[...] l’impegno condiviso di cui parlo implica una svolta da parte dell’insieme delle classi dirigenti, un autentico scatto di consapevolezza e di volontà in modo particolare da parte delle forze che hanno, o possono assumere, responsabilità nella sfera della politica.
Spero ci si risparmi il banale fraintendimento del vedere sempre in agguato l’intento di un appello all’abbraccio impossibile, alla cessazione del conflitto, fisiologico in ogni democrazia, tra istanze politiche e sociali divergenti. E’ tempo che ci si liberi da simili spettri e da faziosità meschine, per guardare all’orizzonte più largo del futuro della Nazione italiana, per elevare al livello di fondamentali valori e interessi comuni il fare politica e l’operare nelle istituzioni [...]
Roma, Accademia dei Lincei, 12/02/2010 *
Presidente Ciampi, Autorità, Signore e Signori, ringrazio vivamente il Presidente Maffei per le sue cortesi parole di saluto. E ringrazio con lui e con il Vice Presidente Professor Quadrio Curzio, voi tutti, signori Soci dell’Accademia, per il privilegio e per l’occasione che mi avete offerto invitandomi a presentare in questa sede così rappresentativa e autorevole, le convinzioni che mi guidano in vista di un evento di straordinario rilievo istituzionale.
La convinzione, in primo luogo, che la cultura italiana, in tutte le sue espressioni, sia chiamata a dare un contributo essenziale alle celebrazioni del centocinquantenario dell’Unità. Parlo innanzitutto, naturalmente, della cultura storica, il cui ricco patrimonio di studi sul Risorgimento e sul processo unitario merita di essere richiamato all’attenzione generale e riproposto nel modo più incisivo dinanzi al grave deficit di conoscenze storiche diffuse di cui soffrono intere generazioni di italiani. La riflessione storica, ed egualmente l’indagine sulle vicende politico-istituzionali ed economico-sociali, debbono peraltro abbracciare l’evoluzione dell’Italia unita nei periodi successivi alla fondazione del nostro Stato nazionale, fino a consentire un bilancio persuasivo da far valere nel tempo presente.
Perché in effetti con l’avvicinarsi del centocinquantenario si vedono emergere, tra loro strettamente connessi, giudizi sommari e pregiudizi volgari sul quel che fu nell’800 il formarsi dell’Italia come Stato unitario, e bilanci approssimativi e tendenziosi, di stampo liquidatorio, del lungo cammino percorso dopo il cruciale 17 marzo 1861. C’è chi afferma con disinvoltura che sempre fragili sono state le basi del comune sentire nazionale, pur alimentato nei secoli da profonde radici di cultura e di lingua ; e sempre fragili, comunque, le basi del disegno volto a tradurre elementi riconoscibili di unità culturale in fondamenti di unità politica e statuale. E c’è chi tratteggia il quadro dell’Italia di oggi in termini di così radicale divisione, da ogni punto di vista, da inficiare irrimediabilmente il progetto unitario che trovò il suo compimento nel 1861.
Non deve sottovalutarsi la presa che può avere in diversi strati dell’opinione pubblica questa deriva di vecchi e nuovi luoghi comuni, di umori negativi e di calcoli di parte. E bisogna perciò reagire all’eco che suscitano, in sfere lontane da quella degli studi più seri, i rumorosi detrattori dell’Unità italiana. Ci sarà modo, nel corso di quest’anno e del prossimo, attraverso iniziative di molteplice natura già in via di programmazione, di lumeggiare - nel rapporto con pubblici qualificati e con più vaste comunità di cittadini - passaggi essenziali, e fondamentali figure di protagonisti, del processo unitario. E bisognerà così rivalutarne e farne rivivere anche aspetti e momenti esaltanti e gloriosi, mortificati o irrisi spesso per l’ossessivo timore di cedere alla retorica degli ideali e dei sentimenti.
Io vorrei solo - guardandomi dal tentare impossibili sintesi - suggerire, qui, il punto di osservazione dal quale si può meglio cogliere la forza e la validità dell’esperienza storica dell’Italia unita. Un punto di riferimento come quello costituito dagli eventi che fanno per così dire da spartiacque tra l’Italia che consegue la sua unità e l’Italia che inizia, ottantacinque anni dopo, la sua nuova storia. Parlo del momento segnato dall’avvento della Repubblica, dall’elezione dell’Assemblea Costituente, dall’avvio e dallo svolgimento dei lavori di quest’ultima.
Campeggia, nella Carta che l’Assemblea giunse ad adottare nella sua interezza il 22 dicembre 1947, l’espressione "una e indivisibile", riferita alla Repubblica ch’era stata proclamata poco più di un anno prima. E ci si può chiedere se si tratta di un’espressione rituale, di una meditata e convinta visione della condizione effettiva del Paese, o di un supremo, vincolante impegno politico e morale. Ma in quel momento non poteva comunque mancare, nei padri costituenti, la consapevolezza di come l’unità della nazione e dello Stato italiano fosse stata appena, faticosamente messa al riparo da prove durissime che l’avevano come non mai minacciata.
Una consapevolezza che dovrebbe oggi essere seriamente recuperata: avrebbero potuto resistere a quelle prove le basi della nostra unità nazionale se fossero state artificiose, fragili, poco sentite e condivise, come da qualche parte si continua a ripetere? L’unità forgiatasi nel Risorgimento aveva ben presto dovuto far fronte all’esplodere - già nell’estate del 1861 - del brigantaggio meridionale, che sembrò mettere in causa l’adesione delle popolazioni del Mezzogiorno al nuovo Stato nazionale, e su cui fece leva il tentativo borbonico di suscitare una guerriglia politica a fini di restaurazione. Le forze del giovane Stato italiano dovettero impegnarsi per anni, fino al 1865, per sventare quel tentativo, per sconfiggere militarmente il "grande brigantaggio", senza che peraltro venissero date risposte a quel che era stata anche una disperata guerriglia sociale dei contadini poveri del Mezzogiorno.
