa che sarà impossibile investire ma soprattutto attivare una serie di diritti previsti dalla nostra Costituzione: il diritto alla scolarità che non deve essere “per ceto”, l’assistenza sanitaria gratuita per tutti, il diritto a una serie di servizi alla persona. Ora, interpretando la Mario Monti Costituzione facendo perno sull’articolo 81 come modificato, tutti questi diritti primari non saranno più esigibili. O almeno saranno subordinati all’articolo 81.
La questione è molto semplice. Il senso di questa riforma costituzionale è che se uno “vuole” dei diritti, se li deve pagare. Non sarà più lo Stato a raccogliere risorse per i suoi cittadini. Peccato, però, che guardando alla crescita economica di lungo periodo, per uscire da una crisi come quella che stiamo attraversando, servirebbero tutta una serie di investimenti che il privato non si sobbarcherà mai. Per diverso tempo, Tremonti - all’epoca del suo dicastero all’Economia - ha ingannato i mercati facendo leva su false previsioni di crescita, parlando di una crescita maggiore di quella che si sarebbe poi verificata. Ma il meccanismo di queste “bugie” era chiaro: si aveva bisogno della crescita per far sì che il deficit diminuisse.
Comunque la si voglia vedere, i dati di fatto da cui partire per analizzare le conseguenze di questa riforma sono due. Il primo: con la crisi, sono diminuite le entrate fiscali e sono aumentate le spese per gli ammortizzatori sociali. Il secondo: si continua a incentrare qualsiasi analisi sul rapporto tra debito e Pil. Dove il debito è il numeratore e il Pil il denominatore. Io posso far calare il numeratore all’infinito (in questo caso, tagliando all’inverosimile la spesa pubblica) ma, se è il numeratore a diminuire più velocemente (e il Giulio TremontiPil è la ricchezza prodotta), ecco che il rapporto sarà sempre destinato a peggiorare. Sembra una cosa evidente, ma per qualcuno al governo evidentemente non lo è.
Basterebbe ragionare partendo da questo aspetto per capire che una vera manovra per uscire dalla crisi dovrebbe essere calibrata per fare in modo che si impedisca al Pil di scendere. Cosa che, invece, puntualmente accade con ogni manovra di austerity. Dopo i 55 miliardi di tagli di Berlusconi, siamo ai 30 miliardi di tagli di Monti. Ma questi 85 miliardi di tagli hanno impattato fortemente sulla crescita. Si è lavorato sullo “stabilizzatore keynesiano”, ma al contrario: è crollata la domanda privata, e di riflesso è crollata la domanda pubblica. Così, di colpo, abbiamo settori di imprese rivolte al mercato interno in grave difficoltà, mentre quelle imprese che lavorano sul mercato estero sono in ripresa. Ma così si è soltanto indebolita l’economia italiana.
Qui la sfida è una crescita reale, possibile solo abbandonando le ricette adoperate negli ultimi tempi. Se si riduce drammaticamente la spesa pubblica in tempo di crisi, il futuro è la Grecia. C’è poco da girarci attorno. Con i tagli su tagli, l’economia greca di obbedienza all’Unione Europea è crollata del 6,5% per tre anni consecutivi. E’ praticamente implosa, e il Pil crollato. Il risultato, per fare esempi chiari da vita quotidiana, è che oggi in Grecia si comprano il 20% in meno di medicine. E parliamo di un bene Anche per l’Italia si profila l’incubo-Greciaessenziale. Con la Grecia si è andati dietro l’ideologia folle che nasce dall’incomprensione di quanto è successo. Il debito pubblico non è la causa della crisi, ma la sua conseguenza.
Il debito pubblico nasce dal tentativo di tamponare la crisi, ad esempio salvando le banche. Un esempio: la Germania ha “coperto” le banche con qualcosa come 200 miliardi di euro negli ultimi dieci anni. Risultato: il debito pubblico tedesco è cresciuto di 750 miliardi di euro in dieci anni. La cosa bizzarra, però, è che i tedeschi hanno adottato misure di compensazione del deficit spending per far fronte a questa situazione e nel 2009 hanno speso il 3% del Pil per salvare le loro imprese. Ebbene, quella stessa Germania oggi impone il divieto di deficit spending ai paesi più deboli dell’Unione europea.
