[...] nel tardo XX secolo i giovani siano divenuti i fruitori/apostoli di tutte le maggiori novità tecnico-scientifiche e in genere della massiccia innovazione sociale, acquisendone per riverbero il prestigio e un profondo sentimento di autonomia. I padri, invece, sono andati inevitabilmente perdendo, di pari pari passo, il senso culturale del proprio ruolo e dei valori ricevuti e la sicurezza in se stessi. Tutto ciò è specialmente vero per l’Italia perché in Italia la cultura dei padri era particolarmente fragile. Priva di forti modelli tradizional-borghesi, influenzata profondamente dall’incerto permissivismo sessantottesco e dai luoghi comuni culturali del politicamente corretto, essa si è trovata in una situazione di totale debolezza davanti all’irruzione dei processi di autonomizzazione della soggettività giovanile [...]
I video di YouTube: giovani, scuola, valori
Addio ai padri
di Ernesto Galli della Loggia *
Il colloquio che segue è tratto da un filmato su YouTube, registrato con un cellulare nella classe di una scuola italiana la settimana scorsa. Un alunno di una quindicina d’anni, è vicino alla cattedra con un microfono in mano e finge un’intervista alla professoressa: Alunno: Ma lei, professoressa, ha mai provato a mettersi un dito nel culo? Professoressa (imbarazzata e sussurrando): Ma che dici, via... Alunno: Ma lei quanto guadagna? Professoressa (come sopra): Non molto di certo... Alunno: Pensa che guadagnerebbe di più facendo la puttana? Questo il brutale, e testuale, referto delle parole. Le quali obbligano a infischiarsene del moralismo e a porsi una domanda: che cosa è, che cosa bisogna pensare di un Paese dove in un’aula scolastica è possibile un simile scambio di battute?
E dove è possibile che ciò accada senza che nelle 24 ore successive (almeno a quel che si sa) vi sia alcuna reazione significativa? A proposito di episodi di brutalità, di violenza o di rifiuto delle regole più elementari del vivere civile come questo, che si susseguono nelle nostre scuole, non è più possibile evocare la categoria onnicomprensiva di «bullismo ». Non è più possibile, cioè, rifugiarsi nella dimensione del patologico e magari pensare che l’azione di un ministro (che pure è necessaria e urgentissima: si svegli onorevole Fioroni, si svegli!) possa essere il rimedio. Certo: la scuola e l’istruzione sono coinvolte, eccome!, ma si tratta di ben altro. Si tratta nella sostanza di una frattura immensa che nella nostra società si è aperta tra le generazioni.
Una frattura che comporta spesso l’impossibilità di trasmettere dai padri ai figli i modelli comportamentali, le gerarchie dei valori accreditati, perfino le regole della quotidianità, che i primi bene o male si credevano tenuti a osservare e che i secondi oggi, invece, neppure quasi conoscono o trattano con assoluta noncuranza. Beninteso, nell’epoca della modernità tutti i passaggi generazionali hanno registrato un problema del genere, che però oggi si presenta in modo radicale per la presenza combinata di due fenomeni inediti e dirompenti. Da un lato l’enorme innalzamento del reddito che da mezzo secolo caratterizza tutte le nostre società, e che consente oggi anche ai giovanissimi, per non dire agli adolescenti, di avere in tasca (o di poter ragionevolmente aspirare ad averlo) denaro da spendere per un ammontare finora impensabile (quanti quindicenni nel 1960 potevano avere un mezzo di locomozione proprio?).
Dall’altro, più o meno nello stesso periodo, ha preso forma una gigantesca rivoluzione scientifico-tecnica di portata generale, sì, ma capace di irrompere in modo pervasivo nella quotidianità del privato (si pensi alla pillola, alla tv, a Internet, all’ingegneria genetica), ed è in questa nuova quotidianità-distruttiva degli antichi universi valoriali e stilistici rappresentati esemplarmente dalla scuola-che si forma la nuova soggettività giovanile, forte del suo potere d’acquisto e non più orientata a un rapporto di imitazione con il mondo adulto ma piuttosto in arrogante, spesso aggressiva e violenta, contrapposizione a esso. Il cui simbolo è non a caso il cellulare.
E’ accaduto, insomma, che nel tardo XX secolo i giovani siano divenuti i fruitori/apostoli di tutte le maggiori novità tecnico-scientifiche e in genere della massiccia innovazione sociale, acquisendone per riverbero il prestigio e un profondo sentimento di autonomia. I padri, invece, sono andati inevitabilmente perdendo, di pari pari passo, il senso culturale del proprio ruolo e dei valori ricevuti e la sicurezza in se stessi. Tutto ciò è specialmente vero per l’Italia perché in Italia la cultura dei padri era particolarmente fragile. Priva di forti modelli tradizional-borghesi, influenzata profondamente dall’incerto permissivismo sessantottesco e dai luoghi comuni culturali del politicamente corretto, essa si è trovata in una situazione di totale debolezza davanti all’irruzione dei processi di autonomizzazione della soggettività giovanile.
Non solo. Da noi era specialmente debole proprio l’istituzione deputata in primis a fare i conti con quella soggettività: la scuola. Cosa poteva mai opporre alla straordinaria sfida dell’epoca la povera scuola italiana, che arrivava all’appuntamento dominata dai sindacati, gestita da una lobby di pedagogisti di regime e guidata da politici paurosi, interessati solo alla carriera?
* Corriere della sera, 02 aprile 2007
Sul tema, nel sito, si cfr.:
MUSSOLINI, IDA DALSER, E BENITO ALBINO MUSSOLINI: UNA TRAGEDIA ITALIANA.
MESSAGGIO EV-ANGELICO E SANTO PADRE?! ABUSO DEL TITOLO E MENZOGNA. L’ERRORE DI RATZINGER.
Il cardinale Appiah Turkson parla dell’educazione delle nuove generazioni alla pace
Gesù nelle mani dei giovani
di MARIO PONZI *
Il 2011 si è concluso così come era iniziato, segnato da una serie di manifestazioni dei giovani in quasi tutte le capitali europee e in buona parte di quelle del resto del mondo. Nelle nuove generazioni è cresciuto il senso di frustrazione per la crisi che sta assillando la società, il mondo del lavoro e l’economia. E su questo, come su altri versanti, il 2012 si annuncia altrettanto tenebroso all’orizzonte. "Le radici di questo malessere - dice il cardinale Peter Kodwo Appiah Turkson, presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace in questa intervista rilasciata al nostro giornale - sono anzitutto culturali e antropologiche". Quello che manca, ritiene in sostanza il porporato, è un’educazione alla solidarietà intergenerazionale. E questo genera il disorientamento dei giovani di fronte a modelli che sentono come propri. Non a caso il Papa nel messaggio per la Giornata mondiale della pace di quest’anno ha scritto: "Sembra quasi che una coltre di oscurità sia scesa sul nostro tempo e non permetta di vedere con chiarezza la luce del giorno". Sono questi i motivi "per i quali Benedetto XVI - sottolinea il cardinale - reclama la responsabilità di tutti alla formazione dei giovani, i veri protagonisti del futuro".
