IL DOVERE DI ISRAELE SCEGLIERE LA PACE
di DAVID GROSSMAN (la Repubblica, 5 novembre 2006)
Il ricordo di Yitzhak Rabin è un momento di pausa in cui riflettiamo anche su noi stessi. Quest’anno la riflessione non è per noi facile. C’è stata una guerra. Israele ha messo in mostra una possente muscolatura militare dietro la quale ha però rivelato debolezza e fragilità. Abbiamo capito che la potenza militare in mano nostra non può, in fin dei conti, garantire da sola la nostra esistenza. Abbiamo soprattutto scoperto che Israele sta attraversando una crisi profonda, molto più profonda di quanto immaginassimo, una crisi che investe quasi tutti gli aspetti della nostra esistenza.
Parlo qui, stasera, in veste di chi prova per questa terra un amore difficile e complicato, e tuttavia indiscutibile. Come chi ha visto trasformarsi in tragedia, in patto di sangue, il patto che aveva sempre mantenuto con essa. Io sono laico, eppure ai miei occhi la creazione e l’esistenza stessa di Israele sono una sorta di miracolo per il nostro popolo, un miracolo politico, nazionale e umano; e io non lo dimentico neppure per un istante. Anche quando molti episodi della nostra realtà suscitano in me indignazione e sconforto, anche quando il miracolo si frantuma in briciole di quotidianità, di miseria e di corruzione, anche quando la realtà appare una brutta parodia del miracolo, esso per me rimane tale.
‘Guarda o terra, quanto abbiamo sprecato’ scriveva il poeta Shaul Tchernikovsky nel 1938 lamentandosi del fatto che nel suolo della terra di Israele venivano seppelliti, ragazzi nel fiore degli anni. La morte di giovani è uno spreco terribile, lancinante. Ma non meno terribile è che Israele sprechi in modo criminale non solo le vite dei suoi figli ma anche il miracolo di cui è stato protagonista, l’opportunità grande e rara offertagli dalla storia, quella di creare uno stato illuminato, civile, democratico, governato da valori ebraici e universali. Uno stato che sia dimora nazionale, rifugio e anche luogo che infonda un nuovo senso all’esistenza ebraica. Uno stato in cui una parte importante e sostanziale della sua identità ebraica, della sua etica ebraica, sia mantenere rapporti di completa uguaglianza e di rispetto con i suoi cittadini non ebrei. E guardate cosa è successo.
Guardate cosa è successo a una nazione giovane, audace, piena di entusiasmo. Guardate come, quasi in un processo di invecchiamento accelerato, Israele è passato da una fase di infanzia e di giovinezza, a uno stato di costante lamentela, di fiacchezza, alla sensazione di aver perso un’occasione. Com’è successo? Quando abbiamo perso la speranza di poter vivere un giorno una vita migliore? E come possiamo oggi rimanere a guardare, come ipnotizzati, il dilagare della follia, della rozzezza, della violenza e del razzismo in casa nostra?
Com’è possibile che un popolo dotato di energie creative e inventive come il nostro, che ha saputo risollevarsi più volte dalle ceneri, si ritrovi oggi, proprio quando possiede una forza militare tanto grande, in una situazione di inerzia e di impotenza? Situazione in cui è nuovamente vittima, ma questa volta di sé stesso, dei suoi timori, della sua disperazione e della sua miopia. Uno degli aspetti più gravi messi in luce dalla guerra è che attualmente non esiste un leader in Israele. Che la nostra dirigenza politica e militare è vuota di contenuto. E non mi riferisco agli evidenti errori commessi nella conduzione della guerra o all’abbandono delle retrovie a se stesse. Non mi riferisco nemmeno agli episodi di corruzione, grandi e piccoli, agli scandali, alle commissioni di inchiesta. Mi riferisco al fatto che chi ci governa oggi non è in grado di far sì che gli israeliani si rapportino alla loro identità e tanto meno agli aspetti più sani, vitali e fecondi di essa; non agli elementi della loro memoria storica che possano infondere in loro forza e speranza, che li incoraggino ad assumersi responsabilità gli uni nei confronti degli altri e diano un qualsiasi significato alla sconfortante e spossante lotta per l’esistenza.
La maggior parte dei leader odierni non è in grado di risvegliare negli israeliani un senso di continuità storica e culturale. O di appartenenza a uno schema di valori chiaro, coerente e consolidato negli anni. I contenuti principali di cui l’odierna dirigenza israeliana riempie il guscio del suo governo sono la paura da un lato e la creazione di ansie dall’altro, il miraggio della forza, l’ammiccamento al raggiro, il misero commercio di tutto ciò che ci è più caro. In questo senso non sono dei veri leader. Certo non i leader di cui un popolo tanto disorientato e in una situazione tanto complessa come quella israeliana ha bisogno.
Talvolta pare che l’eco del pensiero dei nostri leader, la loro memoria storica, i loro ideali, tutto quello che è veramente importante per loro, non oltrepassi il minuscolo spazio esistente tra due titoli di giornale. O le pareti dell’ufficio del procuratore generale dello Stato. Osservate chi ci governa. Non tutti, naturalmente, ma troppi fra loro.
