[...] Berlusconi, con l’indubbia capacità di saper condurre le campagne elettorali sui temi che preferisce, ha colto immediatamente l’occasione e, ieri, intervenendo a sostegno del suo candidato in Campania, ha rilanciato lo slogan della «scelta di campo», sul fronte del collaudato motto «o con me o contro di me». Una massima che, da sempre, costringe gli alleati a rinunciare alle ambizioni di una certa autonomia e gli avversari ad unirsi nell’antiberlusconismo più scontato. Tra tre settimane, il voto per le regionali sarà l’ultima consultazione importante prima della fine della legislatura, prevista nel 2013. Forse sarà anche l’ultimo referendum su Berlusconi [...]
L’ultimo referendum
di LUIGI LA SPINA (La Stampa, 08.03.2010)
E’ stato Napolitano a individuare subito il vero punto debole del centrosinistra sul pasticcio delle liste. Il Presidente della Repubblica, infatti, nella sua risposta alle lettere di due cittadini, ha osservato come l’opposizione fosse contraria al decreto, ma non avesse avanzato alcuna altra soluzione, «meno esente da vizi e dubbi», per eliminare un rischio che gli stessi Bersani e Di Pietro volevano evitare: quello di «vincere per abbandono dal campo dell’avversario».
Così il gioco di rimessa, la tattica attendista di limitarsi a denunciare lo scandalo di cambiare le regole del gioco mentre la partita è cominciata, senza proporre un compromesso per salvare un’esigenza alla quale si dice pur di tenere, potrebbero agevolare l’offensiva della destra. Un attacco, cominciato da alcuni giorni e inasprito ieri dallo stesso Berlusconi, che mira, con un capovolgimento delle responsabilità per l’accaduto, a indirizzare la campagna elettorale sulla rappresentazione preferita dal Cavaliere, quella della vittima. Con la contrapposta immagine di una sinistra ipocrita, formalista, amante dei cavilli e degli intoppi burocratici, istigatrice e complice di magistrati faziosi.
Ecco perché la vicenda delle liste potrebbe rivelarsi un imprevedibile boomerang per chi si aspettava di guadagnare consensi, sull’onda di una presunta indignazione popolare anche di una parte dei simpatizzanti del centrodestra, e, invece, rischia di perderli per la trasformazione improvvisa del vero tema di queste elezioni.
La consultazione amministrativa regionale sembra ormai ricalcare, in Italia, il significato che hanno le elezioni di mid-term negli Stati Uniti: quello di un giudizio sull’operato del governo a metà legislatura. Può essere deplorevole che il parere dei cittadini non si concentri soprattutto sull’operato dei governatori regionali uscenti, quando si ripresentano, o sulle promesse dei nuovi aspiranti a quella poltrona. Ma che, in queste elezioni, gli orientamenti di politica nazionale prevalgano nelle scelte degli elettori è un fatto ormai consolidato.
Fu così nel 2005, quando la delusione per i risultati governativi, dovuti al mancato abbassamento delle tasse e alle divisioni tra Berlusconi e l’asse Fini-Casini, punirono il centrodestra, al potere a Roma, con una sconfitta che consegnò all’opposizione 12 delle 14 Regioni in palio. Fu addirittura riconosciuto ufficialmente come il vero verdetto di questa consultazione, quando D’Alema, in modo inopinato, si dimise dalla presidenza del Consiglio per il risultato negativo delle elezioni regionali del 2000.
Anche questa volta, come un po’ tutti i sondaggi confermano, la soddisfazione degli italiani per il governo sta diminuendo, sia per il perdurare degli effetti della crisi economica, sia per l’ondata di scandali che hanno coinvolto personaggi del centrodestra, sia per le divisioni nell’ambito del neonato e ancora molto fragile Pdl. Ma il clima elettorale, in queste ultime tre settimane prima del voto, potrebbe improvvisamente mutare e la consultazione cambiare «natura»: da un giudizio prevalentemente dedicato ai risultati del governo al solito, ennesimo referendum su Berlusconi.
