Un tale romanocentrismo manda nel cestino con un semplice delete teologico tutte le collettività cristiane e non solo, alle prese con forme nuove di connettività, comunione, cooperazione attraverso la Rete e di lì nel mondo e che nella centralità cattolica non si riconoscono [...]
La Chiesa, un social network che rifiuta il peer-to-peer
di Claudio Canal (il manifesto, 1 agosto 2012)
Oggi Gesù di Nazareth sarebbe un hacker, un blogger? Quanti followers avrebbe su Twitter? Ne avrebbe? Domande fantateologiche, ispirate dalla lettura di Cyberteologia. Pensare il Cristianesimo al tempo della Rete (Vita e Pensiero 2012, pp. 148, euro 14) di Antonio Spadaro.
Direttore della più che autorevole e centenaria rivista dei gesuiti La Civiltà Cattolica, Spadaro è molto attivo in rete, critico letterario ha fondato nel 1998 il blog Bombacarta-scritture ed espressioni creative, dal 2011 il blog Cyberteologia cui si associa il quotidiano on line The CyberTheology Daily. Titoli e sottotitoli dei capitoli sono accattivanti, L’uomo decoder e il motore di ricerca di Dio, Una Chiesa "hub"?, La Rivelazione nel bazar, Corpo mistico e connettivo, Dal microfono sull’altare alla preghiera dell’avatar...
Spadaro non è un frequentatore occasionale della rete, è immerso ma non affogato, come succede a molti addetti ai lavori. Partecipe, non patito. È disponibile a farsi interrogare dalla rete, perciò le sue descrizioni e analisi non sono scontate e sono utili anche a chi alla parola teologia sente puzza di bruciato. Cyber-, neuro-, nano- sono prefissi che tirano molto e promuovono ipso facto un prodotto culturale come attraente e irrinunciabile. Cyberteologia non fa eccezione. Il suo significato può spaziare da un livello base di consueta riflessione teologica sul web fino al riconoscimento della natura «mistica», quasi sacramentale, della Rete.
Non a caso Spadaro nell’ultimo capitolo ricorda il confratello Teilhard de Chardin che fin dal 1947 parlava di noosfera, una complessa membrana di conoscenza, una «rete nervosa avviluppante la superficie intera della Terra». Il Vaticano non mancò di punire Teilhard per questo e per le sue convinzioni evoluzionistiche, salvo, come da prassi consolidata, arruolarlo sessant’anni dopo. Anche il mondo «laico» italiano se ne sbarazzò con sufficienza. Si veda la beffarda poesia che gli dedicò Montale, A un gesuita moderno.
Spadaro è ben attento a non farsi risucchiare dalla Rete, ne riconosce i tratti religiosi presenti perfino nel linguaggio elementare, salvare, convertire, condividere..., e soprattutto sa che il cybermondo si costituisce proprio come sacramento, ex opere operato direbbero i teologi di scuola, perché non solo rappresenta la realtà, ma è in grado di produrla. Non un semplice strumento, utile per amplificare predicazione e presenza della Chiesa nella società, come il microfono, la radio, la televisione, ma un ambiente che agisce e si autogenera.
Per questo è inaccettabile per l’autore ogni forma di Chiesa Opensource in cui i fedeli partecipino alla sua costruzione e al suo «mantenimento» in vita in una specie di Wikicclesia permanente. Uno dei teorici di questa posizione è un teologo nordamericano di confessione presbiteriana, Landon Whitsitt, di cui si può pensare quello che si vuole, ma che qui ci permette di sottolineare un consistente limite di Cyberteologia che porta come sottotitolo Pensare il Cristianesimo al tempo della Rete. Secondo una radicata tradizione italiana, non solo clericale, Cristianesimo appare sempre come sinonimo di Chiesa Cattolica: infatti, sostiene Spadaro, questa non può stare in un rapporto tra pari, peer-to-peer, bensì va collocata nell’opposto modello client-server in cui sono indispensabili mediazioni sacramentali e gerarchiche.
La Chiesa è sì un grande social network, un bene comune, potremmo dire, un google connettivo che stabilisce relazioni, ma in cui non si può diluire né esaurire, perché - afferma Spadaro - prima di tutto è un Corpo Mistico unito a Cristo, secondo una sintetica affermazione data da Paolo nella Lettera ai Romani.
Il che sarebbe un bel modo per dire che con le forme della Rete bisogna fare criticamente i conti, che la virtualità è volatile, che le «comunità» create dalla rete sono transitorie, che è importante stare nella Rete a condizione di saperne uscire, nonostante la labilità dei confini tra virtuale e reale, che se non c’è vita offline è assai improbabile che si crei da sé online, che il corpo digitale interferisce con il corpo organico ma (per ora?) non lo sostituisce.
Il problema è che quando un cattolico evoca il Corpo Mistico - avendo a disposizione anche un’altra nozione di Chiesa, quella di Popolo di Dio - in ultima istanza vuole significare Chiesa Cattolica Apostolica Romana.