Osservate il loro modo di agire, spaventato, sospettoso, affannato; il loro comportamento viscido e intrigante. Quando è stata l’ultima volta che il Primo Ministro ha espresso un’idea o compiuto un passo in grado di spalancare un nuovo orizzonte agli israeliani? Di prospettare loro un futuro migliore? Quando mai ha intrapreso un’iniziativa sociale, culturale, morale, senza limitarsi a reagire scompostamente a iniziative altrui?
Signor Primo Ministro. Non parlo spinto da un sentimento di rabbia o di vendetta. Ho aspettato abbastanza per non reagire mosso dall’impulso del momento. Questa sera lei non potrà ignorare le mie parole sostenendo che: "Non si giudica una persona nel momento della tragedia". È ovvio che sto vivendo una tragedia. Ma più di quanto io provi rabbia, provo dolore. Provo dolore per questa terra, per quello che lei e i suoi colleghi state facendo. Mi creda, il suo successo è importante per me perché il futuro di noi tutti dipende dalla sua capacità di agire.
Yitzhak Rabin aveva imboccato il cammino della pace non perché provasse grande simpatia per i palestinesi o per i loro leader. Anche allora, come ricordiamo, era opinione generale che non avessimo un partner e che non ci fosse nulla da discutere con i palestinesi. Rabin si risolse ad agire perché capì, con molta saggezza, che la società israeliana non avrebbe potuto resistere a lungo in uno stato di conflitto irrisolto.
Capì, prima di molti altri, che la vita in un clima costante di violenza, di occupazione, di terrore, di ansia e di mancanza di speranza, esigeva un prezzo che Israele non avrebbe potuto sostenere. Tutto questo è vero anche oggi, ed è ancora più impellente. Da più di un secolo ormai viviamo in uno stato di conflitto.
Noi, cittadini di questo conflitto, siamo nati nella guerra, siamo stati educati nella guerra e, in un certo senso, siamo stati programmati per la guerra.
Forse per questo pensiamo talvolta che questa follia in cui viviamo ormai da cento anni sia l’unica, vera realtà. L’unica vita destinata a noi e che non abbiamo la possibilità, o forse neppure il diritto, di aspirare a una vita diversa: vivremo e moriremo con la spada e combatteremo per l’eternità.
Forse per questo siamo così indifferenti al totale ristagno del processo di pace. Forse per questo la maggior parte di noi ha accettato con indifferenza il rozzo calcio sferrato alla democrazia dalla nomina di Avigdor Lieberman a ministro, un potenziale piromane posto a capo dei servizi statali responsabili di spegnere gli incendi.
Questi sono anche, in parte, i motivi per cui, in tempi brevissimi, Israele è precipitato nell’insensibilità, nella crudeltà, nell’indifferenza verso i deboli, verso i poveri, verso chi soffre, verso chi ha fame, verso i vecchi, i malati, gli invalidi, il commercio di donne, lo sfruttamento e le condizioni di schiavitù in cui vivono i lavoratori stranieri e verso il razzismo radicato, istituzionale, nei confronti della minoranza araba.
Quando tutto questo accade con totale naturalezza, senza suscitare scandali né proteste, io comincio a pensare che anche se la pace giungerà domani, anche se un giorno torneremo a una situazione di normalità, abbiamo forse già perso l’opportunità di guarire.
La tragedia che ha colpito me e la mia famiglia non mi concede privilegi nel dibattito politico ma ho l’impressione che il dover affrontare la morte e la perdita di una persona cara comporti anche una certa lucidità e chiarezza di vedute, per lo meno per quanto riguarda la distinzione tra ciò che è importante e ciò che è secondario, tra ciò che è possibile ottenere e ciò che è impossibile. Tra la realtà e il miraggio.
Ogni persona di buon senso in Israele - e aggiungo, anche in Palestina - sa esattamente quale sarà, a grandi linee, la soluzione del conflitto tra i due popoli. Ogni persona di buon senso è anche consapevole in cuor suo della differenza tra sogno e aspirazione e ciò che è possibile ottenere alla fine di un negoziato.
Chi non lo sa, arabo o ebreo che sia, non è già più un possibile interlocutore, è prigioniero di un fanatismo ermetico e non è quindi un possibile partner. Consideriamo un attimo il nostro partner. I palestinesi hanno scelto come loro guida Hamas che rifiuta di negoziare con noi e di riconoscerci.
Cosa si può fare in una situazione simile? Cos’altro ci rimane da fare? Continuare a soffocarli? A uccidere centinaia di palestinesi a Gaza, per la maggior parte semplici cittadini come noi?
Si rivolga ai palestinesi, Signor Olmert. Si rivolga a loro al di sopra delle teste di Hamas. Si appelli ai moderati, a chi si oppone, come lei e me, a Hamas e alla sua strada. Si appelli al popolo palestinese. Non si ritragga dinanzi alla sua ferita profonda, riconosca la sua continua sofferenza. Lei non perderà nulla, e neppure Israele, in un futuro negoziato. Solo i cuori si apriranno un poco gli uni agli altri, e questa apertura racchiuderà in sé una forza enorme. In una simile situazione di immobilità e di ostilità la semplice compassione umana possiede la forza di una cataclisma naturale.
