Per il nazismo era stato uno dei tanti professori ebrei da mettere a tacere: era stato privato della cattedra, isolato, compatito e per di più il suo allievo Martin Heidegger lo aveva tradito
Aveva studiato psicologia con Brentano e matematica con Bernard Bolzano Le parole ricorrenti in quegli anni erano declino, crisi, tramonto
Edmond Husserl
La crisi delle scienze e i conflitti del pensiero
A settant’anni dalla morte del filosofo
di Antonio Gnoli e Franco Volpi
(la Repubblica, 02.07.2008)
Quando nel 1938 il filosofo Edmund Husserl morì aveva settantanove anni. Per il nazismo, allora in pieno rigoglio ideologico, Husserl era stato uno dei tanti professori ebrei da mettere a tacere. Gli avevano tolto l’insegnamento, lo avevano isolato, insultato, compatito. Gli avevano perfino vietato l’accesso alla biblioteca dell’Università. E Husserl, ancora in vita, si sentiva un uomo sgomento, disorientato, tradito. Il suo più promettente allievo, quel Martin Heidegger sul quale aveva riposto le più accese speranze, non solo aveva imboccato filosoficamente un’altra strada, ma si era mescolato con la marmaglia nazista, ne aveva caldeggiato lo spirito, appoggiato con entusiasmo i destini, condiviso, fino a un certo punto, la storia.
Inaudito. Agli occhi di Husserl quella improvvisa virata era peggio di un colpo di pistola alla tempia. Era tutto quello che non si sarebbe aspettato da quel talento selvaggio che lo aveva già deluso, irritato, amareggiato con Essere e Tempo. Già perché il giovane Martin nel 1927 pubblicò nello Jahrbuch husserliano l’opera con la quale riduceva alla consistenza del semolino la fenomenologia del venerato maestro.
Eppure, nel più perfetto stile gesuitico, Heidegger aveva dedicato Essere e Tempo ad Husserl. Ma più che un omaggio al grande filosofo quella dedica sembrava uno scherzo. Il maestro lesse le complicate pagine dell’allievo e le trovò scandalosamente intrise di tutto ciò che fino a quel momento aveva osteggiato. Come era potuto accadere una cosa del genere? La psicologia di Heidegger somigliava a quella di un sottomarino. Era composta di movimenti invisibili e silenziosi. L’impatto o l’emersione improvvisa avevano sempre qualcosa di sorprendente. Se Husserl era la montagna, Heidegger fu di volta in volta lo scalatore, lo sciatore, il picconatore. Era colui che usava la montagna e, potendo, ne rivendicava perfino il dominio. Otto anni dopo la comparsa di Essere e tempo, Husserl, uomo incline alla depressione e alla malinconia, fu invitato a tenere delle conferenze a Vienna e a Praga. Era il 1935. Fuori dalla Germania il suo nome era ancora venerato. Le sue Ricerche logiche, le sue Meditazioni cartesiane si erano imposte come esempi di rigore filosofico. Anche se non tutti si mostravano convinti che il metodo della riduzione fenomenologica fosse la strada giusta.
Il maestro aveva immaginato che la filosofia avrebbe potuto ambire alla scienza vera solo imbrigliando tutto quello che il caotico mondo della vita produceva: le idee spesso contraddittorie, i valori contrastanti, i programmi confliggenti. Agli occhi di Husserl l’uomo - un’entità finita e mortale - era un impasto di contraddizioni, di velleità di passioni che poco o nulla avevano a che fare con l’idea di filosofia. Che fare, dunque? Egli propose di sospendere quel mondo, di metterlo tra parentesi. Più o meno ragionò così: facciamo finta che quella roba che accade sulla terra non sia mai accaduta, facciamo finta che tutto l’opinabile e il cangiante non esista e allora si comincerà a vedere la potenza dell’Io trascendentale. Ma si poteva sospendere il mondo della vita, compreso tutto quello che nel vecchio continente stava accadendo? Si poteva non tener conto dei terribili venti che si preparavano a soffiare? Circolava una brutta aria in giro per l’Europa. Le parole più ricorrenti erano: declino, crisi, tramonto. Paura e illibertà minacciavano i popoli. Oswald Spengler - ormai celebre più di un attore del cinema muto - aveva dato alle stampe tra il 1918 e il 1922 Tramonto dell’Occidente, che generò una copiosa letteratura sulla crisi spirituale e materiale del vecchio continente.
