Il grande saccheggio,
La denuncia dello storico Bevilacqua
Cultura, un disastro annunciato
di Piero Bevilacqua (il Fatto, 22.01.2011)
La gioventù colta che oggi esce dalle nostre università, che ha in tasca dottorati di ricerca, master, PhD, vive oggi in Italia una vita grama. Essa viene tenuta fuori dalle università, dal Cnr, e dai centri di ricerca privati che in Italia, com’è noto, sono poca cosa.
Simili a merce sovrabbondante e inutile i nostri giovani laureati sono lasciati nel buio dei “depositi” per mancanza di mercato. Si attende che da un momento all’altro arrivi lo sviluppo e li metta all’opera.
Ma l’idea che oggi bisogna attendere lo sviluppo, la crescita dell’economia, per dare lavoro a queste figure, per valorizzare la loro cultura e le loro competenze, appartiene, con ogni evidenza, all’ambito delle non poche superstizioni che annebbiano la mente dei nostri contemporanei. Al contrario, anche per tali figure, si impone una progettualità politica articolata se non si vuole che un’intera generazione veda del tutto sprecata la sua formazione, le sue competenze , gli sforzi economici delle famiglie e dello Stato, la sua stessa vita.
E QUI UN CETO politico capace di pensare avrebbe materia su cui esercitarsi. Se si riflettesse sulla collocazione che nella geografia economica internazionale, e perfino nell’immaginario, l’Italia ha ormai assunto - come paese della bellezza artistica, del bel paesaggio, della musica, della cultura umanistica - una classe dirigente degna di questo nome investirebbe molto in quest’ambito.
E invece, proprio in questa sfera, i segnali, negli ultimi anni, mostrano una persistente bonaccia. Anzi si assiste spesso a una evidente regressione. Ad esempio, si lasciano le soprintendenze sotto organico, non si assumono giovani, si lesinano investimenti, come Salvatore Settis va denunciando solitariamente ormai da anni.
Eppure c’è tanto lavoro potenziale in campo artistico e culturale per la nostra gioventù. Anche se alcune occupazioni potrebbero rivelarsi solo temporanee, si garantirebbe un grande impulso alla valorizzazione del nostro patrimonio. Si pensi a quanto utile impiego potrebbero essere destinate l’intelligenza e le competenze dei nostri ragazzi nella catalogazione dei beni artistici e culturali, nei musei, nelle città, nel territorio.
Oggi quanti reperti, ammassati nei depositi, attendono di essere catalogati, e potrebbero dar vita a mostre temporanee in giro per l’Italia? Quanta produzione filmica promozionale - ad esempio con la creazione di dvd - si potrebbe realizzare sulle nostre bellezze, artistiche, naturali, paesaggistiche, da far conoscere in giro per il mondo? Anche nel campo della digitalizzazione dei beni documentari e librari si potrebbe fare tanto, visto l’immenso patrimonio archivistico e bibliotecario di cui godiamo.
Quante utili risorse finanziarie potrebbero rientrare nel nostro paese grazie alla possibilità di far utilizzare a distanza i nostri preziosi documenti d’archivio, i nostri testi, facendo risparmiare a migliaia di studiosi sparsi per il mondo la spesa e il peso di un viaggio?
Ma sono l’università e il mondo della ricerca il luogo centrale per l’occupazione e la valorizzazione della gioventù colta. E qui, davvero l’Italia mostra tutti i drammatici segni di un ventennio di inettitudine del suo ceto politico. E soprattutto indica la sua incapacità di utilizzare le sue stesse risorse intellettuali nella fase della loro maggiore creatività, quando cioè esse sono in grado di fornire i migliori contribuiti al paese che le ha formate.
I dati che poco tempo fa ha illustrato Massimo Livi Bacci, non lasciano spazio alle repliche. Nell’ultimo ventennio l’invecchiamento all’interno dell’università italiana è stato impressionante. La percentuale del corpo docente al di sotto dei 45 anni si è dimezzata, passando dal 60% al 32% del totale. Nel frattempo è quasi triplicata quella al di sopra dei 55 anni, passando dal 15 al 41%. Nel 2005, su 60 mila persone, appena 4000 avevano meno di 35 anni, mentre oltre 6000 ne avevano più di 65. In vent’anni la percentuale con meno di 35 anni si è dimezzata, e se ne è formata una pari con oltre 55 anni.
