Quello che Hannah Arendt (1963) ha descritto come la ‘banalità del male’, evidenziando l’incapacità del comune cittadino tedesco, sotto il nazismo, di avvertire la mostruosità dei disegni del Fűhrer, nascenti dal suo infantile delirio di onnipotenza, era stato già ricondotto, due decenni prima (1941), da Erich Fromm alla sua causa principale e determinante: la “fuga dalla libertà”, dalle responsabilità, dall’ansia, dal dolore, dai rischi che essa comporta. Un atteggiamento, questo, riscontrabile nell’uomo moderno come sottoprodotto regressivo dell’affrancamento dai vincoli della società “pre-individualistica”, che nelle epoche precedenti costringevano e limitavano le possibilità di scelta dell’essere umano, ma insieme servivano a rendere più sicura e meno problematica la sua esistenza.
Il ‘peso’ della libertà e il rifiuto di affrontarne la fatica e i costi- per inettitudine, pigrizia mentale o debolezza di temperamento- favoriscono l’evasione nella dimensione illusoria della religione e delle credenze superstiziose, inducendo, con l’idea di un destino già prefigurato, accettazione, rassegnazione e cieca obbedienza all’ ”autorità inibitoria” (Fromm) di sacerdoti e santoni sedicenti esperti di cose sacre ed arcane. Si spiega così la reviviscenza di religioni, sètte, culti esoterici all’interno di società ‘secolarizzate’. Sul piano politico, poi, la ‘fuga dalla libertà’ è all’origine della soggezione incondizionata ad un Capo, impropriamente definito ‘carismatico’, secondo un abusato luogo comune.
Il ‘carisma’, infatti, è propriamente l’attributo di una persona cui si riconosce, in modo del tutto disinteressato, a ragion veduta e fino a prova contraria, la pratica coerente e costante di un insieme di virtù intellettuali e morali, spinta fino all’abnegazione di sé. Il rapporto di sudditanza, al contrario, si basa su una identificazione assolutamente irrazionale con il Capo, che assume forme e gradi diversi - dall’innamoramento viscerale, alla sottomissione servile, alla paura della punizione e al calcolo del vantaggio personale - e si solidifica in una scelta di fedeltà all’uomo che si è imposto per il potere materiale di cui è giunto in possesso, qualunque cosa dica e qualunque cosa faccia, purché continui ad apparire sulla scena pubblica avvolto dall’aura della sua conclamata potenza.
* * *
Qualche anno dopo l’uscita del saggio di Erich Fromm sul rifiuto dell’uomo occidentale di vivere la propria epoca come fine definitiva dell’infanzia, inizio della maggiore età e ingresso nel regno dell’autonomia, Carlo Emilio Gadda, in Italia, dava sfogo all’indignazione a lungo covata contro il Fascismo - a cui fino all’ultimo aveva, peraltro, almeno formalmente aderito - scrivendo un pamphlet dal titolo significativo di “Eros e Priapo: da furore a cenere” (1945)*.
Il testo di Gadda è, innanzitutto, una testimonianza critica dell’essenza irrazionalistica del Fascismo, sviluppata con una eccezionale capacità di lettura dei segni e resa con mezzi linguistici di straordinaria pertinenza ed efficacia, anche se non aliena da una buona dose di risentimento, che, tuttavia, forse pregiudica la catarsi artistica complessiva, ma non sminuisce il vigore e la congruenza delle analisi. Ed è, insieme, il disvelamento del ‘black hole’ che si nasconde nei recessi dell’animo umano e trova nelle dittature e nei regimi autocratici il terreno più adatto per manifestarsi nei modi irriflessi e nelle forme barbariche, grossolane e crudeli riconducibili ad esso.