Le avvisaglie ci sono tutte e riguardano gli atteggiamenti di entrambi i poli. A sinistra, la vicenda del «decreto interpretativo» ha spezzato la precaria ma comunque inedita unità che, negli ultimi mesi, sembrava aver cancellato i contrasti che portarono alla caduta di Prodi e alla sconfitta di Veltroni. Il Pd è tornato a soffrire in mezzo all’opposta necessità di non lasciare a Di Pietro il monopolio della protesta e di non farsi coinvolgere nell’attacco a Napolitano. Mentre l’Udc di Casini si è distaccata subito dalla manifestazione di piazza prevista per sabato prossimo. A destra, l’effetto è speculare: Fini, seppur con toni diversi, si è dovuto riallineare sulla posizione del premier e anche Bossi che, con le prime valutazioni espresse dal suo ministro, Maroni, sembrava voler sostenere l’impossibilità di un decreto per sanare il famigerato «pasticcio», si è dovuto acconciare all’approvazione del provvedimento.
Berlusconi, con l’indubbia capacità di saper condurre le campagne elettorali sui temi che preferisce, ha colto immediatamente l’occasione e, ieri, intervenendo a sostegno del suo candidato in Campania, ha rilanciato lo slogan della «scelta di campo», sul fronte del collaudato motto «o con me o contro di me». Una massima che, da sempre, costringe gli alleati a rinunciare alle ambizioni di una certa autonomia e gli avversari ad unirsi nell’antiberlusconismo più scontato. Tra tre settimane, il voto per le regionali sarà l’ultima consultazione importante prima della fine della legislatura, prevista nel 2013. Forse sarà anche l’ultimo referendum su Berlusconi.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’OCCUPAZIONE DELLA LEGGE E DELLA LINGUA ITALIANA: L’ITALIA E LA VERGOGNA.
Il nuovo squilibrio
Quell’ora al Quirinale che ha cambiato il corso del decreto
Così B. minacciò Napolitano
“Se ti metti di traverso sei finito” avrebbe urlato Berlusconi
di Alessandro Ferrucci (il Fatto, 09.03.2010)
Isolato, avvilito. Provato. Ma quelle che potrebbero essere (solo) suggestioni di chi gli sta attorno da anni, lo segue, gli strappa le rare confidenze, hanno una base solida: gli ultimi quattro giorni, per Giorgio Napolitano, sono stati i più duri da quando è stato eletto, il 10 maggio del 2006. Telefonate, colloqui, confronti, consigli. E ancora mediazioni, rotture, fratture e ricomposizioni. Toni alti, aspri, addirittura minacciosi da parte di Silvio Berlusconi verso il capo dello Stato (“Tra noi due, sono io quello eletto dal popolo. E se ti metti di traverso, vado avanti anche senza di te. Sei finito”, sarebbe stato lo sfogo del premier, giovedì sera, ancora non smentito).
Così assumono un sapore differente anche le parole pronunciate ieri durante i festeggiamenti dell’ “8 marzo”, al Quirinale: “Al di là di ogni differenza di modi di pensare e di posizioni politiche, profonda è tra le italiane e gli italiani la condivisione del patrimonio di valori e principi che si racchiude nella Costituzione repubblicana, a coronamento di una lunga e travagliata esperienza storica”. Travagliata. Come a dire: è stata dura, è dura, ma sono io il garante della Costituzione, gli italiani si rispecchiano in essa, quindi io li rappresento. Anche se non sono stato eletto direttamente.
Eppure, da quando è stata apposta la firma sul decreto legge, venerdì sera, in molti non capiscono il ruolo e la strategia del presidente. Cosa è realmente accaduto nelle stanze del Quirinale?
Partiamo da giovedì. Napolitano è ancora in visita a Bruxelles, un appuntamento politico nato male, visti gli inevitabili diktat diplomatici posti dal Colle per evitare un incontro tra lo stesso presidente e l’ambasciatore Siggia, al centro delle intercettazioni sull’elezione dell’ex senatore Di Girolamo. Sono le 17:40, manca poco alla partenza, direzione Roma.
