La faccia nera dell’Italia
in “Le Monde” del 28 febbraio 2010 (traduzione: www.finesettimana.org)
Da secoli, l’idea dell’Italia suscita nella mente degli europei un’emozione speciale. Come se lo spazio di questa penisola fosse formato da una materia diversa - i suoi paesaggi, la sue città, i suoi paesi immersi in una specie di luce mitica il cui segreto resta inaccessibile. I viaggiatori del Grand Tour non hanno smesso di descriverne il fascino. Gli scrittori hanno spesso tentato di comprenderne il mistero. Stendhal vi provava un’emozione continua, fino al malessere, comune a molti altri visitatori davanti alla sovrabbondanza dell’arte.
Per Nietzsche, l’Italia è luce, dolcezza, liberazione. Lì non sente, dirà, il bisogno di dire “no”, come capita a chi esce la mattina nelle vie di una città tedesca; luce, musica, e “l’uva dolce dalla fruttivendola”, a Torino, negli ultimi tempi di serenità. Per Freud, l’Italia è rivelazione necessaria: “Ciò di cui ho bisogno, è l’Italia”; l’arte italiana - “tesoro simbolico quasi sacro” - è per lui svelamento di inconscio, esperienza dell’alterità e di ciò che è fuori del tempo. Progetta di finire i suoi giorni a Roma.
Ancora oggi nella memoria del viaggiatore sorge l’impressione di abbagliamento e di trasfigurazione del primo incontro: paesaggi armoniosi dei grandi laghi, il caffelatte delle mattine francesi trasformato in schiuma delicata di cappuccino, suono di zoccoli di legno sulle piode di Sirmione, allegria, alberi e fiori. E poi l’incanto totale: Venezia, Firenze, più tardi Roma dalla belle, sorprendenti architetture, il Tevere, le fontane...
Ma esiste anche un altro versante - il versante nero, da molto tempo conosciuto dai poeti e dai romanzieri italiani, esplorato da Alessandro Manzoni (1785-1873), nei suoi Promessi Sposi, il cui titolo innocente non lascia presagire gli abissi di oscurità e di tragicità che si aprono a poco a poco davanti al lettore. Romanzo basato, come La Certosa di Parma, su di un’antica cronaca italiana molto violenta e molto cupa, non contiene né Fabrice, né Clelia, né l’ombra di una Sanseverina.
Si tratta dei tempi della peste nel XVII secolo, sotto la dominazione spagnola. Intrighi tenebrosi e crimini oscuri. Pagine implacabili, pitture tragiche del XVII secolo italiano, che si rivelano essere, sempre più, una visione anticipata dei misteri e degli scandali non risolti degli anni di piombo e dell’Italia contemporanea, come Pasolini l’ha percepita, denunciata e subìta, fino alla sua stessa morte. Di fatto, la radice antica della situazione di oggi può essere riconosciuta nel fatto che il potere è stato quasi sempre esercitato in Italia come “fazione e oligarchia”, pratica autoritaria di fronte alla quale “il peggio è senza dubbio di non essere protetti”.
Il che comporta un’atmosfera che si può definire di ignavia, termine usato da Leopardi a proposito della “vilissima condizione” dei suoi compatrioti - ignavia, vale a dire “inazione per incapacità di comprendere”, in una società simile a quella che descriveva Manzoni (quella del XVII secolo, ma che era anche la sua). Oggi, è di nuovo l’ignavia che si diffonde - una passività, un’accettazione che ricordano che il regime fascista, che è durato vent’anni con un vasto consenso, non è mai stato sottoposto ad un lavoro di interrogazione e di giudizio come è stato invece fatto per il periodo del nazismo da parte della Germania contemporanea.
La Costituzione italiana, elaborata dopo la guerra da personalità di diverse appartenenze politiche ma tutte dotate di una coscienza democratica maturata dall’esperienza storica recente, è certo la migliore, la più chiaramente repubblicana, laica, di tutte le Costituzioni europee. Ma, in seguito, l’educazione del popolo italiano alla democrazia non è stata fatta davvero dai governi democristiani.