Effettivamente il concetto chiave della Giornata mondiale della pace 2012 sembra ruotare su due cardini indicati dal Papa: il protagonismo dei giovani e la contestualizzazione delle questioni da affrontare come sfide. Il fatto che la Chiesa punti molto sui giovani non è una novità. Cosa c’è in più in questo ulteriore richiamo di Benedetto XVI?
L’attenzione mostrata dal Papa per i giovani è profondamente coerente con quella di tutta la Chiesa nei loro confronti. Essi, infatti, sono da sempre in cima ai pensieri della Chiesa, poiché offrono un formidabile sguardo di speranza verso il futuro e, in questo senso, rappresentano la continuità della famiglia umana. Il Pontefice ha accolto il grido spesso silenzioso di tantissimi giovani e si impegna in prima persona perché essi siano resi protagonisti di un mondo nuovo e, nello stesso tempo, di una nuova evangelizzazione del sociale, di un impegno di trasfigurazione del mondo a partire dalla fede in Gesù Cristo. Quindi, come sostiene Benedetto XVI nella Caritas in veritate, fiduciosi piuttosto che rassegnati, i giovani protagonisti e costruttori di un futuro migliore, sono chiamati a riprogettare il loro cammino e a darsi nuove regole. Il messaggio del Papa, così come la sua omelia del 1° gennaio, sono fortemente calati nella realtà del mondo attuale. Un mondo gravemente segnato non solo dalla crisi economica e finanziaria, con tutte le sue molteplici drammatiche conseguenze, in primo luogo nel mondo del lavoro, ma anche dalla diffusa mentalità nichilista che nega ogni fondamento trascendentale e confina la persona in un orizzonte di solitudine, di materialismo, di egoismo, di disperazione. Il Papa ha voluto esprimere la sua profonda, concreta e accorata vicinanza alle inquietudini che oggi affliggono i giovani e le loro famiglie; ha voluto accogliere e rilanciare le loro giuste richieste di giustizia, da qualunque parte del mondo esse provengano, e certo non per farsi portavoce degli indignados, come hanno suggerito o scritto alcuni giornali.
Tra le cose che influenzano negativamente i giovani, il Papa, già nella Caritas in veritate, denunciava una "carenza di pensiero" nella società odierna. Poi ha continuato a porre l’accento su quella che egli non ha esitato a definire "emergenza educativa". Oggi torna a indicare l’educazione dei giovani come una sfida da affrontare per conquistare la pace e la giustizia nel mondo. Cosa c’è che non va nel sistema educativo a livello mondiale?
Il sistema educativo non è, per così dire, un organismo isolato, un organismo a sé stante. È piuttosto espressione di una solidarietà intergenerazionale tra passato e presente, tra presente e futuro. È intimamente intrecciato ad altri sistemi che riguardano l’esistenza umana. Soprattutto è intrecciato con la pratica quotidiana, cioè con quel mutevole stile della vita che sembra ormai incapace di sostenere il sistema educativo. Penso per esempio a tutto ciò che discende, in termini culturali e di mentalità, dal consumismo, dall’edonismo e, specialmente, da un’idea di libertà fraintesa. Nel senso che essa viene percepita solo come licenza di seguire all’infinito i propri impulsi e interessi particolari, e non come capacità di legarsi al vero bene, accettando quelle regole che lo tutelano e lo favoriscono. Tale concezione uccide, di fatto, la stessa libertà, generando quell’emergenza educativa, più volte denunciata dal Papa, che è un’emergenza di carattere antropologico ed etico. Questa può essere contrastata efficacemente mediante il serio rilancio di un nuovo pensiero critico, di una cultura aperta alla trascendenza e di un’educazione aperta al compimento umano in Dio. Lei mi domanda cosa non va nel sistema educativo. Io credo che la questione principale riguardi soprattutto la mancanza di una visione allargata, di un ampio orizzonte. Oggi, a mio parere, c’è bisogno di una educazione alla mondialità, che sia interdisciplinare, interculturale, interreligiosa, interetnica.
È stato per richiamare questa necessità di un nuova educazione che il Papa, all’omelia della messa per la Giornata mondiale della pace, ha posto quell’inquietante interrogativo: "Ha ancora un senso educare?".
Credo che il senso della domanda del Papa sia duplice. Innanzitutto credo abbia voluto focalizzare, con una provocazione, l’attenzione su una questione che ritiene fondamentale. Poi però ha voluto lanciare una sorta di "richiamo educativo" alla solidarietà intergenerazionale che consideri l’educazione come l’espressione e la trasmissione di un "manuale per la vita", nell’ottica di una rinnovata etica pubblica e di una forte coesione sociale. Il Papa, chiedendo se abbia senso educare, ha sollevato un problema oggi radicale. Riguarda l’intero contesto culturale ed è posto primariamente dalla crisi del pensiero e dell’etica. Se manca ogni fondamento, se l’idea di verità viene messa da parte, si mette da parte anche un orizzonte, un fine al quale educare. L’educazione, infatti, per sua natura proietta e propone, nel costante dialogo, una molteplicità di principi e di cognizioni. Ma se tali principi e cognizioni vengono privati del loro senso, del loro fondamento di verità, ecco che l’intero processo educativo, per così dire, crolla. In questo senso, Benedetto XVI, consapevole della profonda correlazione del sistema educativo con altri sistemi e con altre realtà private e pubbliche, ha voluto appellarsi a tutti i responsabili del processo perché insieme compiano una revisione, una decostruzione dell’assetto attuale e una conseguente ricostruzione in termini, prima di tutto, di responsabilità. I giovani, infatti, spesso si trovano a vivere in contesti e ambienti di vita diseducativi, a fare esperienze che li fanno perdere o frustrare. Tutti i responsabili chiamati in causa sono invitati ad agire. Se, per esempio, il mondo politico non si fa esemplare, non solo nell’elaborazione di politiche eque, ma anche nella condotta del personale politico, o se la politica soggiace interamente alla sola forza degli interessi economici e finanziari stabilendo, così, una sua subalternità rispetto a essi, anche la società degenera. Lo stesso si può dire di tutti gli educatori, compresi i pastori e i formatori ecclesiastici. Credo sia fondamentale richiamare il problema dell’urgente rinnovamento della democrazia partecipativa, sempre più minata da derive populiste o da istanze nazionaliste o regionaliste.
I giovani in effetti non sono entità isolate. Essi vivono in un contesto che sembra spingerli su tutt’altra via rispetto a quella indicata dal Papa. Ancora oggi, violenza, prepotenza, intolleranza si pongono come antagonisti di sentimenti peraltro naturali per le nuove generazioni aperte al dialogo, alla convivenza pacifica, alla fraternità universale. Come metterli al riparo dai non valori che li minacciano?
