E’ ORA DI CAMBIARE
di GWEN LISTER *
I namibiani sono (giustamente) furibondi per lo stupro ed il brutale omicidio di Magdalena Stoffels, avvenuti questa settimana sul greto di un fiume prossimo alla scuola “Dawid Bezuidenhou”, come del resto dovremmo sempre essere verso lo stupro e l’abuso di tutte le donne e i bambini, al di la’ delle circostanze.
Noi nei media possiamo a buon diritto essere chiamati a rispondere del fatto che mentre la morte della diciassettenne Magdalena ha ricevuto ampia copertura sulle nostre pagine, cio’ non e’ accaduto per altri stupri ed omicidi. Il fatto e’ che grazie alla vicinanza dei luoghi siamo stati in grado di coprire l’evento e le sue conseguenze, e abbiamo potuto concentrare l’attenzione dei lettori sulla tragedia e l’orrore di questo crimine. La perdita di una vita non e’ piu’ importante di un’altra, ma molti casi ci arrivano come segnalazioni, e noi non siamo presenti per descrivere o catturare nei dettagli le immagini che circondano tali delitti.
Ma poiche’ siamo stati capaci di farlo con lo stupro e l’assassinio di Magdalena, si spera che cio’ serva ad attirare di nuovo l’attenzione sulla violenza contro le donne ed i bambini, ed in effetti il nostro lavoro ha galvanizzato la comunita’. Mentre ci si trova nel processo in cui la comunita’ stessa lascia uscire all’esterno il suo dolore e la sua indignazione per questa tragedia, i media hanno anche il compito di non incitare alla violenza pubblica, o alla “giustizia della folla”. L’angoscia e la rabbia sono comprensibili, ma le chiamate alla vendetta non sono la risposta al problema, ne’ lo e’ la reintroduzione della pena di morte, o la castrazione, o la richiesta alla polizia di sparare per uccidere.
Magdalena e’ stata violata e uccisa sul letto di un fiume; altre vengono assalite nelle loro stesse case, o di notte, o in zone affollate. Sono aggredite e uccise non da “animali” ne’ da “mostri”, ma da altre persone, ed i namibiani devono accettare il fatto che i crimini sono commessi principalmente da loro stessi.
Fare i conti con questo flagello della nostra comunita’ significa riesaminare il nostro sistema di valori, e scoprire dove abbiamo sbagliato se cosi’ tante persone commettono queste atrocita’ in Namibia. E’ semplicistico e del tutto insensato adottare il concetto di uccidere le persone quando esse uccidono, o di tagliare membra quando la gente ruba, o di stuprare chi stupra: perche’ cio’ rimuove dalle nostre spalle la responsabilita’ di far si’ che tutti i namibiani crescano in un sistema di valori che riduca al mimino i crimini violenti nella nostra societa’.
Le nostre famiglie, chiese, organizzazioni della societa’ civile, scuole e comunita’, stanno facendo abbastanza per insegnare un codice etico alla nostra gioventu’? Insegnamo ai giovani che la violenza e’ sbagliata, che e’ inaccettabile picchiare le donne, che non dobbiamo commettere abusi ai danni di bambini e di animali, che e’ inaccettabile rubare?
Le nostre famiglie, chiese, organizzazioni della societa’ civile, scuole e comunita’, stanno cercando soluzioni al problema che ci affligge? Non possiamo solo puntare il dito e biasimare il governo, biasimare le municipalita’, e trovare capri espiatori di modo da non essere coinvolti. Gli sforzi pubblici avrebbero in definitiva maggior successo, in termini di ambienti piu’ sicuri, se fossero diretti ad aggiustare le cose invece che a lamentarsi di continuo.
E dobbiamo davvero analizzare il sistema di valori che sta sotto a tutto, per evitare l’ipocrisia. Le voci piu’ alte contro il crimine e la corruzione sono talvolta quelle di persone che comprano merci rubate; il marito che picchia la moglie siede poi in chiesa con aria soddisfatta la domenica; il ricco uomo d’affari che ottiene una concessione tramite le conoscenze giuste puo’ essere la stessa persona che invoca pene esemplari per i ladri che gli sono entrati in casa.
