[...] il messaggio di Langer è stato fino all’ultimo chiaro: se anche c’è chi cade, chi non regge più il peso della storia e della solitudine (forse ci si uccide perché ci si sente o si è rimasti soli - ma alcuni, come i vecchi e i malati, perché si è tagliati via dalla vita - più che per l’oggettiva debolezza e insicurezza del genere umano e per la fatica di dover continuamente ricominciare), bisogna imparare dall’esperienza quel che se ne può ricavare, e andare avanti. Non perché «si spera», ma perché «si ama»: e la «carità» è allora il centro di tutto, come voleva san Paolo - più della speranza e più della fede. Alex Langer ha svolto una funzione di ponte in due direzioni prioritarie: quella di accostare popoli e fazioni, di attutirne lo scontro e di promuoverne l’incontro, e quella dell’apertura a un rapporto nuovo tra l’uomo e il suo ambiente naturale [...]
Langer: fare ponti e «viaggiare leggeri»
di Goffredo Fofi (Avvenire, 28 gennaio 2011)
Se si dovesse chiudere in una formula ciò che Alex Langer ci ha insegnato, essa non potrebbe che essere: piantare la carità nella politica. Proprio piantare, non inserire, trasferire, insediare. E cioè farle metter radici, farla crescere, difenderne la forza, la possibilità di ridare alla politica il valore della responsabilità di uno e di tutti verso «la cosa pubblica», il «bene comune», verso una solidarietà tra gli umani e tra loro e le altre creature secondo il progetto o sogno di chi «tutti in sé confederati estima/ gli uomini, e tutti abbraccia/ con vero amor, porgendo/ valida e pronta ed aspettando aita/ negli ultimi perigli e nelle angosce/ della guerra comun».
Dico carità nel preciso senso evangelico, poiché Alex era un cristiano, dei non molti che cercavano di attenersi agli insegnamenti evangelici che era possibile conoscere in quegli anni nel «movimento» (e oggi sono ancora di meno) e non, come tanti di noi che gli fummo contemporanei e amici, di fragilissime convinzioni «marxiste» oppure, al meglio, mossi confusamente da una visione solo etica del cristianesimo.
La «diversità» di Alex, la sua superiorità sui suoi amici e compagni, gli veniva anche da una storia famigliare più ricca, a cavallo tra lingue e culture, tra Germania e Italia e tra ebraismo e cattolicesimo, ma nessuno vide mai in questo il marchio del privilegio, poiché essa era caratterizzata in lui da una convinzione di umiltà reale e non esibita, non appariscente, dalla propensione all’ascolto degli altri, di tutti, dalla libertà dei collegamenti e dalla scelta di «far da ponte».
Quante volte Alex Langer non ha teorizzato nei suoi testi la funzione e l’imprescindibile necessità dei «ponti»? Ricordava tanti anni fa Piero Calamandrei fondando, a guerra appena conclusa, una rivista che si chiamava Il ponte, il significato metaforico ma anche concreto dei ponti, da riedificare dopo le distruzioni della guerra che si era accanita a distruggerli. Ponti veri, che gli uni o gli altri avevano fatto saltare, e che dovevano mettere di nuovo in comunicazione e in «commercio» persone e città, culture e territori.
Ponti ideali, che potessero permettere ai vinti e ai vincitori, tutti infine perdenti, sopravvissuti ai conflitti e alle stragi e cioè al dominio della morte, di ritrovare nell’incontro e nel dialogo la possibilità di un futuro migliore. (L’attaccamento di Alex alle sue radici regionali e la sua ambizione cosmopolita gli hanno permesso una concretezza precisa, mai parolaia, e una visione ampia, internazionale, nel filone di quell’utopia che era stata per un tempo di una parte del movement americano, quella che diceva di doversi preoccupare ostinatamente di due ambiti da tenere strettamente collegati tra loro: «Il mio villaggio e il mondo».)
Il progetto semplicissimo e immenso di far da ponte tra le parti in lotta, che ad Alex costò infine la vita, è fallito e continua a fallire in un mondo dove le incomprensioni permangono e prosperano gli odi, sollecitati dai diversi poteri e dal peso dei torti ricevuti e fatti, di una memoria di gruppo che, invece di rendere aperti, rende più chiusi alle ragioni degli altri. Poiché troppa memoria può uccidere alla pari della (nostra, italiana) assenza di memoria.