Attraverso un’azione responsabile e congiunta di tutti i soggetti coinvolti. In primo luogo attraverso l’opera di educatori che siano a un tempo testimoni credibili per una seria educazione e una concreta formazione. E badi bene che i giovani non sono, per così dire, entità passive. Essi sono i primi responsabili. In questo senso, il Papa ha voluto porre l’enfasi sull’ascolto delle istanze giovanili. Ma allo stesso tempo mi sembra abbia voluto incoraggiare i giovani al protagonismo, a rendersi artefici della propria vita, nella valorizzazione dei propri talenti, in libertà e solidarietà con gli altri, a scoprire il progetto che Dio ha su ciascuno di loro.
Il Papa confida molto nell’opera della Chiesa nel campo formativo. Ma i giovani sono antropologicamente molto diversi dai loro maestri. Secondo lei si parla nel modo giusto, o meglio comprensibile, per le nuove generazioni?
Non direi "antropologicamente diversi". Piuttosto, direi che i giovani sono diversi come mentalità, valori e formazione, così come avviene per ogni generazione rispetto alle precedenti. Se i giovani non vengono ascoltati, se vengono esclusi e non si permette loro di affermare i propri talenti e le proprie vocazioni, o se vengono confinati in un orizzonte di precarietà assoluta che li schiaccia sul presente eliminando qualsiasi progettualità del futuro, allora la risposta è che oggi non si parla ai giovani nel modo giusto. E non solo non si parla, ma non si agisce nel modo giusto, pensando, cioè, al futuro della società. Proclamando all’umanità la via della pace il Papa si è rivolto a tutti i giovani. È vero, essi sono culturalmente diversi. Ma come il Vangelo, così Benedetto XVI va diretto al cuore dei giovani, riesce anche a trascendere i confini nazionali, continentali, culturali, religiosi, superando i cosiddetti "spazi delle civiltà". Come pastore ghanese, posso testimoniare per esempio l’accoglienza che il messaggio per la Giornata mondiale della pace ha ricevuto dai giovani del mio Paese e di tutta l’Africa, anch’essi molto diversi fra loro. Così è avvenuto in India, in Cina, in Brasile, negli Stati Uniti, in Europa e nelle altre Nazioni del mondo.
Esistono ostacoli di comunicazione per la penetrazione del Vangelo negli ambienti culturali che connotano l’universo giovanile?
Il Vangelo è un messaggio di speranza: una speranza per tutti gli uomini. È una realtà che cambia il cuore. È la buona novella valida per tutti i contesti culturali in ogni tempo. Essa va dritta al cuore delle persone. Se, però, i giovani sono costretti in ambienti, mentalità e stili di vita contrari al bene comune, contrari al loro stesso bene, e dunque contrari al Vangelo, che è un messaggio di vita, libertà, solidarietà, fraternità, accoglienza, amicizia, allora lo sguardo viene distolto dalle cose grandi e belle che l’esistenza loro riserva. Quanto alla questione della comunicazione faccio solo un esempio: per tutto il primo gennaio sono apparsi numerosissimi "cinguettii" su twitter a proposito del messaggio per la pace. È stata una gioia vedere giovani di ogni continente "cinguettare" le parole del Papa con il linguaggio tipico della rete. Sono molto contento di questa condivisione diretta con tanti giovani nel loro linguaggio e su uno dei social network tra i più frequentati dai ragazzi di ogni parte del mondo.
Il Papa ha concluso l’omelia del 1° gennaio con un’indicazione precisa: "Gesù è una via praticabile, aperta a tutti. È la via della pace". Come il dicastero della Giustizia e della Pace cercherà di rendere visibile a tutti questa via nell’anno appena iniziato?
Innanzitutto ci dedicheremo a una diffusione capillare del messaggio per la Giornata mondiale della pace 2012. Abbiamo poi in programma la celebrazione del cinquantesimo anniversario del concilio Vaticano II. Inviteremo proprio le nuove generazioni a riflettere sui suoi contenuti. C’è poi da preparare con cura la celebrazione del cinquantesimo anniversario della Pacem in terris, nel 2013. Tra gli altri impegni di quest’anno segnalerei la preparazione della conferenza delle Nazioni Unite sullo sviluppo sostenibile che, come è noto, si svolgerà a Rio de Janeiro dal 20 al 22 giugno prossimo. Abbiamo anche in programma l’organizzazione, in collaborazione con altri organismi, di una conferenza sulla vita rurale e una serie di tavole rotonde su diversi argomenti: il traffico di esseri umani; la difesa della persona umana dal concepimento alla sua fine naturale; le strategie d’impresa per il bene comune; il rinnovamento della missione e dell’identità della formazione cattolica nel mondo degli affari; e infine le nuove sfide per i cattolici nella costruzione del bene comune. Naturalmente collaboreremo con gli altri dicasteri della Santa Sede per far comprendere che il culto di Dio è fondamentalmente un atto di giustizia, senza il quale non sono possibili gli altri atti di giustizia fra gli uomini. Cercheremo anche di rafforzare l’idea che la fede in Cristo è fondamentale per rinnovare la cultura e la società per il bene di tutti. In questo senso, il Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace è pronto ad accogliere l’invito del Papa a intensificare gli sforzi per riaffermare la grande valenza intellettuale, spirituale e morale della fede. Il dicastero si adopererà per far comprendere a tutti che Cristo è la via per la pace, contribuendo così a esplicitare la dimensione sociale della nuova evangelizzazione, in sintonia con le prospettive del Sinodo dei vescovi del prossimo ottobre.
(©L’Osservatore Romano 6 gennaio 2012)
Un sinodo sulla donna?
di Liliana Cavani e Emma Fattorini (Il Sole-24 Ore, 27 dicembre 2009)
Una domanda pacata ma radicale: perché le diverse componenti che animano la chiesa, divise su tanti aspetti, hanno però in comune uno stupefacente silenzio sulla donna? Un richiamo stanco e di maniera, frutto più di rivendicazioni esterne che non di una convinzione vera, quale sarebbe logico di fronte a un così evidente segno dei tempi?
Le ragioni sono tante e come sempre quasi tutte dettate da paura. Forse però non aiuta una fìdes che, pur riconoscendo giustamente le «ragioni della ratio», finisce con il trascurare troppo la dimensione dell’esperienza, della relazione personale e in ultimo del corpo e della sua vita. Nella sua concreta incarnazione nell’uomo e nella donna, come ci ricordava Wojtyla, nei troppo dimenticati discorsi sul corpo che teneva i mercoledì mattina. Con quale «ragione», con quale pensiero laico e razionale il cristiano oggi è invitato ad aprirsi e a misurarsi?