La sinistra italiana - grande Partito comunista gramsciano piuttosto che marxista e forte Partito socialista, allora alleati - era indubbiamente portatrice di una vocazione educatrice; ma tutta la sinistra si indeboliva progressivamente a partire dagli anni ’70 minati dai conflitti, dal terrorismo, dalla corruzione, quest’ultima in aumento costante negli anni ’80, per effetto della politica craxiana, che rompeva di colpo con la tradizione etica della sinistra e forniva una ideologia pronta per il governo d’impresa che stava per attaccare le basi stesse della democrazia.
Con la famosa “discesa in campo” del 1994, è la società dello spettacolo, come l’ha descritta Guy Debord, che entra e si estende come una piovra: non c’è più passato, non c’è più futuro, c’è un presente immaginato, saponoso, scivoloso. Due fenomeni danno la misura della particolarità e della gravità del momento storico: lo stato di ipnosi degli elettori di questa destra pseudoliberale, e la “servitù volontaria” di uomini politici che, eccetto quelli reclutati ad hoc (imprenditori, avvocati, ecc.), avevano conosciuto negli anni precedenti un passato di una certa dignità, e che adesso si apprestavano a sostenere imperturbabilmente, con una disciplina assoluta, il valore intrinseco e “buono per il popolo” di ogni nuovo colpo inferto dal loro re Ubu alla democrazia.
Ci si domandava allora come potesse tutto un paese essere condotto, senza violenza (anche se la violenza non era così lontana come si voleva far credere, lo si sarebbe visto con il G8 di Genova) in un sonno così profondo? Vi sono varie cause per questo, radicate nella storia recente e più lontana. I mezzi sono quelli, utilizzati in maniera ripetitiva, dell’abolizione dei rapporti tra il reale e la fiction, abolizione progressiva alla quale abitua una televisione allucinatoria assorbita a forti dosi.
Il ritornello governativo di allora, secondo il quale la sinistra - più precisamente il Partito comunista - avrebbe governato il paese da cinquant’anni, non era probabilmente una semplice trovata di campagna elettorale. La tranquillità con cui l’opinione pubblica accettava quella curiosa riscrittura della storia recente rivela senza dubbio una convinzione segreta, e radicata, secondo la quale il governo “naturale” del paese sarebbe stato il regime fascista, artificialmente interrotto in qualche modo dalla guerra e dalla sconfitta militare...
Tuttavia, in un tempo record, un paese agricolo e cattolico si trasformava in un paese industriale
edonista, senza leggi, senza punti di riferimento. Scivolamento, liquefazione... Il tessuto cede
silenziosamente, la pozzanghera si allarga...
Già sono visibili i danni che si estenderanno senza limiti fino ad oggi: rinascita fascista, episodi
razzisti contro i migranti - attualmente ridotti in schiavitù come si è visto il mese scorso in Calabria
, collusione con la Mafia diventata sempre più centrale e sempre più evidente.
Negli ultimi tempi, il paese è arrivato alla “anestesia totale”, alla “sonnolenza collettiva”, alla “narcosi” - termini usciti qualche giorno fa dalla penna di grandi giornalisti dell’opposizione, di una opposizione comunque praticamente impotente, poiché, secondo una recente inchiesta, l’87% degli italiani ricava tutta la sua informazione dalla televisione - televisione privata, ma anche pubblica, sempre più nelle mani del governo.
Lo scopo originario dell’installarsi berlusconiano - quello che la grande giornalista Rossana Rossanda definiva allora come “una capitolazione del paese davanti all’impresa pura e semplice” - sembra ormai raggiunto, anche se oggi, per la prima volta, sintomi di ribellione appaiono qua e là. L’ultima realizzazione del governo italiano, che si chiama “Protezione Civile”, è un’organizzazione destinata all’intervento rapido in caso di “catastrofi naturali” (ma a poco a poco estesa a degli eventi in cui l’urgenza e il ’naturale’ sono sempre meno dimostrabili).