Infatti, di tutte le possibili e necessarie forme di resistenza al cannibalismo della Rete, Spadaro privilegia la piattaforma della liturgia cattolica, proprio quella sacramentale ed eucaristica della «presenza reale», anche se non gli scappa la temibile parola transustanziazione.
Un tale romanocentrismo manda nel cestino con un semplice delete teologico tutte le collettività cristiane e non solo, alle prese con forme nuove di connettività, comunione, cooperazione attraverso la Rete e di lì nel mondo e che nella centralità cattolica non si riconoscono.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
FLS
Teilhard: «Io, né utopista beat né millenarista» *
"(...) sono stato considerato un ottimista o un utopista beat, che sogna di euforia umana o di millenarismo confortevole. Come se la maturazione umana che i fatti hanno l’aria di annunciare non si presentasse, nelle mie prospettive, non come un riposo, ma addirittura come una crisi di tensione, pagata da un’immensa scia di disordini e sofferenze: crisi tutta carica di rischi e dunque ancora più drammatica, a causa dell’enormità dell’interesse in gioco (il successo di un universo, nientemeno!), di tutte le fantasie egoiste e morbose dell’esistenzialismo contemporaneo.
Fatto ancora più grave, si va ripetendo che sarei il profeta di un universo distruttore dei valori individuali: perché ai miei occhi il mondo si dirige, sperimentalmente, verso uno stato sintetico. Ma in realtà la mia grande preoccupazione è sempre stata quella di affermare, in nome dei fatti, che l’autentica unione non confonde ma differenzia; e anche che, nel caso di esseri pensanti e amanti (quali l’uomo), lungi dal meccanizzare personalizza, e doppiamente: prima intellettualmente, per super-riflessione, e poi affettivamente, per unanimizzazione.
Così, nonostante il primato che io accordo tecnicamente al tutto in rapporto all’elemento, mi trovo, così come la struttura stessa del mio pensiero scientifico, agli antipodi sia di un totalitarismo sociale che porta al termitaio, sia di un panteismo induizzante che cerca la via d’uscita e la figura ultima dello spirituale nella direzione di un’identificazione degli esseri con un fondo comune sottostante alla varietà degli eventi e delle cose. Non meccanizzazione, dunque, né identificazione per fusione e perdita di coscienza, ma unificazione per ultradeterminazione laboriosa e amore.
Bisogna riconoscere che queste vedute biologiche possono avere una certa incidenza sulla nostra valutazione dei valori umani. Ci fanno propendere verso un umanesimo rinnovato, basato non più, come nel XVI secolo, su una riscoperta del passato, ma su possibilità inattese tenute in serbo per noi dal futuro. Ma la nascita, attorno a noi, di un tale "neo umanesimo" (legato nel mio pensiero religioso ai progressi della "carità") non è appunto uno dei caratteri distintivi dei tempi che stiamo attraversando?».
* Cfr. INTERVISTA INEDITA [1951]
TEORIE.
La proposta di Floridi per essere protagonisti della rivoluzione comunicativa
Organismi informaticamente modificati
Servono una nuova metafisica e un’etica integrata per poter conciliare le esigenze di scienza e natura
di Serena Danna (Corriere dela Sera/La Lettura, 05.08.2012)
«Fino a quando ci ostineremo a spiegare Facebook con McLuhan o Internet con Gutenberg, continueremo a non capire la rivoluzione che stiamo vivendo».
A parlare, connesso via Skype da Oxford, è il filosofo Luciano Floridi, oggi ricercatore di punta della prestigiosa università inglese dopo anni di docenza in logica ed epistemologia. È arrivato a Oxford venticinque anni fa con una borsa di studio e l’obiettivo di laurearsi con il grande logico Michael Dummett. Poche ore prima della partenza suo padre gli disse: «Almeno potrai dare ripetizioni d’inglese». Sono passati 25 anni: l’Inghilterra è diventata la sua patria, lì - tra dormitori stracolmi e avanguardistici laboratori d’informatica - Floridi, 48 anni, ha contribuito a fondare una nuova branca della filosofia legata all’informazione.
La rivoluzione dell’informazione, titolo del saggio appena uscito in Italia per Codice, è considerata dal filosofo la quarta rivoluzione scientifica, dopo quelle segnate dalle scoperte di Copernico, Darwin e Freud.
«Storia è in realtà sinonimo di età di informazione - scrive Floridi - dal momento che la preistoria è quell’età dell’evoluzione umana che precede la disponibilità di sistemi di registrazione». La possibilità di ricevere e trasmettere dati hamodificato radicalmente la comprensione del mondo e di noi stessi. Peccato l’abbiano capito in pochi: «Siamo al centro di un ribaltamento etico e filosofico - afferma - ma continuiamo a pensare alla tecnologia come hardware». Scrive il filosofo: «La società dell’informazione è come un albero che ha sviluppato i suoi lunghi rami in modo molto più ampio, rapido e caotico, di quanto non abbia fatto con le sue radici concettuali, etiche e culturali». Ma la colpa non è solo dell’approccio «passatista» dei teorici della comunicazione: fin dall’inizio la tecnologia è stata intesa come un «fenomeno computazionale», calcoli e macchine. «Abbiamo guardato all’informatica troppo come matica e poco come info», scherza il docente di Oxford, convinto che l’enfasi sull’hardware abbia coperto per cinquanta anni la verità, ovvero: «quegli aggeggi gestivano la ricchezza che avrebbe cambiato il mondo: l’informazione».