Con una ragione e una teologia troppo disincarnata che non vede la verità nell’esperienza religiosa fatta dall’incontro con Cristo come persona. La paura del soggettivismo-relativismo rischia di fare perdere la ricchezza spirituale che c’è nell’entrare in contatto con il Signore anche con il corpo, con le emozioni, con tutta la propria persona e non solo con la testa, non solo con il pensiero. E così si perde quell’unità della persona che deve unificare e non separare le diverse esperienze umane.
Non si può certo dire che siano state onorate le aspettative suscitate dalle parole che Giovanni Paolo II aveva dedicate alle donne, parlando di «genio femminile», una visione poi approfondita da Joseph Ratzinger. La grande novità delle affermazioni contenute nella Mulieris dignitatem, non stava tanto nel riconoscere la parità della donna con l’uomo, ma nel capire finalmente che la donna, senza più camuffare la sua più profonda identità, poteva e doveva essere protagonista, con pari dignità alla costruzione di un mondo condiviso: questa la straordinaria novità di quelle bellissime parole. Non dunque l’ennesimo riconoscimento retorico di una idealizzata e disincarnata essenza femminile, ma la sua concreta promozione nella società senza svisarne la sua intima identità. Tutto ciò avrebbe richiesto un maggiore "investimento" sulle donne e non il contrario. Non c’entra nulla la rivendicazione del sacerdozio femminile. Non è questo che le donne chiedono. E altra la loro influenza e diverse le loro aspettative, esse mirano direttamente a Dio e non a diventare preti. Non trarre tutte le conseguenze pratiche di come il “genio femminile" possa agire nel mondo non solo impoverisce la chiesa cattolica ma finisce con il tradirne la sua stessa vocazione di civilizzazione; il ruolo della donna infatti è oggi e sarà sempre di più il cuore dei grandi cambiamenti di tutte le culture del mondo, la cartina di tornasole dei loro processi di democratizzazione e di umanizzazione.
Che fare perché ai pur autorevoli riconoscimenti del Magistero seguano finalmente atti di grande portata e concretezza? E troppo ingenuo pensare all’urgenza addirittura di un Sinodo sulla donna?
L’anno in cui nelle scuole morì l’autorità
di MARIO VARGAS LLOSA (LA Stampa, 29/7/2009)
Alcuni anni fa ho visto a Parigi, alla tv francese, un documentario che mi è rimasto impresso e le cui immagini sono talvolta riportate all’attualità con una forza esplodente dagli eventi quotidiani. Il filmato raccontava i problemi di un liceo della periferia di Parigi in uno di quei quartieri in cui le famiglie francesi povere vivono con gli immigrati di origine sub-sahariana, latino-americani e arabi del Maghreb. Questo istituto d’istruzione secondaria pubblico i cui alunni costituiscono un arcobaleno di razze, lingue, costumi e religioni, era stato scenario di violenze.
Bastonate ai professori, stupri nei bagni e nei corridoi, risse tra bande a colpi di coltello e di spranghe, e, se non ricordo male, persino rivoltellate. Non so se ci fossero stati morti, ma certamente parecchi feriti e la polizia, perquisendo le aule, aveva trovato armi, droghe e alcol. Il documentario non voleva suscitare allarme, al contrario tranquillizzare, mostrando che il peggio era ormai passato e che, con la buona volontà di autorità, insegnanti, genitori e alunni, le acque si stavano calmando. Con evidente soddisfazione, per esempio, il preside faceva notare che, grazie al metal detector appena installato e sotto il quale gli studenti dovevano passare per entrare a scuola, si potevano confiscare i pugni di ferro, i coltelli e le altre armi da punta e da taglio. E, così, i fatti di sangue avevano avuto una drastica riduzione. Si erano approvate disposizioni per fare in modo che sia i professori sia le allieve non si muovessero mai da soli, anche per andare in bagno, ma sempre almeno in due. Al fine di evitare, in questo modo, aggressioni e imboscate. E ancora: la scuola aveva a disposizione permanentemente due psicologi per dare consigli a studenti e studentesse - quasi sempre orfani di almeno un genitore, con alle spalle famiglie devastate dalla disoccupazione, dalla promiscuità, dalla delinquenza e dalla violenza - disadattati o attaccabrighe irriducibili. Ma la cosa che più mi ha impressionato del documentario è stata l’intervista a una docente che faceva, con naturalezza, un’affermazione di questo tipo: «Adesso va tutto bene, ma occorre sapersi giostrare». Spiegava che, per scongiurare le aggressioni e le botte di prima, lei e altri insegnanti s’erano accordati di ritrovarsi, a un’ora stabilita, all’uscita più vicina della metropolitana e di camminare in gruppo sino alla scuola. Così riducevano i rischi d’essere aggrediti dai «voyous». Quella professoressa e i suoi colleghi che, ogni giorno, andavano al lavoro come se andassero all’inferno, s’erano rassegnati. Avevano imparato a sopravvivere e non sembravano neppure immaginare che il mestiere d’insegnare potesse essere qualcosa di diverso da questa loro quotidiana via crucis.
In questi giorni ho finito di leggere uno dei piacevoli e sofistici saggi di Michel Foucault nel quale, con la consueta verve, il filosofo francese sostiene che l’insegnamento, proprio come la sessualità, la psichiatria, la religione, la giustizia e il linguaggio, è sempre stato, nel mondo occidentale, una di quelle «strutture di potere» erette per reprimere e manipolare il corpo sociale grazie a sottili, ma efficaci forme di sottomissione e di alienazione per eternare i privilegi e il controllo del potere da parte dei gruppi sociali dominanti. Bene, se prendiamo in considerazione anche il solo campo dell’insegnamento, notiamo che, a partire dal 1968, l’autorità che castrava gli istinti libertari dei giovani è finita in mille pezzi. A giudicare, però, da quel documentario che avrebbe potuto essere girato in molti altri angoli della Francia e dell’Europa intera, il crollo e il discredito dell’idea stessa di insegnante e di insegnamento - e, in ultima analisi, di qualsiasi forma di autorità - non sembra aver portato alla liberazione creativa dello spirito giovanile, ma, piuttosto, trasformato le scuole così liberate in istituzioni in preda al caos, nel migliore dei casi, e, nel peggiore, in piccole satrapie di bulli e di precoci delinquenti.
È evidente che il Maggio ’68 non mise fine all’«autorità» - che, già da tempo, stava vivendo un processo di generale sfinimento in tutti i settori, dalla politica alla cultura - in particolare nel campo dell’insegnamento. Ma la rivoluzione dei ragazzi-bene, crema delle classi borghesi e privilegiate di Francia, che furono i protagonisti di quel divertente carnevale all’insegna dello slogan «Proibito proibire», ha consegnato al concetto di autorità il suo atto di morte. E dato legittimità e glamour all’idea secondo cui ogni autorità è infida, dannosa, scivolosa e che il più nobile ideale di libertà consiste nel disconoscerla, negarla, distruggerla. Il potere non si sentì minimamente toccato da quest’emblematica arroganza dei giovani ribelli che, senza che la maggior parte di essi lo sapesse, portavano sulle barricate gli ideali iconoclasti di pensatori come Foucault.