Procede per interventi urgenti, che si realizzano al di fuori e al di sopra delle leggi. Da cui la nascita di un potere assoluto che sfugge ad ogni controllo ed è fonte incredibile di corruzioni di tutti i generi. Alcuni membri della coalizione governativa prendono a poco a poco le distanze, Gianfranco Fini, presidente della Camera, Giuseppe Pisanu, ex ministro dell’interno: “L’orizzonte dell’interesse generale è chiuso, le cataratte dell’interesse privato si sono aperte.”
Ogni giorno scoppia un nuovo scandalo. Forse si sta preparando una mescolanza esplosiva - fatica, esasperazione dei cittadini davanti ad una classe dirigente “non solo corrotta, ma decrepita”, scrive Curzio Maltese, lucido analista del fenomeno fin dagli inizi: gravità della crisi (migliaia e migliaia di operai e di ricercatori allontanati dai loro posti di lavoro, ridotti in povertà assoluta), vittime del terremoto dell’Abruzzo che si ribellano (“Un anno dopo, qui, tutto muore”), desiderio di un futuro per il momento inimmaginabile. Rivedremo presto il cielo italiano di Stendhal?
SUL TEMA, NEL SITO E IN RETE, SI CFR.:
VERGOGNA E "LATINORUM": UNA GOGNA PER L’ITALIA INTERA.
I ragazzi ci guardano
di Antonio Padellaro (il Fatto, 28.02.2010)
Prendiamo un ventenne che provi a farsi un’idea della politica italiana. Negli ultimimesi ha visto di tutto. Il governatore di una importante regione ricattato da un gruppo di carabinieri per le sue frequentazioni trans. Il capo della protezione civile indagato per corruzione e che, nel migliore dei casi, non si è accorto che intorno a lui si mangiava a tutto spiano su grandi opere ed emergenze umanitarie, terremoto compreso. Un senatore della repubblica “schiavo” del crimine organizzato. Due imperi telefonici coinvolti nell’inchiesta sul riciclaggio di denaro sporco e colossale frode di fatture false.
Il premier accusato di corruzione giudiziaria che evita la galera grazie alle leggi personali approvate da una maggioranza parlamentare al suo servizio. Il principale telegiornale che falsificando la realtà annuncia l’assoluzione, e dunque l’innocenza del suddetto premier (che intanto insulta a tutto spiano la magistratura).
Ce ne sarebbe già abbastanza per indurre un qualunque giovane desideroso di un futuro normale (non circondato cioé da delinquenti e mascalzoni) a cambiare paese.
Se poi sono ancora decine di migliaia quelli che, malgrado tutto, corrono a riempire piazza del Popolo a Roma per dire basta (in sintonia forse non casuale con il Capo dello Stato) significa che qualcosa da salvare ancora c’è. Qualcuno scriverà che l’altra volta il popolo viola si presentò molto più numeroso, ed è vero. L’importante che la parte più viva di una generazione maltrattata mostri di volere ancora scommettere su se stessa. E sull’Italia.
Il vecchio che ritorna
di Barbara Spinelli (La Stampa, 28 febbraio 2010)
E’ scritto nel Qohélet, poema biblico di massima saggezza, che «ciò che è, già è stato. Ciò che sarà, già è». Si applica atrocemente all’Italia, e manda in rovina le parole che da 17 anni ci accompagnano, sempre più insipide: Transizione, Seconda Repubblica, Nuovo, Miracolo, Riforma. Oppure: politica del fare, dell’efficienza.
Nell’intervista a Fabio Martini, Rino Formica, ex uomo di Craxi, constata un «collasso dello Stato. Snervato nei suoi gangli vitali. Con un’aggravante: nell’opinione pubblica cresce un disgusto senza reazione, si attendono fatalisticamente nuovi eventi ancora più squalificanti, il perpetuarsi di un’Italia regno degli amici, delle spintarelle, delle percentuali».
