LA CHIESA LASCI PERDERE IL CONCETTO DI NATURA E GUARDI ALLA PROPRIA STORIA *
Cara Unità,
si ricorda di Lodovico, poi diventato padre Cristoforo, e del signore arrogante, dei Promessi sposi? Procedevano entrambi rasente al muro, e nessuno dei due voleva cedere il passo all’altro. In fondo a nessuno dei due importava realmente di staccarsi dalla muraglia: era solo una questione di puntiglio.
Così, credo che alla gerarchia ecclesiastica, in realtà, non importi poi tanto del fatto in sé dei Dico; è diventata ormai questione di puntiglio. Non si spiega altrimenti l’esagerazione che ha spinto monsignor Bagnasco a mettere sullo stesso piano l’omosessualità, che grazie a Dio non è reato, e la pedofilia che è reato.
La gerarchia sta perdendo l’orientamento; ed io a questo punto vorrei darle una mano, darle un consiglio spassionato: si calmi, si tranquillizzi e, soprattuitto, lasci perdere l’argomento «natura», perché finisce per darsi la zappa sui piedi.
Ha detto Bagnasco: «Se cade il criterio antropologico dell’etica che è anzitutto un dato di natura e non di cultura... è difficile dire di no... al partito dei pedofili». Ora l’arcivescovo deve spiegare secondo quale criterio dovremmo giudicare oggi un giovane dai diciotto ai ventiquattro anni (l’età in cui i giovani ebrei prendevano moglie al tempo di Gesù) che si unisse ad una ragazzina di dodici anni e mezzo (l’età in cui si maritavano le ragazze). Secondo quale criterio giudicare Giuseppe, che sembra fosse uomo già maturo, sposo di Maria, ragazzina non ancora tredicenne.
Francesca Ribeiro
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Memoria del Verbo dell’"H" della "Parola" ("charitas") - della Via, della Vita, e della Verità - e del sapere di "come nascono i bambini"(Freud):
"La dottrina affermante la divinità di Gesù non verrebbe minimamente inficiata, quand’anche Gesù fosse nato da un normale matrimonio umano. No, perché la filiazione divina di cui parla la fede [ma anche la nostra Costituzione!!!, fls] non è un fatto biologico bensì ontologico"(J. Ratzinger, Introduzione al Cristianesimo). *
Federico La Sala
Cit. da M. Politi, Quella Pasqua misteriosa, "la Repubblica", 07.04.2005, p. 45).
RESURREZIONE 2007
di Aldo [don] Antonelli
“Risorse umane”!
uomini e donne
senza volti né voci;
solo gambe per correre
e braccia di produzione.
“Mercato”!
la nuova,
sanguisuga divinità
che non più al sangue di animali sacrificati
ma alla vitale linfa umana
famelica
si abbevera.
“Libertà”!
biodegradabile verbo
per il riciclo
di ladrocini e ruberie,
ricatti e sfruttamenti,
inganni e falsificazioni.
Parole d’ordine
dei guardiani del “già”.
Ma noi,
figli del “non ancora”,
mai silenti
e ancor meno conniventi,
risorti saremo
se speranza
sposeremo alla lotta
senza sosta.
Semplici
come i gigli del campo.
Liberi
come gli uccelli del cielo.
Duri
come le pietre dei monti
e
Teneri
come il pane.
Risorti!
Aldo Antonelli
Roma/5/4/2007
Trovo che la poesia di Don Antonelli è una bella poesia. Scusate l’osservazione formalista : ma almeno di Pasqua sia lecita una critica sul bello. Cordiali saluti e auguri Ettore Tanzarella
Don Adelino Bortoluzzi: invece il Family day crea divisioni. Qui una rete di educatori e gente che ascolta e aiuta
"Io prete tra coppie di fatto e omosessuali
Porte aperte a tutti, no alle divisioni"
A Treviso una parrocchia con una strada piena di persone separate. "Soffrono già, perché ignorarle?"