A questa drammatica senescenza il governo sta rispondendo da quando è in carica, vale a dire dal 2008, con una politica di annientamento dell’università pubblica. Si tagliano pesantemente, di anno in anno, le dotazioni finanziarie e si concede alle facoltà di assumere un ricercatore ogni 5 docenti che vanno in pensione. Nel giro di 5 o 6 anni molte grandi facoltà, soprattutto umanistiche - quelle da cui sono usciti i nostri maggiori intellettuali, figure fondamentali delle nostre classi dirigenti - saranno prive di docenti, ridotte a dimensioni insignificanti sia sotto il profilo didattico, che scientifico. Il silenzio, o il sommesso brusio, delle forze intellettuali, del ceto politico, del mondo imprenditoriale, dei media, dello stesso corpo accademico a noi appare forse come il segno più inquietante di un paese che ha scelto consapevolmente di mettersi da parte, di stare fuori dalla scena del mondo nel prossimo futuro.
NESSUNO lancia l’allarme sulla distruzione che sta avanzando? Nessuno si chiede dove andremo senza ricerca, impoverendo le nostre università, preparando sempre meno laureati, e sempre meno all’altezza dei bisogni di conoscenza della nostra epoca? Diciamo la verità. Non colpisce tanto il balbettio del ceto politico, qualunque sia la sua collocazione di schieramento. Su di esso abbiamo già detto quanto era sufficiente dire. Ma davvero stupisce il silenzio del mondo delle imprese. O forse è la nostra ingenuità la causa dello stupore, fondato sull’illusione che gli imprenditori italiani abbiano qualche idea sul futuro industriale dell’Italia oltre la scadenza del prossimo mese?
Il ridimensionamento delle università nella vita italiana non è certo questione che attiene agli schieramenti politici. Esso corrisponde alla scelta strategica di un ridimensionamento complessivo dell’Italia nel mondo. Senza ricerca scientifica, senza valorizzazione culturale della nostra gioventù, quale può essere l’avvenire economico del nostro paese? Anche a voler ragionare secondo una logica sviluppista - che non ci appartiene e che crediamo ormai senza avvenire - quale posto intende ritagliarsi l’Italia sulla scena economica internazionale? Ci trincereremo nella semplice difesa della nostra industria manifatturiera? Contiamo di vendere scarpe e magliette ai cinesi? O speriamo di fare affari nella speculazione finanziaria internazionale con le nostre banche, mentre l’economia reale si assottiglia?
Benché tutto sembra opporsi al buon senso, all’evidenza di un interesse generale che coinvolge le sorti di un intero, grande paese, noi crediamo che oggi la valorizzazione della nostra gioventù studiosa e colta coincida esattamente con una strategia di protagonismo possibile dell’Italia nel mondo. Oltre che di difesa ed elevazione della nostra civiltà. Il nostro paese godrà di maggior benessere e sicurezza al suo interno, potrà affermare la sua visione di società solidale, la sua identità aperta agli altri se alla nostra gioventù sarà data la possibilità di formarsi e di avere un ruolo di primo piano nella ricerca e nell’insegnamento.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
[...] A chi appartiene la Laguna di Venezia, all’ex sindaco Orsoni, all’ex ministro Galan e ai suoi predecessori o, per caso, agli abitanti di Venezia? Se non altro perché la Laguna, e la stessa città che noi ereditiamo, sono il frutto di un’opera secolare di conservazione, realizzata con ingenti sforzi da innumerevoli generazioni di veneziani. E la Val di Susa - già collegata alla Francia con un ferrovia internazionale, con una autostrada e con altre due strade minori - che si vuole sconvolgere con un tunnel di ben 57 km?