Devono essere tenuti per responsabili i namibiani in generale, non solo il loro governo, la polizia e le altre istituzioni. Il tasso di violenza contro donne e bimbi, nella nostra societa’, e’ spaventoso. E’ ora che noi persone comuni si faccia qualcosa al riguardo, e invece di chiedere vendetta si cambi l’immorale tessuto della nostra societa’. Non puo’ esserci modo migliore di ricordare le innocenti che sono morte a causa della nostra negligenza come nazione.
* TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 277 del 9 agosto 2010
Telegrammi della nonviolenza in cammino proposti dal -Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini.
Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo,
tel. 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it
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[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59@libero.it) per averci messo a disposizione nella sua traduzione il seguente articolo di Gwen Lister apparso su "The Namibian" del 30 luglio 2010. La traduttrice, in una postilla personale, aggiunge che essendo "d’accordo al cento per cento, pensa che sostituendo alla parola ’Namibia’ la parola ’Italia’ il risultato non cambi".
Gwen Lister, nata nel 1953, e’ una prestigiosa giornalista e saggista namibiana, attivista impegnata nel movimento antiapartheid (per questo duramente perseguitata) e per i diritti umani di tutti gli esseri umani, e’ autorevole voce della lotta per la liberta’ di stampa]
Sul tema, nel sito, si cfr.:
USCIAMO DAL SILENZIO: UN APPELLO DEGLI UOMINI, CONTRO LA VIOLENZA ALLE DONNE.
Germania
La polemica con la Namibia
Il genocidio africano quella ferita aperta che imbarazza Berlino
Un secolo fa l’eccidio degli Herero e dei Nama ma per i discendenti nessun risarcimento
di Tonia Mastrobuoni (la Repubblica, 28.08.2018)
BERLINO Quindici tra teschi, ossa e scalpi degli Herero e dei Nama massacrati un secolo fa dai tedeschi saranno restituiti domani alla Namibia. Ma la cerimonia attorno a uno dei rari gesti riparatori della Germania verso due minoranze che furono le prime, accertate vittime di un genocidio nel ’900 - un decennio prima di quello armeno - è già al centro di enormi polemiche. Il governo tedesco continua a voler trattare soltanto con quello namibiano, mentre i rappresentanti delle minoranze perseguitate chiedono di sedere al tavolo della difficilissima trattativa sulle indennità. Ad oggi la Germania, pur avendo riconosciuto nel 2004 il genocidio in Namibia, non ha chiesto scusa, né vuole riconoscere alcun risarcimento ai discendenti dello sterminio.
Nel 1904, dopo un’insurrezione contro le feroci condizioni cui erano costretti nelle loro terre, gli Herero e i Nama furono perseguitati dal generale tedesco Lothar von Trotha. Il militare sassone non si accontentò di sconfiggerli i battaglia. Ne ordinò lo sterminio, un genocidio di Stato. «Devono lasciare il Paese o li fucileremo», sentenziò. E dopo la sanguinosa battaglia di Waterberg, le truppe del Reich cacciarono gli sconfitti nel deserto di Omahele, sapendo di condannarli a morte. I rari sopravvissuti furono rinchiusi in campi di sterminio che secondo storici autorevoli come Juergen Zimmerer furono un antipasto di Auschwitz. Anche in questo caso, un comandante del campo, Berthold von Deimling, promise: «Nessun Nama lascerà Shark Island». Ed è in quel campo che a decine di Herero e Nama fu tagliata la testa. Una volta bollite, ai famigliari fu inflitto l’atroce compito di scarnire quelle teste mozzate con dei pezzi di vetro.
«Ai nostri antenati fu chiesto di strappare la carne dalle teste dei loro padri, dei loro mariti», ci ha ricordato ieri la presidente della Commissione namibiana sul genocidio dei Nama, la parlamentare Ida Hoffmann. Per lei è importante che il governo restituisca tutti i resti dei loro antenati: «Vogliamo che le loro anime riposino in pace».
Come ricorda lo storico Christian Kopp, che presiede l’ong "Völkermord verjährt nicht" ("Il genocidio non cade in prescrizione"), impegnato da anni nella restituzione dei teschi e delle ossa namibiani, «a tutt’oggi non c’è trasparenza su quanti se ne trovino ancora nelle università e negli ospedali tedeschi». Un secolo fa furono portati in Germania per essere studiati dagli pseudoscienziati che cercavano di dimostrare presunte differenze tra razze.