DAL NOSTRO INVIATO JENNER MELETTI *
TREVISO - Sul muro, dietro la scrivania, c’è un manifesto del 1948, firmato Democrazia cristiana. Un sacerdote sullo sfondo annuncia: "Meglio un prete oggi che un boia domani". In primo piano, un rosso bolscevico accanto a una forca. Il messaggio è chiaro: se non obbedisci ai preti, sarai preda dei comunisti. Don Adelino Bortoluzzi, parroco di Olmi-San Floriano, si mette a ridere. "E’ un manifesto originale, me l’hanno regalato, forse per ricordarmi un passato non tanto lontano. E ricordare, anche in questi giorni, fa solo bene". Non è facile trovare sacerdoti che abbiano voglia di parlare del mega raduno annunciato a Roma. C’è chi dice che "la sola protesta permessa è il silenzio", c’è chi sostiene che "come sempre i parroci sono tagliati fuori da ogni decisione". "Vadano a Roma, quelli che credono che per salvare la famiglia basti uno slogan. Io non organizzerò certo dei pullman. Resterò qui, con le famiglie vere, che ci parlano di figli da crescere e da educare, e non di Pacs o Dico. Ma protestare non conta nulla. La gerarchia della Chiesa non ha certo smesso di essere una gerarchia".
Don Bortoluzzi (per tutti Adelino e basta) accetta di parlare, ma solo della sua parrocchia. "Io posso solo spiegare cosa succede qui, in questa periferia di Treviso, che 15 anni fa, quando sono arrivato, era solo un dormitorio costruito attorno a una strada. Posso raccontare cosa ho cercato di fare in questa terra degli schei e del consumismo, dove i figli venivano mandati a lavorare a 14 anni e la scuola era giudicata solo una perdita di tempo. Parlo delle persone che abitano qui, persone vere, una diversa dall’altra, che alla parrocchia chiedono di essere luogo di accoglienza. L’incontro di Roma? Rischia di creare solo tensione e divisione. Nella mia chiesa entrano coppie di fatto, separati, omosessuali che non possono ricevere la Comunione ma che sono in comunione con gli altri fedeli. La chiesa è l’unico posto dove queste persone possono entrare senza che nessuno chieda loro un pass. Si sentono accolti da qualcuno più grande di tutti noi, dalle braccia della misericordia di un Dio che vuole bene a tutti".
C’è una strana strada, nella parrocchia, che qualcuno chiama "la via delle coppie di fatto". "Hanno costruito dei monolocali che sono stati affittati o comprati da uomini e donne che si sono separati ed hanno lasciato la casa in centro al coniuge e ai figli. Alcuni hanno nuove compagne. Come prete, posso ignorare queste persone? Il matrimonio è formato da coppie di diritto e da coppie di fatto, ma è anche dono e mistero, ed io lavoro per il dono e il mistero. Ci sono anche persone che si sentono sconfitte dalla vita. Non è bello separarsi, non è bello vivere in conflitto con la stessa persona con la quale hai fatto dei figli. Io cerco di trovare quello stile che Gesù aveva con le persone sofferenti. Chi sta già pagando un alto prezzo, deve trovare nella chiesa bontà e misericordia".
Anche qui i matrimoni in chiesa sono merce rara. L’anno scorso solo 4, contro 30 battesimi e 16 funerali. "Qualcuno si è sposato in altre parrocchie, ma la crisi c’è. La mia preoccupazione di parroco è comunque quella di fare sapere a chi si sposa che il matrimonio è una vocazione, da vivere con quella pienezza che è frutto di libertà di stare assieme ma anche grazia dello spirito. Dobbiamo poi ripensare anche alla "penitenza". Io posso assolvere un aborto o un assassinio, non una separazione. Su questo dramma aspetto un nuovo magistero dalla Chiesa. Se non avremo il coraggio di affrontare questi temi, per tanti la liturgia e il Vangelo saranno ridotti a norme e riti, facendo perdere la forza che hanno per aiutare l’uomo a vivere bene".