L’avvento del Nuovo, promesso dopo lo svelamento di Tangentopoli nei primi Anni 90, era dunque un pasticciaccio, un maledetto imbroglio. Non: «Ecco, faccio nuove tutte le cose», ma: «Faccio tutte le cose vecchie». Non siamo in mezzo al guado, il viaggio non è mai iniziato. Come nell’Angelo sterminatore di Buñuel, per uscire dalla stanza-prigione bisogna ripercorrere gli esordi, capire come si è entrati nell’imbroglio e ci si è rimasti.
Mani Pulite nacque e crebbe come evento davvero inedito, per l’Italia, in simultanea con la battaglia condotta a Palermo contro i patti della politica con mafia e camorra: una pantera la mafia, una volpe la camorra, disse Falcone a Giovanni Marino di Repubblica, quattro giorni prima di essere ucciso. Figlie, l’una e l’altra, di «un’omertà che si è trasformata in memoria storica di uno Stato che non ti garantisce». È significativo che l’unico commento di Silvio Berlusconi sul marciume che torna a galla sia: «Il male principale della democrazia in Italia è la giustizia politicizzata». Non è il marciume, ma il dito che lo indica. Non è il fare che si svela malaffare, il predominio dell’opaco sul trasparente, il familismo amorale che torna, la ’ndrangheta che non fidandosi più di nessun mediatore entra in Parlamento. Il capo del governo è un avatar della Prima Repubblica: pur travestendosi, pur conquistando folle e voti, «fa vecchie tutte le cose». La sua rivoluzione, come accade nelle rivoluzioni giacobine, ha raccattato il potere a terra per salvarlo. Il presidente della Consulta Francesco Amirante ha detto in pratica questo, giovedì: sono i giacobini e non i democratici a idealizzare la sovranità assoluta dell’elettore. Le costituzioni esistono perché del popolo non ci si fida del tutto, e la Consulta rappresenta un «popolo trascendente» che guardando lontano frena se stesso.
Quando nacquero le due battaglie - Mani Pulite a Milano, l’antimafia a Palermo - si capì che tutto in Italia si teneva: l’intreccio tra politica e affari a Nord, tra politica e mafia a Sud. Le due città divennero simbolo dell’Italia peggiore e migliore, ambedue sperarono molto prima di disperare, ambedue scoprirono di portare dentro di sé la «memoria storica di uno Stato che non ti garantisce».
Dicono che Tangentopoli oggi è diversa, anche se il cittadino non vede grandi differenze. Per alcuni è peggio («Noi non abbiamo mai scardinato lo Stato», assicura Formica), visto che allora si rubava per i partiti e ora si ruba per sé. Come se rubare per la politica fosse un’attenuante, e non l’obbrobrio che ha distrutto il senso delle istituzioni e dello Stato, aprendo strade ancor più larghe alle ruberie del tempo presente.
Dicono anche che l’Italia è congenitamente votata alla corruzione. Anche questo è falso, perché l’Italia con Mani Pulite cominciò a sperare veramente in una rigenerazione. Enorme fu la partecipazione ai funerali di Falcone, il 25 maggio ’92. Ci fu il movimento dei lenzuoli, speculare a Mani Pulite. Nel suo bel libro L’Italia del tempo presente, Paul Ginsborg cita un documento stilato in una veglia di preghiera nella chiesa palermitana di San Giuseppe ai Teatini, il 13 giugno 1992, dopo l’eccidio di Falcone. Il documento s’intitolava «L’Impegno», e oggi dovrebbero leggerlo e rileggerlo gli studenti, gli imprenditori, i servitori dello Stato, i politici, per mostrare che l’Italia ha qualcos’altro nelle ossa, oltre alla melma. Se torna a corrompersi, è anche perché ai vertici manca l’esempio. «Entri nella mafia se ti senti, e sei, nessuno mischiato con niente», dice il linguaggio malavitoso.
