S.O.S . GAZA

In memoria di YITZHAK RABIN. Dal cuore di TEL AVIV, e di ISRAELE, un APPELLO per la PACE e il dialogo con la PALESTINA. Il discorso tenuto da David GROSSMAN.

Si rivolga ai palestinesi, signor Olmert, non continui a cercare ragioni per non dialogare con loro.
lunedì 6 novembre 2006.
 

IL DOVERE DI ISRAELE SCEGLIERE LA PACE

di DAVID GROSSMAN (la Repubblica, 5 novembre 2006)

Il ricordo di Yitzhak Rabin è un momento di pausa in cui riflettiamo anche su noi stessi. Quest’anno la riflessione non è per noi facile. C’è stata una guerra. Israele ha messo in mostra una possente muscolatura militare dietro la quale ha però rivelato debolezza e fragilità. Abbiamo capito che la potenza militare in mano nostra non può, in fin dei conti, garantire da sola la nostra esistenza. Abbiamo soprattutto scoperto che Israele sta attraversando una crisi profonda, molto più profonda di quanto immaginassimo, una crisi che investe quasi tutti gli aspetti della nostra esistenza.

Parlo qui, stasera, in veste di chi prova per questa terra un amore difficile e complicato, e tuttavia indiscutibile. Come chi ha visto trasformarsi in tragedia, in patto di sangue, il patto che aveva sempre mantenuto con essa. Io sono laico, eppure ai miei occhi la creazione e l’esistenza stessa di Israele sono una sorta di miracolo per il nostro popolo, un miracolo politico, nazionale e umano; e io non lo dimentico neppure per un istante. Anche quando molti episodi della nostra realtà suscitano in me indignazione e sconforto, anche quando il miracolo si frantuma in briciole di quotidianità, di miseria e di corruzione, anche quando la realtà appare una brutta parodia del miracolo, esso per me rimane tale.

‘Guarda o terra, quanto abbiamo sprecato’ scriveva il poeta Shaul Tchernikovsky nel 1938 lamentandosi del fatto che nel suolo della terra di Israele venivano seppelliti, ragazzi nel fiore degli anni. La morte di giovani è uno spreco terribile, lancinante. Ma non meno terribile è che Israele sprechi in modo criminale non solo le vite dei suoi figli ma anche il miracolo di cui è stato protagonista, l’opportunità grande e rara offertagli dalla storia, quella di creare uno stato illuminato, civile, democratico, governato da valori ebraici e universali. Uno stato che sia dimora nazionale, rifugio e anche luogo che infonda un nuovo senso all’esistenza ebraica. Uno stato in cui una parte importante e sostanziale della sua identità ebraica, della sua etica ebraica, sia mantenere rapporti di completa uguaglianza e di rispetto con i suoi cittadini non ebrei. E guardate cosa è successo.

Guardate cosa è successo a una nazione giovane, audace, piena di entusiasmo. Guardate come, quasi in un processo di invecchiamento accelerato, Israele è passato da una fase di infanzia e di giovinezza, a uno stato di costante lamentela, di fiacchezza, alla sensazione di aver perso un’occasione. Com’è successo? Quando abbiamo perso la speranza di poter vivere un giorno una vita migliore? E come possiamo oggi rimanere a guardare, come ipnotizzati, il dilagare della follia, della rozzezza, della violenza e del razzismo in casa nostra?

Com’è possibile che un popolo dotato di energie creative e inventive come il nostro, che ha saputo risollevarsi più volte dalle ceneri, si ritrovi oggi, proprio quando possiede una forza militare tanto grande, in una situazione di inerzia e di impotenza? Situazione in cui è nuovamente vittima, ma questa volta di sé stesso, dei suoi timori, della sua disperazione e della sua miopia. Uno degli aspetti più gravi messi in luce dalla guerra è che attualmente non esiste un leader in Israele. Che la nostra dirigenza politica e militare è vuota di contenuto. E non mi riferisco agli evidenti errori commessi nella conduzione della guerra o all’abbandono delle retrovie a se stesse. Non mi riferisco nemmeno agli episodi di corruzione, grandi e piccoli, agli scandali, alle commissioni di inchiesta. Mi riferisco al fatto che chi ci governa oggi non è in grado di far sì che gli israeliani si rapportino alla loro identità e tanto meno agli aspetti più sani, vitali e fecondi di essa; non agli elementi della loro memoria storica che possano infondere in loro forza e speranza, che li incoraggino ad assumersi responsabilità gli uni nei confronti degli altri e diano un qualsiasi significato alla sconfortante e spossante lotta per l’esistenza.