Furono gli ispiratori dei boia dell’Olocausto, dei macellai dello sterminio degli ebrei.
Ida Hoffmann fa parte di una delegazione di rappresentanti di Herero e Nama che è stata ricevuta ieri mattina dal ministro della Giustizia di Berlino, Dirk Behrendt, che ha chiesto scusa a nome della capitale e ha ricordato che lo sterminio «non fa quasi parte della memoria collettiva dei tedeschi» e il governo federale dovrebbe «finalmente riconoscerlo e assumersene la responsabilità». Wolfgang Kaleck, l’avvocato dell’Ecchr, lo studio legale che sta aiutando Herero e Nama a portare avanti la loro causa collettiva, ha parlato di un «fallimento» della Germania.
L’11 agosto ricorre l’anniversario del genocidio e «nessun rappresentante tedesco era presente, quest’anno, né c’erano corone di fiori: una vergogna». Da sempre, su questo oscuro capitolo della storia tedesca, la Germania preferisce girarsi dall’altra parte.
«Willy Brandt si inginocchiò davanti al ghetto di Varsavia», ha ricordato ieri Esther Utjiua Muinjangue, presidente della Commissione sul genocidio degli Herero. «Qual è la differenza, che quelli erano europei e noi africani?».
Il 55 per cento degli uomini, il 33 per cento delle donne e 74 ragazzi su cento hanno risposto così. E la povera filippina assassinata a pugni nel centro di Milano mentre i passanti guardavano senza alzare un dito è l’ultima vittima sacrificale del Medioevo che continua Amo, dunque uccido, e la colpa di chi è? Delle ragazze che provocano...
di Monica Lanfranco (09-08-2010) *
Quante volte abbiamo sentito dire (o abbiamo detto, con rabbia e senza riflettere) una frase carica di presagi nefasti, come “ora ammazzo qualcuno”? Nel fraseggio della modernità abbondano espressioni violente con simbologie aggressive, sessiste, omofobe, razziste senza che si faccia quasi più caso al loro contenuto offensivo e pericoloso: la scusa è che nel mondo violento che ci circonda, e del quale facciamo parte, è necessaria una catarsi almeno nelle parole, e che la violenza verbale non è, nella maggioranza dei casi, immediatamente legata all’azione violenta che pure esprimono le parole che diciamo o che ascoltiamo.
Ma qualche mattina fa un giovane uomo ucraino, che da giorni andava ripetendo che avrebbe ucciso qualcuno, è uscito di casa e lo ha fatto davvero: lasciato dalla fidanzata da poco tempo, gonfio di rabbia e di rancore contro quella donna che l’aveva ferito e contro le donne, evidentemente tutte per traslato responsabili ai suoi occhi del dolore infertogli dall’abbandono, ha ucciso a pugni nel giro di pochi minuti una donna filippina di 41 anni, madre di due figli, che andava a lavorare, come ogni mattina, a Milano.
Unica colpa essere, appunto, una donna, per orribile coincidenza la prima capitata a tiro dell’assassino che se l’è trovata davanti e ha dato sfogo su di lei al suo odio.
In questo scenario di brutalità, abuso, ignoranza e dolore che ci sembra arcaico e lontano mentre è proprio qui nella nostra quotidianità, impastato con il sincopato e moderno presente c’è, una volta ancora nello sfondo un dato incontrovertibile: sono sempre di più gli uomini, non importa se giovani o maturi, italiani o di altri paesi, che non sono capaci di reggere emotivamente il peso dell’abbandono da parte di una donna, considerando le relazioni affettive e sessuali con l’altro genere un banco di prova della loro virilità.
Se qualcosa va storto, specialmente nel caso in cui sia la donna a decidere di troncare la relazione, essi non sono capaci di elaborare la ferita del distacco, del rifiuto, e una pur dolorosa e umana vicenda sentimentale di fallimento diventa un’ossessione, un’onta, una offesa insopportabile alla propria presunta integrità virile, che è possibile sanare solo con una escalation reattiva: l’insulto, la persecuzione, la violenza fino ad arrivare all’annientamento fisico della colpevole, e, se non di lei in persona, come in questo caso, in un suo surrogato.