Dalla Capitale giungono voci di un accordo imminente con il Colle per un decreto legge; Berlusconi ha già fissato il Consiglio dei ministri per le 22 della sera stessa. L’arrivo del volo è previsto alle 20. Una mezz’ora di tempo dall’aeroporto al centro di Roma e al capo dello Stato resta giusto il tempo di salutare gli esponenti del governo, scambiare due convenevoli. E firmare, tutto, comunque. È l’idea di Berlusconi.
Eppure Napolitano, prima di salire sulla scaletta dell’aereo, dichiara: “’Ancora non c’è nulla di definito, in alcun modo. Quando arriverò a Roma stasera, vedrò”. E a chi gli chiede se è possibile una soluzione politica, replica: “Se qualcuno mi spiega cos’è, e da parte di chi e su che cosa, la esaminerò”. Atterra, si attacca al cellulare, scambia due impressioni con gli uomini più fidati. Lo descrivono come nervoso, il trattamento da passa carte non lo apprezza.
Salgono al Quirinale il presidente del Consiglio, l’immancabile Gianni Letta, Ignazio La Russa, Roberto Maroni e Roberto Calderoli. La discussione non è facile. Lo stesso Letta indossa un “guanto sempre più spesso l’artiglio di ferro”, come ha scritto Eugenio Scalfari su Repubblica. Anche lui è deciso a ottenere il bottino, tutto e subito. Si frena solo quando vede Berlusconi alzare troppo i toni, minacciare, come hanno rivelato Bruno Vespa su il Mattino e Marzio Breda su il Corriere della Sera. Per quest’ultimo, Napolitano sarebbe andato vicino a cacciare i suoi “ospiti”. Ma niente firma.
Venerdì. Libero titola: “Ponzio Napolitano” e parla di Don Abbondio. Ponzio Pilato, secondo i vangeli, ordinò la crecifissione di Gesù. La Russa conferma il “siamo pronti a tutto”; il Giornale parla di “clima da guerra civile” e descrive Palazzo Grazioli come “una sorta di gabinetto, di guerra”.
Il capo dello Stato ribadisce l’esigenza di rispettare le regole. Mentre gli uffici del Quirinale mantengono i contatti con Palazzo Chigi e con il Viminale, perstudiare i precedenti. Si inizia a parlare di “decreto interpretativo”. I toni si abbassano, scatta l’apnea. Berlusconi fa sapere al Colle di essere pronto a parlare agli italiani al Tg1 delle venti, in zona Minzolini, nel caso di una mancata firma. Non serve, i segnali di ritorno sono positivi. A un patto: nessuna dichiarazione.
Napolitano dà l’ok. A Palazzo Grazioli si esulta, le opposizioni si dividono su come reagire. Sabato. Il giorno delle domande, in parte, ancora irrisolte. Delle prime manifestazioni, delle prime analisi sulla costituzionalità, delle dichiarazioni politiche e delle valutazioni sulla decisione del presidente. Si parla ancora delle minacce del giovedì, di un clima inedito per le stanze del Quirinale.
Il presidente convoca i suoi e fa selezionare due delle lettere giunte sul sito istituzionale. A queste risponde. “Erano in gioco due interessi o ‘beni’ entrambi meritevoli di tutela: il rispetto delle norme e delle procedure previste dalla legge e il diritto dei cittadini di scegliere col voto tra programmi e schieramenti alternativi”. Per poi ammettere: “La vicenda è stata molto spinosa, fonte di gravi contrasti e divisioni, e ha messo in evidenza l’acuirsi non solo di tensioni politiche, ma di serie tensioni istituzionali. È bene che tutti se ne rendano conto”.