Per una volta tanto guardi i palestinesi non attraverso il mirino di un fucile o da dietro le sbarre chiuse di un check point. Vedrà un popolo martoriato non meno di noi. Un popolo conquistato, oppresso e senza speranza.
È ovvio che anche i palestinesi sono colpevoli del vicolo cieco in cui ci troviamo. È ovvio che anche loro sono ampiamente responsabili del fallimento del processo di pace. Ma li guardi un momento con occhi diversi. Non solo gli estremisti fra loro. Non solo chi ha stretto un patto di interesse con i nostri estremisti. Guardi la maggior parte di questo povero popolo il cui destino è legato al nostro, che lo si voglia o no.
Si rivolga ai palestinesi, signor Olmert, non continui a cercare ragioni per non dialogare con loro. Ha rinunciato all’idea di un nuovo ritiro unilaterale, e ha fatto bene. Ma non lasci un vuoto che verrebbe immediatamente colmato dalla violenza e dalla distruzione. Intavoli un dialogo. Avanzi una proposta che i moderati (e fra loro sono più di quanto i media ci mostrino) non possano rifiutare. Lo faccia, in modo che i palestinesi possano decidere se accettarla o se rimanere ostaggi dell’Islam fanatico. Presenti loro il piano più coraggioso e serio che Israele è in grado di proporre. La proposta che agli occhi di ogni israeliano e palestinese sensato contenga il massimo delle concessioni, nostre e loro.
Non stia a discutere di bazzecole. Non c’è tempo. Se tentennerà, fra poco avremo nostalgia del dilettantismo del terrorismo palestinese. Ci batteremo il capo urlando: come abbiamo potuto non fare ricorso a tutta la nostra elasticità di pensiero, a tutta la creatività israeliana, per strappare i nostri nemici dalla trappola in cui si sono lasciati cadere?
Proprio come ci sono guerre combattute per mancanza di scelta, c’è anche una pace che si rincorre per "mancanza di scelta". Non abbiamo scelta, né noi né loro. E dobbiamo aspirare a questa pace forzosa con la stessa determinazione e creatività con cui partiamo per una guerra forzosa. Perché non c’è scelta e chi ritiene che ci sia, che il tempo giochi a nostro favore, non capisce i processi pericolosi in cui già ci troviamo.
E più in generale, signor Primo Ministro, forse dovremmo rammentarle che se un qualsiasi leader arabo invia segnali di pace - anche impercettibili e titubanti - lei ha il dovere morale di rispondere. Ha il dovere di verificare immediatamente l’onestà e la serietà di quel leader. Deve farlo per coloro ai quali chiede di sacrificare la vita nel caso scoppi una nuova guerra.
E quindi, se il presidente Assad dice che la Siria vuole la pace - per quanto lei non gli creda e tutti noi nutriamo sospetti nei suoi confronti - deve offrirgli di incontrarlo subito. Senza aspettare nemmeno un giorno. In fondo, non ha aspettato nemmeno un’ora a dare inizio all’ultima guerra. Si è lanciato nell’offensiva con tutte le sue forze. Con tutte le armi a disposizione e tutta la loro potenza distruttiva.
Allora perché quando c’è un segnale di pace lei si affretta a respingerlo, a lasciarlo svanire? Cos’ha da perdere? Nutre forse dei sospetti nei confronti del presidente siriano? Allora gli presenti delle condizioni tali da rivelare la sua macchinazione. Gli proponga un processo di pace che duri qualche anno e alla fine del quale, se tutte le condizioni e le restrizioni verranno rispettate, gli verranno restituite le alture del Golan. Lo costringa al dialogo. Agisca in modo che nella coscienza del popolo siriano si delinei anche questa possibilità. Dia una mano ai moderati, che sicuramente esistono anche lassù. Cerchi di plasmare la realtà, non di esserne solo un collaborazionista. È stato eletto per questo. Esattamente per questo.
E in conclusione. È ovvio che non tutto dipende da noi e ci sono forze grandi e potenti che agiscono in questa regione e nel mondo e alcune di loro - come l’Iran e come l’Islam radicale - non hanno buone intenzioni nei nostri confronti. Eppure molto dipende da come agiremo noi, da ciò che saremo. Attualmente non esiste grande disparità tra la sinistra e la destra.
La stragrande maggioranza degli israeliani capisce ormai - per quanto alcuni senza troppo entusiasmo - quale sarà a grandi linee la soluzione del conflitto: questa terra verrà divisa, sorgerà uno stato palestinese. Perché, quindi, continuare a sfibrarci in una querelle intestina che dura da quasi quarant’anni?! Perché la dirigenza politica continua a rispecchiare le posizioni dei radicali e non quelle della maggior parte degli elettori?
Dopo tutto la nostra situazione sarebbe migliore se raggiungessimo un’intesa nazionale prima che le circostanze - pressioni esterne, una nuova Intifada o una nuova guerra - ci costringano a farlo. Se lo faremo risparmieremo anni di versamenti di sangue e di spreco di vite umane. Anni di terribili errori.