Spinto dal bisogno di comprendere il Fascismo al di là delle interpretazioni storiche, sociologiche e politiche, che solo in parte riescono a coglierne l’ interna dinamica distruttiva ed autodistruttiva, Gadda punta la sua attenzione sulle forme della comunicazione pubblica in cui il regime si espresse (a partire dalle ‘adunate oceaniche’ e dal dialogo diretto tra il leader e il suo popolo) nonché sulla molteplicità degli inediti rituali, non si sa se più macabri o più ridicoli, inventati allo scopo di gestire il consenso.
Non essendo uno psicanalista di professione, egli si affida al proprio ‘naso’ (come fecero Svetonio e Tacito per svelare i retroscena dell’Impero) riuscendo a dare un senso ai dettagli apparentemente più insignificanti e portando alla luce l’intreccio di pulsioni elementari, sottostanti il livello delle enunciazioni coscienti e delle proclamazioni ufficiali, che, meglio di ogni interpretazione storica, serve a spiegare la follia collettiva degli italiani durante il Ventennio. La sua analisi, pur restando strettamente aderente al contesto prescelto, assume, così, un carattere esemplare quale diagnosi tipica di una malattia storica pandemica, che in tutte le dittature, di qualsiasi forma e natura, ma anche dove si instauri un rapporto deviato tra i cittadini e il potere, si manifesta in modo particolarmente virulento e insidioso.
Il Fascismo è descritto, appunto, al di là della consapevolezza alterata dai meccanismi della razionalizzazione che gli italiani ne ebbero come fautori o complici passivi, nella sua realtà di grande menzogna, di inganno ed autoinganno, di frode organizzata, di sistematica bugìa, di “funerea priapata”, allestita da una banda di avventurieri che, vietando tutto a tutti mediante una serie di decreti- legge liberticidi sfornati a mitraglia, mirava soltanto a garantirsi il massimo vantaggio rispetto ad altre cricche potenzialmente rivali e concorrenti. Questi concreti, e neanche troppo segreti, moventi perché acquistassero libera circolazione dovevano essere mascherati sotto le insegne della patria, del dovere e del sacrificio, facendo coincidere la ‘patria’ con l’interesse della propria parte e intendendo ‘dovere’ e ‘sacrificio’ soprattutto come obblighi degli altri.
Ma, come mai la menzogna dei pochi diventa plausibile per i molti e continua ad essere creduta nonostante tutte le smentite dei fatti e come mai il meccanismo perverso, una volta messo in moto, non può essere arrestato, ma continua a girare vorticosamente fino a produrre i prevedibili esiti funesti?
Ciò risulta incomprensibile, se non si tiene conto della propensione delle masse alla “fuga dalla libertà”, facilitata e assecondata dall’emergere di Capi dalla personalità immatura, nei quali, cioè, sull’Eros vitale, positivo, oblativo proprio dell’ adulto, prevalgono una serie di fissazioni e di regressioni alle fasi della sessualità infantile.
La complementarità di segno regressivo che si stabilì tra Mussolini (in verità, mai nominato dallo scrittore), il suo staff e i gerarchi (caratterizzati per la loro “ebefrenica avventatezza”) e il popolo plaudente. del cui ostentato consenso egli aveva un bisogno vitale e che ossessivamente - come qualcun altro dopo di lui- amava verificare in modo ricorrente, traendone motivo di autocompiacimento e di scusa per assecondare i propri ‘pruriti’, viene sottolineata da Gadda con grande efficacia rappresentativa e interpretativa.
Impietoso è il ritratto di Mussolini, accostato alla figura di altri despoti, come Nerone, Tiberio o Luigi XIV, i quali, tuttavia, non si spinsero fino a permettere che le smodate ambizioni, le manie, la corruzione, i vizi personali mettessero a rischio le sorti dello Stato.
Mussolini è l’ “autoerotòmane affetto da violenza ereditaria”, il “furioso babbeo”, che, a differenza di Orlando non è spinto a mirabolanti imprese per amore di Angelica, non vive l’ eros nelle sue forme sublimate e “ingentilite”, ma lo consuma come perenne auto esibizione priapesca e proprio per questo fa leva sugli aspetti inconsci e più animaleschi della sessualità maschile e femminile, proponendosi come Modello di virilità, intesa nel senso infimo del termine.
