TORRE DI PISA, MANIFESTO DI SAN SUU KYI *
PISA - Campeggia anche dalla Torre di Pisa l’immagine di Aung San Suu Kyi, leader del movimento democratico birmano e premio Nobel per la pace.
Un grande manifesto che ritrae il premio Nobel, con la richiesta di democrazia e libertà per la Birmania, è stato fatto scendere dal quarto anello della Torre pendente dal sindaco di Pisa Paolo Fontanelli, dall’arcivescovo Alessandro Plotti e dal presidente dell’Opera della Primaziale Pier Francesco Pacini, alla presenza del rappresentante dei monaci buddisti di Pomaia.
L’iniziativa è del Comune di Pisa che già ha concesso ad Aung San Suu Kyi la cittadinanza onoraria e ora, ha detto Fontanelli "ha messo il suo monumento più prestigioso al servizio della causa della libertà e della democrazia in Birmania".
Uno dei monaci che capeggiarono la rivolta, U Gambira, sconta in prigione
una condanna a 69 anni perché invitò il popolo a pregare per la San Suu Kyi
La pace ribelle dei monaci buddisti
"Aung sa come resistere all’ingiustizia"
di RAIMONDO BULTRINI *
DI RITORNO DA MANDALAY (BIRMANIA) - Il monastero sorge attorno all’ex capitale Mandalay, in un’oasi di verde chiamata "il luogo privo di preoccupazioni". Il nome sembra confermare, come scrisse Max Weber, che i buddisti birmani "dormono in un giardino incantato", secondo lo stereotipo diffuso di una religione basata - non solo in Birmania - sul distacco dal mondo.
Ma due anni fa, quando i monaci scesero in piazza contro i governanti responsabili dell’aumento dei prezzi di riso e benzina, il mondo si accorse che nel Paese dei generali la comunità religiosa - il sangha - è tutt’altro che estraniata dal Paese reale. Questo "esercito in zafferano", com’è stato chiamato, pagò allora un prezzo altissimo: templi svuotati, religiosi arrestati, rispediti nei villaggi o costretti ad abbandonare la tonaca.
Eppure oggi, nonostante tutto, ci sono ancora poco meno di 500mila tra novizi e monaci ordinati, distribuiti specialmente tra Mandalay e il nord, un numero pari se non superiore a quello dei soldati del famigerato esercito dei tadmadaw.
"Nei giorni delle rivolte del 2007 - spiega un monaco che insegna i testi pali ai novizi e meditazione agli stranieri qui ospitati per qualche giorno - molti nostri fratelli hanno esplicitamente chiesto ai soldati, giovani che vengono dai nostri stessi villaggi, di mettere da parte le loro armi e di battersi a mani nude. Ma quelli non hanno accettato".
Un atteggiamento forse un po’ troppo combattivo per una dottrina pacifica come quella del Buddha. "Niente affatto", risponde il monaco, "un conto è sviluppare un’intenzione amorevole verso tutti gli esseri viventi e un conto tollerare le ingiustizie dei più forti verso i più deboli. Noi siamo cresciuti alla vita dura delle campagne, arriviamo nei monasteri per avere un minimo di educazione e di cibo, perché nei nostri villaggi non ci sono né l’uno né l’altro.
Quando i prezzi aumentarono fino al 500% - spiega - ci vergognavamo di andare a chiedere l’elemosina, perché molte famiglie non avevano abbastanza riso per sé. E nonostante ciò molti di noi rifiutarono le offerte delle persone coinvolte con il regime, un gesto considerato di scomunica. Capirete che non si è trattato di una decisione facile, era in ballo la nostra sopravvivenza, ma anche la possibilità di cambiare in meglio la vita della nostra gente".
Dai dormitori si vedono alzarsi all’alba, nelle stanze ancora avvolte dal buio, centinaia e centinaia di novizi, molti bambini sotto i sei anni, con l’aria assonnata e le ciotole di legno avvolte nel saio. Escono anche sotto la pioggia scrosciante dei monsoni e raggiungono a piedi nudi i quartieri e i villaggi dove riceveranno l’unico cibo della giornata.
Ancora oggi in città è difficile racimolare anche solo un po’ di pesce, carne o verdure oltre al riso, e per questo a frotte salgono sugli autobus, gratuiti per i monaci, fino alle fattorie sperdute nelle campagne, dove le famiglie di contadini offrono loro la parte migliore delle provviste del giorno. A nessuno da queste parti passa per la testa di definire i monaci "un esercito di fannulloni sovversivi", come disse un generale per umiliare i ribelli.