Non è facile trovare preti come don Adelino. In quindici anni ha costruito il centro sociale per gli anziani, con campi bocce al coperto, una grande palestra, un centro incontri per le famiglie... "Non ho il male della pietra. Ho cercato di trasformare un dormitorio in un paese. I soldi? Per raccoglierli, organizziamo anche la sagra del toro allo spiedo. Ci sono famiglie che si tassano, e poi ci sono i debiti. Ma adesso Olmi non è più solo una strada fra i dormitori. Sono diventato prete nel 1974, in tempi in cui i referendum sull’aborto e sul divorzio hanno segnato il crollo della cristianità. Ero cappellano vicino a Mestre e in quegli anni di tensioni fortissime vissute dagli operai di Marghera la parrocchia faceva campagna elettorale, per la Dc, ed era il centro di potere più grande del paese. Il parroco allora faceva e disfaceva la giunta comunale. Adesso noi preti, su questa questione, per fortuna non contiamo più nulla. Chi crede che possano tornare i tempi del manifesto con il prete e il comunista, si illude. Con altri sacerdoti ho imparato che la parrocchia deve essere un centro di spiritualità, non di potere. Arrivato qui, potevo vivere come un "manager di azienda di servizi religiosi". Battesimi e prediche, benedizioni e funerali. Faccio tutto questo, ma ho scelto anche un’altra strada. Ho studiato, ho chiamato qui degli specialisti. Ci sono soprattutto psicoterapeuti. E così a Olmi non c’è un "prete educatore" ma una vera comunità educante".
Cento ragazzi e ragazze, in questo pezzetto di nord est così refrattario agli atenei, si sono già laureati. "Seguiamo i ragazzi delle superiori, per completare un discorso culturale che la scuola non riesce a dare. Gli universitari fanno comunità: organizziamo appartamenti a Milano, Bologna, Padova. Dicono che "Adelino porta via i ragazzi dalle famiglie". E’ vero. Io dico che bisogna studiare davvero e trovare un lavoro, fare un mutuo per uscire di casa subito dopo la laurea, farsi una famiglia. Anche in questo campo voglio essere un manager che riunisce persone competenti. Ragazzi in crisi trovano qui in parrocchia una risposta e soprattutto un aiuto a individuare la strada giusta. E così abbiamo gli anziani che gestiscono il bar portando orgogliosi il grembiule con scritto "Noi di Olmi" ma anche psicologi, psicoterapisti, analisti con i quali abbiamo costruito una rete di sostegno che serve tutta la comunità. Una rete, questa, che ci ha aiutato ad esempio ad organizzare famiglie che hanno deciso di andare ad abitare tutte nello stesso condominio, per una solidarietà reciproca. Ma è una rete che, se necessario, consiglia anche la separazione di una coppia, se questa appare come la soluzione più opportuna. Può sembrare strano che certi consigli arrivino da una parrocchia, ma la crisi arriva anche nelle famiglie sposate in chiesa. Non puoi fare finta di nulla".
A Olmi (1.200 dei 3.500 abitanti partecipano alle messe della domenica, 25 mamme insegnano il catechismo e 180 volontari organizzano le attività della parrocchia) l’altro giorno sono stati battezzati quattro bambini. "C’erano due neonati, il figlio di un ricco industriale e il figlio di un operaio. E c’erano due bambini più grandi, figli di una coppia di fatto. Sono amici di bambini battezzati, anche loro hanno voluto il sacramento. I loro genitori erano presenti ed hanno chiesto alla nostra comunità di farsi carico dell’educazione cristiana dei loro figli. Sono cose che succedono, se una parrocchia tiene davvero le porte aperte a tutti". (2. continua)
* la Repubblica, 30 marzo 2007
Il segretario Betori ribadisce comunque il sostegno dei vescovi alla manifestazione. Poi puntualizza le dichiarazioni di Bagnasco sui Dico: "Capito male per colpa delle agenzie"
Family day, la Cei detta le regole
"Niente vescovi in piazza, ok ai parroci"
La Chiesa "preoccupata" anche dal testamento biologico. "Non deve aprire la strada all’eutanasia"
CITTA’ DEL VATICANO - Piazza vietata ai vescovi, ma via libera ai parroci. Il segretario generale della Cei, monsignor Giuseppe Betori, ha ribadito oggi le modalità con cui il clero potrà prendere parte alla manifestazione in programma a Roma il prossimo 12 maggio in occasione del Family day. "La parrocchia - ha spiegato - non è una realtà privata del clero, la loro partecipazione al Family Day dipende da come si organizzeranno al loro interno, certo alcuni parroci vorranno esserci".