A chi appartiene la Val di Susa, al sindaco di Torino, a Prodi a Berlusconi, al ministro Alfano, che l ‘ha messo sotto assedio con una operazione di guerra di posizione? O non per caso alle popolazioni che da secoli l’hanno resa produttiva contribuendo alla ricchezza nazionale, che l’hanno curata e mantenuta per noi e per le generazioni che verranno? E dov’è il superiore fine nazionale che dovrebbe far tacere i diritti locali?
E il sottosuolo di Firenze, dov’è in corso una dissennata opera di escavazione per costruire una stazione sotterranea destinata alla TAV? Appartiene all’ex sindaco Renzi o agli attuali ministri in carica? E che dire dei costi, che secondo il parere di esperti come Marco Ponti, sono di almeno 4 volte superiori rispetto a una stazione di superficie ? Senza dir nulla dei pericoli di dissesto che corre la città, patrimonio dell’umanità.
Sono affari degli italiani o del ceto politico, alcuni rappresentanti dei quali sono già sotto inchiesta per questi lavori?
* Piero Bevilacqua, L’etica civile delle grandi opere (Eddyburg, 19.06.2014)
I saperi e l’Università
di Piero Bevilacqua *
La riforma Gelmini, definita “epocale” dalla ministra - che evidentemente ha idee confuse su ciò che sono le epoche - divenuta legge, investirà la vita delle Università italiane nei prossimi mesi. Un diluvio di norme e regolamenti da applicare pioverà sugli atenei, proseguendo ed esacerbando le tendenze dell’ultimo decennio, durante il quale “l’innovazione continua” delle cosiddette riforme ha tormentato docenti e studenti, perennemente alle prese con problemi organizzativi e novità procedurali da interpretare. Una pratica che ha assorbito non poco tempo ed energia alle loro ricerche e ai loro studi. Nulla di nuovo, dunque, se non il peggio che prosegue nella sua china, perché la riforma aggiunge un’ulteriore limitazione di risorse e di personale ai vecchi problemi.
Ciò che tuttavia iscrive la nuova legge nel quadro delle ristrutturazioni universitarie della UE è un dato di cui pochi, in verità, si sono occupati. Tutte le riforme dell’ ultimo decennio non si sono neppure interrogate sulla qualità degli insegnamenti che si impartiscono nell’Università. L’unica preoccupazione che ha tenuto desta l’attenzione dei riformatori è stata quella di far corrispondere discipline e insegnamenti alle tendenze del mercato del lavoro. I solerti pedagogisti del capitale non hanno rovelli che per questo. E perciò anche un grande scrupolo nell’emarginare le discipline umanistiche, poco utili a produrre saperi strumentali, immediatamente spendibili nel mercato. Per il resto, nessuno sguardo sugli scenari attuali delle scienze, nessuna messa in discussione dell’esistente, nessun accenno a una possibile “riforma dei saperi” che allarghi gli orizzonti della ricerca e della formazione universitaria.
Qui si può osservare nitidamente la miopia sistemica della cultura capitalistica dell’ultimo trentennio. E’ infatti il caso di ricordare che, mentre le nostre Università si reggono sugli insegnamenti delle vecchie discipline, sulle loro nette separazioni istituzionali - aggiornate nei contenuti da qualche solitario ed eterodosso docente - all’esterno il mondo dei saperi scientifici è stato investito da trasformazioni profonde, in questo caso davvero “epocali”. Si pensi alladiffusione, negli ultimi decenni, dell’ecologia, “la scienza delle relazioni - come scriveva il suo fondatore, Ernst Haeckel - fra le cose viventi e il loro ambiente” Questo nuovo ramo del sapere non è una qualche disciplina specialistica che si viene ad aggiungere a quelle già esistenti. Esso ha letteralmente capovolto uno dei principi costituitivi su cui si e’ fondata e sviluppata l’intera scienza moderna: vale a dire la separazione e l’isolamento dell’oggetto dal suo ambiente, per essere studiato nella sua separata e solitaria struttura.