La maggior parte dei leader odierni non è in grado di risvegliare negli israeliani un senso di continuità storica e culturale. O di appartenenza a uno schema di valori chiaro, coerente e consolidato negli anni. I contenuti principali di cui l’odierna dirigenza israeliana riempie il guscio del suo governo sono la paura da un lato e la creazione di ansie dall’altro, il miraggio della forza, l’ammiccamento al raggiro, il misero commercio di tutto ciò che ci è più caro. In questo senso non sono dei veri leader. Certo non i leader di cui un popolo tanto disorientato e in una situazione tanto complessa come quella israeliana ha bisogno.

Talvolta pare che l’eco del pensiero dei nostri leader, la loro memoria storica, i loro ideali, tutto quello che è veramente importante per loro, non oltrepassi il minuscolo spazio esistente tra due titoli di giornale. O le pareti dell’ufficio del procuratore generale dello Stato. Osservate chi ci governa. Non tutti, naturalmente, ma troppi fra loro.

Osservate il loro modo di agire, spaventato, sospettoso, affannato; il loro comportamento viscido e intrigante. Quando è stata l’ultima volta che il Primo Ministro ha espresso un’idea o compiuto un passo in grado di spalancare un nuovo orizzonte agli israeliani? Di prospettare loro un futuro migliore? Quando mai ha intrapreso un’iniziativa sociale, culturale, morale, senza limitarsi a reagire scompostamente a iniziative altrui?

Signor Primo Ministro. Non parlo spinto da un sentimento di rabbia o di vendetta. Ho aspettato abbastanza per non reagire mosso dall’impulso del momento. Questa sera lei non potrà ignorare le mie parole sostenendo che: "Non si giudica una persona nel momento della tragedia". È ovvio che sto vivendo una tragedia. Ma più di quanto io provi rabbia, provo dolore. Provo dolore per questa terra, per quello che lei e i suoi colleghi state facendo. Mi creda, il suo successo è importante per me perché il futuro di noi tutti dipende dalla sua capacità di agire.

Yitzhak Rabin aveva imboccato il cammino della pace non perché provasse grande simpatia per i palestinesi o per i loro leader. Anche allora, come ricordiamo, era opinione generale che non avessimo un partner e che non ci fosse nulla da discutere con i palestinesi. Rabin si risolse ad agire perché capì, con molta saggezza, che la società israeliana non avrebbe potuto resistere a lungo in uno stato di conflitto irrisolto.

Capì, prima di molti altri, che la vita in un clima costante di violenza, di occupazione, di terrore, di ansia e di mancanza di speranza, esigeva un prezzo che Israele non avrebbe potuto sostenere. Tutto questo è vero anche oggi, ed è ancora più impellente. Da più di un secolo ormai viviamo in uno stato di conflitto.

Noi, cittadini di questo conflitto, siamo nati nella guerra, siamo stati educati nella guerra e, in un certo senso, siamo stati programmati per la guerra.

Forse per questo pensiamo talvolta che questa follia in cui viviamo ormai da cento anni sia l’unica, vera realtà. L’unica vita destinata a noi e che non abbiamo la possibilità, o forse neppure il diritto, di aspirare a una vita diversa: vivremo e moriremo con la spada e combatteremo per l’eternità.

Forse per questo siamo così indifferenti al totale ristagno del processo di pace. Forse per questo la maggior parte di noi ha accettato con indifferenza il rozzo calcio sferrato alla democrazia dalla nomina di Avigdor Lieberman a ministro, un potenziale piromane posto a capo dei servizi statali responsabili di spegnere gli incendi.

Questi sono anche, in parte, i motivi per cui, in tempi brevissimi, Israele è precipitato nell’insensibilità, nella crudeltà, nell’indifferenza verso i deboli, verso i poveri, verso chi soffre, verso chi ha fame, verso i vecchi, i malati, gli invalidi, il commercio di donne, lo sfruttamento e le condizioni di schiavitù in cui vivono i lavoratori stranieri e verso il razzismo radicato, istituzionale, nei confronti della minoranza araba.