Basti ricordare che nelle prime elezioni svoltesi in Francia dopo il Maggio ’68, la destra gollista ottenne una sonora vittoria. Ma l’autorità, nel senso latino di auctoritas, non di potere, bensì, come la definiscono i dizionari, di «prestigio e credito che si riconosce a una persona o a un’istituzione per la sua legittimità o qualità o competenza in una qualche materia», non rialzò la testa. Da allora, in Europa come in buona parte del resto del mondo, praticamente non esistono figure politiche o culturali capaci di esercitare il magistero, nel contempo morale e intellettuale, dell’«autorità» classica che, a livello popolare, era incarnata dai maestri, parola che un tempo aveva un suono così bello perché associata al sapere e all’idealismo. In nessun campo tutto ciò è stato tanto catastrofico per la cultura come nell’insegnamento. Il maestro, spogliato di credibilità e di autorità, trasformato spesso in strumento del potere repressivo, vale a dire del nemico al quale per raggiungere la libertà e la dignità d’uomini bisognava resistere, arrivando, persino, ad abbatterlo, ha perduto la fiducia e il rispetto senza i quali gli era praticamente impossibile adempiere alla sua funzione di educatore, di trasmettitore di valori e di conoscenze. Di più: li ha persi non solo agli occhi dei propri alunni, ma anche a quelli degli stessi genitori e dei filosofi rivoluzionari che, come l’autore di Sorvegliare e punire, identificavano nel maestro uno dei sinistri strumenti di cui - proprio come gli agenti di custodia delle carceri e gli psichiatri dei manicomi - l’establishment si serve per mettere le briglie allo spirito critico e alla sana ribellione di bambini e adolescenti.
Molti maestri, in perfetta buona fede, credettero a questa degradante demonizzazione di se stessi e contribuirono, gettando benzina sul fuoco, ad aggravare la rottura facendo proprie alcune delle più avventate affermazioni dell’ideologia del Maggio ’68 nel settore dell’insegnamento come, per esempio, considerare anormale rimproverare i cattivi studenti, far loro ripetere l’anno e, persino, dare voti e stilare graduatorie tra gli allievi in base al rendimento scolastico perché, attraverso tali «distinguo», si diffonderebbero l’infausto concetto di gerarchia, l’egoismo, l’individualismo, la negazione dell’idea che tutti siamo uguali, e il razzismo.
È vero che queste estremizzazioni non sono riuscite a infettare tutti i settori della vita scolastica, ma una delle conseguenze perverse del trionfo delle idee - delle dispute e delle fantasie - del Maggio ’68 è stata la brutale accentuazione della divisione tra classi a partire proprio dalle aule di scuola. L’insegnamento pubblico è stato una delle grandi conquiste della Francia democratica, repubblicana e laica. Nelle sue scuole e nei suoi collegi, di altissimo livello, le ondate di studenti godevano d’una uguaglianza di opportunità che correggeva, in ogni nuova generazione, le asimmetrie e i privilegi legati alla famiglia d’origine o alla classe sociale d’appartenenza, aprendo ai bambini e ai giovani dei settori meno fortunati la strada del progresso, del successo professionale e del potere politico.
L’impoverimento e il disordine sofferti dall’insegnamento pubblico, sia in Francia sia nel resto del mondo, hanno attribuito all’insegnamento privato - al quale, per motivi economici, ha accesso solo un settore sociale minoritario d’alto reddito, meno toccato dalle distruzioni della presunta rivoluzione libertaria - un ruolo preponderante nella formazione dei dirigenti di oggi e di domani nell’ambito della politica, delle professioni e della cultura. Non è mai stato così vero il detto: «Nessuno sa per chi lavora». Credendo di lavorare alla costruzione di un mondo davvero libero, senza repressioni, mancanza di diritti e autoritarismo, i filosofi libertari come Michel Foucault e i suoi incoscienti discepoli hanno, in realtà, lavorato molto alacremente perché, grazie alla grande rivoluzione da loro propiziata nel campo dell’istruzione, i poveri continuassero a essere poveri, i ricchi, ricchi, e gli atavici detentori del potere seguitassero a tenere la frusta nelle loro mani.
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Silvio da Casoria, l’educatore
I misteri mai voluti chiarire sul rapporto con una neodiciottenne, gli attacchi ai giudici e la semplice domanda del leader Pd
di Furio Colombo (l’Unità, 31.05.2009)
Basta elencare alcuni fatti - nessuno enorme, tutti esemplari - accaduti lo stesso giorno, rivederli sui giornali e le notizie tv del giorno dopo, per capire la strana, misteriosa avventura che stiamo vivendo.
Primo fatto: il Presidente del Consiglio va alla Assemblea della Confesercenti e dichiara: «Se vuoi fare il male o fai il delinquente, o fai il giornalista o fai il magistrato». Solo i magistrati hanno protestato.
Secondo fatto: «In un carruggio di Genova un giovane anarchico, tale Juan Antonio Sorrache Fernandez ha urlato contro il ministro La Russa una raffica di insulti prima di essere bloccato dagli uomini della scorta» (La Repubblica, 29 maggio). Episodio sgradevole su cui il generoso ministro della Difesa ha sorriso. Ma non il suo guardaspalle, il corpulento senatore della Repubblica Giorgio Bornacin. Ha atteso che il giovane scalmanato spagnolo fosse tenuto ben fermo dalla scorta e solo in quel momento gli ha sferrato un pugno al volto. Il TG3, Linea Notte, 28 maggio, ha mostrato con chiarezza il gesto di coraggio del senatore extra-large di cui il ministro La Russa dispone.
Terzo fatto: «Einaudi non pubblica Il Quaderno il nuovo libro del premio Nobel José Saramago. «L‘opera contiene giudizi a dir poco trancianti su Silvio Berlusconi che di Einaudi è il proprietario» (Il Corriere della Sera 29 maggio). Qui c’è anche anche una nitida ridefinizione dell’editore. Non conta il Nobel. Conta il proprietario. Altrimenti come avrebbero potuto pubblicare, in America, la copiosa produzione di libri contro Kennedy, contro Clinton, contro Carter, contro Reagan, contro Bush, padre e figlio? Quarto fatto: il segretario del Partito democratico Dario Franceschini rivolge ai suoi ascoltatori, durante un incontro elettorale a Genova, questa domanda: «Fareste educare i vostri figli da Berlusconi?». È utile dire che domanda di Franceschini segue di pochi giorni l’improvvisa apparizione di Berlusconi alla festa di una diciottenne bella e sconosciuta (al resto degli italiani) circondata da decine di amiche e coetanee. Segue un regalo alla giovane debuttante, acquistato per migliaia di euro da orafo di reputazione internazionale; segue una serie innumerevole di affermazioni solenni e di solenni smentite; segue la perplessità di tutta Europa, stampa e politica, sul legame, la origine del legame, il rapporto tuttora immerso nel mistero fra Berlusconi e famiglia Letizia, in particolare con il padre della fortunata diciottenne. Però è un fatto che la festa ha avuto luogo a un tiro di schioppo dall’inceneritore di Acerra, festosamente inaugurato, con presidio di Forze armate, poche settimane prima dal premier.