Le ragioni storiche profonde dell’Unità risultarono più forti dei limiti e delle tare, pure innegabili, dell’unificazione compiutasi nel 1860-61; e ressero per lunghi decenni, da un secolo all’altro, a fratture e sommovimenti sociali, a conflitti e rivolgimenti politici che pure giunsero a scuotere l’Italia unita. Ma con la crisi succeduta alla prima guerra mondiale, con il rovesciamento, ad opera del fascismo, delle istituzioni liberali dello Stato unitario, e con la conseguente estrema deriva nazionalistica e bellicista della politica italiana, si crearono le premesse per un fatale processo dissolutivo che culminò emblematicamente nella giornata dell’8 settembre del 1943.ù
Quando l’Assemblea Costituente si riunisce a Roma e si mette all’opera per assolvere il suo mandato, essa ha dunque alle spalle precisamente il collasso dello Stato che era nato, nazionale e unitario, sotto l’egida della monarchia sabauda, per finire travolto dalla degenerazione totalitaria e dall’avventura di guerra del fascismo, avallata dalla monarchia. Non a caso, lo Stato rinasce nella forma repubblicana, per volontà popolare, e si appresta a darsi un nuovo quadro di istituzioni, di principi e di regole per accogliere le istanze di libertà, di democrazia, di progresso civile e sociale, di degna e pacifica presenza nel mondo, di un’Italia che ha ritrovato la sua unità. L’ha ritrovata a carissimo prezzo. Perché allo sfacelo del vecchio Stato sono seguiti gli anni dell’occupazione straniera, liberatrice al Sud e ferocemente dominatrice al Nord ; sono seguiti i 20 mesi dell’Italia tagliata in due.
E’ guardando all’estrema drammaticità di quell’ancora vicinissimo e scottante retroterra storico, che si può - dall’altura, per così dire, della neonata Repubblica e della sua appena insediata Assemblea Costituente - osservare e pienamente valutare la profondità delle radici su cui l’unità della nazione italiana ha dimostrato di poggiare e di poter fare leva. Nel dicembre 1943 Benedetto Croce si diceva "fisso nel pensiero che tutto quanto le generazioni italiane avevano in un secolo costruito politicamente, economicamente e moralmente è distrutto" ; e infatti tra il ’43 e il ’45 l’Italia unita rischiò di perdere la sua dignità e indipendenza nazionale e vide perfino insidiata la sua compagine territoriale.
Solo l’Italia e la Germania hanno conosciuto nel ’900 rischi così estremi come Stati-Nazione; la Germania, a partire dagli anni ’50, addirittura nei termini di una prolungata, forzosa separazione in due distinte e contrapposte entità statuali, che avrebbe infine superato riunificandosi grazie al mutamento radicale intervenuto negli assetti mondiali.
L’Italia poté nel 1945 ricongiungersi come paese libero e indipendente nei confini stabiliti dal Trattato di pace grazie a tre fattori decisivi: quel moto di riscossa partigiana e popolare che fu la Resistenza, di cui nessuna ricostruzione storica attenta a coglierne limiti e zone d’ombra può giungere a negare l’inestimabile valore e merito nazionale; il senso dell’onore e la fedeltà all’Italia delle nostre unità militari che seppero reagire ai soprusi tedeschi e impegnarsi nella guerra di Liberazione fino alla vittoria sul nazismo; la sapienza delle forze politiche antifasciste, che trovarono la strada di un impegno comune per gettare le basi di una nuova Italia democratica e assumerne la rappresentanza nel quadro internazionale che andava delineandosi a conclusione della guerra.
Quella sapienza fu impiegata anche e in particolare per superare spinte centrifughe in regioni di confine, a Nord e ad Est, e per sventare l’insidia del separatismo siciliano. La risposta fu trovata nell’originale invenzione dell’autonomia delle Regioni a statuto speciale : innanzitutto con l’approvazione per decreto legislativo - il 15 maggio 1946 - dello Statuto della Regione Siciliana, mentre con l’Accordo De Gasperi-Gruber firmato a Parigi il 5 settembre 1946 furono poste le basi della Regione Trentino-Alto Adige.
Il fenomeno più grave con cui il governo nazionale dové confrontarsi nella fase difficilissima dell’affermazione della propria autorità e della creazione delle premesse per un nuovo assetto istituzionale del paese, fu costituito dal presentarsi del Movimento Indipendentista Siciliano come forza organizzata in grado di catalizzare spinte antiunitarie di contestazione aggressiva del possibile ricomporsi e consolidarsi di un potere statuale sempre centralizzato. La storia dell’autonomismo e indipendentismo siciliano aveva nell’800 borbonico attraversato diverse fasi, sfociando - dopo il compimento dell’Unità e l’ingresso della Sicilia nel Regno d’Italia - in un apporto originale al dibattito sulla formazione del nuovo Stato nazionale. L’insoddisfacente conclusione di quel dibattito aveva lasciato sedimenti non superficiali nell’opinione siciliana, che riaffiorarono congiungendosi a nuove ragioni di malcontento e a nuove aspirazioni sociali quando, con il crollo del fascismo e dell’impalcatura statale che su di esso si reggeva, sembrò presentarsi una nuova, storica occasione per l’indipendenza della Sicilia dall’Italia.
L’occasione sembrava - soprattutto ai capi del movimento indipendentista - essere offerta dall’occupazione angloamericana dell’Isola e da un presunto incoraggiamento da parte delle autorità alleate. Sulla complessità politica di quel movimento, sul suo non trascurabile grado di velleitarismo, sulle sue intrinseche contraddizioni, gli storici hanno indagato attentamente giungendo a giudizi molto ponderati, anche in rapporto ad aspetti come quello dei tentativi d’infiltrazione e di condizionamento da parte della mafia. Ma resta il fatto che il Movimento guidato da Andrea Finocchiaro Aprile acquisì tra la fine del ’43 e l’inizio del ’44 un carattere di massa, reclutando centinaia di migliaia di aderenti. E se in ultima istanza fu proprio l’evoluzione del quadro internazionale dal quale esso aveva inizialmente tratto forza, a liquidare quel Movimento, il governo di Roma e le forze politiche antifasciste che lo guidavano dovettero prendere decisioni difficili e a rischio di errore, prima di giungere alla scelta fondamentale, che valse a disinnescare la miccia separatista e a riassorbire un fenomeno la cui pericolosità non può in sede storica essere sottovalutata.