Anche Husserl, il padre della fenomenologia, così assorto fino ad allora nelle sue microanalisi, incominciò a riflettere su ciò che stava accadendo. Il tema sarebbe stato al centro della sua ultima grande opera, rimasta incompiuta: La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale. Il primo abbozzo fu presentato in una serie di conferenze tenute nell’aprile e nel novembre del 1935 a Vienna e a Praga. Il testo pronunciato fu pubblicato l’anno successivo a Belgrado nella rivista Philosophia, ma solo nel 1954 si riuscì - grazie anche alle carte trafugate e salvate dalla Friburgo nazista da padre Leo Van Breda e messe al sicuro nell’archivio di Lovanio - a ricavare un’edizione esaustiva di quell’opera. Solo allora ci si rese conto che al vecchio Husserl era riuscito finalmente di rispondere in modo adeguato ad Essere e Tempo. Quel testo lo aveva tormentato, indignato, infastidito. E lui, il maestro, era pur sempre la montagna che sovrastava l’allievo. La crisi delle scienze europee (di cui oggi esce una ristampa dal Saggiatore, pagg. 560, euro 15) impressionò i lettori e diede avvio a un grande revival della fenomenologia, che arrivò anche in Italia (tramite Enzo Paci), mescolandosi al marxismo e all’esistenzialismo.
Husserl partiva da un’evidenza incontestabile: la scienza moderna ha raggiunto i suoi straordinari successi al prezzo di una perdita del suo significato per la vita. La sua razionalità ci ha messo in grado di esercitare un dominio vasto sulla terra, ma nulla ci dice sul senso di questo dominio, sulle sue conseguenze. E alla fine ci abbandona a noi stessi proprio in ciò che è decisivo per la nostra esistenza e il suo successo: le scelte di vita e i fini ultimi. Il moderno ideale dell’oggettività scientifica si raggiunse così al prezzo di ridurre alla sola teoria l’antico ideale della conoscenza, abbandonando la prassi alla volontà di potenza.
Per tutta la vita Husserl aveva cercato di combattere il relativismo, di cui le verità scientifiche, erano a loro modo un’emanazione. Non si sentiva un dilettante, uno sprovveduto che si improvvisava critico della scienza. Oltre ad aver studiato psicologia con Brentano si era inoltrato - grazie al filosofo e matematico Bernard Bolzano - per i sentieri rarefatti della matematica. Il suo primo libro del 1891 - che Frege stroncò - era Filosofia dell’aritmetica, cui sarebbero seguite un decennio dopo le Ricerche logiche. Era un uomo affascinato dalla purezza intellettuale. Nulla doveva interporsi tra l’esame della ragione e l’essenzialità del mondo. Ma come provare a rifondare la filosofia come sapere universale, visti i fallimenti, le delusioni gli equivoci che il pensiero filosofico aveva in massima parte fin lì prodotto?
Husserl immaginò che la sola strada percorribile fosse quella di "andare alle cose stesse": zu den Sachen selbst! aveva dichiarato agli inizi del suo programma fenomenologico. Ma che cosa significava questo muoversi verso le cose? Quali cose, quali oggetti, quali enti meritavano uno sguardo libero dal condizionamento scientista e dall’agguato relativista? Husserl pensò che alla filosofia occorresse una "fondazione originaria". Tanto più la sua forza sarebbe stata persuasiva quanto meno si fosse allontanata da quel fondamento che ogni pensiero che si ritenesse tale aspirava a realizzare. In molti avevano provato e in molti avevano fallito. Ma era lì, sulla soglia di quella porta stretta, tra il mondo della vita e il puro pensiero, che si giocava la partita e se voleva vincerla doveva evitare gli errori commessi dai suoi predecessori. Doveva evitare, per esempio, di lasciarsi incantare da un principio unico, un motore da cui tutto nasce e tutto si muove.
Nella Crisi delle scienze europee Husserl considerò il moderno sistema delle scienze come il frutto di una serie di "fondazioni originarie", tra le quali fu decisiva quella rappresentata dalla matematizzazione della fisica iniziata da Galilei. Secondo Husserl si riprendeva così l’antico ideale greco di una scienza razionale dell’essere nella sua totalità, ma esso fu realizzato solo in misura parziale e unilaterale, perché la scienza moderna rimase prigioniera dell’oggettivismo e del naturalismo. E ciò ha finito per favorire la genesi opposta e contraria del soggettivismo e relativismo, producendo un conflitto irrisolvibile, che ha precipitato la filosofia come scienza in una crisi abissale.