Mi appello a tutti, ai reduci dalla guerra che sanno che dovranno pagare il prezzo del prossimo scontro armato, ai sostenitori della destra, della sinistra, ai religiosi e ai laici: fermatevi un momento, guardate l’orlo del baratro, pensate a quanto siamo vicini a perdere quello che abbiamo creato.
Domandatevi se non sia arrivata l’ora di riscuoterci dalla paralisi, di fare una distinzione tra ciò che è possibile ottenere e ciò che non lo è, di esigere da noi stessi, finalmente, la vita che meritiamo di vivere.
(Traduzione di Alessandra Shomroni)
Sul tema, nel sito, si cfr.:
RIPARARE IL MONDO. LA CRISI EPOCALE DELLA CHIESA ’CATTOLICA’ E LA LEZIONE DI SIGMUND FREUD.
Lo scrittore israeliano, i suoi viaggi e il suo impegno per il dialogo
Il mondo non è un nemico
Grossman: "Così ho vinto la paura dell’altro"
Mi piace il cambiamento, il movimento rapido Viaggiare ti porta a vivere nuove realtà
Bisogna avere il coraggio di capire, bisogna non temere di andare nei posti più dolorosi
di Alberto Stabile (la Repubblica, 19.10.2009)
GERUSALEMME. David Grossman, la trama di A un cerbiatto somiglia il mio amore è incentrata su un viaggio in Galilea. In altri suoi lavori compare il tema del viaggio.
Che cosa rappresenta per lei? È una fuga dalla realtà o un incerto percorso verso una migliore conoscenza dell’altro e di se stesso?
«Un viaggio non è mai una fuga, penso piuttosto che ti costringa ad affrontare nuove realtà, nuove persone, evochi nuovi elementi dentro di te. Mi piace il cambiamento, il movimento rapido. Il viaggiare è un continuo porsi delle domande, perché in un viaggio le condizioni cambiano ogni momento, non sei preparato. Ricordo quando camminavo in Galilea... Non avevo mai fatto prima una cosa del genere, camminare da solo, e per così grandi distanze. Ho subito capito che il viaggio mi aveva cambiato: il fatto stesso che fossi stato in grado di farlo, la gente che ho incontrato, le mie conversazioni con loro, essere attento a cose a cui prima non ero sensibile, come fiori, animali, odori, colori... Tutte queste cose mi erano completamente nuove».
Quando lei dice che un viaggio non è mai una fuga è perché, in fondo, si parte sempre per ritornare?
«Forse all’inizio si tratta sì di una fuga da qualcosa, ma pensi al profeta Giona, nella Bibbia. Lui scappava, voleva scappare dalla profezia che Dio gli aveva imposto, ma immediatamente si è trovato in una situazione così diversa e così tanto più drammatica di quella da cui stava fuggendo. Sto pensando ad altri libri che ho scritto e che sono anche libri "che corrono". Il primo libro che ho pubblicato in ebraico si chiamava Ratz, L’uomo che corre, e in Vedi alla voce: amore vi è anche il viaggio dei salmoni nel mare. So di avere questa duplicità in me, perché di solito la mia esistenza è composta da situazioni molto "passive": posso stare seduto delle ore e scrivere, poi, all’improvviso sento la necessità di movimento, e il bisogno di uscire, di incontrare gente e di espormi al mondo».
È una necessità sia fisica che psicologica?
«Penso di sì, anche se la gran parte della mia ispirazione mi viene quando sono a casa, seduto nella mia stanza. Non so più dove l’ho letto, penso che sia stato Albert Camus, che una volta disse che se una persona fosse stata a contatto con il mondo per un giorno e poi in seguito fosse stato imprigionato per il resto della sua vita, avrebbe avuto comunque abbastanza materia da masticare, da digerire».
Esiste in letteratura un viaggio che le ha lasciato un segno?
«Non so. Da bambini, ovviamente, abbiamo tutti letto Jules Verne, ma da adulto... mi ricordo del libro di Xavier de Maistre, un savoiardo vissuto nel Regno di Sardegna nel XVIII secolo, che fu rinchiuso nella sua stanza per 42 giorni e scrisse un libro meraviglioso, intitolato Viaggio intorno alla mia camera. Se una persona è abbastanza aperta di mente, non ha bisogno di molte attrattive esterne. Posso pensare inoltre all’Odissea, al ritorno a casa, a Itaca. Mi chiedo quanto della cultura occidentale sia influenzata dalle storie di Agamennone e della Guerra di Troia, di Giasone e degli Argonauti, e ovviamente di Ulisse. Anche l’Ulisse di Joyce è un viaggio. E quanto gli scrittori abbiano viaggiato, fra l’altro molti di loro proprio in Italia. Sto pensando ai viaggi in Italia di Goethe, di Thomas Mann, di Virginia Wolf...».
È vero, l’Italia è uno dei paesi più visitati del mondo, ma Gerusalemme non è da meno.