Qui ogni famiglia manda i bambini almeno una volta l’anno in monastero per imparare le scritture pali "che liberano da ogni schiavitù mentale". I novizi apprendono i rudimenti di tecniche si dice sperimentate dallo stesso Budda per ottenere l’Illuminazione. Più prosaicamente, devono fare attenzione al respiro che entra ed esce sulla punta del naso, notando quante volte la mente s’è distratta dietro ai pensieri perdendo la concentrazione.
"Meditare su un punto solo" - spiega l’insegnante - "è il segreto per domare le percezioni che generano la rabbia, la delusione e il desiderio". In realtà questi esercizi spirituali, dicono i monaci, hanno a che fare più di quanto si immagini con la realtà non solo sociale ma anche politica della Birmania. "U Ba Khin, il maestro del celebre Narayan Goenka che ha istruito generazioni di birmani e stranieri alla meditazione vipassana - racconta uno di loro - era un impiegato civile e ha contribuito notevolmente alla riorganizzazione delle istituzioni all’indomani dell’indipendenza.
Ma per venire all’oggi: come credete che la stessa Daw Aung San Suu Kyi abbia potuto resistere tutti questi anni in isolamento senza perdere mai il controllo delle sue azioni? E come fa il popolo a sopportare i soprusi di cui è testimone ogni giorno? Dai nostri conventi sono usciti monaci che hanno avuto un ruolo decisivo nella lotta per l’indipendenza, come U Ottama e U Seinda, o come U Wisara, morto in prigione dopo un lungo sciopero della fame".
Ancora oggi, a rivolte domate, piccoli e più o meno isolati episodi di eroismo vedono ancora protagonisti gli uomini in tonaca e spesso le loro famiglie. La madre di U Gambira, fondatore dell’Alleanza dei monaci birmani e tra i protagonisti delle rivolte del 2007, è costretta a raggiungere da Mandalay una prigione isolatissima a tre giorni di barca attraverso un grande fiume, per recarsi a trovare suo figlio che sta scontando una condanna a 69 anni. La sua colpa? Aver invitato a pregare per la liberazione di Aung San Suu Kyi.
* la Repubblica, 15 agosto 2009
condannato anche John William Yethaw
Nuova condanna per San Suu Kyi
L’Onu chiede il «rilascio immediato»
Il tribunale ha condannato il premio Nobel per la pace agli arresti domiciliari nella casa di rangoon
RANGOON- Altri 18 mesi agli arresti domiciliari. Aung San Suu Kyi, la leader dell’opposizione birmana, rimarrà nella sua casa-prigione ancora un anno e mezzo. L’accusa per il premio Nobel per la Pace è di violazione degli arresti domiciliari. Secondo molti è semplicemente una scusa che il regime birmano ha individuato per togliere di mezzo l’attivista in vista delle elezioni del prossimo anno, dopo l’iniziativa di John William Yethaw, cittadino americano di religione mormone, che il 3 maggio scorso raggiunse a nuoto la casa di Suu Kyi. L’uomo, processato anche lui, è stato condannato a sette anni di lavori forzati. A sostegno della leader birmana scende in campo il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban ki Moon, chiedendo «al governo della Birmania di rilasciare immediatamente e senza condizioni Aung San Suu Kyi». Dura reazione alla condanna della leader birmana da parte dell’Ue, che minaccia sanzioni. E anche il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, come l’Onu, ha chiesto la liberazione immediata e incondizionata di Aung San Suu Kyi.
GLI ARRESTI- La leader della Lega Nazionale per la Democrazia è stata condannata per aver ospitato il 4 e il 5 maggio Yethaw ed è stata immediatamente ricondotta nella sua abitazione di Rangoon dopo la sentenza. Un tribunale speciale, riunito nel complesso carcerario di Insein, a nord della capitale, ha riconosciuto Suu Kyi colpevole di aver violato i termini che, dal 2003, regolano la sua detenzione domiciliare, per aver fatto entrare nella sua abitazione il pacifista americano.