L’iniziativa gode comunque, ha ricordato Betori, dell’appoggio della Conferenza episcopale italiana, che a sua volta poggia sul consenso pontificio. "Lo ha detto anche Benedetto XVI - ha precisato Betori - il rischio è quello di seguire aspettative, desideri e brame. Il convergere sui desideri espone al rischio di un passaggio da comportamenti considerati illeciti a comportamenti leciti. Solo se fondiamo su una base forte il riferimento normativo siamo sicuri che questo non accada".
Nel mirino della Chiesa non c’è però solo la possibile legge sulle coppie di fatto, ma anche quella per l’istituzione del testamento biologico. "Siamo preoccupati - ha spiegato Betori - se un eventuale disegno di legge dovesse aprire a una eutanasia di fatto. Il rischio maggiore riguarda il concetto della cura della persona, cioè la possibilità di rinunciare all’alimentazione e l’idratazione che aprirebbe la strada all’eutanasia di carattere passivo".
Il segretario della Cei ha avanzato poi una richiesta specifica ai legislatori: "La volontà del paziente - ha detto Betori - non si può imporre al medico, pena il venir meno della sua stessa funzione. Eventuali disegni di legge dovrebbero essere ’chiusi’ in questa direzione, per evitare scivolamenti di carattere eutanasico".
Il segretario della Cei è tornato anche sulle polemiche suscitate dalle parole usate dal presidente Angelo Bagnasco nell’attaccare il disegno di legge sulle coppie di fatto, paragonandole a pedofilia e incesto. "Monsignor Bagnasco - ha spiegato Betori - è stato compreso male, anche a causa dei titoli scelti da agenzie di stampa. Ma il suo richiamo ai fondamenti dell’etica resta valido, al di là degli esempi fatti, che non intendevano mettere sullo stesso piano cose che sono diverse". "Monsignor Bagnasco - ha proseguito Betori - utilizza espressioni sempre articolate e complesse che le agenzie devono ridurre a un titolo. Quel che dispiace è che il dibattito poi prende per riferimento non la notizia ma addirittura il titolo dell’agenzia. Prima di intervenire invece bisognerebbe leggere i testi".
Betori ha poi ricordato che su questo tema la Chiesa è compatta e che "la Nota della Cei sulle coppie di fatto è stata sottoposta e approvata dalla Santa Sede ed è stata votata dal Consiglio Episcopale Permanente con nessun voto contrario e un solo astenuto". Inoltre la prima discussione sarebbe durata due ore, la seconda circa un’ora e mezza. Betori ha riferito quindi che ci sono stati dei cambiamenti, ma nessuna modifica sostanziale.
Quanto alle misure di protezione prese dopo la scritta "vergogna" comparse sulla cattedrale di Genova, Betori ha affermato che "sono misure prese in sede locale, relative alla situazione di Genova. A livello nazionale non abbiamo notizie al riguardo".
* la Repubblica, 3 aprile 2007
Il cammino della Pasqua, dall’Egitto a Roma imperiale
di Manlio Simonetti (Avvenire, 05.4.2007)
Il termine greco pàscha - di genere neutro, dall’ebraico pesah - venne in antico erroneamente connesso col verbo pàschein ("soffrire") con riferimento alla passione di Cristo; ma un’altra spiegazione, più attendibile, l’interpretava come "passaggio, transito" con riferimento all’uscita degli israeliti dall’Egitto, sotto la guida di Mosè, alla volta della Terra promessa.