«Sì, Gerusalemme è come una calamita. Vi sono diverse città nel mondo che sono come un magnete e penso che questi siano luoghi che, quando li visiti, ti cambiano qualcosa dall’interno. L’ho sentito quando sono stato a Praga, che qualcosa dentro di me era cambiato. E lo stesso mi è successo al Cairo».
In che senso, esattamente?
«Sono arrivato in un paese che era stato un nemico. Avevo preso parte alla guerra contro l’Egitto (Guerra del Kippur, ottobre 1973, ndr), e all’improvviso mi sono ritrovato in un paese di cui avevo solo una conoscenza superficiale e dei pregiudizi. E mi sono trovato all’improvviso a camminare per le strade, a guardare le facce della gente e vedere la quotidianità della loro vita, la loro normalità».
Che cosa l’ha impressionata, la folla del Cairo?
«La folla, questa enorme quantità di persone che si muove come un fiume, tutto il tempo, giorno e notte, e questa mistura tra una cultura molto antica, gloriosa con i suoi faraoni e le sue piramidi e la povertà di oggi. È stata un’emozione molto forte».
C’è un luogo dove non è stato e che vorrebbe vedere presto?
«Damasco è un posto del genere. Circa venti anni fa, quando fu pubblicato in inglese il mio libro Un popolo invisibile, mi telefonò il vice direttore del National Geografic e mi disse: "Abbiamo letto il suo libro e siamo pronti a mandarla dovunque lei voglia" e io risposi immediatamente: "A Damasco". Rimase sorpreso e mi chiese: "Perché Damasco?". Gli risposi: "Perché Damasco mi fa paura"».
Perché paura?
«Perché da quando sono nato sono stato programmato a vedere nei siriani i nostri nemici più feroci. Sapevo che se fossi andato in un posto da cui ero così terrorizzato e mi fossi concesso la possibilità di "essere là" completamente, di vedere la complessità della situazione, mi avrebbe spinto con forza a scrivere di tutto ciò, avrebbe creato in me qualcosa di nuovo. Normalmente, quando scrivo, "vado" in posti che mi spaventano, tocco sempre temi che mi sono difficili, minacciosi. In quasi tutti i miei libri da Vedi alla voce: amore, con l’incubo della Shoah, o Il libro della grammatica interiore, in cui ero così ossessionato, per anni, dalle questioni del corpo e da come noi dobbiamo adattarci al nostro corpo, che non abbiamo scelto...».
E c’è un posto dove è stato e in cui non vorrebbe mai più tornare?
«No. Forse dovrei spiegare una cosa: mi hanno cresciuto facendomi credere che tutto il mondo era un nemico. Sono stato un bambino nell’Israele degli anni Cinquanta ed è così che la nostra generazione è stata cresciuta, con questo messaggio: "Il mondo è un nemico, stai attento, sii sospettoso. La gente tenterà di imbrogliarti, di manipolarti". I nostri genitori ci hanno davvero avvolti nella bambagia, hanno tentato di tenerci molto vicini a loro, cosa perfettamente comprensibile, se si pensa alla loro esperienza negli anni Quaranta. Da quando però ho cominciato a viaggiare per il mondo, ho scoperto l’esatto opposto. Ovviamente, qua e là si possono trovare imbroglioni o cattivi soggetti, ma più vado nel mondo e più ci vado disarmato, deliberatamente, e più incontro gente e ci parlo, più la mia impressione è l’esatto contrario. Persino in questo viaggio a piedi in Galilea, in cui ho camminato da solo. Di solito incontravo gente che andava in coppia o in piccoli gruppi, al massimo di una decina di persone. La maggioranza della gente che camminava allora, parlo di sei anni fa, in quella parte di Israele, erano coloni. Hanno questa ideologia. Mi dicevano: "I vostri figli vanno in esplorazione in Sud America, noi esploriamo il nostro Paese". Penso che in qualsiasi altro contesto io e loro ci fossimo incontrati, la cosa si sarebbe sviluppata in una lite, in uno scontro. Trovandoci nella natura, incontrandoci nella natura, con la generosità della natura...».
La natura ha mitigato gli animi, ha fatto da mediatore?
«Sì, e la gente ha davvero parlato con me».
Da Il vento giallo a Vedi alla voce: amore, dai racconti per bambini ad A un cerbiatto somiglia il mio amore sembra che lei abbia compiuto un lungo percorso. Come riassumerebbe il suo viaggio personale di scrittore?
«È una domanda molto seria. È il coraggio di capire. Capire altra gente, tentare di vedere la realtà attraverso gli occhi di altre persone, diverse da me e alle volte persino miei nemici, che mi possono sfidare o essere pericolose per me. Tentare di osservare la realtà da quanti più possibili punti di vista. È non temere di andare in posti che possano fare paura, o che possano essere molto dolorosi, o addirittura nei posti più dolorosi».
Israele, con Netanyahu la pace è impossibile
I coloni e gli arabi
"Noi, incapaci di fare la pace questo ci ha detto Netanyahu"
"Nel suo discorso nessun riferimento ai sacrifici da fare"
Ha parlato senza onestà, non ha guardato i coloni negli occhi dicendo loro ciò che lui ben sa
Doveva rivolgere un appello agli arabi, lanciare loro una sfida da raccogliere
di David Grossman (la Repubblica. 18.06.2009)
Il discorso di Benyamin Netanyahu è stato, come talvolta si suol dire, il discorso di una vita. Della nostra vita arenata, priva di speranze.