Quindi concludere: “Un effettivo senso di responsabilità dovrebbe consigliare a tutti i soggetti politici e istituzionali di non rivolgersi al capo dello Stato con aspettative e pretese improprie, e a chi governa di rispettarne costantemente le funzioni e i poteri”. Rispetto dei ruoli. Ci tiene a ribadirlo. Garante della Costituzione, lo sottolinea ieri. Restano in piedi tanti punti interrogativi, a partire da tutto ciò che ha detto Berlusconi nella sera di giovedì.
ITALIA. USCIRE DALLA CONFUSIONE
L’amarezza del presidente emerito della Repubblica Ciampi
"Aberrante episodio di torsione del sistema democratico"
"E’ il massacro delle istituzioni
ora proteggiamo il Quirinale"
di MASSIMO GIANNINI *
ROMA - Benvenuti nella Repubblica del Male Minore. Cos’altro si può dire di un Paese che ormai, per assecondare i disegni plebiscitari di chi lo governa, è costretto ogni giorno ad un nuovo strappo delle regole della civiltà politica e giuridica, nella falsa e autoassolutoria convinzione di aver evitato un Male Maggiore? Carlo Azeglio Ciampi non trova altre formule: "La strage delle illusioni, il massacro delle istituzioni...". Ancora una volta, l’ex presidente della Repubblica parla con profonda amarezza di quello che accade nel Palazzo. Dopo il Lodo Alfano, il processo breve, lo scudo fiscale, il legittimo impedimento, il decreto salva-liste è solo l’ultimo, "aberrante episodio di torsione del nostro sistema democratico". Il "pasticciaccio di Palazzo Chigi" non è andato giù all’ex capo dello Stato, che considera il rimedio adottato (cioè il provvedimento urgente varato venerdì scorso) ad alto rischio di illegittimità costituzionale. E la clamorosa sentenza pronunciata ieri sera dal Tar del Lazio, che respinge il ricorso per la riammissione della lista del Pdl nel Lazio, non arriva a caso: "È la conferma che con quel decreto il governo fa ciò che la Costituzione gli vieta, cioè interviene su una materia di competenza delle Regioni. Speriamo solo che a questo punto non accadano ulteriori complicazioni...", dice.
Dopo il ricorso già avanzato da diverse giunte regionali, potrebbe persino accadere che, ad elezioni già svolte, anche la Consulta giudichi quel decreto illegittimo, con un verdetto definitivo e a quel punto davvero insindacabile. Questo preoccupa Ciampi: "Il risultato, in teoria, sarebbe l’invalidazione dell’intero risultato elettorale. Il rischio c’è, purtroppo. C’è solo da augurarsi che il peggio non accada, perché a quel punto il Paese precipiterebbe in un caos che non oso immaginare...". Il presidente emerito non lo dice in esplicito, ma dal suo ragionamento si evince che qualche dubbio lui l’avrebbe avuto, sulla percorribilità giuridica e politica di un decreto solo apparentemente "interpretativo", ma in realtà effettivamente "innovativo" della legislazione elettorale.
Ora si pone un interrogativo inquietante: questo disastro si poteva evitare? E se sì, chi aveva il potere di evitarlo? Detto più brutalmente: Giorgio Napolitano poteva non autorizzare la presentazione del decreto legge del governo? Ciampi vuole evitare conflitti con il suo successore, al quale lo lega un rapporto di affetto e di stima: "Non mi piace mai giudicare per periodi ipotetici dell’irrealtà. Allo stesso tempo, trovo sbagliato dire adesso "io avrei fatto, io avrei detto...". Ognuno decide secondo le proprie sensibilità e secondo le necessità dettate dal momento. Napolitano ha deciso così. Ora, quel che è fatto è fatto. Lo ripeto: a questo punto è stata imboccata una strada, e speriamo solo che ci porti a un risultato positivo...". Ma in questa occasione non si può negare che il Quirinale sia dovuto passare per la cruna di un ago particolarmente stretta, e che secondo molti ne sia uscito non proprio al meglio. In rete e sui blog imperversano le critiche: Scalfaro e Ciampi, si legge, non avrebbero mai messo la firma su questo "scempio". Al predecessore di Napolitano questo gioco non piace: "Queste sono cose dette un po’ a sproposito". Come non gli piacciono le rischieste di impeachment che piovono sull’inquilino del Colle dall’Idv: "Ma che senso ha, adesso, sparare sul quartier generale? Al punto in cui siamo, è nell’interesse di tutti non alimentare la polemica sul Quirinale, e semmai adoperarsi per proteggere ancora di più la massima istituzione del Paese...".