Le pene d’amore celebrate dalle canzoni e dalle poesie di ogni tempo restano lì, raggelanti presagi di sventura: come è possibile che l’amore, la passione e le fortissime emozioni che tutti e tutte desideriamo vivere nella relazione amorosa possano trasformarsi in disprezzo, vendetta, odio fino all’assassinio?
È possibile, è realtà se non cambiamo modo di educare all’affettività e al rispetto: mai dare per scontato che gli uomini abbiano chiaro che l’amore non rende chi ama un proprietario e un padrone dell’amata; mai dare per scontato che dietro all’emancipazione apparente delle giovanissime di oggi ci sia una concreta consapevolezza del proprio valore e della inviolabilità del proprio corpo e della sessualità. Possiamo parlare semplicemente di raptus di follia (tutti i tg titolavano così la vicenda) e rubricare questo ennesimo episodio di violenza maschile contro le donne come un caso isolato di pazzia?
Facciamo un passo indietro: qualche mese fa l’Airs (Associazione italiana per la ricerca in sessuologia) rese noti i risultati di una ricerca dal titolo “Dalle molestie sessuali allo stupro”, per individuare le principali variabili all’origine della violenza sessuale. Le risposte allarmarono gli stessi vertici dell’associazione, che affermarono:
Fra i risultati che ci hanno sorpreso e sconcertato maggiormente c’è questa sorta di colpevolizzazione della vittima. Alla domanda 24 (“Secondo lei, le donne sono spesso libere e ambigue sessualmente e ciò le rende alle volte responsabili della violenza sessuale che possono subire”?) il 55,8% degli uomini ha risposto affermativamente, come pure il 43% delle donne e il 75% dei giovani. Dunque non stupisce troppo che poi il 56% dei maschi pensi che, se le donne fossero meno provocanti, la violenza sessuale diminuirebbe. La pensa così il 33% delle donne e il 74% dei giovani”. Dal sondaggio emerge, inoltre, che per il 15,7% degli uomini e il 10% delle donne l’imposizione di un rapporto alla moglie o fidanzata non sia violenza. Per questa percentuale di uomini non c’è nulla di sbagliato, e per le donne non esiste motivo di ribellarsi. Ancora: sguardi, fischi e atteggiamenti che mettono a disagio la vittima per il 50% degli uomini non sono molestie, un’idea condivisa dal 43% delle donne. Che serve aggiungere ancora, per avere la certezza che nella nostra cultura ormai è maggioritaria l’opinione che l’aggressività, la misoginia e il sessismo di parole, sguardi e allusioni esplicite sono da considerarsi normali e accettabili nelle relazioni tra i generi e che un molestatore, anche solo a parole, è a livello psicologico già un violentatore, e che poi l’escalation può anche trasformarlo in un assassino, a seconda del suo squilibrio e della sua fragilità emotiva?
In questo ennesimo caso di femminicidio colpisce il vano tentativo di una donna di salvarne, purtroppo inutilmente, un’altra dalla violenza che stava per esplodere.
La madre del ragazzo al mattino della tragedia ha cercato di fermarlo intuendo che dalle parole si stava passando ai fatti: ha chiamato la polizia appena lui è uscito di casa, temendo che le affermazioni del figlio potessero diventare realtà. Non ce l’ha fatta.
Di fronte al lutto e alla disperazione nel quale ci immerge questo assassinio non resta che continuare a dire, forte e chiaro, che se non si rifiuta il paradigma della forza come fondativo delle relazioni non ci può essere alcuna speranza di convivenza umana pacifica e feconda. Alla base di questo percorso c’è la necessità di riconoscere la violenza sulle donne, in ogni sua forma, come violenza primaria da sradicare. C’è bisogno di farlo a partire dalla scuola elementare, nei luoghi di lavoro e di aggregazione, lo si deve ricominciar a fare come società civile, come movimenti, perché una cultura violenta contro le donne originerà, a cascata, modelli violenti in ogni altra manifestazione del corpo sociale. Riconoscerlo è un’emergenza.
* Fonte: DOMANI a cura di Maurizio Chieirici