Ancora una volta la maggior parte degli israeliani può raccogliersi intorno a quella che sembra essere una proposta audace, generosa, ma che, al solito, è un compromesso tra i timori, il lassismo, e la magnanimità ipocrita del centro che sta "un po’ a destra e un po’ a sinistra". Ma quanto è grande la distanza tra tutto questo e la dura realtà, tra tutto questo e le legittime necessità, le giuste pretese dei palestinesi, accolte oggi dalla maggior parte del mondo, Stati Uniti compresi.
Ora, dopo che ogni parola del discorso è stata analizzata e soppesata, vale la pena di fare un passo indietro e osservare l’intera rappresentazione, l’intero quadro. Ciò che il discorso di Netanyahu ha rivelato, al di là di funambolismi ed equilibrismi, è la nostra impotenza, l’inanità di noi israeliani dinanzi a una realtà che esige flessibilità, audacia e lungimiranza. Se distogliamo lo sguardo da quella abile allocuzione e lo rivolgiamo agli ascoltatori, vedremo con quale entusiasmo costoro si barricano nelle proprie paure, avvertiremo il dolce deliquio provocato in loro dai palpiti di nazionalismo, di militarismo, di vittimismo: cuore vivo dell’intera concione.
All’infuori dell’accettazione del principio di due stati, spremuta a Netanyahu dopo grandi pressioni ed espressa in tono acido, in questo discorso non è stato compiuto alcun passo concreto verso un vero cambiamento di coscienza. Netanyahu non ha parlato «con onestà e coraggio», come promesso, di quanto siano rovinosi gli insediamenti e ostacolo alla pace. Non ha guardato i coloni negli occhi dicendo loro ciò che lui ben sa: che la topografia degli insediamenti è in contraddizione con quella della pace, che molti di loro saranno costretti a lasciare le loro case. Netanyahu era tenuto a dirlo. Non avrebbe per questo perso punti in un futuro negoziato con i palestinesi: ne avrebbe permesso l’avvio. Era tenuto a parlare a noi israeliani come a degli adulti, non avvolgerci in strati di coibente per proteggerci da fatti noti a tutti. Doveva parlare apertamente e dettagliatamente dell’iniziativa araba, indicare i punti che Israele è disposto ad approvare e quelli che non può accettare. Doveva rivolgere un appello agli arabi, lanciare loro una sfida che avrebbero potuto raccogliere, e avviare così un processo vitale per Israele. Per lunghi minuti si è invece dilungato sulle promesse e sulle garanzie che Israele deve ottenere dai palestinesi, ancor prima di iniziare un negoziato. Non ha accennato ai rischi che lo stato ebraico deve correre se vuole ottenere la pace. Non ha convinto di essere veramente intenzionato a lottare per la pace. Non si è posto a capo di Israele per guidarlo verso un nuovo futuro. Si è limitato a echeggiare noti timori.
Ho visto Netanyahu e l’impressionante percentuale di consensi da lui ottenuti dopo il discorso e ho capito quanto siamo lontani dalla pace. Quanto l’abilità, il talento, la saggezza di concludere la pace si siano allontanati da noi (e forse si siano atrofizzati in noi) così come lo stimolo salutare di salvarci dalla guerra. Ho visto il mio primo ministro impegnato in uno spettacolo acrobatico a labbra strette, in un’esibizione raffinata di rifiuto, di voluta cecità. Ho visto come funziona in lui quel meccanismo automatico che trasforma "un tentativo balbettato di parlare di pace" in un ben articolato auto-convincimento di essere condannati a finire per l’eternità trafitti da una spada. Ho visto e ho capito che da tutto ciò non avremo la pace.
Ho notato anche come gli esponenti palestinesi hanno reagito al discorso di Netanyahu e ho riflettuto che pure loro sono nostri partner fedeli in questo percorso di annichilimento e di fallimento. La loro reazione avrebbe potuto essere più saggia e avveduta del discorso stesso; avrebbero potuto persino aggrapparsi alla disdegnosa concessione fatta loro, controvoglia, da Netanyahu e sfidarlo ad avviare un negoziato, come da lui proposto all’inizio del discorso. Un negoziato durante il quale esiste una qual certa possibilità che le due parti discendano dall’alto dei loro vacui proclami e tocchino il terreno della realtà. E forse anche la terra promessa.
Ma i palestinesi, intrappolati come noi in un meccanismo di reazione belligerante e antagonista, hanno preferito parlare dei mille anni che trascorreranno prima che accettino le condizioni poste da Netanyahu.