E tuttavia il messaggio di Langer è stato fino all’ultimo chiaro: se anche c’è chi cade, chi non regge più il peso della storia e della solitudine (forse ci si uccide perché ci si sente o si è rimasti soli - ma alcuni, come i vecchi e i malati, perché si è tagliati via dalla vita - più che per l’oggettiva debolezza e insicurezza del genere umano e per la fatica di dover continuamente ricominciare), bisogna imparare dall’esperienza quel che se ne può ricavare, e andare avanti. Non perché «si spera», ma perché «si ama»: e la «carità» è allora il centro di tutto, come voleva san Paolo - più della speranza e più della fede. Alex Langer ha svolto una funzione di ponte in due direzioni prioritarie: quella di accostare popoli e fazioni, di attutirne lo scontro e di promuoverne l’incontro, e quella dell’apertura a un rapporto nuovo tra l’uomo e il suo ambiente naturale.
E se nel primo caso, quello più determinato dalle pesanti contingenze della storia (per Alex, la guerra interna alla ex Jugoslavia), si trattava di far da ponte ma anche da intercapedine, da camera d’aria dove potesse esprimersi un dialogo assai difficile, nel secondo si trattava piuttosto di additare nuovi territori all’azione politica responsabile, allargandone il significato da città a contesto, da polis a natura. Se sul fronte della pace e della convivenza tra umani di diversa etnia o religione o parte politica Alex è stato un continuatore, egli è stato su quel secondo fronte un precursore, uno dei più persuasi pionieri dell’indispensabilità di una visione ecologica dell’agire politico.
Ha visto tra i primi l’arrivo della novità, come lo Zaccheo del Vangelo che si portò nel luogo più avanzato del suo villaggio e nel suo punto più alto per poter vedere per primo l’arrivo del Messia, e cioè della Novità, ed è stato confortato in questo dalla sua conoscenza e vicinanza a uno dei pochi veri profeti dello scorso secolo, il prete e filosofo che si faceva chiamare Ivan Illich. Tra l’antico e l’eterno del messaggio cristiano e la verde novità dell’ecologia, tra le esigenze della pace (gli uomini) e quelle dell’armonia (degli uomini con la natura) tra loro fittamente intrecciate, sempre più interdipendenti, Langer si è mosso quotidianamente, attento al presente ma cosciente del passato e straordinariamente aperto al futuro, al possibile e al doveroso dei compiti della politica (della militanza, della persuasione).
Contro il gioco chiuso del potere. E contro i ricatti paralleli di un’impazienza non meditata e di una lentezza non ipocrita: nell’avvicendarsi che appartiene alla storia delle fasi di stasi e di quelle di febbre, occorre prepararsi nella stasi per saper meglio muoversi nella furia che, prima o poi, si scatenerà.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Per un ri-orientamento teologico-politico e antropologico...
ALEX LANGER. Una nota biografica e bibliografica: *
Alexander Langer e’ nato a Sterzing (Vipiteno, Bolzano) nel 1946, e si e’ tolto la vita nella campagna fiorentina nel 1995. Promotore di infinite iniziative per la pace, la convivenza, i diritti, l’ambiente.
Per una sommaria descrizione della vita cosi’ intensa e delle scelte cosi generose di Langer rimandiamo ad una sua presentazione autobiografica che e’ stata pubblicata col titolo Minima personalia sulla rivista "Belfagor" nel 1986 (poi ripresa in La scelta della convivenza).
Opere di Alexander Langer: Vie di pace. Rapporto dall’Europa, Arcobaleno, Bolzano 1992 esaurito).