Vale la pena ricordare alcuni brani, dell’Impegno palermitano: «Ci impegniamo a educare i nostri figli nel rispetto degli altri, al senso del dovere e al senso di giustizia. Ci impegniamo a non adeguarci al malcostume corrente, prestandovi tacito consenso perché “così fan tutti”. Ci impegniamo a rinunziare ai privilegi che possano derivare da conoscenze e aiuti “qualificati”. Ci impegniamo a non vendere il nostro voto elettorale per nessun compenso. Ci impegniamo a resistere, nel diritto, alle sopraffazioni mafiose...». Questo fu, ed è, il Nuovo. Anche Milano, atavicamente maldisposta verso lo Stato, sentì sorgere in sé un ricominciamento. Corrado Stajano la descrive non più piegata sui propri affari privati ma «infiammata di un entusiasmo liberatorio», nel febbraio ’92, grata ai magistrati che ne scoperchiavano il malaffare. Da allora «si è indurita, non ha saputo discutere le cause vicine e lontane di una corruzione che ha macchiato tutti i partiti politici e tutti gli strati sociali (...), non ha saputo fare i conti con se stessa. Ha cancellato quel che è successo. O meglio, ha preferito dirsi che nulla è successo» (Stajano, La città degli untori, Garzanti 2009).
Fu da quel vuoto che balzò fuori la figura di Berlusconi, agguerritissimo addomesticatore di istinti, creatore di mondi e show consolanti. Lui sapeva la forza di certi gusti, aveva addirittura forgiato nuovi stili di vita a Milano-2, lontano dalla pazza folla cittadina, aveva creato addirittura una televisione per le new town e da lì partì, promettendo nel ’94 un «nuovo miracolo italiano». Un miracolo non per fermare i comunisti, ma quel popolo dei lenzuoli e dell’entusiasmo liberatorio che minacciava mafie e vecchi-nuovi padroni del vapore. Si continuò a rubare, senza neanche più fingere passioni politiche. La Lega smise gli osanna a Mani Pulite perché rivalutare le istituzioni voleva dire contribuire di tasca propria al bene comune, e solo gli imbecilli lo fanno.
Non si aprì l’era della trasparenza, della riforma dello Stato. Se ne parla di continuo ma il verbo è performativo, come dicono i linguisti: basta dire e il fare già c’è. Paradossalmente, nell’era di Berlusconi tutto si decide nelle aule di giustizia: non è da escludere che proprio questo egli voglia, per avere un nemico esistenziale.
Forse il Nuovo non è venuto perché debellare la corruzione è «impresa titanica», come sostiene Luca di Montezemolo: perché coinvolge non solo i politici ma un’intera classe dirigente. Forse per questo siamo immobili non in mezzo al guado, ma penzolanti nel vuoto come nel ’92, sfiduciati e però assetati di ricominciare. Difficile credere che non esista anche questa sete, accanto al disgusto fatalista. La sete rispuntata dopo il fascismo, quando Luigi Einaudi disse, il 27 luglio ’47: «Esiste in questo nostro vecchio continente un vuoto ideale spaventoso».
Mi ha colpito una frase, detta all’Aquila domenica scorsa da un manifestante delle chiavi, il direttore dell’Accademia delle Belle Arti Eugenio Carlomagno: «Chiusi nelle case antisismiche, nei moduli abitativi provvisori, abbiamo capito che non sapevamo dove andare: non c’è un teatro, non c’è una biblioteca, non ci sono più i bar del centro. Ci siamo accorti di essere persone che debbono solo comprare cibo al supermercato, mangiare e guardare la televisione. Abbiamo detto basta». Non è ancora L’Impegno della chiesa palermitana, ma si ricomincia anche così: uscendo dal privato delle new town, spegnendo le tv del Truman Show, riprendendosi la pòlis.
Riscoprendo che la politica può fare la differenza, non in peggio ma in meglio, e che a quel punto potremo edificare la memoria di uno Stato che ti garantisca.