Questo è il discorso di Netanyahu e questo è ciò che hanno rivelato le sue parole: anche se la maggior parte degli israeliani vuole la pace, probabilmente non è più in grado di raggiungerla. Ci possiamo persino chiedere se noi, israeliani e palestinesi, comprendiamo veramente e profondamente il significato della pace, come potrebbe essere una vita pacifica. E subito sorge la domanda se una speranza di vera pace ancora esiste nella nostra coscienza. Perché se questo non è il caso (e il discorso di Netanyahu l’ha chiarito in modo quasi imbarazzante) non avremo modo di concludere un accordo e, per quanto ciò suoni strano, non siamo nemmeno incentivati a farlo.
Il discorso di Netanyahu, che doveva elevarsi verso il nuovo spirito diffuso nel mondo dal presidente Obama, ci dice, tra le sue righe tortuose, che questa regione conoscerà la pace solo se questa ci verrà imposta. Non è facile ammetterlo, ma si ha sempre più l’impressione che sia questa la scelta davanti alla quale si troveranno israeliani e palestinesi: una pace giusta e sicura imposta alle parti da un fermo intervento internazionale, capitanato dagli Stati Uniti; oppure la guerra, che potrebbe rivelarsi più cruenta e amara delle precedenti. (Traduzione Alessandra Shomroni)
Il diritto all’esistenza
di Moni Ovadia (L’Unità, 16.06.2007)
La distorsione e la manipolazione delle parole e del pensiero altrui sono un vecchio sport a cui si dedica chi non è in grado di misurarsi criticamente con opinioni diverse dalle sue. E, a volte, questo sport assume i connotati di vera e propria possessione. Giorni fa un conoscente israeliano mi ha telefonato per chiedermi se io avessi dichiarato nel corso di un dibattito radiofonico che non avrei mai detto: «viva Israele», intendendo che io rifiutassi di augurare vita allo Stato d’Israele e alla sua gente. Sono rimasto interdetto e gli ho risposto che ciò che gli avevano riferito era una solenne idiozia.
Uno dei tanti “invasati per Israele”, un Hezbollah del “sionismo” aveva distorto il senso di una mia affermazione nel corso di un pacato e civile dibattito sul libro di Magdi Allam «viva Israele!» a cui ho partecipato insieme all’autore e a Fuad Allam, deputato dell’Ulivo, sociologo del mondo arabo e corsivista de la Repubblica. In quell’occasione dissi che non avrei scritto un libro simile, perché sostiene tesi sbilanciate che non condivido e perché quel titolo da tifo sportivo o da ideologia politica che rimanda ad altri tempi, non favorisce il dialogo e la pace. Non mi sono mai sognato di mettere in discussione il diritto di Israele all’esistenza e alla piena sicurezza, né di augurare del male a quel Paese e alla sua gente non solo per ragioni personali e affettive, ma anche e soprattutto per ragioni attinenti al diritto internazionale che si chiamano diritto all’autodeterminazione dei popoli e legalità internazionale ossia le risoluzioni dell’Onu.
Mi batterei con tutte le forze per impedire la distruzione di Israele come quella di qualsiasi altro popolo e Paese. Ma agli Hezbollah dell’ “ebraismo” non importa di quali siano le vere opinioni di coloro che criticano la politica dei governi israeliani in merito all’occupazione e la colonizzazione e denunciano l’immane tragedia del popolo palestinese. Costoro non vogliono discutere, hanno già deciso che quelli come me sono antisemiti, ebrei che odiano se stessi, seminatori di odio. I giudici autonominatisi del bene d’Israele in realtà, quando non sono agiti da turbe della sfera emotiva, sono esimi esponenti di una mentalità fascista o stalinista che considera i critici e gli avversari orridi nemici da estirpare.
Oggi comunque il problema è che se c’è una identità che rischia un cancellazione reale questa è quella palestinese. Ci si sono messi in tanti a congiurare perché i palestinesi arrivassero sull’orlo dell’abisso: molti dei governi israeliani come quello attuale, con politiche miranti a mantenere lo status quo dell’occupazione, con lo stillicidio della colonizzazione, con l’umiliazione sistematica di Abu Mazen celebrato come interlocutore affidabile solo per raggirarlo meglio, con la pratica degli omicidi mirati il cui esito è stato quello di fomentare de facto la conflittualità fra le fazioni palestinesi. Non pochi dei governi arabi che hanno avvolto in un polverone di retorica e strombazzamenti bellicosi la finta solidarietà, maschera di un boicottaggio, ovvero nessun vero atto politico per dare futuro ad uno Stato palestinese laico democratico.
E, last but not least, il teatrino dell’imbelle e ipocrita comunità internazionale, a partire dagli Usa con gli chiffon de papier della sua penosa road map, per finire con la Ue che tradisce l’esemplare lezione di democrazia delle libere e corrette elezioni palestinesi con una punizione che lungi da indebolire l’ala militare di Hamas l’ha resa sempre più forte, togliendo ogni legittimità al democratico Abu Mazen e vessando ulteriormente i già vessati cittadini più poveri ed indifesi dei Territori.