La reazione alla scienza e alle sue conseguenze sull’uomo non era certo una novità tra i filosofi. Ma Husserl posizionò la sua critica sul crinale della perdita del senso. Vide nella scienza moderna - nelle sue oggettivazioni e astratte idealità - un superamento del senso comune. Quel superamento alla fine era una più perdita che un arricchimento. Ai suoi occhi la scienza moderna produceva alla fine l’idea di un mondo in sé che, in quanto abitato da forme oggettive, si contrapponeva come mondo vero al mondo soggettivo dell’esperienza comune. Il sapere scientifico finiva così per contrapporsi al mondo dell’esperienza che sta alla base del vivere umano e che è detto «mondo della vita».
Husserl tematizzò il «mondo della vita» (Lebenswelt) in modo esplicito. Interpretò quel concetto anzitutto come il mondo della doxa, ossia quel territorio ovvio e familiare basato su opinioni e convinzioni soggettive, antitetico alle oggettivazioni e alle idealizzazioni del sapere scientifico. Ma quel mondo era qualcosa di più di un coacervo di opinioni se indagato come esperienza originaria. Perciò liberandosi da quel mondo la scienza si impoverì, essa perse il suo significato per la vita, produsse appunto quella che Husserl considerò la «crisi delle scienze europee».
Come uscire dalle devastazioni che la modernità aveva scatenato? Husserl - di cui ricorrono i 70 anni dalla morte - considerò imprescindibile dalla propria filosofia il mondo della vita quale orizzonte universale. Da lì occorreva ripartire per recuperare l’antico ideale - che era stato proprio della filosofia greca - di un sapere razionale in base al quale sarebbe stato possibile orientare la vita individuale, sociale, e politica dell’uomo secondo il principio di una autodeterminazione libera e razionale.
Vasto programma. Sul quale Heidegger ironizzò in più di una occasione. Del resto non erano più fatti per intendersi. L’allievo non andò neppure al funerale del maestro, con la scusa di un malanno che lo aveva trattenuto a letto. E poi tolse la dedica su Essere a tempo. Restava un vago rispetto, una memoria fragile ed equivoca di quegli anni in cui la fenomenologia era la speranza disattesa che il muro tra interiorità ed esteriorità potesse di un tratto crollare.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Inside Out
Se Cartesio sbarca al cinema
di Piergiorgio Odifreddi (la Repubblica, 08.11.2015)
Sta circolando da qualche settimana in Italia il film Inside out, il cui titolo allude al tentativo della Pixar di “tirar fuori ciò che abbiamo dentro”. Cioè di mostrare visivamente i meccanismi mentali nelle loro componenti razionali ed emotive. I critici cinematografici, che evidentemente si intendono solo di cinema, l’hanno esaltato come un’esposizione quasi scientifica delle nuove frontiere neurofisiologiche, scomodando al proposito addirittura i nomi di Antonio Damasio e Oliver Sacks.
In realtà il film avrebbe fatto meglio a intitolarsi Outside in, perché non fa altro che “metter dentro ciò che siamo fuori”. Cioè ripete l’antico “errore di Cartesio”, che credeva che a guidare l’uomo fosse un homunculus dentro di lui, fatto a sua immagine e somiglianza in versione miniaturizzata. Il quale, come i protagonisti del film, sta seduto in un “teatro cartesiano” e osserva dal di dentro ciò che il suo principale a grandezza naturale percepisce dal di fuori.
Naturalmente, poiché un homunculus differisce da un homo solo nelle dimensioni, si può immaginare che nella sua testa ci sia un homunculissimus ancora più piccolo che lo osserva e lo dirige, e così via. L’ipotesi porta dunque a un regresso all’infinito, che non ha bisogno delle neuroscienze per essere confutato: basta la logica, in una delle innumerevoli variazioni del paradosso di Achille e la tartaruga.
L’homunculus di Goethe è il simbolo di quella che Husserl denuncia come “crisi delle scienze”.
Dal “Diario fenomenologico” di Enzo Paci, una tracciadi di lettura della "Crisi delle scienze europee" di Edmund Husserl
a c. di Federico La Sala*
4 febbraio 1960.
Nel patto biblico tra Dio e l’uomo c’è una clausola fondamentale: “Sia chiaro” dice Dio “che creatore sono soltanto io che ti ho creato e non tu. Io sono, su questo punto, un Dio geloso”. Come può essere nato un pensiero di questo genere?