In effetti la festività pasquale rimonta al periodo in cui Israele era ancora un popolo di pastori nomadi, e consisteva nel sacrificio di un agnello di un anno, il cui sangue veniva sparso, con finalità apotropaica, all’ingresso della tenda, e successivamente, in epoca sedentaria, sugli stipiti della porta di casa. La festa veniva celebrata la sera del 14 del mese lunare di Nisan (tra marzo e aprile) in occasione dell’equinozio di primavera.
Messa per tempo questa celebrazione in relazione con l’esodo degli israeliti dall’Egitto, il racconto della sua istituzione, al momento in cui essi si accingono a mettersi in viaggio, si legge in Esodo (12); subito dopo (13) Mosè prescrive al popolo di mangiare per sette giorni pane azzimo e di evitare qualsiasi cibo fermentato. È la festa degli Azzimi, che in epoca storica prolunga quella pasquale, ma che originariamente era una festa agricola, perciò istituita quando gli israeliti si furono stabiliti in Palestina, e solo in un secondo momento connessa con quella di Pasqua.
Questa festività, con quelle della Pentecoste e delle Capanne, era una delle tre feste di pellegrinaggio a Gerusalemme, e il ricordo della liberazione d’Israele dall’Egitto manteneva viva nel popolo, in epoca di asservimento, l’aspirazione alla libertà.
Dato che Gesù era stato crocifisso ed era risorto in periodo pasquale, la festività fu trasferita per tempo in ambito cristiano, già nel II secolo, e diventò la prima festa cristiana. In effetti già in Paolo leggiamo: «È stata immolata la nostra pasqua, Cristo» (1 Corinzi, 5, 7), il che fa pensare che Cristo fosse stato già assimilato all’agnello pasquale, e questa assimilazione è evidentissima nel vangelo di Giovanni. Di qui il trasferimento della festività dal contesto ebraico a quello cristiano, con una radicale trasformazione del suo significato.
Riguardo a tale significato è documentata nella seconda metà del II secolo una divergenza tra le Chiese cristiane d’Asia (Efeso, Smirne, Sardi, e così via) da una parte, e Roma e Alessandria dall’altra. In effetti la festività pasquale implicava il ricordo sia della morte sia della risurrezione di Gesù, e mentre le Chiese d’Asia rilevavano soprattutto la morte (Pasqua di crocifissione), Roma e Alessandria mettevano l’accento soprattutto sulla risurrezione (Pasqua di risurrezione). Di conseguenza, nell’Asia cristiana la Pasqua veniva celebrata, in coincidenza con la Pasqua ebraica, il 14 del mese di Nisan (donde la definizione di quartodecimana), indipendentemente dal giorno della settimana, mentre a Roma e ad Alessandria questa festa veniva celebrata la domenica successiva al 14 di Nisan.
Due antiche omelie, una di Melitone di Sardi e l’altra anonima (In sanctum Pascha), documentano la celebrazione pasquale quartodecimana: veniva letto l’intero capitolo 12 dell’Esodo, proprio come facevano gli ebrei, e il significato cristiano della celebrazione era affidato all’omelia che seguiva la lettura, nella quale il celebrante interpretava l’agnello che quelli immolavano come simbolo che aveva prefigurato il sacrificio di Cristo, il vero agnello messo a morte dai giudei, il quale col suo sacrificio aveva liberato gli uomini dal peccato e dalla morte.