L’ecologia ha mostrato, al contrario, che i fenomeni si indagano dentro il loro contesto ed ambiente, perché le connessioni, non sono accidenti, ma costituiscono la realtà intima e indisgiungibile degli stessi fenomeni. Possiamo studiare il seme del grano o l’ape in laboratorio, ma la loro vita reale si comprende nell’universo complesso del suolo, oppure tra le piante, i fiori e le altre famiglie degli insetti. La “prima scienza nuova” come Edgar Morin ha definito l’ecologia - con esplicito riferimento al nostro Giambattista Vico - per la prima volta mostra il mondo vivente in cui tutti siamo immersi come una complessa rete di connessioni i cui multiformi equilibri e relazioni costituiscono ciò che noi definiamo natura. Essa disvela, dunque, l’unità e l’interdipendenza di tutti i fenomeni che la scienza moderna aveva frantumato in una moltitudine di specialismi.
Il successo dirompente dell’ecologia che - salvo rari casi -stenta ancora a trovare spazi adeguati nelle aule delle Università, non è solo dovuto alla sua straordinaria fertilità metodologica. Basti pensare alla sua propagazione tra tante discipline tradizionali, dalla biologia alla chimica, dalla fisica alla botanica, o alla “esplosione” di un campo prima ignoto della biologia, come quello della biodiversità. Il suo vero e proprio trionfo è stato decretato da due clamorosi e drammatici fallimenti che la tecnoscienza ha subito nella seconda metà del ’900. Il primo di questi, come tutti sanno, è il « buco dell’ozono”. L’intera vicenda ha mostrato che nessuno dei chimici che avevano creato i gas clorofluorocarburi aveva idea degli equilibri gassosi degli strati alti dell’atmosfera. E di come questi potessero essere gravemente alterati dai gas costruiti in laboratorio. Come apprendisti stregoni che avevano destato potenze infernali, essi hanno dovuto prendere drammaticamente atto dell’esistenza di relazioni invisibili che regolano l’atmosfera in cui dimorano i viventi sul pianeta Terra.
L’altro caso, ben noto, è il riscaldamento globale. Uno degli studiosi più impegnati sul campo, Nicholas Stern, l’ ha definito “il più grave ed esteso caso di fallimento del mercato che si sia mai verificato.” Giudizio certo calzante, ma tutto interno all’economicismo imperante. In realtà, la tardiva scoperta che le attività umane condizionano il clima della Terra costituisce il più grave scacco subito dalla scienza contemporanea. L’incapacità delle discipline dominanti di pensare la Terra come una biosfera, vale a dire come un universo di relazioni il cui equilibrio rende possibile la vita, mostra nitidamente come queste discipline hanno smembrato la natura per dominarla nelle sue singole parti, dimenticando che essa è un tutto. Scoprire, come oggi facciamo, che ciò che immaginavamo come infinitamente lontano e indipendente dalle attività umane, il clima, risente invece dell’azione dei nostri scarichi e dei nostri fumi, disvela l’urgente necessità di una “scienza nuova”, di un sapere olistico di cui l’ecologia è portatrice. Dobbiamo, infatti, prendere atto, che il cielo, immaginato come infinitamente lontano e distante da noi, è invece il tetto della nostra casa, e corriamo il rischio di renderlo rovente.
Ora, questi nuovi saperi si stanno facendo strada. Com’è noto, è proprio per lo studio dei mutamenti climatici che si è formato l’ IPCC, voluto dall’ONU: il più grande consesso di studiosi mai messo insieme per studiare, con diverse conoscenze disciplinari, quella speciale totalità che è il clima terrestre. Anche all’interno di qualche Università di avanguardia l’ecologia va producendo un rimescolamento dei vecchi assetti disciplinari, e comunque un nuovo dialogo tra le scienze e tra queste e i saperi umanistici. E’ il caso, ad es. , dell’ Environmental Science, Policy and Management dell’Università di California, a Berkeley, dove filosofi e chimici, storici e botanici cooperano o dialogano su ricerche comuni. Ma si tratta di qualche stella in un firmamento spento.
Riflessione analoga meritano i saperi umanistici, oggi letteralmente perseguitati come veicoli di parassitismi antieconomici, di contagiosi virus del pensiero libero e disinteressato. Eppure il rimescolamento senza precedenti di razze e culture che investe oggi il globo, reclama come non mai il concorso dei saperi umanistici per comprenderlo e interpretarlo. La necessità di una cultura cosmpolita, che faccia i conti con un eurocentrismo ormai angusto, capace di abbracciare le storie e le antropologie, le fedi e le lingue di moltitudini di genti ormai presenti nella nostra vita e nel nostro immaginario, reclama più conoscenze dagli storici, dagli antropologi, dai sociologi, dai geografi, dagli economisti, dai letterati.
