Nuova condanna del presidente della Camera a 70 anni dai provvedimenti
"Fare i conti con questa vergognosa pagina alla quale l’Italia e il Vaticano si adeguarono"
Fini: "Leggi razziali, un’infamia
e la Chiesa non si oppose"
Levata di scudi nel mondo politico cattolico: "Sulla Chiesa Fini sbaglia" *
ROMA - Il fascismo rivelò la sua anima razzista prima delle leggi razziali, ma la Chiesa non fece abbastanza per opporsi a "quell’infamia". Il presidente della Camera Gianfranco Fini torna a condannare duramente le leggi razziali, ma questa volta - a Montecitorio, in apertura del convegno "1938-2008: settant’anni dalle leggi antiebraiche e razziste, per non dimenticare" - sottolinea anche la passività della società italiana e della Chiesa cattolica contro la legislazione antiebraica.
"Vergogna". Fini usa parole dure, come "infamia", "odiosità" e "vergogna" per riferirsi ai provvedimenti varati da Mussolini: "La loro odiosa iniquità si rivelò in particolare contro gli ebrei che avevano aderito al fascismo. Ma l’ideologia fascista da sola non spiega l’infamia - sottolinea il presidente della Camera - c’è da chiedersi perché la società italiana si sia adeguata, nel suo insieme, alla legislazione antiebraica e perché, salvo talune luminose eccezioni, non siano state registrate manifestazioni di resistenza. Nemmeno, mi duole dirlo, da parte della Chiesa cattolica". Oggi Fini e il presidente degli ebrei italiani Renzo Gattegna hanno scoperto una targa nella sala della Regina a Montecitorio per ricordare il settantesimo anniversario.
Il significato. Fare i conti con "l’infamia storica" delle leggi razziali per Fini significa "avere il coraggio di perlustrare gli angoli bui dell’anima italiana, sforzarsi di analizzare le cause che la resero possibile, in un Paese profondamente cattolico e tradizionalmente ricco di sentimenti di umanità e solidarietà".
Le cause. Tra le cause delle leggi razziali, ricorda il presidente della Camera, "c’è l’anima razzista che il fascismo rivelò nel 1938, ma già presente nell’esasperazione nazionalistica che caratterizzava il regime e la politica coloniale". E alla base della "mancata reazione della popolazione", continua, ci furono altri elementi, come "la propensione al conformismo" o la "possibile condivisione della popolazione, negata ma presente, dei pregiudizi e delle teorie antiebraiche, una vocazione all’indifferenza più o meno diffusa". Dunque, "denunciare l’inequivocabile reponsabilità politica e ideologica del fascismo non deve portare a riproporre lo stereotipo autoassolutorio e consolatorio degli ’italiani brava gente’".
Le reazioni. Dopo la netta presa di posizione di Fini, una levata di scudi bipartisan nel mondo politico cattolico. Il vicepresidente della Camera, Maurizio Lupi, Pdl, cita le "centinaia di documenti" che dimostrano che la Chiesa" ha sempre con forza contrastato le leggi razziali". Il deputato del Pd Enrico Farinone si dice d’accordo sul definire le leggi del ’38 un’infamia, ma dice: "Il presidente Fini dimentica figure come quelle del cardinale Schuster a Milano o di don Pappagallo a Roma. Per non parlare delle migliaia di ebrei che furono ospitati nei palazzi delle curie o nei conventi e dei laici che si opposero alla barbarie. Generalizzare non serve".
* la Repubblica, 16 dicembre 2008
Sul tema, nel sito e in rete, si cfr.:
di Paola Zanca (il Fatto, 16.01.2010)
Nel 2002, da leader di Alleanza nazionale e vicepremier, aveva lasciato a bocca aperta deputati e senatori presentandosi alla celebrazione del Giorno della Memoria. L’Olocausto? Disse: “Una mostruosità”.