Premesso questo, Ciampi non si nega una netta censura politica di quanto è accaduto: "Io credo che la soluzione migliore sarebbe stata quella di rinviare la data delle elezioni. Ma per fare questo sarebbe stata necessaria una volontà politica che, palesemente, nella maggioranza è mancata. Ma soprattutto io credo che sarebbe stato necessario, prima di tutto, che il governo riconoscesse pubblicamente, di fronte al Paese e al Parlamento, di aver commesso un grave errore. Sarebbe stato necessario che se ne assumesse la responsabilità, chiedendo scusa agli elettori e agli eletti. Da qui si doveva partire: a quel punto, ne sono sicuro, tutti avrebbero lavorato per risolvere il problema, e l’opposizione avrebbe dato la sua disponibilità a un accordo. Bisognava battersi a tutti i costi per questa soluzione della crisi, e inchiodare a questo percorso chi l’aveva causata. Ma purtroppo la maggioranza, ancora una volta, ha deciso di fuggire dalle sue responsabilità, e di forzare la mano". I risultati sono sotto gli occhi di tutti: "Di nuovo, assistiamo sgomenti al graduale svuotamento delle istituzioni, all’integrale oblio dei valori, al totale svilimento delle regole: questo è il male oscuro e profondo che sta corrodendo l’Italia".
Su questo piano inclinato, dove si fermeranno lo scivolamento civico e lo smottamento repubblicano? "Vede - osserva Ciampi - proprio poco fa stavo rileggendo il De senectute di Cicerone: ci sarebbe bisogno di quella saggezza, di quell’amore per la civiltà, di quell’attenzione al bene pubblico. E invece, se guardiamo alle azioni compiute e ai valori professati da chi ci governa vediamo prevalere l’esatto opposto". Aggressione agli organi istituzionali, difesa degli interessi personali: l’essenza del berlusconismo - secondo l’ex capo dello Stato - "è in re ipsa, cioè sta nelle cose che dice e che fa il presiedente del Consiglio: basta osservare e ascoltare, per rendersi conto di dove sta andando questo Paese". Già qualche mese fa Ciampi aveva rievocato, proprio su questo giornale, l’antico principio della Rivoluzione napoletana di Vincenzo Cuoco sulla felicità dei popoli "ai quali sono più necessari gli ordini che gli uomini", e poi il vecchio motto caro ai fratelli Rosselli, "non mollare", poi rideclinato da Francesco Saverio Borrelli nel celebre "resistere, resistere, resistere".
Oggi l’ex presidente torna su queste "urgenze morali", per ribadire che servono ancora tanti "atti di coraggio", se vogliamo difendere la nostra democrazia e la nostra Costituzione. "I miei sono lì, sono le firme che non ho voluto apporrre su alcune leggi che mi furono presentate durante il settennato, e che successivamente mi sono state rinfacciate in Parlamento, come se si fosse trattato di atti "sediziosi", o decisioni "di parte". E invece erano ispirati solo ai principi del vivere civile in cui ho sempre creduto, e che riposano sulla sintesi virtuosa dei valori e delle istituzioni". Tra i 2001 e il 2006 Ciampi non potè rinviare alle Camere tutte le leggi-vergogna del secondo governo Berlusconi, perché in alcune di esse mancava il vizio della "palese incostituzionalità" che solo può giustificare il diniego di firma da parte del capo dello Stato. Ma dalla riforma Gasparri sul sistema radiotelevisivo alla riforma Castelli sull’ordinamento giudiziario, Ciampi pronunciò alcuni "no" pesantissimi.