Per una analisi fenomenologica vedo due vie. La prima è la proiezione, in Dio, del padre. Il figlio, per essere uomo, deve ribellarsi al padre. È la via del complesso edipico, la via di Freud. Ovviamente la proiezione si pone come divieto e come gelosia proprio perché il divieto deve essere superato. L’uomo diventa “virile” per la violazione della proibizione. Se il padre è Dio, raggiunge il massimo della umana virilità e cioè diventa Dio. Questa posizione è immatura. Infatti il padre è sempre divinizzato. La sostituzione al padre è eroica: il figlio diventa o Dio o il Diavolo. La maturità dell’uomo in quanto uomo viene raggiunta proprio quando cade la divinizzazione del padre. Se il padre diventa un uomo, anche il figlio diventa un uomo. Di solito ciò avviene quando il figlio, di fatto, diventa padre. di un nuovo figlio, e così via. Di fronte a suo figlio, il figlio divenuto padre si pacifica col proprio padre: ora lo può. Spetta a lui l’essere divinizzato.
La seconda via. Nell’atto sessuale procreante non mi accoppio per avere un figlio. Nella esperienza jn prima persona di me stesso e dell’altro nell’atto sessuale non sento di. procreare, non ho I’esperienza in prima persona del “far nascere”. L’evidenza sessuale è l’evidenza dell’altro in me e di me nell’altro. Non può essere I’evidenza del figlio che non c’è ancora.. Se le conseguenze saranno procreative, nota Husserl, lo saprò dopo. Dai fatti. Ma posso pormi la domanda: “come avviene?” Fenomenologicamente questo “come” deve essere sperimentato dal soggetto. Ma il soggetto è il soggetto che inizia la sua nascita in seguito alla fecondazione. Non sono io ma è mio figlio, o sono io, ma nell’atto del mio nascere. C’è qui .rn distacco. Il distacco che si inizia subito, appena compiuto I’atto sessuale. Anche la donna si estrania da me. Ciò che ha di mio in sé è ancora mio, ma non sono più io.
Nell’amore, all’inizio, ho proiettato me stesso in lei: è diventata la “mia vita”. Proprio per questo devo possederla: per “riavere la mia vita”. Ma la “mia vita”, invece di essermi restituita, diventa concretamente un’altra vita. Così si diventa padre, diventando un altro soggetto. Ma così si è figli: si inizia geneticamente la propria storia, la storia della propria soggettività. Procreare e nascere sono due operazioni mie, di me soggetto, che mi sfuggono.
La prima mi sfugge nèl distacco che segue all’atto sessuale dal quale ha inizio, appunto, la procreazione. La seconda operazione, il nascere, mi sfugge perché che sia mia mi viene detto da altri. Non è in prima persona. Non posso ricordare la mia vita intrauterina e la mia nascita. Le due operazioni, che mi sfuggono, sono proiettate in Dio che diventa il solo creatore.
C’è un’implicazione: lo studio scientifico della procreazione e della nascita è, alla fine, la genetica. Come scienza fenomenologica rientra, in qualche modo, nell’antropologia, oltre che nella psicologia e nella somatologia, in quanto il suo problema si pone come studio delle modalità e del significato della genesi, sperimentata soggettivamente, e per ciò fenomenologicamente. Una delle conseguenze dell’implicazione scientifica è la seguente: lo studio scientifico della genesi, lo studio scientifico obiettivo, può porsi come un sostituto dell’atto sessuale.
Uno scienziato si può accorgere, magari tardi, che la conoscenza scientifica si è per lui sostituita alla “conoscenza” in senso biblico e cioè all’atto sessuale. Ciò può accadere al filosofo in quanto ricercatore della genesi del mondo. O allo storico: la genesi è la storia.
La feticizzazione è fascinosa perché sostituisce l’atto sessuale creativo. I,e tecniche possono esercitare, da questo punto di vista, un’attrazione magica. Una tecnica può sostituire I’atto sessuale e, in cibernetica, la procreazione mancata. Il tecnico vorrà costruire il figlio come un homunculus nell’inconsapevole desiderio di sostituire agli uomini le macchine. L’homunculus di Goethe è il simbolo di quella che Husserl denuncia come “crisi delle scienze”.
* Enzo Paci, Diario fenomenologico, Il Saggiatore, Milano 1961, pp. 95-97.