Ora da presidente della Camera, Gianfranco Fini chiama per la prima volta a parlare nell’aula di Montecitorio una persona che con la politica e il potere non ha niente a che fare. Non è uno acaso. È Elie Wiesel, uno dei pochi sopravvissuti ad Auschwitz ancora in vita, premio Nobel per la Pace, che da cinquant’anni, con le armi dei libri, combatte la sua battaglia contro “i nemici della memoria”. Finora, alla Camera avevano parlato solo capi di Stato, rappresentanti di istituzioni: Papa Wojtyla, il re di Spagna Juan Carlos. Fini ha alzato il telefono, chiamato New York e proposto a Wiesel, che dagli anni Sessanta vive in America, di venire in Italia a ricordare quell’orrore.
Il Giorno della Memoria si celebra da dieci anni: per ricordare lo sterminio e le persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti si sono organizzate mostre, visite istituzionali, concerti, proiezioni, iniziative nelle scuole. A proporre la sua istituzione, nel gennaio del 2000, fu il deputato Furio Colombo. La data scelta fu il 27 gennaio, la stessa in cui nel 1945 vennero abbattuti i cancelli di Auschwitz. “Si era molto discusso, a destra, se non fosse il caso di parlare anche di foibe e di gulag - ricorda Colombo - Io allora spiegai al Parlamento che foibe e gulag sono orrendi delitti, ma la Shoah è un delitto italiano: senza la partecipazione italiana, il progetto tedesco non avrebbe mai potuto diventare europeo. È vero che ci furono generali e comandanti, come Giorgio Perlasca, che salvarono anziché condannare, ma ricordo anche che le leggi razziali furono approvate all’unanimità. Per questo - prosegue il deputato Pd - nel 2000 chiesi all’aula di comportarsi allo stesso modo nel voto sulla legge che istituiva il Giorno della Memoria. Devo dire che la mia implorazione fu accolta.
L’invito a Wiesel è il coronamento di questo percorso: la Giornata diventa così importante non solo per il paese, per i giovani, per le scuole, ma anche per il Parlamento che ascolterà la testimonianza di uno dei pochi sopravvissuti ancora viventi”. Wiesel, nato in Romania nel 1928, fu deportato assieme alla famiglia, perché ebreo. Ad Auschwitz condivise la prigionia con Primo Levi, poi finì a Buchenwald dove gli americani lo trovarono, stipato in mezzo ad altri mille ragazzini, quando entrarono nel campo. Un mese fa, dopo il furto dell’insegna di Auschwitz, scriveva: “In questa nostra era di confusione e sfiducia, la Verità è sempre in prima linea, al fronte, e i suoi nemici sono i nemici della Memoria”. Il pomeriggio del 27 lo ricorderà ai nostri parlamentari. Anche a chi ogni tanto ha la memoria corta.
Il Cavaliere non ha digerito le parole dell’alleato sul caso Boffo
Per il presidente della Camera l’attacco del Giornale è "un segno disperato"
L’ira di Gianfranco contro il premier "Vado avanti, non mi farò intimidire"
di CARMELO LOPAPA *
ROMA - Quel "tu" così provocatorio e irriverente. Il "compagno" Fini, bollato come "vergognoso", perfino "ridicolo". Al presidente della Camera è stata chiarissima - fin dalla prima lettura del quotidiano della famiglia del premier - la portata dell’avvertimento contenuto nel nuovo fondo al vetriolo firmato da Vittorio Feltri. Un’"intimidazione", si è sfogato Gianfranco Fini con chi lo ha sentito al telefono. Come dire, nella campagna di caccia d’autunno inaugurata col bombardamento dell’Avvenire e del suo ormai ex direttore Boffo, nessuno può sentirsi al sicuro, non solo giornali e oppositori esterni al Pdl. "È un attacco nella natura di Feltri", è stata la prima impressione della terza carica dello Stato. "Ma soprattutto una nuova puntata che conferma il clima di imbarbarimento nel quale siamo caduti e che avevo denunciato dal palco della festa Pd di Genova. Come mi sento io? Bisognerebbe chiedere a Berlusconi, come si sente". C’è stupore, c’è rabbia, per un colpo che raggiunge a freddo il presidente della Camera, ancora nel ritiro toscano.