Dopo la sua scomparsa sono state pubblicate alcune belle raccolte di interventi: La scelta della convivenza, Edizioni e/o, Roma 1995; Il viaggiatore leggero. Scritti 1961-1995, Sellerio, Palermo 1996; Scritti sul Sudtirolo, Alpha&Beta, Bolzano 1996; Die Mehrheit der Minderheiten, Wagenbach, Berlin 1996; Piu’ lenti, piu’ dolci, piu’ profondi, suppl. a "Notizie Verdi", Roma 1998; The Importance of Mediators, Bridge Builders, Wall Vaulters and Frontier Crossers, Fondazione Alexander Langer Stiftung - Una Citta’, Bolzano-Forli’ 2005; Fare la pace. Scritti su "Azione nonviolenta" 1984-1995, Cierre - Movimento Nonviolento, Verona, 2005; Lettere dall’Italia, Editoriale Diario, Milano 2005; Alexander Langer, Was gut war Ein Alexander-Langer-ABC;
inoltre la Fondazione Langer ha terminato la catalogazione di una prima raccolta degli scritti e degli interventi (Langer non fu scrittore da tavolino, ma generoso suscitatore di iniziative e quindi la grandissima parte dei suoi interventi e’ assai variamente dispersa), i materiali raccolti e ordinati sono consultabili su appuntamento presso la Fondazione.
Opere su Alexander Langer: Roberto Dall’Olio, Entro il limite. La resistenza mite di Alex Langer, La Meridiana, Molfetta 2000; AA. VV. Una vita piu’ semplice, Biografia e parole di Alexander Langer, Terre di mezzo - Altreconomia, Milano 2005; Fabio Levi, In viaggio con Alex, la vita e gli incontri di Alexander Langer (1946-1996), Feltrinelli, Milano 2007.
Si vedano inoltre almeno i fascicoli monografici di "Azione nonviolenta" di luglio-agosto 1996, e di giugno 2005; l’opuscolo di presentazione della Fondazione Alexander Langer Stiftung, 2000, 2004; il volume monografico di "Testimonianze" n. 442 dedicato al decennale della morte di Alex.
Inoltre la Casa per la nonviolenza di Verona ha pubblicato un cd-rom su Alex Langer (esaurito).
Videografia su Alexander Langer: Alexander Langer: 1947-1995: "Macht weiter was gut war", Rai Sender Bozen, 1997; Alexander Langer. Impronte di un viaggiatore, Rai Regionale Bolzano, 2000; Dietmar Hoess, Uno di noi, Blue Star Film, 2007.
Un indirizzo utile: Fondazione Alexander Langer Stiftung, via Latemar 3, 9100 Bolzano-Bozen, tel. e fax: 0471977691; e-mail: info@alexanderlanger.org, sito: www.alexanderlanger.org
* Fonte:
TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO. Numero 443 del 22 gennaio 2011
Telegrammi della nonviolenza in cammino proposti dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it
L’abiura della profezia
di Felice Scalia (Adista - Segni nuovi, n. 9, 5 febbraio 2011)
Dopo tante “contestualizzazioni” sulle malefatte del Cavaliere in materia di coerenza con una sua proclamata fede cristiana, dalla alte gerarchie cattoliche giungono esecrazioni, richiami, e “forti pressioni”. Nulla da eccepire se non la eccessiva prudenza di ieri che tra i semplici poteva suonare connivenza, e la riduzione di oggi di quanto sta paralizzando la vita politica italiana ad una questione di morale personale poco degna di un “uomo pubblico”.
Personalmente resto nella mia preoccupazione, e per una serie di motivi: la vita privata del Cavaliere è stata ed è modello di corruzione del tessuto morale della nazione intera; la sua sfrenatezza nulla è se non la conseguenza di una concezione di vita basata sul potere ed il denaro; l’etica sessuale è intimamente connessa con un’ideologia, il “pensiero unico”, dove tutto è in vendita, anche le persone ridotte a cose, e dove le leggi del mercato sono “la Legge”.
Queste interconnessioni sono mine vaganti, questo “insieme” stride con la fede cristiana. E da tempo aspettavamo in tanti una presa di posizione profetica della Chiesa sul “sistema”. Non c’è stata e non c’è. Fino a far sembrare ovvia l’ipotesi di una blasfema nuova “santa alleanza” di alti uomini di Chiesa con questo tipo di potere, ben oltre l’umana simpatia, o la stessa comprensione benevolente per la vita difficile di un “peccatore” atipico.