Parlo della scelta di riconoscere alla Sicilia uno speciale Statuto di autonomia, la cui elaborazione fu affidata a un’apposita Consulta Regionale e infine, nel maggio ’46 come ho ricordato, recepita per decreto dal governo. Certo, la prova costituita dalla minaccia separatista siciliana venne superata anche grazie al fatto che più forte dell’impulso a staccarsi dall’Italia risultò l’impronta lasciata nella popolazione dell’Isola dal concorso attivo e consapevole dell’aristocrazia e della borghesia al moto risorgimentale ; nonché il lascito della "larga partecipazione dell’intelligenza politica e culturale siciliana alla costruzione della realtà nazionale e statale italiana nei decenni seguiti all’Unità". Ma non c’è dubbio che per mettere in sicurezza, dopo la Liberazione, l’unità dell’Italia, essenziale fu la correzione dell’indirizzo adottato al momento della formazione dello Stato unitario a favore di una sua rigida centralizzazione e di una forzosa unificazione amministrativa e legislativa sullo stampo piemontese.
Era stata una visione realistica della sola strada percorribile per fondare il nuovo Stato su basi unitarie prevenendo il rischio del riaccendersi di particolarismi locali e di pericolose spinte centrifughe, a prevalere su propositi e progetti di sia pur ponderata apertura verso il ruolo delle regioni. Ma Francesco Ferrara vide in ciò acutamente la tendenza a "confondere l’ordine con l’uniformità e l’unità con la forza".
La necessità di correggere quell’indirizzo originario si espresse già nel 1946, come ho ricordato, col riconoscimento di uno speciale Statuto di autonomia alla Sicilia, alla Sardegna e - con impegni di valore internazionale - alle regioni di frontiera bilingui ; ma poi si proiettò in termini generali in sede di definizione dei principi costituzionali e dell’ordinamento della Repubblica. Così non a caso il richiamo alla Repubblica "una e indivisibile" è collocato in apertura di quello che diverrà - nella redazione definitiva della Carta - l’articolo 5, cui conseguirà il Titolo V, comprendente l’istituzione delle Regioni "a Statuto ordinario".
Il richiamo all’unità e indivisibilità della Repubblica vale a segnare, tra i "Principi fondamentali" quello di un invalicabile vincolo nazionale; e nello stesso tempo mette in evidenza come il riconoscimento e la promozione delle autonomie siano parte integrante di una visione nuova dell’unità della nazione e dello Stato italiano.
Meuccio Ruini fu a questo proposito esplicito nella relazione con cui presentò, nel febbraio 1947, all’Assemblea Costituente il progetto elaborato dalla Commissione dei 75: "L’innovazione più profonda introdotta dalla costituzione è nell’ordinamento strutturale dello Stato, su basi di autonomia; e può aver portata decisiva per la storia del Paese. (...) Sarebbe stato naturale e logico che, all’atto dell’unificazione nazionale, si mantenesse qualcosa delle preesistenti autonomie; ma prevalsero il timore e lo «spettro dei vecchi Stati» ; e si svolse irresistibilmente il processo accentratore. E’ oggetto di dispute quali ne furono gli inconvenienti, ed anche i vantaggi ; molti dei malanni d’Italia si attribuiscono all’accentramento ; in ispecie pel mezzogiorno ; se anche tutti gli studiosi meridionalisti non sono fautori di autonomia.
Certo si è che oggi assistiamo - e per alcune zone ci troviamo col fatto compiuto - ad un fenomeno inverso a quello del risorgimento, e sembra anch’esso irresistibile, verso le autonomie locali. Non si tratta soltanto, come si diceva allora, di «portare il governo alla porta degli amministrati», con un decentramento burocratico ed amministrativo, sulle cui necessità tutti oggi concordano; si tratta di «porre gli amministrati nel governo di sé medesimi»".
Quella fu dunque la scelta dei Costituenti: e io mi limito ora a rievocarla - qualunque giudizio si possa esprimere sugli svolgimenti che essa ha avuto nei decenni successivi - solo per integrare l’argomento da cui sono partito sulla profondità delle ragioni e delle radici del processo unitario e sulla drammaticità delle prove da esso superate in frangenti storici cruciali ; per integrare questo argomento con quello dell’efficacia che scelte volte a incidere su antichi e nuovi motivi di debolezza dell’Unità possono avere al fine di rafforzarne le basi e le prospettive.
E qui non posso non toccare il tema del più grave dei motivi di divisione e debolezza che hanno insidiato e insidiano la nostra unità nazionale. Mi riferisco, ovviamente, alla divaricazione e allo squilibrio tra Nord e Sud, alla condizione reale del Mezzogiorno. Anche le analisi più recenti hanno confermato quanto profondo resti, per molteplici aspetti, il divario tra le regioni del Centro-Nord e le regioni meridionali, al di là delle pur sensibili differenziazioni che tra queste ultime si sono prodotte.
E oggi meritano forse una riflessione formule come quella, per lungo tempo circolata, della "unificazione economica" che avrebbe dovuto seguire e non seguì alla "unificazione politica" del paese; s’impone un approccio meno schematico, più attento alle peculiarità che possono caratterizzare lo sviluppo nelle diverse parti del paese, e ai modi in cui se ne può perseguire l’integrazione riducendosi il divario tra i relativi ritmi di crescita. Si impone un approccio più attento a tutte le molteplici componenti di un aggravamento della questione meridionale che ha la sua espressione più evidente nel peso assunto dalla criminalità organizzata. E nell’allargare e approfondire l’analisi, si incontra il nodo di una crisi di rappresentanza e direzione politica nel Mezzogiorno che è stata fatale dinanzi alla prova dell’autogoverno regionale.