In realtà c’è chi l’aveva capito subito: il geniale matematico e crittografo Alan Turing. «Si può considerare il vero padre della Filosofia dell’informazione - sottolinea Floridi -, Turing non inventa un potentissimo calcolatore ma una macchina teorica, un modello di calcolo applicabile dalla biologia al mondo militare». Tra i visionari annoverati dal filosofo c’è anche il fondatore di Apple, Steve Jobs, che negli anni Ottanta capì che i computer «dovevano servire non a fare calcolima a fornire interfacce migliori, per favorire l’interazione con gli utenti». Inoltre gli studiosi hanno dedicat0 tempo ed energia allo studio della cosiddetta Intelligenza artificiale, grande abbaglio del secolo scorso: «Le interpretazioni fantascientifiche della tecnologia hanno depistato tanti cervelli. Un pc di oggi non è più intelligente di un frigorifero degli anni Novanta: “smart” significa solo che ci rende la vita più facile». Come un televisore con i programmi personalizzati o un pedaggio che addebita i costi su carta di credito.
La tecnologia applicata alle nostre vite non ci renderà cyborg, piuttosto «inforg», ovvero «organismi informazionali interconnessi». «Le Ict (Information and communication technology ndr) stanno creando un nuovo ambiente informazionale - scrive Floridi - nel quale le generazioni future passeranno la maggior parte del loro tempo». Se l’ambiente che ci circonda si basa sull’informazione - intesa come insieme di dati - la tecnologia serve a creare porte di accesso sempre più amichevoli per gli utenti. Questa nuova dimensione, che Floridi chiama «infosfera», abbatte definitivamente la differenza tra reale e virtuale cara al XX secolo: «Il digitale - continua il filosofo - si sta diffondendo nell’analogico e confondendo con esso». In futuro un numero sempre maggiore di oggetti saranno IT-enti (enti che incorporano la tecnologia dell’informazione), capaci di scambiare informazioni. In realtà accade già: «L’esperienza comune di guidare un’auto seguendo le indicazioni fornite dal gps - si legge nel saggio - mostra chiaramente quanto sia diventato inutile chiederci se siamo online».
Colmare il digital divide diventerà una priorità: «Il divario ridisegnerà la mappa della società mondiale, provocando o approfondendo le divisioni generazionali, geografiche, socioeconomiche e culturali».
«Se cambia la cultura deve però cambiare anche la maniera di intendere il mondo », puntualizza il filosofo. «Prima della rivoluzione industriale - spiega - il concetto di realtà era legato all’immutabilità: una cosa esisteva solo se non cambiava». Con l’industrializzazione siamo passati a una metafisica dell’esperienza - «il reale è solo ciò che possiamo esperire direttamente» - in cui siamo ancora imprigionati. Dovremmo ripensare la metafisica in termini informazionali: «Oggi l’esperienza con un oggetto non si basa più sui cinque sensi ma sull’interazione con esso, che non è necessariamente fisica».
Come la metafisica, anche l’etica va rivoluzionata: «Quella occidentale si fonda sulla centralità di colui che agisce e sul diritto ad assecondare i propri desideri a discapito dell’ambiente», afferma Floridi. Questa visione ha portato a un conflitto tra physis e techné, natura e scienza e, in anni più recenti, a considerare l’ambientalismo un’alternativa alla tecnologia. Un errore: «Dobbiamo lavorare per l’e-nvironmentalism, un ambientalismo che tenga in considerazione la tecnologia, e per una nuova etica basata su chi l’azione la riceve».
In un ambiente che ha come principio primo l’informazione, diventa fondamentale mettere tutti nelle condizioni di riceverla e capirla. Già Socrate vedeva nei comportamenti sbagliati dell’individuo l’esito della mancanza di informazioni. Ma Floridi è lontano dall’«intellettualismo etico» del filosofo greco: la questione non è aumentare le informazioni, come sostiene il filosofo David Weinberger, autore di Too big too know. «L’umanità soffre di bulimia informativa perché prima del web ha vissuto in digiuno permanente. L’overload di oggi però non è sostenibile ed è incompatibile con una cultura che identifica la conoscenza con la memorizzazione». La soluzione per Floridi sta nel fornire gli strumenti per comprendere le informazioni e poterle trasmettere. «A cosa servono centinaia di righe e di link su una pagina di chimica di Wikipedia se poi sono costretto a fermarmi alla terza riga perché non capisco nulla?». Già, a che cosa?
Serena Danna
La Chiesa open source sarebbe un’ottima soluzione ma, come al solito, quando si tratta di condividere e mettersi sullo stesso piano i conti per la Gerarchia non tornano: "sostiene Spadaro, questa non può stare in un rapporto tra pari, peer-to-peer, bensì va collocata nell’opposto modello client-server in cui sono indispensabili mediazioni sacramentali e gerarchiche."
Antonio C.