Confesso che questa ipotesi non mi sembra campata in aria e certi fatti la suggeriscono. Ed una spiegazione plausibile è che quegli uomini di Chiesa, anche se non ne sono coscienti, sono membri della “Chiesa-istituzione” prima che della “Chiesa-mistero”, di quella Chiesa cioè che è presenza storica del Cristo per le nostre strade. Le istituzioni hanno una loro logica, una propria forza di attrazione, si sostengono a vicenda quale che sia il loro contenuto e la finalità per cui esistono. I “potenti” costituiscono una categoria antropologica a parte, sono tutti fratelli, quasi appartenessero ad una tentacolare massoneria planetaria. Il potere è maestà ed arbitrio, non è legge, anche se a sua giustificazione porta avanti il “bene comune”, la tenuta dell’ordine e perfino della legge di Dio.
Questa stupefacente caduta di stile cristiano, questa abiura alla profezia che ci farebbe leggere la storia alla luce della Parola (e mai viceversa) dovrebbe fare riflettere tutti. Ma forse il male denunziato da questo strano neo-collateralismo di certi cattolici col potere rivela un grave scadimento dello stesso cristianesimo. Pare che da «lieto annunzio» di salvezza «per ogni carne», da proclamazione che non esistono pietre tombali sulle nostre sciagure e sui nostri limiti, ma pietre pasquali che sprigionano vita e futuro di gloria, da queste altezze esso sia sceso a quattro “valori non negoziabili” assicurati dal Cavaliere fino a quando rimane in sella.
Qui non si sta dicendo che quei “valori” (difesa della vita umana al suo apparire ed al suo tramonto, tutela della famiglia, diritto all’educazione dei figli...) siano fasulli, ma che essi non esauriscono affatto il Vangelo.
Viene ovvia la conclusione che fino a quando il popolo di Dio tutto continua a non interrogarsi sul “sistema”, sul paradigma che regge il mondo, o addirittura lo “sposa” quasi fosse ovviamente naturale, contentandosi magari di ritenere proprio compito lenire i guai provocati da esso («Il capitalismo globalizzato è legge sacra di natura, ma noi aiuteremo gli affamati della Tunisia...»), fino a quel giorno ogni esecrazione di eccessi, ogni (inimmaginabile) scomunica sarebbe solo un toglierci un bruscolo dagli occhi lasciando che vi prosperi una bella trave.
* Gesuita, teologo dell’istituto Ignatianum (Messina)
«Alex Langer maestro di carità» L’Avvenire celebra il verde suicida
di Paolo Di Stefano (Corriere della Sera, 29 gennaio 2011)
Che cosa ci fa Alexander Langer sulla copertina di «Agorà», l’inserto culturale dell’ «Avvenire» ?
Che cosa ci fa sul giornale dei vescovi italiani il viso gentile e sorridente del militante di Lotta
continua, del leader ecologista morto suicida la sera del 3 luglio 1995 sotto un albero di albicocche
del suo piccolo frutteto di Pian dei Giullari?
Se qualcuno si meravigliasse della celebrazione che il
quotidiano cattolico ha dedicato ieri all’ «eretico» Langer, legga l’articolo di Goffredo Fofi, tratto
dall’introduzione alla nuova edizione de Il viaggiatore leggero (Sellerio), che raccoglie, a cura dei
suoi amici Edi Rabini e Adriano Sofri, gli scritti dal 1961 al 1995. Per quanto possa stupire, ha fatto
bene l’ «Avvenire» ad aggiungere nell’occhiello l’aggettivo «cristiano» .
Non si tratta certo di
un’annessione forzata. E non solo perché, come spiega Fofi, a dispetto di una lettura superficiale
della sua personalità, il politico (se così si può definire, semplificando) di Vipiteno è stato anzitutto
un maestro di «carità» intesa nel senso evangelico: «Se si dovesse chiudere in una formula ciò che
Alex Langer ci ha insegnato, essa non potrebbe che essere: piantare la carità nella politica (...)» .
Ma
anche perché il rovello religioso accompagna con costanza la sua vita: tant’è vero che la raccolta di
articoli -apparsi su quotidiani, riviste e rivistine anche minime -si apre con le ragioni che il
quindicenne Alex rivendica nell’appartenenza alla Congregazione Studentesca Mariana (definita
orgogliosamente un gruppo di «giovani disposti ad impegnarsi veramente per la vittoria del regno di
Dio»), prosegue con le considerazioni sulla forza rivoluzionaria del Cristianesimo e si conclude, a
quarant’anni di distanza, con una sorta di lettera aperta a san Cristoforo, allegoria del camminatore
instancabile verso una Grande Causa.