Quando tutto questo accade con totale naturalezza, senza suscitare scandali né proteste, io comincio a pensare che anche se la pace giungerà domani, anche se un giorno torneremo a una situazione di normalità, abbiamo forse già perso l’opportunità di guarire.

La tragedia che ha colpito me e la mia famiglia non mi concede privilegi nel dibattito politico ma ho l’impressione che il dover affrontare la morte e la perdita di una persona cara comporti anche una certa lucidità e chiarezza di vedute, per lo meno per quanto riguarda la distinzione tra ciò che è importante e ciò che è secondario, tra ciò che è possibile ottenere e ciò che è impossibile. Tra la realtà e il miraggio.

Ogni persona di buon senso in Israele - e aggiungo, anche in Palestina - sa esattamente quale sarà, a grandi linee, la soluzione del conflitto tra i due popoli. Ogni persona di buon senso è anche consapevole in cuor suo della differenza tra sogno e aspirazione e ciò che è possibile ottenere alla fine di un negoziato.

Chi non lo sa, arabo o ebreo che sia, non è già più un possibile interlocutore, è prigioniero di un fanatismo ermetico e non è quindi un possibile partner. Consideriamo un attimo il nostro partner. I palestinesi hanno scelto come loro guida Hamas che rifiuta di negoziare con noi e di riconoscerci.

Cosa si può fare in una situazione simile? Cos’altro ci rimane da fare? Continuare a soffocarli? A uccidere centinaia di palestinesi a Gaza, per la maggior parte semplici cittadini come noi?

Si rivolga ai palestinesi, Signor Olmert. Si rivolga a loro al di sopra delle teste di Hamas. Si appelli ai moderati, a chi si oppone, come lei e me, a Hamas e alla sua strada. Si appelli al popolo palestinese. Non si ritragga dinanzi alla sua ferita profonda, riconosca la sua continua sofferenza. Lei non perderà nulla, e neppure Israele, in un futuro negoziato. Solo i cuori si apriranno un poco gli uni agli altri, e questa apertura racchiuderà in sé una forza enorme. In una simile situazione di immobilità e di ostilità la semplice compassione umana possiede la forza di una cataclisma naturale.

Per una volta tanto guardi i palestinesi non attraverso il mirino di un fucile o da dietro le sbarre chiuse di un check point. Vedrà un popolo martoriato non meno di noi. Un popolo conquistato, oppresso e senza speranza.

È ovvio che anche i palestinesi sono colpevoli del vicolo cieco in cui ci troviamo. È ovvio che anche loro sono ampiamente responsabili del fallimento del processo di pace. Ma li guardi un momento con occhi diversi. Non solo gli estremisti fra loro. Non solo chi ha stretto un patto di interesse con i nostri estremisti. Guardi la maggior parte di questo povero popolo il cui destino è legato al nostro, che lo si voglia o no.

Si rivolga ai palestinesi, signor Olmert, non continui a cercare ragioni per non dialogare con loro. Ha rinunciato all’idea di un nuovo ritiro unilaterale, e ha fatto bene. Ma non lasci un vuoto che verrebbe immediatamente colmato dalla violenza e dalla distruzione. Intavoli un dialogo. Avanzi una proposta che i moderati (e fra loro sono più di quanto i media ci mostrino) non possano rifiutare. Lo faccia, in modo che i palestinesi possano decidere se accettarla o se rimanere ostaggi dell’Islam fanatico. Presenti loro il piano più coraggioso e serio che Israele è in grado di proporre. La proposta che agli occhi di ogni israeliano e palestinese sensato contenga il massimo delle concessioni, nostre e loro.

Non stia a discutere di bazzecole. Non c’è tempo. Se tentennerà, fra poco avremo nostalgia del dilettantismo del terrorismo palestinese. Ci batteremo il capo urlando: come abbiamo potuto non fare ricorso a tutta la nostra elasticità di pensiero, a tutta la creatività israeliana, per strappare i nostri nemici dalla trappola in cui si sono lasciati cadere?