Quasi a freddo. Le parole pronunciate da Fini alla festa democratica, compresa la presa di distanza dagli argomenti e i metodi berlusconiani, il presidente del Consiglio non le aveva gradite affatto. La diffidenza ormai è al culmine. "Giafranco non ha ancora capito che così diventa come Casini - commentava ancora ieri - Deve capire che il leader del partito sono io. Si ricorda cosa ha detto la scorsa settimana sulla libertà di informazione e sulle presunte ordalie?". Non è un caso se dall’alba al tramonto Silvio Berlusconi non abbia pronunciato una sola parola per dissociarsi dal "suo" Giornale, a differenze di quanto accaduto poche ore dopo l’attacco a Boffo. Lo farà solo nel pomeriggio, con un tiratissimo attestato di "stima" dopo insistenti pressioni e la lunga mediazione del coordinatore del Pdl Ignazio La Russa. Quando il clima si era fatto davvero pesante e le reazioni degli ex aennini fedeli a Fini sempre più insofferenti, indignate. Per non dire della rabbia del presidente della Camera, cresciuta di ora in ora man mano che la dissociazione del premier non arrivava. Nemmeno l’ormai rituale telefonata di Gianni Letta - raccontano - è riuscita ad attenuare la collera. Attorno al presidente della Camera c’è la percezione netta della natura personale dell’avvertimento, nello stile della nuova campagna d’attacco, ma anche una consapevolezza di fondo: che si tratti cioè di una "manovra disperata, perché solo chi si sente isolato, per la prima volta all’angolo, spara nel mucchio, senza distinzione".
Di certo, adesso Fini sente di avere le "mani libere" sulla legge sul fine vita e sul ddl per il diritto di cittadinanza degli immigrati promosso dal fedelissimo Granata. Si apre una nuova partita, in barba al premier ("No al diritto di voto agli immigrati") e al leader leghista Umberto Bossi che ormai sulla politica di accoglienza insulta il presidente della Camera ("Quello è matto").
Il clima nella maggioranza è questo qui. Ma il regolamento di conti tra Berlusconi e Fini appare ormai a una svolta. Con le divergenze su biotestamento e immigrazione a fare solo da sfondo, da pretesti. I due non si vedono e non si sentono dai primi di agosto. Torneranno a farlo, forse, salvo "impegni improvvisi del premier", sabato sera. A Villa Madama è in programma la cena organizzata dal presidente della Camera Fini con i colleghi che guidano i parlamenti dei paesi del G8. Per cortesia istituzionale, il padrone di casa ha esteso l’invito al premier Berlusconi. Il clima, neanche a dirlo, però resta tesissimo. "Sarebbe bene non continuino a tirare la corda" confida Benedetto della Vedova, insieme a Bocchino, Granata, Briguglio, Bongiorno, pronto a sposare fino all’estremo la battaglia di Fini, fosse pure fino alla creazione del partito-kadima in salsa italiana, voltando le spalle al Pdl. Su quella strada non lo seguirà affatto Pierferdinando Casini, impegnato a costruire il suo nuovo soggetto di centro. Tuttavia, la solidarietà che ha espresso ieri il leader Udc al presidente della Camera segna un ulteriore tassello nella ricostruzione di un asse moderato antiberlusconiano ora tornato in auge.
* la Repubblica, 8 settembre 2009
I critici di Fini ignorano la Storia
di Mario Pirani (la Repubblica, 29.12.2008
Ho trovato abbastanza spudorate le polemiche contro Gianfranco Fini per la chiamata di correo, limpida e coraggiosa, da lui avanzata in occasione del 70° anniversario delle leggi razziali che, come ha ricordato il presidente della Camera, se bollarono di ignominia il regime fascista, non assolsero certamente il silenzio della stragrande maggioranza dell’opinione pubblica, né tanto meno della Chiesa cattolica. Torno sull’argomento perché una rassegna stampa conclusiva mi ha indotto a riflettere sugli automatismi di certe prese di posizione, spiegabili in base ai calcoli politici attuali ma non certo preoccupate dalla verifica della realtà storica.