«Il primo ideale universale che riesce a convincermi ed a coinvolgermi -così Langer ricorderà gli anni giovanili -è quello cristiano. Leggo, rifletto, prego» . È questo il suo primo impegno: «Cerco di lavorare in senso ecumenico». E alla fine, non fu certo un caso che in uno dei biglietti d’addio che lasciò nella sua auto, dove confessava drammaticamente che «i pesi mi sono divenuti insostenibili», citasse il Vangelo di Matteo: «Venite a me voi che siete stanchi ed oberati».
Alla domanda del piccolo Alex «perché papà non va mai in chiesa?», sua madre rispondeva che «non conta tanto in che cosa si crede ma come si vive». Certo, Langer, i cui genitori (il padre era di origini ebraiche) non accolsero di buon grado le sue precoci istanze di fede, fu tutt’altro che un cattolico ortodosso.
Si avvicinò all’area del dissenso (è del ’ 69 un saggio sulla «falsa democratizzazione della Chiesa») e da studente conobbe padre Balducci e divenne amico di don Milani, la cui Lettera avrebbe tradotto in tedesco.
Vissuto al confine tra le lingue (ne conosceva cinque), tra cultura tedesca e italiana, tra cattolici e cattolici, tra ebraismo e cattolicesimo, tra religione e laicità, tra socialismo ed ecologia, tra politica e impolitica, Langer cullò «il progetto semplicissimo e immenso di far da ponte tra le parti in lotta». Fallì, aggiunge Fofi, e quel progetto «gli costò infine la vita». Del resto, la carità, per Alex, come si diceva, «è al centro di tutto, come voleva san Paolo -più della speranza e più della fede». Anche per questo, probabilmente, pur aderendo al movimento abortista si dichiarava moralmente sensibile alle ragioni opposte. E in un’intervista del ’ ’94 metteva in guardia la biotecnologia dal volersi sostituire a Dio impossessandosi della possibilità «di scegliere che tipo di esseri viventi devono nascere e devono popolare il mondo»: non era dogmatico, anzi sosteneva che «a volte bisogna accettare di essere chiamati traditori dai propri compagni».
Qualche anno fa alcuni politici di Bolzano si opposero alla proposta di dedicargli una via, perché non si può rendere onore a un suicida. Ma il suicidio, si sa, è un mistero di fronte al quale è bene tacere. Evitare le interpretazioni postume o, peggio, le condanne preventive. Chissà che scandalo, per quei politici, leggere sull’ «Avvenire» di ieri una pagina intera su quel viaggiatore leggero.
"ERODE" E LE GERARCHIE CATTOLICO-ROMANE CONTRO CRISTO E "CONTRO CESARE. Cristianesimo e totalitarismo nell’epoca dei fascismi".
Il lavoro di Emilio Gentile, recensito da Riccardo Chiaberge:
http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5035
di Franco Garelli (La Stampa, 29 gennaio 2011)
«Con tutto ciò che da penne cattoliche è stato scritto contro il fascismo si riempirebbe a stento uno scaffaletto di libreria; con quanto è stato scritto nello stesso periodo contro il comunismo, una biblioteca». Questa frase di Jemolo, riferita al ventennio italiano dopo la Grande Guerra, ben illustra un paradosso del rapporto tra religione e totalitarismi nell’epoca dei fascismi.
Verso i regimi totalitari che in quel periodo conquistavano il potere in Europa, la posizione dei credenti e delle chiese cristiane è stata assai diversa. Di ferma e unanime condanna per il bolscevismo, per la sua furia di estirpare la religione dalla coscienza del popolo; di rapporti più alterni e ambivalenti verso il fascismo e il nazionalsocialismo. Questi ultimi, infatti, hanno spesso blandito la religione cristiana a fini politici, presentandosi a molti credenti come un baluardo contro quelli che le chiese di allora (la cattolica soprattutto) consideravano i veri nemici: da un lato appunto il comunismo sovietico, dall’altro la modernità liberale e la democrazia laica.