E come rispondono i riformatori a questa sfida, anche questa, realmente« epocale »? Con quali saperi si affronta la complessità del mondo che diventa globale? Conosco un solo sforzo serio in questa direzione, avviato in Francia dalle Maisons des Sciences de l’Homme : fortilizi dei saperi umanistici di cui avremmo così bisogno in Italia. Qui, al pedagogismo straccione del centro destra italiano, che rivendicava (ricordate?) la politica delle “tre i” - internet, inglese, impresa - le Maison hanno fatto corrispondere ben diversi significati alle stesse vocali: i nternazionalità, interdisciplinarietà e interistituzionalità. Ma anche in questo caso si tratta di una piccola cometa nei cieli spenti d’Europa.
In realtà, mentre si costruisce l’UE, mentre siamo inondati di retorica sull’avanzare del mondo globale, nelle Università non si fa nulla per costruire la nuova cultura cosmopolita del cittadino europeo e globale. Anzi, in tutti questi anni abbiamo assistito a un fenomeno culturale rilevantissimo di cui le Università portano una responsabilità primaria. Alludiamo al fatto che l’economia, uno dei più antichi saperi del mondo occidentale, diventata una scienza sociale dominante in età contemporanea, si è ormai ridotta, tanto nel suo operare sociale che nelle aule dell’Università, a una tecnologia della crescita economica. Oggi dominano nei curricula delle Facoltà di economia discipline come marketing, matematica finanziaria, economia aziendale, banche e mercati finanziari, ecc, tutto ciò che serve a fare di un giovane un dirigente o un dipendente di impresa. La sua formazione culturale strettamente al servizio delle necessità presenti del capitale. E nessuno - a quanto mi risulta - mena scandalo del fatto che in queste Facoltà non sia presente una materia come storia del lavoro, o come sociologia del lavoro. Non ha nulla a che fare il lavoro con l’economia, con la formazione della ricchezza? Da dove viene, chi ha costruito la società industriale del nostro tempo, in cui i neolaureati sono chiamati a operare ?E’ evidente, in questo caso, che già nelle Università si cancella il lavoro - e le persone viventi che lo realizzano - dall’orizzonte formativo dei giovani economisti. Ma questa disciplina mostra oggi altre, ormai insostenibili, inadeguatezze. Com’ è possibile che chi studia economia non possa accedere a un corso fondamentale di s toria del colonialismo? Quale può essere la formazione di un giovane economista che ignora un tratto fondativo della storia economica europea: vale a dire il fatto che essa si fonda su cinque secoli di saccheggio delle risorse del Sud del mondo? Ma oggi il capitalismo, con la sua immane macchina divoratrice di energia e risorse, reclamerebbe una ben altra consapevolezza scientifica da parte delle discipline che lo promuovono e l’indirizzano. Non è l’attività economica una gigantesca e insonne manipolazione di risorse naturali destinate alla vita di esseri naturali? Non è l’economia una ecologia inconsapevole? Eppure, a tutt’oggi, i saperi ecologici dentro queste facoltà non hanno diritto di cittadinanza.
Ecco dunque che di fronte all’ampiezza di questi problemi e di queste contraddizioni - il mondo dei saperi che sopravanza in ampiezza e profondità quello strumentale con cui il capitale vuol restringere gli orizzonti formativi delle nuove generazioni - mostra quale portata strategica assuma l’Università nel nostro tempo. Quale luogo di affermazione di un sapere non piegato ai comandi del profitto, che guardi alla natura come a un bene comune da tutelare e non da saccheggiare e che operi al tempo stesso per un progetto di società solidale e multiculturale su scala planetaria. Si comprende bene, quindi, che la lotta dei ricercatori, degli studenti e dei docenti italiani è destinata a trovare motivi di continuità non solo nelle soffocanti imposizioni della legge Gelmini, ma anche in un più vasto orizzonte di ragioni e di prospettive.