Quanto al primo aspetto, è pur vero che molti italiani non nutrivano particolari antipatie per gli ebrei e individualmente lo manifestarono. Resta, però, l’assenza di ogni dissonanza collettiva, mentre fu evidente la caccia ai posti lasciati liberi dagli ebrei nelle università, nelle scuole, negli ospedali, nell’amministrazione pubblica, nell’esercito, nelle accademie, nei giornali, negli istituti di cultura, nelle assicurazioni, nelle banche, negli studi professionali, nelle case editrici a cui nessuno dei prescelti si sottrasse.
Quanto all’atteggiamento della Chiesa torno a premettere che il comportamento di tanti presuli e di semplici sacerdoti, dal 1938 fino al ’43-’45, fornì la prova che cominciava a prevalere lo spirito di solidarietà sull’intolleranza dei secolari anatemi contro i «perfidi giudei». Di questa svolta conservo qualche personale memoria. Ciò non cancella il valore della dichiarazione, ricordata da Luigi Accattoli sul Corriere, che il segretario della Cei per l’ecumenismo, l’arcivescovo Giuseppe Chiaretti, rivolse dieci anni orsono alla Comunità ebraica, rievocando «la pagina oscura della storia religiosa durante la quale la comunità ecclesiale, anche per lunga acritica coltivazione di «interpretazioni erronee e ingiuste della Scrittura» (Giovanni Paolo II), non seppe esprimere energie capaci di denunciare e contrastare con la necessaria forza e tempestività l’iniquità che vi colpiva».
Per parte mia voglio citare in proposito un testo di accertata obiettività dello storico cattolico, Renato Moro, su "La Chiesa e lo sterminio degli ebrei" (Il Mulino 2002) in cui ricostruisce, tra l’altro, i contrasti che divisero la Curia al momento delle leggi razziali, tanto che un’allocuzione di Pio XI a un gruppo di pellegrini belgi in cui papa Ratti affermava verbalmente: «L’antisemitismo è inammissibile. Noi siamo spiritualmente dei semiti», non venne pubblicata dall’Osservatore Romano, mentre, al contempo, la diplomazia vaticana, diretta dal cardinal Pacelli, siglava un accordo col regime in base al quale, preso atto che nei confronti degli ebrei il governo italiano intendeva applicare «onesti criteri discriminatori», si manifestava la opportunità che la stampa cattolica, i predicatori, i conferenzieri e via dicendo si astenessero «dal trattare in pubblico questo argomento».
Il papa, tuttavia, non parve fermarsi e il professor Moro analizza la complessa vicenda della preparazione dell’enciclica Humani Generis Unitas rivolta alla condanna del nazismo e dell’antisemitismo razziale. Il testo venne completato, tradotto in latino e consegnato, perché lo sottoponesse al pontefice, al generale dei Gesuiti, padre Lédochowski, ma questi assunse una linea dilatoria, convinto che il pericolo vero per il cattolicesimo fosse il comunismo e non Hitler e che occorresse evitare l’acuirsi di eventuali dissidi tra la Chiesa e le potenze dell’Asse.
Il Papa fece allora inviare dal sostituto della Segreteria di Stato, monsignor Tardini, una dura nota al generale dei Gesuiti e questi dovette cedere. L’Enciclica giunse in Vaticano il 21 gennaio e il papa prese ad esaminarla nei giorni successivi. Troppo tardi. Il documento fu trovato sul suo tavolo al momento della morte, nella notte tra il 9 e il 10 febbraio del 1939.
A Pio XI successe il cardinale Pacelli, accolto da molte speranze che andarono presto deluse. Pio XII, infatti, reputò dannoso, alla vigilia di un conflitto ormai certo, il "rigore" dell’enciclica del suo predecessore e la fece archiviare. Inviò, invece, una lettera a Hitler in cui gli esprimeva la speranza in rapporti migliori fra le due parti. Uno dei primi atti del pontificato fu poi la riconciliazione con l’Action Francaise, movimento cattolico dell’estrema destra antiebraica francese, condannato da papa Ratti. Una erronea e catastrofica visione diplomatica prevalse in quell’epoca sull’afflato ecumenico che il mondo attendeva. Come dar torto a Fini?