Proprio il problema della compatibilità tra totalitarismo e cristianesimo è l’oggetto dell’approfondita ricerca di Emilio Gentile, storico del fascismo e delle religioni della politica: il suo "Contro Cesare" ripercorre il dramma vissuto dalle coscienze cristiane nel conflitto tra il primato di Cristo e quello di Cesare, prima nella Russia sovietica e poi nell’Italia fascista e nella Germania di Hitler. I tre totalitarismi avevano in comune molti tratti, tra cui l’idea di una radicale trasformazione della società, un’interpretazione «religiosa» e sacra della politica (con tanto di simboli, riti, metafore, culto del capo), una nuova fede mitica nell’uomo e nella storia, l’elaborazione di credenze «per le quali milioni di persone erano pronte a soffrire e a morire»; e inoltre una leadership capace di mobilitare le masse e che sapeva di dover fare i conti con le chiese e le religioni per conquistare il popolo.
Per espandere il suo disegno, anche il bolscevismo fu all’ inizio duttile verso la chiesa ortodossa, consapevole che la religione è come un chiodo: se lo colpisci sulla testa non fa altro che conficcarsi più a fondo. Tuttavia, la politica rivoluzionaria divenne presto anticlericale, confiscando i beni della chiesa, privandola dei diritti giuridici, contrastando la resistenza del clero e del popolo credente con spietate repressioni; rimandando al mittente gli appelli lanciati dal Vaticano a sostegno dei fratelli ortodossi. Per contro, in Italia e in Germania, gran parte del clero e dei credenti non riconobbe la natura anticristiana del fascismo e del nazionalsocialismo, ritenendoli congruenti con gli interessi e gli scopi delle chiese cristiane. Così solo dopo un lungo periodo di appoggi e riconoscimenti, di patti e sostegni reciproci - ma anche di silenzi e conflitti - apparve evidente che i Cesari totalitari intendevano di fatto sopprimere le Chiese e sostituire la mistica del Vangelo con quelle della Razza, del Sangue, della Nazione, della Forza, della Guerra.
In quegli anni non mancarono - da parte del Papa e di prelati vaticani, come di alti esponenti delle chiese protestanti - forti denunce e condanne di principi del fascismo e del nazionalsocialismo che erano in aperto contrasto con la dottrina e l’etica cristiana, soprattutto il totalitarismo e il razzismo; anche se «non si giunse mai alla condanna integrale dei due regimi».
Solo una minoranza di credenti, sia di fede protestante che cattolica, avvertì da subito di essere di fronte alla barbarie, per cui combatté i due regimi senza tentennamenti e ambiguità, pagando di persona (con l’esilio, la persecuzione, la tortura, anche con la morte) la scelta antitotalitaria e l’idea che la libertà religiosa è la premessa e la condizione della libertà politica.
Il saggio di Emilio Gentile è importante anche perché ci ricorda che sovente la storia si ripete, e che molte vicende di oggi - pur assai meno drammatiche di quelle del periodo qui analizzato - hanno antiche radici. La prudenza è per la chiesa cattolica una virtù perenne, praticata anche nel ventennio fascista. Quando nel 1922 l’«uomo formidabile» (Mussolini) assunse il governo dello Stato italiano col consenso del sovrano, la Santa Sede salutò l’evento come «necessario» per il paese o come ilmale minore. A padre Gemelli, fondatore dell’Università Cattolica di Milano, che chiedeva come comportarsi verso il nuovo governo, Pio XI rispondeva: «Lodare no. Fare opposizione aperta non conviene, essendo molti gli interessi da tutelare. Occhi aperti».
In effetti l’albero del duce non fu avaro di doni per la chiesa del tempo, appagando desideri e rivendicazioni frustrati per molti decenni dai governi liberali, anticlericali e massonici: introducendo l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole elementari, parificando le scuole cattoliche alle pubbliche, facendo esporre il crocifisso nelle aule scolastiche, istituendo la figura dei cappellani nei corpi «militari», dando più risorse economiche al clero e alle opere della religione, difendendo la moralità pubblica e la sacralità del matrimonio, sino a risolvere la questione romana e giungere alla Conciliazione tra lo Stato italiano e la Chiesa di Roma.