Vie d’uscita? Una sola: guardare meno al “giorno per giorno” e progettare per il lungo periodo. Purtroppo il nostro governo tecnico nasce per l’emergenza e non riesce a progettare nel lungo periodo, anche perchè per farlo servirebbe una larga investitura popolare. Ma se continuiamo a vivere nell’emergenza, e questo governo continua a fare politiche da “stato di emergenza”, è inevitabile infilarci in un tunnel senza uscita. Non è un caso che per alcuni istituti il Pil quest’anno diminuirà del 2,6%, con una Merkel e Montidiminuzione prevista per il prossimo anno del 2,9%. Stando così le cose, sarà inevitabile dover ricorrere a nuove manovre di austerity. Ed ecco qui la spirale, innestata proprio dal vincolo costituzionale del pareggio di bilancio.
Facendo due rapidi calcoli, a partire dall’obbligo sancito dal Fiscal Compact di dover ridurre il debito pubblico del 5% annuo per quanto eccede il Pil del 60% - ergo, un ventesimo del Pil - ecco che per un certo numero di anni il nostro paese sarebbe chiamato a manovre annuali di 45 miliardi di euro. Senza considerare quanto paghiamo di interessi sul debito: nel 2012 qualcosa come 72 miliardi di euro. Di fatto, l’Italia per i prossimi anni sarebbe costretta a manovre, per ridurre il suo debito pubblico, di circa 120 miliardi di euro l’anno. Una follia. O meglio, la perfetta ricetta per il disastro economico. Un disastro motivato dall’assurda idea di fondo che si debba cancellare il debito pubblico. Ma la realtà è un altra: nessuno ti chiede di azzerare il debito. Quello che interessa i mercati, infatti, non è che il debito venga cancellato, ma che si stabilizzi. L’obiettivo dovrebbe essere non far crescere tendenzialmente il debito.
* (Vladimiro Giacchè, dichiarazioni rilasciate a Daniele Nalbone per l’intervista apparsa su “Today” il 17 aprile 2012, “Da oggi Keynes è fuorilegge: impossibile investire”. Autorevole economista, Giacchè è autore di libri come “Titanic Europa, la crisi che non ci hanno raccontato”, edito nel 2012 da Aliberti).
Pressione fiscale record Nel 2012 arriva al 45,1%
Votato il pareggio di bilancio nella Carta ma il deficit zero arriverà solo nel 2015
di Alessandro Barbera (La Stampa, 18.04.2012)
ROMA Per chi crede ancora in John Maynard Keynes e nelle sue teorie si tratta di un errore capitale. Qualche settimana fa cinque premi Nobel hanno scritto un appello a Barack Obama per dire no a quella che in giro per l’indebitato Occidente è diventata una parola d’ordine. Ma l’Europa ha deciso così, e l’Italia, come tutti, ha fatto di necessità virtù. Così ieri il Senato ha detto sì in via definitiva all’introduzione del pareggio di bilancio in Costituzione. I 235 voti favorevoli, ovvero più dei due terzi dell’assemblea, eviteranno anche il referendum confermativo. Il «Def», il documento di finanza pubbliche che oggi sarà approvato dal governo dirà che il pareggio di bilancio almeno nei numeri lo vedremo solo nel 2014. E però il voto ha un forte significato simbolico. «Era un voto importante, bisognava esserci e io c’ero», farà sapere il senatore a vita Mario Monti. Di tutti i giorni possibili per dire il sì definitivo, ieri era quello che al governo serviva di più per sottolineare la volontà dell’Italia di proseguire sulla strada del rigore. Nonostante i numeri, le pressioni dei partiti, la recessione e una crescita ancora molto fiacca.
Il Tesoro stima per quest’anno una contrazione del Pil dell’1,2%, peggio dell’ultima previsione (-0,4%) ma comunque meglio del -1,5% di Bankitalia e del -1,9% previsto proprio ieri dal Fondo monetario internazionale. Il governo si mostra più ottimista anche per l’anno prossimo: se nel 2013 il Fondo vede un -0,3%, noi stimiamo +0,5%. La crescita stenta, e dunque è più difficile anche il raggiungimento del pareggio. Nel 2013, la scadenza promessa a Bruxelles, il deficit si fermerà a +0,5%, quattro decimali in più di quanto stimato in precedenza. Ma per la Commissione poco cambia: mezzo punto di Pil in deficit (circa sette miliardi di euro) è la soglia considerata «close to balance», vicina all’obiettivo. Anche in questo caso le nostre previsioni non sono allineate a quelle, più prudenti, del Fondo: noi prevediamo deficit zero in termini reali nel 2015, Washington lo stima possibile solo nel 2017.