E’ futile e fuorviante assumere questo stato di cose come prova che l’Italia non è unita e non può esserlo. Si deve comprendere che la condizione del Mezzogiorno pone il più preoccupante degli interrogativi per il futuro del paese nel suo complesso. L’affrontare nei suoi termini attuali la questione meridionale non è solo il maggiore dei doveri della collettività nazionale, per avere essa fatto della trasformazione e dello sviluppo del Mezzogiorno una delle missioni fondative dello Stato unitario ; ma è anche un impellente interesse comune, perché è lì una condizione e insieme un’occasione essenziale per garantire all’Italia un più alto ritmo di sviluppo e livello di competitività. E infine, per ardui che siano gli sforzi da compiere, non c’è alternativa al crescere insieme, di più e meglio insieme, Nord e Sud, essendo storicamente insostenibili e obbiettivamente inimmaginabili nell’Europa e nel mondo d’oggi prospettive separatiste o indipendentiste, e più semplicemente ipotesi di sviluppo autosufficiente di una parte soltanto, fosse anche la più avanzata economicamente, dell’Italia unita.
Tutte le tensioni, le spinte divisive, e le sfide nuove con cui è chiamata a fare i conti la nostra unità, vanno riconosciute, non taciute o minimizzate, e vanno affrontate con il necessario coraggio. Di queste sfide è bene avere una visione non provinciale. Non è solo l’Italia che vede messa alla prova la sua identità e funzione di Stato nazionale nel rapporto con l’integrazione europea. Il nostro è sempre stato tra i paesi fondatori dell’Europa comunitaria più sensibili e aperti all’autolimitazione della sovranità nazionale come elemento costitutivo della costruzione di un’Europa unita. Ciò non ha peraltro mai significato - anche per i più conseguenti fautori, fin dal 1950, di un modello d’Europa con significativi connotati sovranazionali - sottovalutare il peso degli Stati nazionali e degl’interessi nazionali, né tantomeno il ruolo delle identità storico-culturali nazionali.
Un grande intellettuale e patriota polacco ed europeo, Bronislaw Geremek ha scritto che "la diversità delle culture nazionali resta la più ricca risorsa dell’Europa". Nessuna contraddizione, dunque, con la ricerca e l’identificazione di un nucleo comune di esperienze e valori europei in cui riconoscersi e da porre a base di una identità e solidarietà europee.
Occorre invece - e lo dico ancora con parole di Geremek - "superare gli egoismi nazionali che si esprimono nel giuoco delle relazioni intergovernative e fare appello a un senso di appartenenza condivisa che vada al di là dei sentimenti nazionali". Nel conflitto e nel defatigante sforzo di compromesso tra interessi nazionali, non possono che risultare perdenti il processo di integrazione europea e anche, in particolare, la posizione italiana. Già decenni fa Jean Monnet sottolineò che "la cooperazione tra le nazioni, per importante che sia", non fornisce "una soluzione per i grandi problemi che ci incalzano ... Quel che bisogna perseguire è una fusione degli interessi dei popoli europei, e non semplicemente il mantenimento degli equilibri tra questi interessi". Quel monito è drammaticamente attuale : fusione di interessi e condivisione di sovranità, perché l’Europa possa svolgere il suo ruolo peculiare, come soggetto unitario, e non rischiare di scivolare nell’irrilevanza, nel mondo globalizzato di oggi e di domani.
L’identità e la funzione nazionale dell’Italia unita possono dispiegarsi solo in questo quadro, solo contribuendo decisamente all’affermarsi di questa prospettiva di sviluppo nuovo e più avanzato dell’integrazione europea.
Nella fase di cambiamento della realtà mondiale che stiamo vivendo, ci si interroga in altri paesi anche più che in Italia su come si possa e debba intendere l’identità nazionale e far vivere l’idea di Nazione. In Francia, lo stesso Presidente della Repubblica ha sollecitato una ricerca e aperto un dibattito pubblico su questo tema, vedendo vacillare antiche certezze sotto la pressione di molteplici fattori, riconducibili soprattutto al più generale processo di mondializzazione.
Il punto cruciale del dibattito francese appare quello della necessità di reagire a forme di chiusura comunitaria che accompagnano il crescere dell’immigrazione, presentando un’idea aperta, generosa, non statica della Nazione e della sua identità, senza voler imporre l’uniformità e favorendo l’integrazione delle nuove leve di immigrati.
Negli Stati Uniti, è da anni in corso la riflessione sulla tenuta dell’identità e dell’unità della Nazione, di fronte ai mutamenti indotti da nuove ondate migratorie delle più diverse provenienze. In California, negli anni ’90 la comunità ispanica è cresciuta del 70 per cento, la comunità asiatica del 127 per cento ; tra il 1980 e il 1990 la percentuale dei bianchi è scesa dal 76 al 57 per cento.
Da Arthur Schlesinger jr, una voce tra le più alte della cultura liberal americana, venne già con un libro del 1992 - "The disuniting of America" - l’allarme per un processo di frammentazione della società in più comunità etniche separate. Egli vide messa alla prova quella capacità di governare la diversità etnica "che nessuna nazione nella storia ha mostrato" di possedere al pari dell’America, paese multietnico fin dall’inizio. La sfida investe l’idea stessa di una cultura comune e dell’appartenenza a una stessa società, l’esperienza straordinaria del melting pot, della trasformazione della diversità in unità attraverso la leva del Credo Americano, di una cultura civica che unificava e assimilava.