Luzzatto: se vuole provare il contrario il Vaticano tiri fuori le carte
di Umberto De Giovannangeli (l’Unità, 17.12.2008)
«Invece di gridare alla bugia, la Santa Sede farebbe bene a mostrare documenti che contestino le affermazioni di Fini. Ma temo che non lo farà». Così Amos Luzzatto, ex presidente delle comunità ebraiche italiane. «Invece di contestare le affermazioni, del tutto condivisibili, della terza carica dello Stato, il Vaticano farebbe meglio a rendere pubblici dei documenti che dimostrino il contrario. Ma se non l’hanno fatto fino ad oggi, dubito che lo faranno in futuro». A sostenerlo è una delle figure più autorevoli dell’ebraismo italiano: Amos Luzzatto, già presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane.
Professor Luzzatto, come valuta le affermazioni del presidente della Camera, Gianfranco Fini, sull’adeguamento della Chiesa alle Leggi razziali?
«Nel merito condivido il giudizio formulato dal presidente della Camera. Quello dei silenzi e delle ambiguità della Chiesa sulle Leggi razziali, è un problema che personalmente ho sollevato più volte, ricordando in particolare che già all’uscita dei provvedimenti razziali emanati dal regime fascista, l’unica sostanziale espressione di condanna del Vaticano è stata rilevare che quei provvedimenti antisemiti erano un vulnus al Concordato, perché contrastavano la validità dei matrimoni religiosi fra ariani e non ariani. Altre proteste ufficiali, tranne la frase di Pio XI “siamo tutti spiritualmente semiti” non ne conosciamo. E questa è la premessa per il più duro e tragico silenzio durante lo sterminio. Mi lasci aggiungere che ritengo molto importante che questo severo e fondato, giudizio sull’atteggiamento reticente della Chiesa verso le Leggi razziali, sia stato formulato dalla terza carica dello Stato».
Resta la contrarietà della Santa Sede.
«Mi ascolti bene: il giorno che il Vaticano potesse o volesse produrre documenti che dimostrino il contrario da quanto ricordato da Fini, quel giorno sarei l’uomo più felice sulla terra. Ma se finora quei documenti non li hanno prodotti, temo proprio che non ce ne siano».
Insisto. Radio vaticana ha contestato come «non vere» le considerazioni del presidente della Camera.
«Lo ribadisco: invece di gridare alle bugie, che tirino fuori documenti contrari. Non basta indignarsi. Si è detto che Pio XI aveva fatto preparare una enciclica sull’unità del genere umano. Sta di fatto che quella enciclica non è mai stata pubblicata. E a proposito di silenzi, vorrei dire un’ultima cosa...».
Quale, professor Luzzatto?
«In una occasione così solenne come quella di oggi (ieri, ndr) mi sarei atteso che a parlare fosse qualche personalità di primo piano della Santa Sede. Così non è stato, e di ciò me ne rammarico. Perché dimostra che quel vulnus non è venuto meno, 70 anni dopo».
Il silenzio della Chiesa sulle leggi razziali
risponde Corrado Augias (la Repubblica, 20.12.08)
Caro Augias, l’attacco alle frasi di Fini, fa capire come si sia toccato un punctum dolens che la Chiesa non gradisce, quella Chiesa che fu, salvo poche lodevoli eccezioni, sostenitrice del fascismo, a partire da padre Agostino Gemelli allo stesso Roncalli, fino al cardinale Schuster, arcivescovo di Milano, il quale, nel decennale della Marcia su Roma fece un tale panegirico che il medesimo Osservatore Romano si sent?ì in dovere di prenderne le distanze. Speriamo che la sinistra, se tale è, sia solidale con Fini, non con lo Stato pontificio.
Riccardo Di Camillo riccardodicamillo@libero. it
Gentile Augias, ho letto le dichiarazioni del presidente Fini sulle leggi razziali e la mancata denuncia delle medesime da parte dei vertici della Chiesa. Ci furono nobili eccezioni come quella ad esempio descritta da Paolo Mirti nel libro “La società delle mandorle” che racconta come Assisi salvò i suoi ebrei. Quello che a mio avviso ancora manca per una condanna definitiva del regime da parte del presidente Fini ma non solo sono gli aspetti liberticidi del fascismo, le condanne dei tribunali speciali, gli anni di carcere e di confino, le condanne a morte che pure ci furono. Mi ha meravigliato che, durante una conferenza stampa in Tv, il capo dell’opposizione, a fianco del presidente della Camera, non abbia colto lui l’occasione per far estendere a Fini una condanna del regime a tutto tondo.