Egli comunicava con la folla non tanto e non solo con la profluvie delle frasi fatte, delle formule vuote, delle tirate retoriche, ma con una gestualità e una fisicità allusive - dalla frequente protrusione delle labbra, al vezzo di unire pollice ed indice nel gesto di Vanni Fucci, agli slanci con cui si ergeva in avanti dal balcone, al dondolamento dei fianchi ottenuto col levarsi sulla punta dei piedi- che suscitavano gli ululati ritmicamente scanditi della moltitudine stipata nella piazza: quasi un delirio amoroso.
Nei confronti della gioventù italiana di genere maschile, nonostante il mito corrente della “giovinezza, primavera di bellezza” - che in realtà sottraeva ai giovani le loro concrete connotazioni storiche, individuali e sociali, sostituendovi un’astratta, disincarnata, finzione- l’atteggiamento del Capo fu quello di plasmarli secondo il modello di cui egli era convinto di rappresentare la perfezione, di volerli, cioè, identici a se stesso, come altrettanti cloni e replicanti, per mandarli, poi, a morire in guerra, seguendo un impulso sadico spinto fino alla negazione totale dell’altro da sé.
Come padre-padrone egli si atteggiò anche nei confronti delle donne. E’ forse questo l’aspetto più interessante e perspicuo della disamina di Gadda, che, nonostante i toni della satira e dell’invettiva, vuole esser un contributo alla conoscenza e all’intelligenza, necessarie a consentire il transito dalla ‘follia’ alla ‘vita ragionevole’. Ma più che l’esplicitazione della vera natura dell’ ’amore’ di Mussolini per le donne, che si risolveva, dato il personaggio, nel mero desiderio del possesso, nell’autocompiacimento e nella ricerca di auto-conferma attraverso il raggiunto possesso -come, del resto, suole avvenire nei maschi di indole grossolana, ancorché ricchi e potenti e, forse, proprio per questo- è illuminante seguire Gadda nella ricerca dei motivi che egli adduce per spiegare l’infatuazione, l’innamoramento, la fiducia spinta talora fino al fanatismo per il Duce di gran parte della popolazione femminile, di varia condizione sociale.
Mussolini, da quel furbo che era, fu il primo ad intuire l’importanza di attrarre dalla sua parte le donne, come l’elemento politicamente più sprovveduto, culturalmente meno attrezzato e naturalmente più docile. So bene, che, a questo punto, il femminismo più acritico e di maniera, potrebbe storcere il muso. Ma non bisogna dimenticare che lo scrittore è programmaticamente impegnato a sondare la dimensione inconscia, arcaica, primordiale dell’essere umano: non considera l’ ‘anima’, in cui ha sede il ‘logos’, ma gli spiriti animali, gli istinti, le “libidini vitali”, quelle a cui i tiranni di ogni tempo e luogo si rivolgono, facendone la base del loro potere e delle loro fortune. Il quadro che ne risulta è amaro, ma persuasivo e demistificante.
E’ spietato, ma sul piano ermeneutico esatto, il giudizio di “ninfomania politica” attribuito da Gadda allo sciame di giovani donne, erotizzate dalle frasi ‘asinine’ del leader, che si abbandonano ad isterici gorgheggiamenti, nitriti e gargarismi sulla ‘patria’ e sulla perfida Inghilterra e si accostano alla politica senza la minima coscienza e preparazione, magari illudendosi, attraverso quella forma di improvvisata partecipazione, di guadagnare sovvenzioni e vantaggi o di attivare il ‘corto-circuito’ di una carriera rapida e lumisosa, di prefetto o ministro, per i loro uomini ( ancora erano lontani i tempi in cui le donne avrebbero coltivato direttamente per sé queste estemporanee ambizioni ).
Nelle morte gore della storia, quando lo sguardo non si leva più su un futuro diverso e più desiderabile, che è sempre la faticosa e penosa creazione e costruzione del nostro spirito, il fango invade e pervade la vita collettiva e tutto diventa possibile per chi si trova a suo agio in questo elemento.