Per allargare il quadro a beneficio dei posteri è bene ricordare che la domanda di Franceschini segue di pochi giorni una motivata sentenza del Tribunale di Milano (primo grado) che definisce più volte Berlusconi Silvio, padre e padrone di mezza Italia, «corruttore». Segue di pochi giorni una accorata lettera della consorte divorzianda Veronica Lario. Dice «frequenta minorenni» Supplica: «Aiutatelo come si aiuta qualcuno che non sta bene». Berlusconi Silvio, l’educatore. A questo punto, dite la verità: è difficile che un italiano, per quanto di destra, decida di far educare i suoi figli da uno che, di notte, deve improvvisamente recarsi a Casoria.
Da uno che risponde alla sgradevole sentenza di Milano con attacchi violenti alla magistratura. Da uno che non tollera neppure la mite stampa italiana e la mette in lista fra i delinquenti; da uno che non risponde a dieci semplici elementari domande di Repubblica se non con il giuramento di non aver fatto nulla di «piccante» (notare il gergo da vecchio cabaret); da uno che la stampa del mondo definisce «un pericolo» e «una minaccia»; da uno di cui l’opinione americana diffida a causa degli intimi legami di affari con la Libia e con Putin, due ambienti dove gli oppositori e i giornalisti fastidiosi si eliminano.
Ma il leader giura sulla testa dei figli (un bel pericolo!). E i figli, rispondono sia al legame di affetto sia a quello, innegabilmente forte, di azienda. Di fronte al padre-azienda, l’Italia - ci dicono - si commuove. Che cosa accade allora? Accade che la sottosegretaria Roccella offra i suoi figli al presidente di Casoria (senza rivelare, però, che sono già grandini). E il resto dell’opinione pubblica, tutta la destra, tutta la stampa, un bel po’ di sinistra e Pd, accusano Franceschini di delitto contro la famiglia (Berlusconi).
Ma lui, tutto solo e accusato da ogni singolo editoriale di ogni singola libera testata, intendeva mettere in guardia la famiglia Italia. Perciò ripetete con lui la frase che vale la pena di fare bandiera elettorale: «Fareste educare i vostri figli da Silvio Berlusconi?».
Se le famiglie dicessero no
di Gabriele Romagnoli (la Repubblica, 30.5.09)
Il diavolo è sempre in cerca di anime da comprare, ma vendergli la propria resta una libera scelta. L’ultima, probabilmente. è quanto viene da pensare riconsiderando da una diversa angolazione l’ultimo "caso Berlusconi".
Se dal punto di vista politico quel che conta è l’incapacità di un presidente del consiglio di affrontare la verità dei fatti, che le sue contraddizioni hanno finito per rendere rilevante, dal punto di vista sociale a colpire è l’atteggiamento della famiglia Letizia, ragazza e genitori, la loro incapacità di dire, a suo tempo, un semplice (e ragionevole) no che avrebbe cambiato la storia. Quale storia? Quella di un piccolo nucleo umano alla periferia di Napoli, ma anche quella d’Italia. Perché è evidente che quel nucleo è lo specchio di un Paese. E’ la superficie sulla quale può vedere il proprio volto rivelato quella maggioranza consapevole di italiani che (a prescindere da come ha votato) si è consegnata non tanto a un uomo, a una guida, quanto a uno stile di vita, a un’ideale che preferisce la scorciatoia all’etica.
Prendiamo solo gli eventi acclarati ed esaminiamoli staccandoci dal particolare, senza relegarli ai nomi che ne nascondono la dimensione universale. In un luogo lontano dal cuore dell’impero e dalla luce dei riflettori (tendenti a coincidere) una coppia di genitori alleva una figlia sperando, come tutti tendono a fare, che la sua vita sia più fortunata della loro. La madre augurandole il successo nello spettacolo che lei non ha potuto avere. Il padre, l’accesso a quel potere di cui lui ha solo conosciuto l’anticamera. A un certo punto, per circostanze che qui non rilevano, book o cartolina, entra in contatto con la ragazza un uomo al di fuori della sua portata. Di cinquant’anni più grande, potente e, si aggiunga, sposato. Saltiamo i preliminari e consideriamo una sola tra le cose accertate: quest’uomo invita la ragazza a passare un capodanno nella sua villa in Sardegna. Che sia ospite insieme ad altre dozzine di esemplari può essere considerata un’attenuante o un’aggravante, dipende dai punti di vista. Il fatto resta. E qui sorge la domanda sul rapporto con i figli, che non è quella mal mirata posta dal segretario del pd Dario Franceschini. La domanda è: se hai una figlia minorenne e un settantenne, maritato e potente l’invita a casa sua per le feste, come reagiresti?
Che cosa induce i genitori a guardarla fare la valigia e magari aiutarla a infilarci le calzette rosse? Non pensano a possibili rapporti piccanti, certo: pensano al bene di lei, alla carriera che potrà schiudersi, come è già per altre, nello spettacolo o nella politica. Questo sognano la ragazza, i suoi genitori, l’Italia in cui da almeno una generazione, viviamo.
Ora, è luogo comune a questo punto scagliare l’anatema contro il diavolo: è stato lui a venderci questi sogni, a far deviare dalla strada maestra asfaltando scorciatoie verso direzioni che sono altrettanti precipizi. Più che una spiegazione un alibi, una copertura per la mancanza di spina morale che nessun palinsesto avrebbe potuto piegare se fosse esistita.
E’ vero che le tentazioni sono tante e facili. Un qualunque pulcino ballerino può attraversare una passerella di presunti talenti , tuffarsi nell’altro canale e vincere, chessò, il Festival di Sanremo. Una qualsiasi faccia da citofono può piazzarsi in una casa, cicalecciare a comando e diventare una celebrità. Se, in un’altra epoca, Montanelli scriveva che l’ingresso al governo di Giovanni Goria ridava speranza a tutte le mamme con un figlio non troppo dotato, l’investitura delle Carfagna, Brambilla, Gelmini ha prodotto madri pronte a preparare alle figlie il trolley rosa per la Sardegna. Volere questo, volerlo in questo modo, non è un delitto. Proporre questo, proporlo in questo modo, non è un delitto. Il diavolo fa il suo mestiere. Quelli a cui telefona rispondono come possono. La vera domanda è una: perché non riescono a dire no?