Quelle risorse non sono però esaurite, concluse Schlesinger facendo professione di ottimismo, ovvero di fiducia nella possibilità di coltivare, tutti, le culture e le tradizioni cui si è legati senza rompere i vincoli della coesione - comuni ideali e comuni istituzioni politiche, lingua e cultura comune, senso profondo di un comune destino. Essenziale è, in definitiva, nella valutazione di Schlesinger, ristabilire l’equilibrio tra l’unum e il pluribus.
Un altro importante studioso, Samuel Huntington, in un libro meno ottimistico sul futuro dell’identità nazionale americana - drammaticamente intitolato "Who are we? Chi siamo noi?" - ha ammonito : "I dibattiti sulla identità nazionale sono una caratteristica pervasiva del nostro tempo ; le crisi delle identità nazionali sono divenute un fenomeno globale".
Chiudo questa digressione, volta a suggerire un allargamento delle nostre riflessioni e discussioni italiane, volta cioè a dare una percezione corretta di quel che accomuna e di quel che distingue le sfide, le prove cui sono sottoposte le compagini nazionali in Italia e variamente in Europa o, su scala e su basi molto diverse, negli Stati Uniti, protagonisti della più grande e ricca esperienza di costruzione democratica unitaria.
Naturalmente, noi abbiamo da fare come italiani il nostro esame di coscienza collettivo cogliendo l’occasione del centocinquantenario dell’Unità d’Italia. Possiamo farlo, non ignorando certo i modi concreti della nascita dello Stato unitario, le scelte che prevalsero nel confronto tra diverse visioni del percorso da seguire e dello sbocco cui tendere ; non ignorando, anzi approfondendo i termini di quell’aspra dialettica, ma senza ricondurre ai vizi d’origine della nostra unificazione statuale tutte le difficoltà successive dell’Italia unita così da approdare a conclusioni di sostanziale scetticismo sul suo futuro.
Le delusioni e frustrazioni che furono espresse anche da figure tra le maggiori del moto risorgimentale, e che operarono nel profondo dei sentimenti e degli atteggiamenti popolari, hanno sin dall’inizio costituito un problema da affrontare guardando avanti. Questo fu, io credo, l’apporto del meridionalismo che - con Giustino Fortunato, e grazie anche a illuminati uomini del Nord - si caratterizzò come grande cultura dell’unitarismo critico, impegnata a indicare la necessità di nuovi indirizzi nella politica generale dello Stato nazionale la cui unità veniva però riaffermata categoricamente nel suo valore storico.
Certo, la frattura più grave di cui il nostro Stato nazionale ha fin dall’inizio portato il segno e che ha finito per protrarsi - nonostante i tentativi, benché non del tutto privi di successo, messi in atto a più riprese - e quindi restando ancor oggi cruciale, è quella tra Nord e Sud. E ho già detto in quali termini essa ci si presenti ora e ci impegni più che mai. Ma altre fratture originarie si sono ricomposte : come quella tra Stato e Chiesa, tra il nuovo Stato, che anche con il contributo degli uomini del cattolicesimo liberale nel corso del Risorgimento era stato concepito, e la Chiesa spogliata, perdendo Roma, del potere temporale. E, come ho notato nella prima parte del mio intervento, molte altre prove, anche assai dure, sono state superate con successo dalla comunità nazionale.
Sono convinto che nell’"età della Costituente", negli anni decisivi, cioè, della ricostruzione, su basi repubblicane e democratiche, del nostro Stato unitario, venne recuperata "l’eredità del Risorgimento", dissoltasi - secondo il giudizio di Rosario Romeo - nelle "vicende della prima metà del Novecento, con le due guerre mondiali e l’avventura totalitaria". In effetti, la fine dell’epoca dei nazionalismi dilaganti e dei conflitti da essi scaturiti, consentì la riscoperta di quell’identificarsi dell’idea di Nazione con l’idea di libertà che aveva animato il moto risorgimentale. L’idea di Nazione, il senso della Patria, attorno ai quali nella prima metà del secolo scorso gli italiani si erano divisi ideologicamente e politicamente, divennero nuovamente unificanti facendo da tessuto connettivo dell’elaborazione della Carta Costituzionale.
C’è da chiedersi quanto, da alcuni decenni, questo patrimonio di valori unitari si sia venuto oscurando - anche nella formazione delle giovani generazioni - e come ciò abbia favorito il diffondersi di nuovi particolarismi, di nuovi motivi di frammentazione e di tensione nel tessuto della società e della vita pubblica nazionale. E non possiamo dunque sottovalutare i rischi che ne sono derivati e che ci si presentano oggi, alla vigilia del centocinquantesimo anniversario dell’Unità.
E’ indispensabile, ritengo, un nuovo impegno condiviso per suscitare una ben maggiore consapevolezza storica del nostro essere nazione e per irrobustire la coscienza nazionale unitaria degli italiani. Dobbiamo innanzitutto - torno a sottolinearlo - attingere a una ricerca storiografica che ha dato, fino a tempi recenti, frutti copiosi e risultati di alto livello : come il fondamentale studio dedicato da Rosario Romeo a Cavour e al suo tempo. Uno studio dal quale emerge il ruolo preminente e innegabilmente decisivo dello statista piemontese, guidato dalla "convinzione che esistesse una sola nazione italiana e che essa avesse diritto a una propria esistenza politica" ; il ruolo decisivo di quel Cavour grazie al quale, al Congresso di Parigi del 1856, per la prima volta nella storia uno Stato italiano aveva "pensato a tutta l’Italia" e "parlato in nome dell’Italia". Nello stesso tempo, è emersa ad opera degli studiosi tutta la ricchezza del processo unitario e degli apporti che ad esso vennero dai rappresentanti più alti di concezioni pur così diverse del movimento per l’Unità, come Cavour, Mazzini, Cattaneo, Garibaldi, che concorsero, dando vita all’Italia unita, al maggior fatto nuovo nell’Europa di quel tempo.