Dall’esperienza plurisecolare della Chiesa l’aspirante despota italiano derivò l’idea di servirsi delle donne come ‘instrumentum regni’, raddoppiando il numero dei suoi consensi e rafforzandoli grazie al ruolo di coesione che le donne svolgono all’interno della famiglia e della società. E ne seppe catturare la simpatia e il favore con l’esibizione spudorata della propria maschilità e del proprio potere, accentuati da una simbologia destinata a far breccia nell’animo femminile (l’andare a cavallo, gli stivali, gli speroni, il colbacco ecc).
Muovendosi incontro alle preferenze biogenetiche delle donne, che hanno in uggia i ‘filosofi’ e prediligono gli uomini vigorosi, decisi nelle parole e nelle deliberazioni, risoluti negli atti, a cui appoggiarsi e da cui farsi sostenere, egli si presentò e si accreditò come il ‘maschio dei maschi’, mettendo in ombra tutti gli altri concorrenti o assegnando loro il ruolo subalterno di delegati all’esercizio materiale della mascolinità. E giunse a stabilire e a far accettare la bugiarda equazione : ‘Io sono la patria’, ‘Io sono il poppolo’ (con due, tre , quattro ‘p’ asseverative); un’equazione che una volta insinuatasi nelle menti acritiche delle varie ochette, Sofonisbe e Sofronie, impressionate dagli elementi scenografici con cui veniva divulgata, divenne verità consolidata, come accade alle verità di fede.
Altri modi e altri mezzi furono adottati per captare la fiducia del genere femminile, dall’esaltazione pubblica del valore della famiglia (da parte di chi in privato non la teneva in nessun conto ed era addirittura in odore di bigamia) alla protezione della Maternità ed Infanzia (che sembrò ai più l’espressione di un cuore generoso ed era soltanto il prodotto di un calcolo) alle elargizioni di premi secondo i criteri della convenienza, dell’arbitrio, del capriccio.
’Quello sì che è un uomo!’ diceva la gente con espressione imprecisata ed ambigua. ‘Cosa sarebbe l’Italia senza quell’uomo!’... Ad un paese che non ha memoria non è bastato che tutto quel ‘furore’ attivistico, dietro cui c’era solo miseria morale, boria ed arrivismo, si sia tradotto in macerie e ‘cenere’.
‘Si salvi chi può, finché siamo in tempo, da uomini di questa razza!!!’.
Vittorio Emanuele Esposito
* edito da Garzanti, Milano 2004. I primi tre capitol sono stati pubblicati da “The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)”e sono leggibili online all’indirizzo: www.gadda.ed.ac.uk/Pages/resources/essays/eros1-3.php
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
di Marco Politi (il Fatto Quotidiano, 25 giugno 2010)
Da Bagnasco a Berlusconi, da Bertone a Napolitano: in attesa della sentenza definitiva della Corte europea sul crocifisso si moltiplicano gli interventi. Sorge artificialmente lo spettro di giudici decisi a conculcare il sentimento religioso italiano. Ha detto il capo dello Stato che le sentenze europee “devono essere comunque accettate”. Ma ha soggiunto che la “laicità dell’Europa non può essere concepita e vissuta in termini tali da ferire sentimenti popolari e profondi”. In realtà la Corte di Strasburgo, a novembre scorso, ha sancito un principio pacifico in tanti altri Paesi: l’esposizione nelle aule scolastiche del simbolo religioso (per di più unico simbolo esposto) rappresenta una “violazione della libertà dei genitori di educare i figli secondo le loro convinzioni e della libertà di religione degli alunni”.