La riscoperta dell’indignazione
di Benedetta Tobagi (la Repubblica, 22 gennaio 2011)
Trentadue pagine in cui articola l’imperativo morale "Indignatevi!" - di fronte alle abissali ingiustizie della globalizzazione selvaggia, alla deumanizzazione dei migranti, all’emergenza ambientale - e il 93enne ex partigiano e diplomatico franco-tedesco Stéphane Hessel ha venduto in pochi mesi quasi mezzo milione di copie in Francia. Il prezzo stracciato e il lancio a ridosso del Natale ne hanno fatto il perfetto cadeau politicamente corretto, ma questo non basta a spiegare il successo clamoroso del pamphlet. Di certo cade su un terreno fertile. A partire dal 2000, con il collasso della bolla speculativa e lo stillicidio di scandali che, da Enron in poi, hanno portato sul lastrico migliaia di risparmiatori e lavoratori, si incrina l’immagine di broker, amministratori delegati, manager: un modello di successo, ricchezza e privilegio che suscitava ammirazione e invidia.
l piccolo libro Indignez-vous! monta sulle spalle di una fioritura di saggi e opere cinematografiche, letterarie e teatrali; i documentari The Corporation, Il caso Enron, Goodbye mr.Capitalism, i drammi di Edward Bond, Deb Margolin, David Hare, i saggi di Naomi Klein, il libro che mette a nudo i responsabili del crack di Merril Lynch, per citarne alcuni, denunciano le perversioni del capitalismo delle multinazionali, i vizi della speculazione selvaggia e dei suoi protagonisti, che per decenni - finché l’economia occidentale reggeva - hanno agito indisturbati, nella latitanza della politica e nell’acquiescenza di larga parte dell’opinione pubblica. Col crollo del 2009, gli dèi del capitalismo rampante sono caduti, è morta l’illusione della crescita indefinita e dagli Usa all’Europa la cittadinanza comincia a fremere, esasperata. E non solo dalle infamie del capitalismo: gli scandali politici sono fonte di frequenti esplosioni di sdegno, dagli Usa al Regno Unito a - ovviamente - l’Italia: qui è appena nato il sito indignati.org, reazione al vaso di Pandora scoperchiato dall’affaire Ruby.
L’affiorare di sussulti d’indignazione popolare che rompono l’indifferenza compiacente o rassegnata è salutato con speranza ed entusiasmo. L’indignazione viene invocata, non solo in Francia, come una panacea, il sentimento che può guidare una società in stallo fuori dalla palude della crisi, morale e materiale. Eppure è un sentimento prepolitico, e, come suggerisce una recente (2007) riflessione teoretica di Álvarez González, è tipica di "un’etica in tempi di impotenza". Qual è dunque lo specifico dell’indignazione? Quale funzione può svolgere nella società del capitalismo globale postfordista?
L’indignazione si mescola ad altri sentimenti scatenati dall’ingiustizia, come l’odio e la rabbia. Rispetto a queste emozioni, spiccatamente difensive, irriflessive e distruttive, l’indignazione è sottilmente diversa. Definita come "condizione spirituale caratterizzata da vibrante sentimento verso qualcosa che si ritiene riprovevole e ingiusto" - indegno, appunto - presuppone il sentimento confuso, se non ancora la speranza, di qualcosa di diverso, un ideale di giustizia.
Il filosofo Paul Ricoeur poneva i termini della questione in modo cristallino (Il giusto, 1995): "il nostro primo ingresso nella regione del diritto non è stato, forse, segnato dal grido ‘È ingiusto!’?". Nell’indignazione diventiamo testimoni empatici delle ingiustizie del mondo: anche se ancora non ci toccano direttamente, o siamo "fuori pericolo", sentiamo - come ama ripetere Roberto Saviano - che quel male ci riguarda. In questa chiave possiamo leggere, ad esempio, le critiche di J.K. Rowling alla risibile politica "simbolica" di sostegno alle famiglie del premier conservatore Cameron: senza il welfare per le madri sole non avrebbe mai potuto creare la saga di Harry Potter.