Roberto Nistri
Le frasi di Fini sul silenzio della Chiesa deli?neano una verità storica che nessuna "sdegnata protesta" può modificare. Nè alcuni ripensamenti tardivi nè l’ospitalità data a ebrei e resistenti da parte di istituti religiosi potrà attenuarla.
Mescolare l’ospitalità dal basso, con silenzio e connivenza dall’alto, non è intellettualmente onesto. Si dimentica tra l’altro che lo stesso papa Giovanni Paolo II durante il Giubileo del 2000 chiese perdono per l’antisemitismo cattolico protrattosi nei secoli.
Casi individuali, anche eroici, non smentiscono una realtà storica accertata.
Quello che si può fare, e che qualcuno fortunatamente ha fatto, è capire e spiegare perché ciò avvenne, quale atmosfera generale, quali difficoltà e prudenze, quali esigenze politiche, motivarono un tale atteggiamento che non può essere spiegato oggi con la tragica situazione di ieri.
Quello che, per contro, non si dovrebbe in alcun caso fare è ritirare fuori vecchie storie. Per esempio il Movimento cattolico "Azione e tradizione" ha di nuovo proposto la storia del rabbino Israel Zolli il quale nel febbraio 1945 si convertì al cattolicesimo battezzandosi col nome di Eugenio in omaggio a Pio XII. Una vicenda dolorosa nata da un contrasto sorto nel seno della comunità romana sulla quale ha fatto luce il saggio di Gabriele Rigano "Il caso Zolli" (Guerini Studio, 2006) e che non è lecito strumentalizzare in modo così grossolano.
STORIA
L’outing di Fini
di Giovanni De Luna (il manifesto, 19.12.2008)
Lo scontro con la Chiesa sulle leggi razziali: il fascismo fu un’autobiografia nazionale Ci sono le polemiche politiche sui rapporti tra Chiesa cattolica e fascismo e c’è anche un nodo storiografico nelle dichiarazioni di Fini, un riferimento a un’interpretazione del fascismo come «autobiografia della nazione» sul quale vale la pena soffermarsi.
Interrogandosi sul perché la società italiana nel suo insieme sia stata così torpida, inerte, connivente nei confronti dell’infamia delle leggi razziali, Fini ha evocato (non so quanto consapevolmente) non solo il valore della testimonianza degli antifascisti, di quella minoranza eroica che riuscì a mantenere acceso un barlume di opposizione a prezzo di enormi sacrifici, ma anche l’ignavia della maggioranza degli italiani, di quelle folle straripanti che inneggiavano al Duce e che nel regime si riconoscevano, in un gioco di rispecchiamento che faceva del fascismo il «luogo storico» in cui affioravano tutti i nostri vizi tradizionali, una religiosità bigotta, un familismo autoritario, il disprezzo per la cultura, un concetto servile della legittimazione del potere, il culto della «roba», «un misto - come scrisse Mariuccia Salvati - di azzeccagarbugli e ragion politica, di nazionalismo e statalismo, di protervia e di garantismo».
Le parole di Gobetti
C’era il razzismo in quell’Italia che si rispecchiava nelle piazze fasciste, quello degli scienziati e dei colti e quello degli stereotipi e dei luoghi comuni popolari sulle «faccette nere», e c’era anche l’antisemitismo della tradizione cattolica. A dar conto in maniera più compiuta di questa realtà, a inserire il fascismo nel lungo periodo della storia italiana legandolo ai mali endemici di una democrazia zoppa, inquinata dal trasformismo e dalle pulsioni autoritarie che serpeggiavano nell’esecutivo e negli ambienti di corte, fu proprio quel filone politico-culturale che si riconosceva nella celebre affermazione di Piero Gobetti, «il fascismo è l’autobiografia di un popolo che rinunzia alla lotta politica, che ha il culto dell’unanimità, che fugge l’eresia, che sogna il trionfo della facilità, della fiducia, dell’entusiasmo», successivamente ripresa da Carlo Rosselli («Il fascismo sprofonda le sue radici nel sottosuolo italico; esprime vizi profondi, debolezze latenti, miserie di tutta la nazione»).