Nonostante questo, anche a lui tocca oggi constatare che quella forma di "pedagogia repubblicana", necessaria ma non sufficiente, è servita a poco o a nulla. "Cosa vuole che le dica? Purtroppo questo è il drammatico paesaggio italiano, né bello né facile. E questo è anche il mio più grande rimpianto di vecchio: sulla soglia dei 90 anni, mi accorgo con amarezza che questa non è l’Italia che vagheggiavo a 20 anni. Allora ci svegliavamo la mattina convinti che, comunque fossero andate le cose, avremmo fatto un passo avanti. Oggi ci alziamo la mattina, e ogni giorno ci accorgiamo di aver fatto un altro passo indietro. E’ molto triste, per me che sono un nonuagenario. Ma chi è più giovane di me non deve perdersi d’animo, e soprattutto non deve smettere di lottare". Sabato prossimo Ciampi non andrà in piazza, per sfilare in corteo contro il "pasticciaccio" di Berlusconi: "Non ho mai aderito a manifestazioni, e comunque le gambe non mi reggerebbero...", dice. Ma chissà: magari con vent’anni di meno ci sarebbe andato anche lui.
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m.giannini@repubblica.it
© la Repubblica, 09 marzo 2010
Napolitano: "Al di là delle differenze gli italiani credono nella Costituzione" *
ROMA - "Al di là delle differenze politiche tutti gli italiani si riconoscono e credono nei valori della Costituzione". Lo ripete il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ricevendo al Quirinale il mondo femminile in occasione della festa dell’8 marzo. Il capo dello Stato è convinto che "al di là di ogni differenza di modi di pensare e di posizioni politiche profonda è tra le italiane e gli italiani la condivisione del patrimonio di valori e principi che si racchiude nella Costituzione repubblicana, a coronamento di una lunga e travagliata esperienza storica". Tra questi valori, sottolinea napolitano, ci sono "l’impegno civile, la solidarietà, il rispetto della legalità", "valori fondanti del nostro vivere civile".
"Le donne rappresentano una ragione di speranza e di fiducia per il nostro Paese"*
"Ho voluto dedicare la cerimonia dell’8 marzo alle ’donne di domani’ perché rappresentano una ragione di speranza e di fiducia per il nostro Paese. E di speranza e fiducia in questo momento abbiamo bisogno". Così il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, è intervenuto al Quirinale nel corso della celebrazione della Giornata Internazionale della donna. "Ma potremo contare sulle donne di domani - ha aggiunto il Presidente Napolitano - solo se saremo capaci di dare loro quanto meritano, anche quello che le donne di oggi e ancor più quelle di ieri non hanno - ingiustamente - avuto".
Il Capo dello Stato ha sottolineato che "che al di là di ogni differenza di modi di pensare e di posizioni politiche, profonda è tra le italiane e gli italiani la condivisione di quel patrimonio di valori e principi che si racchiude nella Costituzione repubblicana, a coronamento di una lunga e travagliata esperienza storica. Il prossimo 150esimo anniversario dell’Unità di Italia è una grande occasione per abbracciare in tale condivisione le nuove generazioni, portandole a riflettere su quel che ha fatto grande e unificato la Nazione italiana, sul ritardo storico del nostro Stato e della nostra società nel rapporto con le donne, sull’impegno necessario per superarlo pienamente nell’interesse comune".
Il Presidente ha invitato "i poteri pubblici e i rappresentanti delle parti sociali a non dimenticare il futuro delle donne di domani nel nostro Paese. Le opportunità delle giovani generazioni e di quelle a venire di realizzarsi professionalmente dipendono molto sia da un’istruzione efficiente, sia dalla possibilità di utilizzarla in aziende, in strutture di ricerca, in amministrazioni di alto livello capaci di valorizzare le competenze. Senza un’adeguata trasformazione di queste strutture non solo negheremo opportunità ai nostri giovani, in particolare alle nostre ragazze, ma decreteremo un destino di sostanziale decadenza per il nostro Paese. Ma c’è un’altra - forse ancora più importante - opportunità che va data ai giovani, quella di realizzarsi moralmente".