Da allora sono partite pressioni molteplici perché il secondo grado della Corte di Strasburgo sconfessi la prima sentenza. Si è mobilitata la Cei, si è mosso il governo, si sono allertato l’associazionismo cattolico, facendo un gran parlare di identità, tradizioni, libertà. Berlusconi proclama che la decisione “inaccettabile per la stragrande maggiorana degli italiani”, il cardinal Bagnasco chiede il “rispetto della libertà religiosa”, il cardinale Bertone definisce la croce “espressione identitaria, strettamente connessa con la storia e la tradizione dell’Italia come pure dei popoli europei”. In realtà non un solo argomento, portato in campo in questi mesi per difendere la presenza obbligatoria del crocifisso nelle aule e nei tribunali, ha un fondamento. L’Unione europea tranne la pattuglia isolata di Polonia, Irlanda, Italia e Malta - respinse a schiacciante maggioranza dei suoi 27 stati la menzione delle “radici cristiane” nella propria costituzione. Non fu negazione del ruolo del cristianesimo nella storia europea, bensì rifiuto che da un generico richiamo costituzionale potessero scaturire, direttamente o indirettamente, situazioni di privilegio per una religione.
Che l’Europa sovranazionale sia laicista o antireligiosa è falso: infatti il trattato costituzionale prevede un “dialogo permanente” con le varie Chiese. Falso è anche dire che la sentenza respingerebbe la fede nell’ambito angusto del “recinto privato”. Il cristianesimo, come ogni altra fede, è totalmente libero di esprimersi collettivamente e visibilmente nello spazio pubblico e sociale dei paesi Ue. Parlare in Italia di un cristianesimo che rischia di essere conculcato, è una gag.
Ciò che indica la prima sentenza della Corte europea è, correttamente, l’impossibilità che in uno spazio istituzionale come la scuola (o i tribunali) vi sia un simbolo religioso che visivamente rappresenti il supremo principio ispiratore dell’educazione (o della giustizia). Non ci può essere nella società pluralistica contemporanea il dito indice di una sola religione, che all’interno di un’istituzione segni la via da seguire. Perché non è vero che il crocifisso sia nelle aule o nei tribunali “per tradizione”. La croce nei luoghi istituzionali è il retaggio dei secoli in cui il cattolicesimo era religione di stato. E il tentativo di imporne la presenza, anche oggi che la Costituzione e il Concordato hanno eliminato qualsiasi riferimento ad una religione di stato, non ha più nessuna base giuridica. Meno che mai è giustificato il tentativo surrettizio delle gerarchie ecclesiastiche di creare e crearsi uno status privilegiato di “religione di maggioranza”. Peraltro i giovani italiani, come dimostra l’ultima indagine Iard riportata dall’Avvenire, si sentono “cattolici” soltanto al 52 per cento.
Neanche è vero che il cattolicesimo sia un tratto universale dell’identità italiana. Ogni cittadino ha la sua storia, la sua cultura, le sue credenze. Sul piano istituzionale è certo che un solo simbolo, il Tricolore, rappresenta tutti (con buona pace di Bossi) e una sola immagine rappresenta nei luoghi pubblici l’unità della nazione, quella del presidente della Repubblica (Berlusconi se ne faccia una ragione). Da questo punto di vista rimane insuperabile la chiarezza del principio costituzionale americano (nazione assai religiosa e spesso citata da Benedetto XVI come esempio di laicità positiva), secondo cui lo Stato non può “né favorire né contrastare una religione”. Nelle scuole americane c’è la bandiera a stelle e strisce, non il crocifisso.
C’è un accenno interessante nel recente intervento di Napolitano. Il richiamo ad una una laicità “inclusiva”, disponibile ad accogliere ed amalgamare le “tradizioni più diverse”. Se è così, si abbia il coraggio di lasciare scegliere gli alunni se nella propria classe vogliono una parete neutrale oppure tale da accogliere la pluralità dei simboli religiosi e filosofici, che ciascuno sente consono.
O si rispetta la libertà di coscienza come astensione volontaria da qualsiasi marchio o si lascia libera l’espressione di tutti. Decidere, invece, di imporre un simbolo dichiarato unilateralmente valido per tutti è totalitarismo mascherato.