Ebbene, è pensabile oggi un forte impegno per riproporre le acquisizioni della nostra cultura storica, relative a quel che hanno rappresentato il Risorgimento e la sua conclusione nella storia d’Italia e d’Europa? E per collegarvi una riflessione matura su tappe essenziali del lungo percorso successivo, fino alla rigenerazione unitaria espressasi nei valori comuni posti a base della Costituzione repubblicana? Dovrebbe essere questo il programma da svolgere di qui al 2011: un impegno che vogliamo considerare pensabile e possibile, anche perché ci sono nuove e stringenti ragioni per condividerlo.
Questo esigono le incompiutezze dell’opera di edificazione dello Stato unitario, prima, e dello Stato repubblicano disegnato dai Costituenti, dopo, e le nuove sfide al cui superamento è legato il nostro sviluppo nazionale, ed è nello stesso tempo legato il nostro apporto al rilancio di un’Europa riconosciuta e assertiva nel mondo che è cambiato e che cambia. Non c’è bisogno che dica a voi quale sforzo e contributo si richieda al mondo della cultura e alle sue istituzioni. Ma l’impegno condiviso di cui parlo implica una svolta da parte dell’insieme delle classi dirigenti, un autentico scatto di consapevolezza e di volontà in modo particolare da parte delle forze che hanno, o possono assumere, responsabilità nella sfera della politica.
Spero ci si risparmi il banale fraintendimento del vedere sempre in agguato l’intento di un appello all’abbraccio impossibile, alla cessazione del conflitto, fisiologico in ogni democrazia, tra istanze politiche e sociali divergenti. E’ tempo che ci si liberi da simili spettri e da faziosità meschine, per guardare all’orizzonte più largo del futuro della Nazione italiana, per elevare al livello di fondamentali valori e interessi comuni il fare politica e l’operare nelle istituzioni.
* Fonte: Sito della Presidenza della Repubblica
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
"PUBBLICITA’ PROGRESSO": L’ITALIA E LA FORZA DI UN MARCHIO REGISTRATO!!!
Cara Italia mai nata
di Ermanno Rea(il manifesto,29.05.201)
Ho letto con grande attenzione l’intervento di Giorgio Ruffolo pubblicato dal manifesto (mercoledì 26 maggio) sotto il titolo «Federalismo, un patto tra Nord e Sud» e desidero, per quel poco che possano valere le mie parole, spenderne un po’ a favore dell’ipotesi avanzata dall’illustre economista e uomo politico a giudizio del quale il futuro dell’Italia potrebb’essere anche, o meglio forse, quello di suddividersi in alcune (poche) macro-regioni federate tra loro ma dotate di grande autonomia.
Ruffolo avanza la sua proposta senza alcuna iattanza o sicumera, non pretende affatto di avere in tasca la ricetta utile a salvare l’Italia dalle tempeste che la vanno squassando ormai da tempo immemorabile (fino a rendere fumosa ogni speranza di riassetto virtuoso soprattutto sotto il profilo economico, in un tempo ragionevolmente breve). No, egli si limita a richiamare l’attenzione generale su una possibilità che merita quanto meno di essere discussa, non fosse altro che per guardare meglio dentro noi stessi e per comprendere quanto gravi siano le ferite presenti sul corpo del paese e come sia impensabile che la disunità italiana possa continuare a produrre mostri, senza che vengano adottati rimedi radicali. Rimedi capaci di rivoluzionare lo stesso modo di pensare e di essere dei cittadini e soprattutto delle classi dirigenti sia al Nord che al Sud.
Imprevedibilmente, la sortita di Ruffolo (vedi il suo bel libro Un paese troppo lungo, pubblicato da Einaudi) ha ricevuto però un’accoglienza improntata a una certa sufficienza, nella convinzione che ogni discorso federalistico sarebbe nient’altro che un modo per consegnarsi nelle mani di Bossi .
Come Ruffolo, anch’io ritengo che le cose non stiano così, e non soltanto perché un pensiero federalista è presente in tutta la storia del Risorgimento, sostenuto con spirito patriottico da illustri intellettuali che non possono certamente essere annoverati tra i padri ispiratori dell’attuale leader leghista, tipico figlio di nessuno dal punto di vista politico e culturale. Ma perché non riesco a intravedere alternative diverse dal divorzio a un matrimonio così manifestamente andato in frantumi.
Inutile bendarsi gli occhi: dal punto di vista statuale l’Italia non esiste; non è mai nata. Il divario Nord/Sud, così come lo abbiamo costruito pazientemente, un po’ alla volta, in maniera deliberata e consapevole lungo centocinquant’anni di storia, non ha uguali in tutto il mondo, fa dell’Italia un caso unico nella sua anomalia socio-economica con riflessi perfino di natura neurologica (come negare che ormai la "faglia" attraversa la nostra stessa psicologia?).
Semmai c’è da apprezzare lo sforzo di Ruffolo nel formulare una proposta che, pur smontando l’idea di Stato, salva e rafforza quella di Nazione, secondo una distinzione che fu particolarmente coltivata a metà dell’Ottocento da Bertrando Spaventa, esponente di punta di quel neo-hegelismo napoletano (Bertrando e Silvio Spaventa, Francesco De Sanctis, Luigi Settembrini, Vittorio Imbriani...) che incarnò nel secolo XIX l’ideale unitario come organizzazione organica e rigidamente integrata di un popolo. Nello Stato, ebbe a dire Bertrando Spaventa, «la coscienza nazionale sale e si perfeziona a coscienza politica».
Non ricordo a caso la figura di questo pensatore ingiustamente depennato dai libri di scuola. Se lo faccio è soprattutto per ricordare da quale accademia e da quale milizia provengono tanti di noi in quanto meridionali convinti del valore salvifico dell’ideale unitario, di uno Stato italiano forte, coeso e soprattutto affrancato dalla tutela di santa romana Chiesa. Come predicava Bertrando Spaventa.