Proprio come ci sono guerre combattute per mancanza di scelta, c’è anche una pace che si rincorre per "mancanza di scelta". Non abbiamo scelta, né noi né loro. E dobbiamo aspirare a questa pace forzosa con la stessa determinazione e creatività con cui partiamo per una guerra forzosa. Perché non c’è scelta e chi ritiene che ci sia, che il tempo giochi a nostro favore, non capisce i processi pericolosi in cui già ci troviamo.

E più in generale, signor Primo Ministro, forse dovremmo rammentarle che se un qualsiasi leader arabo invia segnali di pace - anche impercettibili e titubanti - lei ha il dovere morale di rispondere. Ha il dovere di verificare immediatamente l’onestà e la serietà di quel leader. Deve farlo per coloro ai quali chiede di sacrificare la vita nel caso scoppi una nuova guerra.

E quindi, se il presidente Assad dice che la Siria vuole la pace - per quanto lei non gli creda e tutti noi nutriamo sospetti nei suoi confronti - deve offrirgli di incontrarlo subito. Senza aspettare nemmeno un giorno. In fondo, non ha aspettato nemmeno un’ora a dare inizio all’ultima guerra. Si è lanciato nell’offensiva con tutte le sue forze. Con tutte le armi a disposizione e tutta la loro potenza distruttiva.

Allora perché quando c’è un segnale di pace lei si affretta a respingerlo, a lasciarlo svanire? Cos’ha da perdere? Nutre forse dei sospetti nei confronti del presidente siriano? Allora gli presenti delle condizioni tali da rivelare la sua macchinazione. Gli proponga un processo di pace che duri qualche anno e alla fine del quale, se tutte le condizioni e le restrizioni verranno rispettate, gli verranno restituite le alture del Golan. Lo costringa al dialogo. Agisca in modo che nella coscienza del popolo siriano si delinei anche questa possibilità. Dia una mano ai moderati, che sicuramente esistono anche lassù. Cerchi di plasmare la realtà, non di esserne solo un collaborazionista. È stato eletto per questo. Esattamente per questo.

E in conclusione. È ovvio che non tutto dipende da noi e ci sono forze grandi e potenti che agiscono in questa regione e nel mondo e alcune di loro - come l’Iran e come l’Islam radicale - non hanno buone intenzioni nei nostri confronti. Eppure molto dipende da come agiremo noi, da ciò che saremo. Attualmente non esiste grande disparità tra la sinistra e la destra.

La stragrande maggioranza degli israeliani capisce ormai - per quanto alcuni senza troppo entusiasmo - quale sarà a grandi linee la soluzione del conflitto: questa terra verrà divisa, sorgerà uno stato palestinese. Perché, quindi, continuare a sfibrarci in una querelle intestina che dura da quasi quarant’anni?! Perché la dirigenza politica continua a rispecchiare le posizioni dei radicali e non quelle della maggior parte degli elettori?

Dopo tutto la nostra situazione sarebbe migliore se raggiungessimo un’intesa nazionale prima che le circostanze - pressioni esterne, una nuova Intifada o una nuova guerra - ci costringano a farlo. Se lo faremo risparmieremo anni di versamenti di sangue e di spreco di vite umane. Anni di terribili errori.

Mi appello a tutti, ai reduci dalla guerra che sanno che dovranno pagare il prezzo del prossimo scontro armato, ai sostenitori della destra, della sinistra, ai religiosi e ai laici: fermatevi un momento, guardate l’orlo del baratro, pensate a quanto siamo vicini a perdere quello che abbiamo creato.

Domandatevi se non sia arrivata l’ora di riscuoterci dalla paralisi, di fare una distinzione tra ciò che è possibile ottenere e ciò che non lo è, di esigere da noi stessi, finalmente, la vita che meritiamo di vivere.

(Traduzione di Alessandra Shomroni)


Sul tema, nel sito, si cfr.:

GERUSALEMME E LA SFIDA DI NETANYAHU. Un modo di dare "a Hitler vittorie postume" (Emil L. Fackenheim)

RIPARARE IL MONDO. LA CRISI EPOCALE DELLA CHIESA ’CATTOLICA’ E LA LEZIONE DI SIGMUND FREUD.


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