Scambi come questi ricorrono nel corso della storia, offrendo alla chiesa un ruolo di rilievo nella società a difesa e promozione degli interessi e dei valori religiosi, anche se a lungo andare possono invischiarla in un rapporto ambiguo col potere politico che ne condiziona la missione profetica.
Cei, troppo tardi
di Franco Monaco (Europa, 29 gennaio 2011)
I moniti ecclesiastici all’indirizzo del premier hanno avuto grossomodo il tenore che mi attendevo. Piuttosto un certo disagio lo ha suscitato in me il clima che li ha circondati. A monte e a valle. A monte, un esorbitante carico di attese naturalmente di segno opposto: di speranza ovvero di apprensione per una censura annunciata. A valle: le puntuali, troppo scontate e prevedibili reazioni ad essi; l’ipocrita rimozione da parte dei supporter del premier («erano parole rivolte indistintamente a tutti», si è osservato, mentendo e rasentando il ridicolo); la goffa rincorsa di tutti a strattonare in un senso o nell’altro le parole degli alti prelati.
Le parole di riprovazione del cardinal Bagnasco per la condotta e lo stile di vita di Berlusconi sono state oggettivamente e inusitatamente chiare e forti. Inutile girarci intorno o fingere di non avere inteso.
Certo, esse sono state accompagnate da un ricercato equilibrismo, riscontrabile in quel riferimento francamente forzoso ed eccentrico al dispiegamento dei mezzi di indagine da parte della magistratura.
Un equilibrismo che riflette la propensione a interpretare la sacrosanta alterità/trascendenza della parola della Chiesa rispetto alle parti politiche come ossessione della neutralità o dell’equidistanza. Non sempre e di necessità la virtù sta nel mezzo. La profezia non può essere ostaggio dell’assillo di posizionarsi fuori o a mezza strada tra le parti. Essa mal si concilia con il bilancino e dovrebbe piuttosto conformarsi allo spirito del motto episcopale che si scelse il cardinale Martini: «pro veritate adversa diligere» (in nome della verità non esitare a scegliere e amare le avversità e le opposizioni, che vanno messe nel conto).
Ma, della prolusione di Bagnasco, va apprezzata la sostanza. Leggendola con attenzione per intero e non limitandosi alla pagina saccheggiata dai media si ricava l’impressione che, in essa, centrale è piuttosto l’allarme sul «disastro antropologico». Da tempo, nella riflessione della Cei, si rimarcava la centralità della cosiddetta “questione antropologica”. Ma quella formula abitualmente sottintendeva il riferimento ad altro ordine di problemi. Grosso modo: la concezione della persona, il relativismo etico e, più in concreto, le insidie portate sul piano dell’etica familiare e delle questioni bioetiche da culture e legislazioni di stampo libertario.
Nell’intervento in oggetto, invece, il disastro antropologico denunciato ha piuttosto a che fare con l’ethos comune, con costumi e comportamenti, veicolati dalla cultura di massa. Un approccio più concreto e meno ideologico dal quale, a mio avviso, scaturiscono tre quesiti per la Chiesa italiana. Quesiti, diciamolo più esplicitamente, che mettono in discussione la linea seguita dai suoi vertici negli ultimi venticinque anni. Dal convegno ecclesiale di Loreto del 1985.
Primo quesito: come si concilia la denuncia del limite allarmante cui si è spinto il degrado eticoantropologico (appunto il «disastro») con la tesi (illusione?) a lungo coltivata che l’Italia rappresenterebbe una positiva eccezione tra i paesi europei e occidentali nella tenuta di un ethos e di buone tradizioni cristiane, specie sul versante dei costumi familiari? L’involgarimento della cultura di massa (attestato da una tv il cui degrado non conosce eguali in nessun altro paese) e la stessa colpevole indulgenza italiana verso i comportamenti degli uomini pubblici che lascia interdetto il mondo intero sembrano smentire quell’autorassicurante rappresentazione di una positiva “differenza italiana” sulla quale la Cei ha mostrato di fare affidamento in questi anni. E proprio sul piano cruciale del rapporto uomo-donna, dei costumi di vita sessuali e familiari, dei modelli proposti alle giovani generazioni. Si pensi all’idea-forza sottesa al Family day, quella di un popolo impregnato dei valori familiari di matrice cristiana cui si opponeva un legislatore succube di una elitaria ideologia laicista ostile alla famiglia.