Nella comunità cristiana di Roma c’erano nel II secolo anche fedeli di origine asiatica, i quali nella nuova residenza continuavano a celebrare la Pasqua il 14 di Nisan, mentre il resto della comunità la celebrava la domenica successiva e, dato che tale festa era sentita come molto importante, questa discrasia faceva scandalo. Intorno al 155 Policarpo, vescovo di Smirne, venne a Roma per discutere della questione, ma il suo abboccamento col vescovo di Roma, Aniceto, fu infruttuoso, anche se i due ebbero cura di evitare toni polemici. Ma intorno al 190 un autoritario vescovo di Roma, Vittore, riaprì la polemica a danno dei fedeli di Roma d’origine asiatica, al fianco dei quali si schierarono le Chiese d’Asia, capeggiate da Policrate di Efeso. A fatica fu evitata un’aperta rottura, ma gli asiatici di Roma furono costretti ad accettare l’osservanza pasquale romana, che gradualmente finì per imporsi anche in Asia.
IL TEMA
L’incredulità di Tommaso e lo scandalo del dolore innocente ci aiutano a «purificare ogni falsa concezione di Dio»: lo ha detto Ratzinger nel suo messaggio pasquale, denunciando le guerre, il terrorismo e le ingiustizie del nostro tempo
Il Papa: nel Risorto ferito il vero volto del Signore
«Nelle sue piaghe vediamo le pene d’ogni essere umano»
Fratelli e sorelle del mondo intero, uomini e donne di buona volontà! Cristo è risorto! Pace a voi! Si celebra oggi il grande mistero, fondamento della fede e della speranza cristiana: Gesù di Nazareth, il Crocifisso, è risuscitato dai morti il terzo giorno, secondo le Scritture. L’annuncio dato dagli angeli, in quell’alba del primo giorno dopo il sabato, a Maria di Magdala e alle donne accorse al sepolcro, lo riascoltiamo oggi con rinnovata emozione: «Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risuscitato!» (Lc 24,5-6).
Non è difficile immaginare quali fossero, in quel momento, i sentimenti di queste donne: sentimenti di tristezza e sgomento per la morte del loro Signore, sentimenti di incredulità e stupore per un fatto troppo sorprendente per essere vero. La tomba però era aperta e vuota: il corpo non c’era più. Pietro e Giovanni, avvertiti dalle donne, corsero al sepolcro e verificarono che esse avevano ragione. La fede degli Apostoli in Gesù, l’atteso Messia, era stata messa a durissima prova dallo scandalo della croce. Durante il suo arresto, la sua condanna e la sua morte si erano dispersi, ed ora si ritrovavano insieme, perplessi e disorientati. Ma il Risorto stesso venne incontro alla loro incredula sete di certezze. Non fu sogno, né illusione o immaginazione soggettiva quell’incontro; fu un’esperienza vera, anche se inattesa e proprio per questo particolarmente toccante. «Venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse: "Pace a voi!"» (Gv 20,19).
A quelle parole, la fede quasi spenta nei loro animi si riaccese. Gli Apostoli riferirono a Tommaso, assente in quel primo incontro straordinario: sì, il Signore ha compiuto quanto aveva preannunciato; è veramente risorto e noi lo abbiamo visto e toccato! Tommaso però rimase dubbioso e perplesso. Quando Gesù venne una seconda volta, otto giorni dopo nel Cenacolo, gli disse: «Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente!». La risposta dell’Apostolo è una commovente professione di fede: «Mio Signore e mio Dio!» (Gv 20,27-28).
«Mio Signore e mio Dio»! Rinnoviamo anche noi la professione di fede di Tommaso. Come augurio pasquale, quest’anno, ho voluto scegliere proprio le sue parole, perché l’odierna umanità attende dai cristiani una rinnovata testimonianza della risurrezione di Cristo; ha bisogno di incontrarlo e di poterlo conoscere come vero Dio e vero Uomo. Se in questo Apostolo possiamo riscontrare i dubbi e le incertezze di tanti cristiani di oggi, le paure e le delusioni di innumerevoli nostri contemporanei, con lui possiamo anche riscoprire con convinzione rinnovata la fede in Cristo morto e risorto per noi. Questa fede, tramandata nel corso dei secoli dai successori degli Apostoli, continua, perché il Signore risorto non muore più. Egli vive nella Chiesa e la guida saldamente verso il compimento del suo eterno disegno di salvezza.