Per la verità il buon filosofo diceva di più. Sosteneva che la figura del cittadino responsabile era stata inventata dall’Italia, dalla cultura dell’Umanesimo e del Rinascimento, ma che essa era stata subito messa in ceppi dal Sant’Uffizio che non aveva tardato a trasformare il suddetto cittadino responsabile in suddito, perfetto figlio della Controriforma.
Tutto questo vuole dire che oggi, accettando di discutere di federalismo e di macro-regioni, stiamo smentendo noi stessi e i nostri maestri, stiamo facendo commercio dei nostri ideali? Non credo. Stiamo soltanto prendendo atto di un fallimento epocale, ci stiamo semplicemente interrogando se non sia possibile pervenire agli stessi risultati progettati un tempo attraverso una strada sicuramente più tortuosa e insidiosa, ma non per questo senza sbocchi e tassativamente perdente come l’ha dichiarata Eugenio Scalfari in un suo articolo (la Repubblica del 16 maggio scorso).
In ogni caso, coloro che si dichiarano indisponibili a ogni discorso sul federalismo e le macro-regioni dovrebbero quanto meno spiegarci quale possa essere oggi un rimedio credibile alla situazione di malessere, di sfascio e di spaccatura in cui versa l’Italia; soprattutto, dovrebbero spiegarci se siamo ancora in tempo a fare quello che non è stato fatto in passato, e cioè realizzare una unificazione del paese, oltre che di natura amministrativa, anche di tipo economico e sociale. Il marcio infatti è tutto qui. Personalmente ho il torto di pensare che ormai sia troppo tardi per correre ai ripari. Obbiettivamente e anche soggettivamente, nel senso che ritengo difficile orientare consolidati modi di pensare e di agire in direzioni opposte a quelle del passato.
L’Italia che si unisce lo fa infatti precostituendo il proprio fallimento di cui tutti oggi patiamo l’insopportabile peso. Tradizionalismo e arretratezza tarpano le ali a tutti: al Sud, dove prospera il latifondo e dove arcaici rapporti di proprietà e di produzione condannano le popolazioni agricole a una povertà senza scampo (a fronte dell’illimitata ricchezza dei proprietari terrieri assenteisti); al Nord, dove una miope borghesia produttiva non sa guardare oltre il proprio ombelico, senza riuscire a capire che l’unificazione l’ha investita di un grande ruolo: farsi promotrice dello sviluppo generale di tutta la nazione.
Sia concessa anche a me una illuminante citazione di Gramsci. «La egemonia del Nord sarebbe stata ’normale’ e storicamente benefica se avesse avuto la capacità di ampliare con un certo ritmo i suoi quadri per incorporare sempre nuove zone economiche assimilate. Sarebbe stata allora questa egemonia l’espressione di una lotta tra il vecchio e il nuovo, tra il progressivo e l’arretrato, tra il più produttivo e il meno produttivo; si sarebbe avuta una rivoluzione economica nazionale (...) e al contrasto sarebbe successa una superiore unità. Ma invece non fu così...».
La citazione è curiosa. Innanzi tutto per lo spirito che la ispira, squisitamente liberistico. Per Gramsci la borghesia produttiva del Nord va messa sotto accusa per la sua incapacità di guadagnare al capitalismo moderno nuove aree, si potrebbe dire per scarsa fiducia in se stessa e nel proprio verbo. La diresti l’opinione di un protestante.
Ma, detto questo, come negare che il passo è di rara lucidità e fa comprendere quanto l’unificazione italiana, così priva di progetti e ambizioni, appaia sin da principio destinata a produrre nient’altro che mostri? Che infatti non tardano ad arrivare, attraverso il congelamento della già debolissima economia meridionale , colpita negli anni Ottanta dell’800 da una grave crisi agricola internazionale che la mette completamente alla mercè del Nord.
A partire da quel momento, come spiega lo storico Francesco Barbagallo in un suo corposo studio intitolato Stato, Parlamento e lotte politico-sociali nel Mezzogiorno, il divario tra Nord e Sud «non cesserà più di accrescersi: allo sviluppo industriale del Nord si accompagnerà il sottosviluppo economico e sociale del Sud in un rapporto di stretta dipendenza destinato a perpetuarsi».
E’ tempo di concludere. Lo farò con una semplice domanda. E’ davvero impensabile che il Mezzogiorno non possa trovare dentro di sé quelle risorse di dignità, di energia e anche d’immaginazione in grado di salvarlo, sia pure in un tempo non breve e tra mille sacrifici, dal baratro nel quale è precipitato? In ogni caso, chi ha meglio da proporre si faccia avanti.
Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur (Tito Livio)
Mentre a Roma si delibera, Sagunto viene espugnata.
Centro Studi Teologici di Milano
"DUM ROMAE CONSULITUR, TOTA ITALIA ESPUGNATUR"!
mentre il Quirinale si consulta, l’Italia viene espugnata... con tutto il rispetto per il Signor Presidente in carica, chissà perchè dobbiamo avere sempre presidenti ottuo o nonuagenari, che mentre si girano da una parte lentamente, gli altri svelti gli fregano pure la camicia senza togliergli manco la giacca.... mah? poi dicono "largo ai giovani!".... infatti "largo!" cioè SCIO’! via! aria!.... la gerontocrazia nello Stato come nella Chiesa vaticana, non muore mai, si rigenera sempre vecchia e sempre uguale a se stessa... via un ottantenne arriva l’altro...
UN QUIRINALE COME IL PIO ALBERGO TRIVULZIO?... è GARANZIA di INTRALLAZZO E SCORRIBANDE LIBERE!
L’ITALIA sta diventando il luogo della ruberia impunita (tutti a dare solidarietà a ladri, inquisiti, filomafiosi, amici di ladri, nipoti di presunti zii cardinali e intrallazzatori o faccendieri di ogni risma....e chi più ne ha più ne metta...) poi si domandano perchè abbiamo cresciuto una gioventù di ragazzi violenti, senza etica sociale, prepotenti, falsi e annoiati stupratori smutandati... ?.... branco di imbecilli televisivi da Grande Fratello reale (caro all’epoca berlusconiana) W la BANDIERA dunque! (che Bossi voleva mettere al Cesso...) avanti con i discorsi di retorica patria! ...mentre ci rubano anche l’ultima speranza e dignità...italiana..