Quando e come hanno perso gli anticorpi? Quando questo scambio è diventato la normalità del vivere qui e ora? Quando ne è valsa la pena? Quando? A quale risveglio e dopo quanto sonno? E non è questione che riguarda uno spicchio di società, individuabile politicamente o economicamente. E’ una situazione generalizzata, trasversale. Ognuno incontra il proprio diavolo, prima o poi. E può decidere come rispondere alla sua proposta. Può accettarne l’invito: in Sardegna, nel salottino televisivo che dà la popolarità, alla tavola dei signori che distribuiscono le cariche. O può proseguire nella sua, lunga, strada. Non è una decisione in cabina elettorale, è molto più di così. Riguarda la capacità di essere se stessi, lottare da soli contro i limiti imposti dal caso e dalle virtù, sconfiggerli o accettarli senza l’aiutino del presentatore o l’affettuosa benevolenza di chi dà e trucca le carte. Riguarda, soprattutto, la possibilità di costituire un esempio per le generazioni a seguire, affinché la prossima sappia da sé rispondere allo squillo del cellulare:
"Pronto, ciao: sono papi..."
"Lei ha sbagliato numero".
Il Papi osceno
di Alessandro Carrera *
Nelle ultime settimane, tra New York e Milano, amici e conoscenti si sono sentiti in dovere di informarmi sulle novità italiane delle quali, stando in Texas, sarei rimasto all’oscuro. Sono così venuto a conoscenza di voci (alcune delle quali mi sono state confidate ancora prima che venisse a galla l’affaire Noemi) che puntano più o meno tutte in un’unica direzione: attribuiscono cioè all’attuale presidente del consiglio dei ministri della più grande penisola del Mediterraneo una libido assolutamente iperbolica. Ho intrapreso una ricerca in internet per verificare se queste voci si fossero diffuse anche in rete, ma ho trovato ben poco rispetto a quello che mi è stato raccontato.
Ci troviamo dunque in presenza di un fatto ormai raro, e anzi particolarmente significativo per chi si interessa di storia delle dicerie: il momento in cui rumori e leggende di cui non si conosce il fondamento si diffondono per via puramente orale, senza ancora tramutarsi in scrittura.
In un paese anglosassone e protestante il solo sospetto che alcune di queste voci potrebbero essere vere avrebbe già imposto all’interessato le dimissioni immediate, senza se e senza ma.
L’Italia però non è né anglosassone né protestante, è cattolica e pagana, e la prestanza attribuita al presidente in carica appare piuttosto la ripresa dell’immortale salute di un Giove alla perenne rincorsa di qualche ninfa. Oppure i paragoni andrebbero cercati con la senilità erotomane del dittatore descritto da García Marquez ne L’autunno del patriarca, o con gli ultimi anni della vita di Mao Zedong, quando la Banda dei Quattro gli forniva ragazze in continuazione per distrarlo dagli affari di governo e comandare in sua vece. Sia come sia, è chiaro che un capo del governo in preda a erotismo senile è un pericolo per la sicurezza nazionale. Potrebbe essere spinto a rivelare affari di stato a giovanette più o meno innocenti che andranno poi a raccontarli a un fidanzato di turno piazzato da un servizio segreto straniero o da qualche gruppo di potere. Simili argomenti sono stati sollevati durante lo scandalo Clinton-Lewinski, e non erano peregrini, benché in quell’occasione se ne fosse fatto un uso eccessivo e strumentale.
Nello specifico caso italiano l’attribuzione di un’erotomania incontenibile al presidente del consiglio rafforza una figura che, sulla scia del Freud di Totem e tabù, chiameremo quella del “Padre Osceno”, il vecchio capo che prende per sé le donne più giovani della tribù negandole ai figli. Nella fantasia freudiana i figli si uniscono per uccidere genitore, tornando poi a dividersi le donne e permettendo così la sopravvivenza della tribù, mentre il senso di colpa edipico sarà il prezzo che pagheranno per l’infrazione dei vincoli di sangue. Nessun antropologo sosterrebbe oggi la plausibilità scientifica del racconto freudiano, che del resto nemmeno l’autore presentava come una verità. Un supporto indiretto l’abbiamo però dal primo libro dell’Iliade: Agamennone che porta via ad Achille la schiava Briseide si comporta precisamente come il Padre Osceno. L’ira di Achille è edipicamente giustificata, e la lentezza con la quale i capi dei greci lo comprendono finisce per danneggiare non poco la loro impresa guerresca.
Il popolo italiano, almeno fino all’esplodere del caso Noemi, finora è sembrato più che disposto ad assecondare il suo Agamennone. A quanto sembra, anzi, c’erano italiani che facevano a gara nel consegnargli le proprie figlie o fidanzate. Invece della rivolta edipica aveva preso piede il desiderio di partecipare per via indiretta alla sessualità del capo. Il godimento del sottoposto per la potenza genitale del proprio leader è una forma di omoerotismo di massa stabilizzatasi all’epoca del fascismo, e la soddisfazione che molti ne hanno tratto allora dev’essere stata così forte, e così intensa la nostalgia che poi ne è seguìta, che i loro figli e i nipoti si sono sentiti in dovere di ricrearne le condizioni.
Altro che ira d’Achille. È stata invece riconfermata una potente intuizione di Umberto Saba, attento lettore di Freud: gli italiani sono incapaci di rivoluzione perché è solo con l’uccisione del padre che inizia una rivoluzione, mentre «gli italiani vogliono darsi al padre, ed avere da lui, in cambio, il permesso di uccidere gli altri fratelli».
Alessandro Carrera
*Fonte: Europa, 27.05.2009
intervista
Per la psicologa Eugenia Scabini «oggi i genitori si riflettono nei figli, quasi fossero la loro prosecuzione, rompendo la tradizionale alleanza formativa con il sistema scolastico»
Giovani e adulti, tutti narcisi
«La nostra società vive un individualismo narcisistico: gli stessi adulti non sono capaci di avere valori condivisi, ma vanno alla ricerca del successo immediato, della facile realizzazione»
DA MILANO ENRICO LENZI (Avvenire, 28.05.2009)
Adulti « narcisisti », incapaci di svolgere il proprio ruolo di genitori. Ma anche una società « che spinge verso un individualismo narcisista » . Per Eugenia Scabini, docente di Psicologia sociale della famiglia e preside della facoltà di Psicologia dell’Università Cattolica di Milano, è il terreno fertile su cui cresce l’emergenza educativa.
Da molto tempo si parla della necessità di un’alleanza scuolafamiglia e realtà educative per farvi fronte. Siamo ancora all’allarme o vi sono segnali di inversioni di tendenza?
« In primo luogo ritengo positivo che si sia lanciato l’allarme e preso coscienza del problema. Se da un lato c’è un grande consenso sull’allarme, dall’altra, però, si assiste a un palleggio di responsabilità tra le varie componenti: ognuna attribuisce all’altra la responsabilità, ma nessuna si chiede quale sia la propria parte per porvi rimedio ».
E chi finisce principalmente sul banco degli imputati?