Ciascuno di noi può essere tentato dall’incredulità di Tommaso. Il dolore, il male, le ingiustizie, la morte, specialmente quando colpiscono gli innocenti - ad esempio, i bambini vittime della guerra e del terrorismo, delle malattie e della fame - non mettono forse a dura prova la nostra fede? Eppure paradossalmente, proprio in questi casi, l’incredulità di Tommaso ci è utile e preziosa, perché ci aiuta a purificare ogni falsa concezione di Dio e ci conduce a scoprirne il volto autentico: il volto di un Dio che, in Cristo, si è caricato delle piaghe dell’umanità ferita. Tommaso ha ricevuto dal Signore e, a sua volta, ha trasmesso alla Chiesa il dono di una fede provata dalla passione e morte di Gesù e confermata dall’incontro con Lui risorto. Una fede c he era quasi morta ed è rinata grazie al contatto con le piaghe di Cristo, con le ferite che il Risorto non ha nascosto, ma ha mostrato e continua a indicarci nelle pene e nelle sofferenze di ogni essere umano.
«Dalle sue piaghe siete stati guariti» (1 Pt 2,24), è questo l’annuncio che Pietro rivolgeva ai primi convertiti. Quelle piaghe, che per Tommaso erano dapprima un ostacolo alla fede, perché segni dell’apparente fallimento di Gesù; quelle stesse piaghe sono diventate, nell’incontro con il Risorto, prove di un amore vittorioso. Queste piaghe che Cristo ha contratto per amore nostro ci aiutano a capire chi è Dio e a ripetere anche noi: «Mio Signore e mio Dio». Solo un Dio che ci ama fino a prendere su di sé le nostre ferite e il nostro dolore, soprattutto quello innocente, è degno di fede.
Quante ferite, quanto dolore nel mondo! Non mancano calamità naturali e tragedie umane che provocano innumerevoli vittime e ingenti danni materiali. Penso a quanto è avvenuto di recente in Madagascar, nelle Isole Salomone, in America Latina e in altre regioni del mondo. Penso al flagello della fame, alle malattie incurabili, al terrorismo e ai sequestri di persona, ai mille volti della violenza - talora giustificata in nome della religione -, al disprezzo della vita e alla violazione dei diritti umani, allo sfruttamento della persona. Guardo con apprensione alla condizione in cui si trovano non poche regioni dell’Africa: nel Darfur e nei Paesi vicini permane una catastrofica e purtroppo sottovalutata situazione umanitaria; a Kinshasa, nella Repubblica democratica del Congo, gli scontri e i saccheggi delle scorse settimane fanno temere per il futuro del processo democratico congolese e per la ricostruzione del Paese; in Somalia la ripresa dei combattimenti allontana la prospettiva della pace e appesantisce la crisi regionale, specialmente per quanto riguarda gli spostamenti della popolazione e il traffico di armi; una grave crisi attanaglia lo Zimbabwe, per la quale i ve scovi del Paese, in un loro recente documento, hanno indicato come unica via di superamento la preghiera e l’impegno condiviso per il bene comune.
Di riconciliazione e di pace ha bisogno la popolazione di Timor Est, che si appresta a vivere importanti scadenze elettorali. Di pace hanno bisogno anche lo Sri Lanka, dove solo una soluzione negoziata porrà fine al dramma del conflitto che lo insanguina, e l’Afghanistan, segnato da crescente inquietudine e instabilità. In Medio Oriente, accanto a segni di speranza nel dialogo fra Israele e l’Autorità palestinese, nulla di positivo purtroppo viene dall’Iraq, insanguinato da continue stragi, mentre fuggono le popolazioni civili; in Libano lo stallo delle istituzioni politiche minaccia il ruolo che il Paese è chiamato a svolgere nell’area mediorientale e ne ipoteca gravemente il futuro. Non posso infine dimenticare le difficoltà che le comunità cristiane affrontano quotidianamente e l’esodo dei cristiani dalla Terra benedetta che è la culla della nostra fede. A quelle popolazioni rinnovo con affetto l’espressione della mia vicinanza spirituale.