LA CONDANNA- San Suu Kyi è stata condannata a tre anni dal tribunale militare. Una pena che il generale Than Shwe, capo della giunta militare al potere, ha tuttavia deciso di ridurre, commutandola in un anno e mezzo agli arresti domiciliari. Con questa nuova reclusione, Suu Kyi viene esclusa dalla elezioni che la giunta militare intende organizzare nel Paese per il 2010. Il premio Nobel ha trascorso 14 degli ultimi 20 anni in stato di detenzione, per lo più agli arresti domiciliari. La 64enne avrebbe finito di scontare la sua pena il 21 maggio. La donna, figlia di uno storico oppositore al regime militare birmano, è agli arresti domiciliare dal 1989. Ed è diventata simbolo della lotta per la libertà birmana.
IL PACIFISTA - Più pesante il verdetto a carico del co-imputato di Suu Kyi, il 54enne statunitense John Yettaw, in tutto sette anni di lavori forzati: tre ancora per violazione delle leggi sulla sicurezza, altrettanti per immigrazione illegale nel Paese asiatico, e infine uno per violazione delle norme municipali sull’attività natatoria. L’americano aveva raggiunto a nuoto la residenza della donna dopo aver avuto a suo dire «una visione nella quale sarebbe stata assassinata».
LE REAZIONI - All’appello delle Nazioni Unite per il rilascio di Suu Kyi si unisce quello di numerosi capi di stato e di governo. «L’Unione europea condanna il verdetto di colpevolezza emesso contro Aung San Suu Kyi e risponderà con sanzioni supplementari verso i responsabili della condanna», si legge in un comunicato della presidenza della Ue. «Il processo contro San Suu Kyi è ingiustificato e va contro il diritto nazionale e internazionale», spiegano da Bruxelles. «Stiamo preparando nuove sanzioni contro la Birmania, che comprendono restrizioni commerciali contro compagnie di Stato e il divieto di ingresso nella Ue per i quattro responsabili della sentenza di oggi» ha poi aggiunto il premier svedese Fredrik Reinfeldt, guida di turno della Ue, in un comunicato diffuso dalla presidenza. Una posizione confermata anche dalla Farnesina. «Laddove alla signora Suu Kyi, a seguito della nuova pena inflittale, fosse impedita la partecipazione al processo elettorale previsto per il 2010», ha affermato a sua volta il ministro degli Esteri, Franco Frattini, «ritengo che ciò costituirebbe una gravissima lesione ai principi della democrazia». Il primo ministro inglese Gordon Brown si è detto «costernato e in collera» per l’ennesima condanna al premio Nobel. Insieme alla reazione di Brown è giunto anche un appello del governo della Malaysia per una riunione d’urgenza dell’Associazione dei Paesi del sud est asiatico, Asean.
* CORRIERE DELLA SERA, 11 agosto 2009 (ultima modifica: 12 agosto 2009)
Il premio Nobel per la Pace è stata scortata da uomini armati
Misteriosa esplosione a Naypyidaw, la nuova capitale del Paese
Birmania, San Suu Kyi esce di casa
Colloquio con un membro del regime
RANGOON - L’hanno prelevata dalla villetta dove è costretta a vivere. Portata a colloquio con un esponente del governo. Aung San Suu Kyi, la leader dell’opposizione birmana che ha trascorso agli arresti domiciliari la maggior parte degli ultimi dieci anni, è ha lasciato la sua casa all’alba, scortata da uomini armati.
Il premio Nobel per la Pace 1991 è stata condotta da un convoglio militare a una vicina foresteria dell’esercito. Un luogo utilizzato per incontri ufficiali. Ad attenderla c’era il ministro del Lavoro, il generale a riposo Aung Kyi, rappresentante della giunta al potere. Tocca a lui tenere i contatti con Suu Kyi.
L’incontro rientra negli impegni concordati dall’inviato speciale delle Nazioni Unite, Ibrahim Gambari, con il capo della giunta, generale Than Shwe. In realtà, però, l’impegno è stato rispettato soltanto di rado. Dopo una serie di faccia a faccia iniziali, infatti, l’appuntamento è spesso saltato. Il colloquio di oggi, su cui viene mantenuto il più stretto riserbo, sarebbe il quarto. Impossibile, però, conoscerne i contenuti.
Esplosione, un morto. Stamattina una donna è morta a causa dello scoppio di una bomba all’interno della toilette della stazione ferroviaria di Naypyidaw, la nuova capitale (precedentemente era Rangoon, 380 chilometri più a sud). In Birmania gli attentati sono in realtà piuttosto frequenti, e i militari spesso ne attribuiscono la responsabilità agli attivisti dei gruppi di opposizione che lottano per l’introduzione della democrazia nel Paese asiatico.
* la Repubblica, 11 gennaio 2008.