Peggiorano anche le previsioni per il debito: quest’anno balzerà di ulteriori tre punti al 123,4%, il massimo di sempre. Il testo definitivo del governo imputerà l’aumento essenzialmente ai costi del salvataggio greco e della istituzione del Fondo salva-Stati: rispetto alle stime precedenti lo scostamento è di circa tre punti, 45 miliardi di euro. Il debito promette di scendere al 121,6% nel 2013 e al 118,3% nel 2014. Nonostante tutto, il calo degli spread fra i Btp e i Bund iniziato con l’insediamento del governo Monti ci farà spendere molto meno in interessi sul debito. Quest’anno pagheremo 6,3 miliardi in più rispetto al 2011 (79,9 miliardi nell’anno), ma 17 in meno rispetto a quanto previsto a dicembre, quando lo spread sull’Italia era attorno ai 550 punti base.
Ciò detto, ci siamo salvati dal baratro con una stangata fiscale senza precedenti: la pressione fiscale che nel 2011 era già salita al 42,5% quest’anno toccherà il nuovo record del 45,1%, più del 43,7% causato nel 1997 dall’Eurotassa di Prodi e Visco. Il peso fiscale salirà ancora nel 2013 (45,4%) e scenderà lievemente al 44,9% nel 2015. Se il «Def» è un compendio delle prossime scelte di politica economica, mettete l’anima in pace: questi numeri ci dicono che non c’è alcuna speranza in una riduzione delle tasse in tempi rapidi.
Austerità, nuovo nome dell’ideologia liberista che ha prodotto la crisi
La destra europea finge di ignorare che le sue idee sui mercati liberi e autoregolati hanno fallito e cerca di tenerle in vita sotto altre vesti
di Sigmar Gabriel, Leader SPD (l’Unità, 18.04.2012)
L’Europa si trova dinanzi a un tornante storico in cui si deciderà il futuro comune. Riusciremo a dare una risposta comune alla crisi finanziaria e monetaria, dando regole ai mercati? Riusciremo, da questa crisi, ad avviare una dinamica che porti a una maggiore integrazione? O permetteremo invece che l’Europa si lasci smembrare dai mercati, col rischio che rinascano pericolosi nazionalismi e che l’Europa stessa rimanga sospesa in un limbo politico ed economico?
Siamo a un passaggio d’epoca. L’era del fondamentalismo del mercato e del neoliberismo è giunta al termine. I suoi paladini sono dinanzi alle rovine delle loro stesse teorie. Per quasi trent’anni hanno raccontato che solo la libertà dei mercati avrebbe reso possibile il progresso della società. Tutto ciò è crollato fragorosamente con la crisi finanziaria del 2009. I mercati liberalizzati e deregolati non si sono dimostrati efficienti, tutto il contrario. Coloro che hanno diffuso questo falso credo nel mercato non erano economisti, ma teologi. Hanno annunciato dogmi di fede e difeso interessi molto concreti, lontani dal bene comune.
Come risposta alle nuove sfide non servono più le ricette del passato. Come socialdemocratici e socialisti europei sappiamo che viviamo un tempo che esige risposte nuove e diverse. Inutile attendere queste risposte dai conservatori e dai liberali europei. Nemmeno adesso vogliono darsi per intesi del fatto che le loro idee sui mercarti liberi e autosufficienti hanno fatto fallimento.
Quando Angela Merkel dice che quello di cui si discute oggi è di «democrazie adeguate al mercato» si smaschera da sola e mostra come lei, e i suoi colleghi conservatori, continuino a non cogliere la profondità del cambiamento. Come socialdemocratici e socialisti europei affermiamo: abbiamo bisogno di mercati adeguati alla democrazia, mercati che si adeguino a una politica democratica. Sappiamo che l’Europa è il luogo in cui dobbiamo condurre insieme questa battaglia politica. Su questo poggia oggi la grande unità dei socialdemocratici e socialisti europei: l’Europa può e deve essere il luogo in cui, insieme, addomestichiamo per la seconda volta il capitalismo... in particolare il capitalismo finanziario.
Ciò di cui abbiamo bisogno è una europeizzazione dell’economia sociale di mercato orientata al benessere a lungo termine di quante più persone possibile, non alla soddisfazione immediata di pochi.