Secondo interrogativo. È difficile negare che le gerarchie cattoliche italiane, in questo arcotemporale, abbiano decisamente accresciuto la loro influenza sulla politica, in concreto su governo, parlamento e legislazione. Un’influenza teorizzata ed esercitata non per mera volontà di potere (sarebbe ingeneroso leggere in questa chiave la linea a torto o a ragione intestata al cardinale Ruini con l’alto avallo di Giovanni Paolo II) ma mossa dal nobile proposito di arginare e, se possibile, invertire il trend della scristianizzazione della mentalità e del costume. Dopo venticinque lunghi anni tuttavia non è fuori luogo, sine ira ac studio, interrogarsi sul bilancio di quella strategia politico-pastorale. Se le severe parole di Bagnasco sul disastro antropologico hanno un senso esse suggeriscono un rendiconto piuttosto critico. È da chiedersi se l’enfasi sulla Chiesa quale forza sociale e sul ruolo pubblico trainante del cattolicesimo in Italia con il loro corollario di un attivismo delle gerarchie sul fronte politico abbia pagato sul terreno che più dovrebbe premere alla Chiesa, quello appunto della qualità cristiana di persone e comunità, nonché del tessuto etico della convivenza.
Terzo ed ultimo interrogativo. Per esperienza diretta e ravvicinata possiamo asserire (Prodi ne sa qualcosa) che i vertici della Cei a quelli della nostra parte politica non hanno fatto sconti. Se non vogliamo indulgere all’ipocrisia, ci è lecito osservare che, con i nostri avversari, essi sono stati più di manica larga? E che la giusta cura delle gerarchie di marcare la propria distanza da tutte le parti politiche non si è concretata poi in una esatta equidistanza? Si può onestamente sostenere che un tale accreditamento offerto alla destra berlusconiana, così diversa dalle destre liberali europee, abbia dato frutti? I fatti (e le parole di oggi del presidente Cei) sembrerebbero dire di no. Forse - ma questa è conclusione mia - la catastrofe morale prima che politica sotto i nostri occhi dovrebbe suggerire una correzione di giudizio e di condotta.
La riassumo per titoli:
1) l’Italia è messa peggio di altri, altro che “differenza positiva” di un paese
nel quale resisterebbe una solida radice cattolica;
2) non solo la scristianizzazione ma, di più, il
degrado morale e civile si sono semmai spinti oltre ogni limite immaginabile;
3) il vettore di tale
devastante mutazione antropologica è riconducibile non già alle leggi alle culture e alle forze
politiche di stampo laicistico-libertario ma a una pervasiva e corrosiva (in)cultura della
mercificazione di persone e cose veicolata dai media e sedimentata negli anni;
4) la politica, per
definizione, da sé sola non basta a contrastare tali fenomeni degenerativi, ma certo essa semmai
coopera ad acuirne la portata se affidata al dominus di una formidabile macchina del consenso che
tanto ha contribuito a quella deriva etico-antropologica, incarnandola, rivendicandola ed esaltandola
con i suoi comportamenti;
5) il brusco risveglio che segue alla lunga parentesi di un’illusione ci
suggerisce una domanda conclusiva: non era forse più saggia e lungimirante la via imboccata dalla
Chiesa italiana nel dopo Concilio e messa in mora a metà anni ottanta? Una linea ispirata a due
idee-forza: quella di una Chiesa che davvero tenga fede al primato dell’evangelizzazione e della
formazione cristiana delle coscienze in un paese scristianizzato non meno di altri (visto che la
scorciatoie politiche non pagano); e la scommessa fiduciaria su una politica affidata a laici cattolici
“adulti” (sì, proprio loro) pur diversamente dislocati e non a un patto siglato al vertice con uomini e
forze compiacenti ma manifestamente agli antipodi di una visione cristiana della vita. Uno scambio
che, con il tempo, si è rivelato un pessimo affare.