« Direi la famiglia. In parte ci possono essere delle ragioni, ma appare il capro espiatorio di un aspetto più ampio. Di certo la componente sociale sembra chiamarsi fuori dal gioco delle responsabilità ».
Uno scaricabarile, dunque?
« Il fenomeno che stiamo analizzando, l’emergenza educativa, è espressione di un individualismo narcisistico, che è la causa culturale del problema. Anche la famiglia non sfugge a questo fenomeno, ma è l’intera società, il mondo degli adulti a esserne affetto. Oggi i genitori, rispetto al passato, continuano a vedere considerare i figli come una prosecuzione di se stessi, ma mancano della capacità di considerare i giovani come una generazione da promuovere e lanciare nel futuro. Al contrario sembrano considerarli dei competitori ».
Quali sono i segnali di questo fenomeno?
« In passato i genitori avevano la percezione chiara che i figli fossero comunque delle persone a se stanti. Oggi, invece, i genitori si riflettono nei figli, ci si rispecchiano, proprio come faceva Narciso nella propria immagine nell’acqua. Un esempio? Fino a qualche decennio fa l’insuccesso scolastico veniva vissuto dai genitori come una carenza o lo scarso impegno del figlio. Oggi è vissuto come un fallimento genitoriale. Nel passato esisteva una alleanza tra adulti, genitori e docenti, che, nel rispetto dei ruoli, condividevano la responsabilità di aiutare il giovane a raggiungere una meta » .
Mentre oggi, come disse l’allora ministro Fioroni, i genitori si trasformano in sindacalisti dei propri figli?
« Appunto. Mi rispecchio in mio figlio e se non riesce a scuola, io difendo mio figlio, perché in questo modo difendo me stesso. Il tutto in un prolungamento narcisistico ».
Cosa ha scatenato tutto questo?
« È quello che ho chiamato individualismo narcisistico, di cui la società è avvolta. Abbiamo una generazione adulta che non è capace di avere valori condivisi, ma è alla ricerca di una felicità a buon mercato. Sono adulti che puntano al successo immediato, alla facile realizzazione. E questo lo vediamo anche nei giovani ».
Ma è possibile individuare il momento nel quale si è rotto il meccanismo che in passato regolava il rapporto tra le generazioni?
« Penso che siano cambiamenti epocali. Possiamo parlare della caduta di identificazione nei grandi valori comuni. E anche di una secolarizzazione della società: io sono al centro del mondo e non c’è un Essere superiore, come avviene nella visione religiosa della vita. E se mancano valori comuni e il senso di partecipazione a un progetto comune, vengono meno anche i legami con gli altri. Ritorniamo all’individualismo narcisistico, che porta a una separazione netta tra gli adulti anche in campo educativo ».
Cioè la famiglia da una parte e la scuola dall’altra?
« C’è un equivoco di fondo in cui la famiglia cade. Quest’ultima prima viene vista sotto un profilo privatistico, che non ha interesse dal punto di vista sociale, ma poi le viene attribuito il difficile compito di affrontare l’emergenza educativa da sola, privandola di alleati. Esiste invece, a mio avviso, una responsabilità educativa della società intera, di tutti gli adulti. La trasmissione tra generazioni coinvolge tutti gli adulti ».
Insomma quest’emergenza sembra riguardare di più gli adulti che i giovani.
« I giovani riflettono quello che vedono negli adulti. Entrambi sono accomunati dall’identificarsi con un successo individuale a breve termine, inseguire una fama a buon mercato: tu vali nella misura in cui diventi molto noto. Si identifica con l’immagine grandiosa di sé. C’è una spettacolarizzazione dell’identità e delle relazioni. E in questo la responsabilità è di tutti i soggetti. Manca una assunzione di responsabilità adulta seria e un’alleanza tra gli stessi adulti per dare risposte concrete alle giovani generazioni » .
Un quadro pessimista. C’è speranza in un’inversione di tendenza?
« Fortunatamente la società reale è più ricca di come la si possa dipingere e dentro di essa vi sono segnali ed esperienze positive. Magari sono piccoli, ma sono significativi. Pensi alle associazioni dei genitori, che cercano di costruire insieme nuovi stili educativi. O alle scuole per genitori che sono nate in molte parti dell’Italia. Per dare risposta a quelle domande di senso che i giovani comunque ci fanno » .
Emergenza educativa al centro dell’impegno dei vescovi
L’allarme del cardinal Bagnasco: ’’Ci sono lobby mondiali contro la Chiesa’’
Il presidente della Cei: ’’Sotto attacco la concezione della persona’’. Immigrati, ’’l’accoglienza è nel dna degli italiani’’. L’economia e la finanza ’’pongano al centro la dignità. Più solidarietà e sobrietà negli stili di vita’’. E sulle elezioni europee, l’arcivescovo di Genova rimarca: ’’L’Ue abbia un’anima e sia casa dei popoli’’
Città del Vaticano, 29 mag. (Adnkronos) - Gli analisti di diverso orientamento, non solo cattolici, ’’rilevano che a livello mondiale c’è una forte pressione di lobby economiche e finanziarie verso la dottrina sociale della Chiesa e verso il suo magistero’’. Si è espresso in questi termini il cardinale Angelo Bagasco (nella foto) nel corso della conferenza stampa conclusiva dell’assemblea generale dei vescovi.
’’C’è un tema fondamentale del cristianesimo, che nasce con i padri della Chiesa, quello relativo alla concezione della persona’’, che oggi è sotto attacco. Secondo il cristianesimo ’’la persona è ’altro’ rispetto al resto della natura, per la scintilla dell’anima; la persona, in questa concezione, è aperta agli altri in forma di solidarietà e condivisione’’.
’’I vescovi - ha rimarcato il presidente della Cei - hanno condiviso l’inderogabilità e l’urgenza di affrontare e approfondire il tema educativo, come vera emergenza della nostra epoca, così come ci ha ricordato il Papa in diversi discorsi a Roma e anche altrove’’. E su questa strada ammonisce: ’’L’economia e la finanza pongano al centro la dignità della persona, altrimenti tutto diventa strumentale’’.
Quanto all’immigrazione, per il porporato ’’l’accoglienza fa parte del Dna del nostro popolo e della nostra cultura’’. La posizione della Chiesa, espressa dai vescovi, ’’è quella della solidarietà, dell’accoglienza e del rispetto dei diritti fondamentali di tutti’’. Il tema della solidarietà, ha poi aggiunto il cardinale, va coniugato con ’’la necessaria sicurezza e nel rispetto delle leggi da parte di chi arriva e di chi accoglie’’.
Infine, sulle prossime elezioni, l’arcivescovo di Genova sottolinea: ’’Sono un’importante espressione di partecipazione’’. ’’Il cammino europeo - ha scandito Bagnasco - deve proseguire, ma l’Europa deve avere un’anima e deve sia casa dei popoli’’.