Esiste ovviamente anche una responsabilità dei palestinesi. In un simile contesto i peggiori e i più violenti esponenti di ciascuna fazione hanno preso il sopravvento contro il proprio infelice popolo. Probabilmente gli Hezbollah del “sionismo” gioiranno nel vedere che i palestinesi si fottono da soli. Ma se si illudono che da questo vergognoso scenario uscirà un rafforzamento della sicurezza di Israele o sono privi di senno o ci fanno. La sicurezza autentica non germina dalla prevaricazione immorale, la sicurezza e la dignità dell’esistenza si riverberano solo nella sicurezza e nella dignità dell’altro. Malatempora
Le parole di Grossman e il coraggio della pace
di Moni Ovadia *
Ho aderito alla manifestazione per la pace che si terrà oggi a Milano e vi parteciperò personalmente. Le mie ragioni, nell’ordine, sono queste: fine dell’occupazione e della colonizzazione delle terre palestinesi, compresa Gerusalemme est, concordata nei tempi e nei modi dalle due parti con pari dignità e sotto l’egida delle istituzioni della comunità internazionale, cessazione delle ostilità in ogni forma, garantita dall’interposizione di una forza di pace sotto le bandiere dell’Onu, trattativa con tutte le parti in causa del conflitto medio orientale nel quadro di una conferenza internazionale, creazione dello Stato Palestinese con massicci investimenti culturali, sociali ed economico-finanziari per riattivare il circuito virtuoso dello sviluppo, pace definitiva nel quadro della riconosciuta esistenza e piena sicurezza di ogni paese dell’area.
Ritengo che questo sia l’ordine logico in cui procedere. Non è sensato chiedere alla dirigenza sotto assedio o in prigione, di un popolo ridotto in condizioni disperate, che vive sotto occupazione, colonizzato ed imprigionato, di assumersi responsabilità definitive. Ma se qualcuno sapesse arrivare agli stessi risultati per altre vie riceverebbe ugualmente la mia approvazione e, verosimilmente, quella di quanti in tutto il mondo si battono per vedere la fine dello spargimento di sangue, delle violenze e dell’ingiustizia, in quelle terre martoriate. Fatta questa premessa, è molto importante a mio parere fare chiarezza su alcuni punti chiave. Se qualcuno intende trasformare questa occasione in una dimostrazione contro Israele tout court, mi dissocerò da chiunque lo faccia.
Io manifesto aspramente contro la politica del governo israeliano, non contro lo Stato d’Israele e tanto meno contro il suo popolo. Ripudio sin d’ora qualsiasi forma di violenza, pratica o simbolica, tipo il rogo delle bandiere, che trovo stupida, indegna, controproducente, figlia di una logica narcisistica e non politica. Non mi farò tuttavia intimidire dalle eventuali reprimende o criminalizzazioni di chi strumentalizza i gesti violenti per liquidare un intero movimento e continuerò con tutte le mie forze a sostenere le ragioni della pace.
Sarò con i suoi stendardi come essere umano universale, come cittadino italiano e come ebreo. Come essere umano universale perché la pace è la più grande delle benedizioni che l’umanità possa ricevere, come cittadino italiano in piena sintonia con la nostra mirabile Costituzione ed in questo momento con l’ottima azione diplomatica del nostro governo rappresentato egregiamente dal ministro degli Esteri Massimo D’Alema, di D’Alema condivido anche la sollecitazione rivolta agli ebrei democratici ad unirsi all’appello dello scrittore israeliano David Grossman e trovo le critiche rivoltegli da molti esponenti della comunità ebraica ingenerose e surrettizie, segno di una iper reattività immotivata e un po’ sterile.
Come ebreo sfilerò perché l’amore per l’altro e particolarmente per lo straniero è l’humus fondante di tutta l’etica che promana dalla Torah e perché, senza l’afflato universalista e la passione per l’accoglimento dell’alterità nelle forme più alte della giustizia, l’intero ebraismo regredisce ad un pensiero tribale.
La pace è l’imperativo categorico che fa uscire il nostro simile dalle tenebre del non uomo, la pace in Medio Oriente unisce ai valori intrinseci propri di ogni pace un significato simbolico dirompente di cui oggi abbiamo grande bisogno per riprendere il cammino a fianco dei nostri fratelli dell’Islam.
* www.unita.it, Pubblicato il: 18.11.06 Modificato il: 18.11.06 alle ore 10.44
Gaza: attacco dei carri israeliani oltre venti morti a Beit Hanun *
GAZA - Almeno 15 palestinesi sono rimasti uccisi nel bombardamento israeliano su Beit Hanun, nel nord della Striscia di Gaza. Lo riferiscono fonti locali. I feriti accertati sono decine.
Secondo l’ex ministro palestinese Sufian Abu Zaida le vittime, alla fine, potrebbero essere "fra 20 e 30". La popolazione di Gaza - ha detto Abu Zaida alla radio militare israeliana - sta andando negli ospedali per donare sangue.
Secondo Abu Zaida, verso le sei di mattina un colpo di cannone è caduto presso una casa di Beit Hanun. Subito dopo la popolazione è scesa in strada per accertarsi dell’accaduto e per assistere eventuali feriti, e sulla folla sono caduti altri colpi di cannone sparati dai carriarmati.
Intervistato dalla radio militare, il viceministro della difesa Efraim Sneh ha detto che l’esercito israeliano "sta verificando l’accaduto".
(08-11-2006)