Cari fratelli e sorelle, attraverso le piaghe di Cristo risorto possiamo vedere questi mali che affliggono l’umanità con occhi di speranza. Risorgendo, infatti, il Signore non ha tolto la sofferenza e il male dal mondo, ma li ha vinti alla radice con la sovrabbondanza della sua Grazia. Alla prepotenza del Male ha opposto l’onnipotenza del suo Amore. Ci ha lasciato come via alla pace e alla gioia l’Amore che non teme la morte. «Come io vi ho amato - ha detto agli Apostoli prima di morire -, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (Gv 13,34).
Fratelli e sorelle nella fede, che mi ascoltate da ogni parte della terra! Cristo risorto è vivo tra noi, è Lui la speranza di un futuro migliore. Mentre con Tommaso diciamo: «Mio Signore e mio Dio!», risuoni nel nostro cuore la parola dolce ma impegnativa del Signore: «Se uno mi vuol servire mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servo. Se uno mi serve, il Padre lo onorerà» (Gv 12,26). Ed anche noi, uniti a Lui, disposti a spendere la vita per i nostri fratelli (cfr 1 Gv 3,16), diventiamo apostoli di pace, messaggeri di una gioia che non teme il dolore, la gioia della Risurrezione. Ci ottenga questo dono pasquale Maria, Madre di Cristo risorto. Buona Pasqua a tutti!
© Copyright 2007 Libreria Editrice Vaticana
Nuove Litanie.
San Giuseppe ora diventa anche patrono di esuli, afflitti e poveri
Le Litanie in onore di san Giuseppe, approvate nel 1909, sono state integrate con sette invocazioni attinte dagli interventi dei Papi sulla figura del patrono della Chiesa universale
di Redazione Catholica (Avvenire, lunedì 3 maggio 2021)
Nel 150° anniversario della dichiarazione di san Giuseppe quale patrono della Chiesa universale, papa Francesco ha reso nota la lettera apostolica Patris corde, con l’intento di «accrescere l’amore verso questo grande Santo, per essere spinti a implorare la sua intercessione e per imitare le sue virtù e il suo slancio»; e ha indetto un Anno speciale dedicato al padre putativo di Gesù, iniziato lo scorso 8 dicembre.
Alla luce di tutto ciò la Congregazione per il Culto divino e la Disciplina dei sacramenti ha inviato una lettera ai presidenti delle Conferenze episcopali informandoli che «è parso opportuno aggiornare le Litanie in onore di san Giuseppe, approvate nel 1909 dalla Sede Apostolica» e «integrandovi sette invocazioni attinte dagli interventi dei Papi che hanno riflettuto su aspetti della figura del Patrono della Chiesa universale».
Sono queste: «Custode del Redentore» (san Giovanni Paolo II, Redemptoris custos); «Servo di Cristo» (san Paolo VI, omelia del 19.3.1966, citata in Redemptoris custos n. 8 e Patris corde n. 1); «Ministro della salvezza» (san Giovanni Crisostomo, citato in Redemptoris custos, n. 8); «Sostegno nelle difficoltà» (Francesco, Patris corde, prologo); «Patrono degli esuli, degli afflitti, dei poveri» (Patris corde, n. 5).
«Sarà compito delle Conferenze dei vescovi disporre la traduzione delle Litanie nelle lingue di loro competenza e pubblicarle» si legge sempre nella lettera firmata dal segretario del dicastero, l’arcivescovo Arthur Roche, e dal sottosegretario, padre Corrado Maggioni. «Tali traduzioni non avranno bisogno di conferma della Sede Apostolica. Secondo il loro prudente giudizio, le Conferenze dei vescovi potranno anche introdurre, al luogo opportuno e conservando il genere letterario, altre invocazioni con le quali san Giuseppe è particolarmente onorato nei loro Paesi».