Rivelazione nazionale
Allora, in seno all’antifascismo, a questa interpretazione del fascismo come «rivelazione» delle tare genetiche che avevano dall’inizio appesantito il progetto di «fare gli italiani», si affiancavano quella che insisteva sul fascismo «reazione di classe» (il Pci e in genere il movimento operaio) e quella del fascismo «parentesi» del liberalismo crociano. Delle tre, la più vitale e la meno caduca si sarebbe rivelata proprio la prima, con conseguenze significative soprattutto per quanto riguarda il significato dell’antifascismo.
Se Fini è coerente con le cose che dice, le conseguenze da trarre dalle sue parole portano infatti a riconoscere nell’antifascismo un valore permanente dell’Italia repubblicana, una risorsa a cui un paese come quello che ha partorito uno dei più significativi totalitarismi novecenteschi non può fare a meno di attingere; non più un semplice «patto sulle procedure», una coalizione di partiti, uno schieramento politico legato solo alle condizioni estreme della lotta contro la dittatura e l’invasione tedesca, ma un «eccesso» di democrazia, una necessità etica, culturale e politica per un paese attraversato da una sinistra coazione a ripetere che ogni volta rende affascinanti soluzioni politiche al cui interno coniugare il sovversivismo e l’illegalità endemica delle nostre classi dirigenti con una irrefrenabile voglia di autorità e di ordine che proviene dai recessi più oscuri della nostra esistenza collettiva.
Dimenticanze e rimozioni
Un’ultima considerazione. Anche il consenso espresso da Veltroni alle parole di Fini andrebbe misurato su questo terreno. Al momento della sua fondazione il Pd si era dimenticato dell’antifascismo. Allora sembrò un lapsus, oggi appare come la spia dell’incapacità di avere un progetto di lungo periodo («il coraggio di non contare ad anni, ma a generazioni», come scriveva Carlo Rosselli) e della scelta sciagurata di azzerare una delle eredità più significative di quel tipo di antifascismo, una teoria della classe politica, della sua formazione e selezione, radicalmente democratica e insieme frutto di un processo faticoso, impegnativo, costoso in termini di responsabilità personale e di consapevolezza della non negoziabilità di alcuni fondamenti ultimi
Il presidente della Camera: "I principi fondamentali non si toccano
Ma non è uno scandalo modificare la parte sul funzionamento delle istituzioni"
Fini: "Sì a riforma della Costituzione
ma solo nella sua seconda parte"
REGGIO EMILIA - I principi fondamentali della Costituzione italiana sono ancora validi e non si toccano. Il presidente della Camera Gianfranco Fini riprende il tema delle riforme a circa un mese di distanza dalle dichiarazioni di Silvio Berlusconi che aveva annunciato l’intenzione di voler modificare la Carta poiché questa "non può essere considerata un ostacolo alla riforma delle giustizia". Parole, quelle del premier, che avevano sollecitato l’intervento del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano: "Le fondamenta non sono modificabili", aveva detto il capo dello Stato, conquistando ampi consensi da parte dell’opposizione.
Da Reggio Emilia, dove è intervenuto per le celebrazioni per il 212esimo anniversario del Primo Tricolore, Fini ha precisato che "non deve destare motivo di scandalo la possibilità di modificare la Costituzione dove tocca il funzionamento delle istituzioni. Susciterebbe però perplessità e giusta opposizione una modifica dei principi fondamentali, validi al momento del varo della Costituzione così come oggi".
Durante la cerimonia dell’alzabandiera in piazza Prampolini, un gruppo di militanti di estrema destra del Centro Studi Italia ha tentato di aprire uno striscione con la scritta "Fini, a Reggio Emilia ci vuole il coraggio di condannare gli eccidi dei partigiani". Lo striscione è subito stato rimosso da agenti della Digos.
* la Repubblica, 7 gennaio 2009