L’invito a indignarsi, più che ai giovani magrebini e europei già in protesta, è rivolto alla massa critica dei cittadini che non sono ancora stati toccati nella carne dall’impatto distruttivo delle forze impersonali dell’economia e dovrebbe riscuotersi dal virus letale dell’indifferenza prima che sia troppo tardi. Dall’oscuro senso di colpa che, scriveva Bobbio, si domanda "Perché a lui e non a me?" deve germogliare la presa di coscienza che ogni lesione della giustizia nuoce all’intero corposociale, nel lungo periodo. L’indignazione marca il punto di rottura della sopportazione, segna il risveglio della coscienza morale ed è un formidabile impulso verso l’agire politico.
Dunque è davvero la chiave per uscire dalla crisi? Attenzione, il "grido dell’indignazione" non basta, ammonisce Ricoeur. Primo, esso difetta della definizione di criteri positivi: quale giustizia realizzare, con che mezzi, per chi. Aveva un bel dire, Rousseau, che il senso d’ingiustizia è il contrassegno universale dell’umanità: l’indignazione, spesso, è selettiva. Nel ’68 tutti si disperavano per i vietnamiti, molto meno per il suicidio di Jan Palach. Per non parlare di chi, laddove confliggono due diritti, come nel conflitto israelo-palesinese, si indigna a senso unico. Ideologie, appartenenze, moda e visibilità mediatica hanno un peso determinante.
Esiste poi, latente, il rischio di provocare nuove violenze e sopraffazioni, per vendicare quelle esistenti. L’uomo indignato odia l’ingiustizia e l’argine che lo trattiene dal volgere quell’odio contro i suoi attori è un campo di tensione instabile. Se Hessel addita la non violenza come l’unica via possibile (è ormai lontana la retorica rivoluzionaria dei Dannati della terra di Fanon, 1961), altrove è diverso: il già citato Álvarez González, immerso nella dura realtà sudamericana, non esplicita tale rifiuto. Il senso di giustizia dovrebbe trattenere dall’uso della violenza, ma, come ammonisce il noto brocardo, summum ius, summa iniuria.
Il "maestro del sospetto" Nietzsche, ci ricorda Natoli, insegnò a diffidare dello sdegno sociale, in cui può annidarsi un’"utopia dell’invidia" nutrita di risentimenti assai poco nobili. Linea argomentativa ripresa da von Hayek, un padre del pensiero liberal-conservatore, in polemica col "miraggio della giustizia sociale". Ma il pericolo forse più diffuso nella nostra società è che l’indignazione si riduca a una falsa coscienza consolatoria: un’"etica-anestetica". Lo sdegno monta (e si sgonfia) seguendo il ritmo convulso della cronaca. Indignarsi fa sentire buoni, poi la vita va avanti come prima, ha velenosamente contestato a Hessel il filosofo Luc Berry. La parabola italiana di Mani Pulite insegna: la crisi sopraggiunse quando i giudici toccarono il ventre molle della microcorruzione diffusa. La rabbia si mescola all’ipocrisia: tutti si indignano davanti al politico ladro, molto meno se un professionista offre un forte sconto a chi rinuncia alla ricevuta fiscale.
Coerenza e continuità sono il banco di prova cruciale. L’indignazione, se non prosegue in un programma politico, è destinata a spegnersi. È indispensabile, ma come un detonatore o la carta con cui accendiamo il fuoco, che ha bisogno di ceppi di legna asciutti per bruciare a lungo.
C’è un vuoto politico e concettuale da riempire. Cominciano a emergere nuovi modelli e direzioni di sviluppo per un capitalismo temprato dall’etica e dalla conoscenza (tra i nomi noti il nobel Sen, il padre del microcredito Yunus, Rifkin con l’economia dell’empatia, la radicale americana Susan George con "Attac", acronimo della proposta di tassare le transazioni finanziarie transnazionali per sostenere politiche di welfare), ma la strada è lunga e le controversie molteplici. In un orizzonte confuso e secolarizzato, beati coloro che hanno fame e sete di giustizia, perché saranno indignati. E da lì, forse, potrà nascere qualcosa.