I capi di Stato e di governo europei, in maggioranza conservatori, si sono lasciati manovrare dai mercati per troppo tempo. Con continui salvataggi pubblici hanno cercato di guadagnare tempo, senza aggredire la crisi alle sue radici e senza ridimensionare le pretese della finanza. Inoltre, in modo fazioso, hanno dato di questa crisi una definizione corretta soltanto in parte: per esempio, come crisi del debito di alcuni stati dell’Unione europea i cui bilanci sarebbero andati fuori controllo e la cui competitività sarebbe crollata. Nel caso della Grecia, una simile interpretazione potrebbe trovare una qualche giustificazione. In quelli di Irlanda e Spagna, tuttavia, elude il nucleo del problema. Questi Paesi esibivano, prima che scoppiasse la crisi finanziaria, conti pubblici esemplari. Qui è stata la crisi internazionale a obbligare entrambi gli Stati a indebitarsi massicciamente per evitare il collasso del loro sistema bancario.
I conservatori e i liberali europei cercano di nascondere il ruolo avuto dalla crisi finanziaria internazionale. Invece di sottoporre davvero a controllo i mercati, invece di affrontare i problemi strutturali dell’eurozona attraverso una politica economica, finanziaria e sociale effettivamente coordinata, l’Europa obbedisce all’unico imperativo del rigore, che non è né economicamente razionale né socialmente giusto.
Sotto un nuovo nome, conservatori e liberali europei mantengono in vita le idee e le categorie neoliberiste che sono fallite con la crisi. Lo fanno nella misura in cui i mercati possono continuare il loro gioco speculativo e nella misura in cui gli Stati si sottomettono a un imperativo unilaterale di rigore, il cui risultato è meno servizi pubblici, meno giustizia sociale, più privatizzazioni e più libertà ai mercati.
Come socialdemocratici e socialisti europei vogliamo una politica diversa per l’Europa. Vogliamo coniugare stabilità finanziaria e solidarietà europea, disciplina di bilancio con crescita e occupazione.
Il Fiscal compact è un passo importante per garantire bilanci pubblici solidi in Europa. Tuttavia, è orientato in modo troppo squilibrato al rigore e all’austerità. Per questo vogliamo che sia completato con uno stimolo comune europeo alla crescita e all’occupazione.
Vogliamo che i mercati finanziari siano sottoposti a regole più strette e che contribuiscano a pagare i costi della crisi atttraverso un’imposta sulle transazioni finanziarie. Il ricavato di questa imposta potrà essere usato per un programma economico e di innovazione, una sorta di Piano Marshall europeo del quale dovrebbe beneficiare soprattutto l’Europa meridionale.
Vogliamo dare all’Europa una forte caratterizzazione sociale: attraverso un’iniziativa comune contro la disoccupazione giovanile, che ha raggiunto in alcuni Paesi livelli preoccupanti, attraverso uno standard sociale minimo e salari dignitosi in tutta Europa. Vogliamo lottare perché le persone tornino a sapere questo: l’Europa è una comunità che tutela i suoi cittadini.
Sappiamo anche che l’Europa, nella crisi, deve continuare ad avanzare nel processo di integrazione e richiede fondamenta democratiche ancora più solide. Come contrappeso alla “politica del cenacolo” dei capi di Stato e di governo ai vertici dell’Ue, il Parlamento europeo deve trasformarsi nel centro della decisione politica e della democrazia europea.
Quando oggi si parla di Europa, lo si fa sempre meno a proposito di pace e riconciliazione, libertà ed emancipazione, e sempre più in relazione a concetti economico-finanziari: fondo di salvataggio, meccanismo di stabilità o indebitamento. Il dibattito sull’Europa, che un tempo era un dibattito sulle idee politiche, si svolge sempre di più con il vocabolario dei manager. Ma non possiamo lasciare l’Europa in mano ai manager! Perché l’Europa è molto di più. Più della moneta unica, più del mercato comune. Più persino dei trattati e delle istituzioni che oggi tengono unita l’Unione europea.
L’Europa è anche, e soprattutto, una grandiosa idea di convivenza tra popoli e persone. Rifondare questo contratto sociale tra cittadini, in dialogo e in alleanza con le forze sociali e i partner dell’Unione, è una delle grandi sfide a cui può e deve dedicarsi la socialdemocrazia in Europa. L’Europa come comunità che tutela e rappresenta gli interessi dei cittadini nel mondo di domani: questa è l’idea del futuro della nuova e diversa Europa del XXI secolo che abbiamo noi, socialdemocratici e socialisti.