"Auguro - ha concluso Napolitano - a tutti noi un’Italia determinata ad offrire alle donne e, lasciatemi aggiungere, anche agli uomini di domani un contesto che favorisca la loro realizzazione sia morale che professionale. Ma lasciatemi rivolgere infine un invito particolare a voi ragazze che state entrando nella vita adulta: preparatevi ad esigere, da chiunque e in qualsiasi circostanza - nel lavoro, nella famiglia, nell’attività politica - il rispetto della vostra dignità di donne. E’ la premessa, è la condizione per ogni vostra autentica affermazione e conquista".
* Fonte: Sito della Presidenza della Repubblica (08.03.2010)
L’adunata oceanica
di Giovanni Maria Bellu (l’Unità, 10.03.2010)
Proprio mentre il tribunale civile di Roma, come già aveva fatto il Tar del Lazio, stava per dichiarare l’inutilità del decreto ad listam emanato dalla maggioranza per sanare i pasticci dei suoi maldestri dirigenti laziali, il governo ha annunciato il voto di fiducia il trentesimo sull’ennesima legge ad personam denominata «legittimo impedimento». Ci sono buone probabilità che la giornata di ieri, con un decreto ad hoc, venga proclamata la festa nazionale del Partito del fare gli affari propri alla faccia dei gonzi e degli onesti.
Il paese non può che rallegrarsene. La confusione è solo apparente e le prossime tappe della squallida vicenda sono chiare. Intanto ci sarà il ricorso al Consiglio di Stato e assisteremo alla più spaventosa attività di pressione sulla giustizia amministrativa della storia del dopoguerra. Detto per inciso, le possibilità che in quella sede la giustizia del premier e dei suoi angosciati legali trionfi non sono piccole. Contemporaneamente imbavagliata l’informazione televisiva e affidata la velina politica nazionale al solo Augusto Minzolini si farà in modo di accreditare l’idea che il Popolo delle libertà è vittima della perfidia.
La circostanza dell’accoglimento giudiziario, in Lombardia, delle ragioni del meno maldestro Formigoni sarà opportunamente taciuta. E intanto ferveranno i preparativi per l’adunata oceanica convocata per sabato 20 marzo. A Roma, secondo le migliori tradizioni nazionali. Il tema dell’adunata sarà la difesa della democrazia sostanziale contro i vecchi formalismi costituzionali. La balla della “violenza fisica” che avrebbe impedito al distratto mangiatore di panini di presentare la lista sarà ripetuta ossessivamente nel tentativo di farla entrare nella testa del più alto numero di telespettatori. Come già la guida suprema ha tentato di suggerire col parallelo giudici-talebani, i sostenitori laziali del Pdl saranno accostati agli elettori iracheni. Qua è là, durante i programmi di satira compiacente, si suggerirà l’idea che i giudici nascondono le urne. Apicella scriverà qualche verso dove accosterà gli ex voto per San Gennaro alla condizione del popolo berlusconiano afflitto.
Il mondo ci riderà dietro cosa che d’altra parte fa da tempo ma solo gli utenti del web ne avranno una percezione precisa. Poi, finalmente, si andrà alle urne. Ma non prima che il duce abbia raccomandato ai suoi di vigilare contro i soliti brogli della sinistra. E nel caso in cui il paese gli desse la batosta che merita, attribuirà la sconfitta al complotto ordito dalla magistratura, dai comunisti e da potenze straniere. E ragionerà sulla possibilità di un decreto interpretativo del voto popolare.
Ecco perché il paese deve gioire per quanto è accaduto ieri. La consapevolezza delle tappe future, ci dà gli strumenti per andare avanti senza commettere errori. Soprattutto quello segnalato ieri da Andrea Camilleri di dividerci. Se queste elezioni regionali sono un referendum, la democrazia non può perderlo. Cominciamo a lavorare subito.