W LA BANDIERA e W LA CORRUZIONE (impunita)
La sete di verità
di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 14/2/2010)
Non credo che gli studenti dell’Aquila chiedano menzogne e illusioni, quando gridano a Bertolaso e alla politica, ai magistrati e ai giornali: «Diteci che non è vero!». In realtà aspirano a quel che nella giustizia è essenziale. Esigono verdetti, ma ricordano che i processi si fanno innanzitutto per tutelare l’innocente. Chi non s’è macchiato di reati vuol sapere che non pagherà per altri in tribunale, che la colpa di alcuni non si farà collettiva. Solo se esistono responsabilità individuali anziché collettive la politica non perde senso, il bene cui si tiene non è cenere interrata. Quel che viene rifiutato è una cosa pubblica ridotta lo dicono gli indagati nell’affare Bertolaso a sistema gelatinoso, a una cosca che non tollera intrusioni, controlli. L’allarme è grande perché quel che vacilla è la ragion d’essere più antica della politica: la protezione dei cittadini inermi dai disastri.
Per questo lo scandalo della Protezione civile, colmo di simboli primordiali, scotta tanto. Per questo urge sapere presto chi ha colpe, chi no. Il potere dello Stato, in fondo, esiste per difendere i cittadini dalla paura, dai pericoli della natura, dalle aggressioni belliche. È chiamato Leviatano perché ha questo potere di vita e di morte, ma se protegge male non è Leviatano. Con le proprie mani porterà la propria testa alla ghigliottina. Quando decapitarono i monarchi Goethe, che non amava le agitazioni rivoluzionarie, scrisse: «Fossero stati veri re, non sarebbero stati spazzati via come con una scopa». Ma soprattutto vogliono sapere, gli studenti, che non è vero quel che gli studiosi dicono da anni e che i giudici per le indagini preliminari a Firenze ripetono quasi testualmente.
Che «viviamo una disarmante esperienza del peggio», scriveva il rapporto del Censis del 2007, aggiungendo che la nostra non era una società «ma una poltiglia cui si potrebbe sostituire il termine di mucillagine»: un «insieme inconcludente di elementi individuali e di ritagli personali tenuti insieme da un sociale di bassa lega».
Nell’ordinanza del gip, il servizio pubblico e la Protezione civile sono descritti dagli stessi indagati con vocaboli simili: un sistema gelatinoso, fatto di gente che «ruba tutto il rubabile», che confonde pubblico e privato, che in nome dell’efficienza cerca soldi e favori per sé. Un indagato dice, accennando ai lavori per il G8 della Maddalena: «C’abbiamo la patente per uccidere, cioè possiamo piglià tutto quello che ci pare». Due imprenditori sprofondano nella sguaiataggine, nei minuti stessi in cui la terra abruzzese trema. Esordisce al telefono tale Gagliardi: «Qui bisogna partire in quarta subito, non è che c’è un terremoto al giorno». Il collega Piscitelli dice che lo sa. E ride. Al che Gagliardi: «... (lo dico ) così per dire per carità... poveracci». Piscitelli: «Va buò ciao». Gagliardi: «O no?». Piscitelli: «Eh certo... io ridevo stamattina alle tre e mezzo dentro al letto». Gagliardi: «Io pure...». Diteci che non è vero è domanda di verità, è non rassegnazione al salmo 14: «Tutti sono corrotti; più nessuno fa il bene, neppure uno».
Bertolaso e gli uomini del suo dipartimento avranno modo di difendersi, distinguendo tra vero e falso. Comunque sono già ora chiamati a condotte probe: in particolare Bertolaso, perché chi presiede un’istituzione è responsabile dei propri uomini, non può degradarli a mele marce tirandosi fuori. È solo indagato, ma l’opacità estrema della Protezione civile fa tutt’uno con l’opacità del modo berlusconiano di governare. Egli ha il peso, decisivo, che Carl Schmitt attribuisce a chi ha accesso al Leviatano. È il potere dell’anticamera del potente, «del corridoio che conduce alla sua anima. Non esiste nessun potere senza questa anticamera e senza questo corridoio» (Schmitt, Dialogo sul Potere, Il Melangolo 1990).
Il corridoio non è di per sé malefico, ma in Italia è oggi colmo di insidie: tanta è la gelatina che regna indisturbata ai vertici. Nel caso specifico, il potere indiretto di chi sta in anticamera diventa speculare a quello diretto, tende a farsi anch’esso assoluto, a non rispondere a autorità superiori, a considerare i magistrati come «dipendenti pubblici» da irreggimentare perché non eletti (l’espressione è del presidente del Consiglio). Chi oggi è in simili corridoi rischia di diventare parte di un preciso disegno: disegno che distrugge la politica, tramutando la cosa pubblica in privata. Che ostentatamente governa a partire dal proprio domicilio, trasformando Palazzo Grazioli in succedaneo di Palazzo Chigi. Che estende i territori italiani sottratti alla legge. Alle regioni ampiamente controllate dalla mafia, s’aggiungono ambiti sempre più vasti, legalmente svincolati dall’imperio della legge. È inevitabile, quando l’emergenza si eternizza e si espande smisuratamente, comprendendo settori per nulla emergenziali. L’immensa Protezione civile si accentra a Palazzo Grazioli ed è messa in condizione (soprattutto se diverrà società per azioni) di eludere la rule of law. Si politicizza e si privatizza al massimo, simultaneamente.
Bertolaso è a un bivio. Avendo dimostrato non comuni capacità di proteggere i cittadini, può prendere le distanze e salvare un’opera. Nei giorni scorsi ha detto, veemente: «Sono pronto a dare la vita per convincere gli italiani che non li ho ingannati». Non gli si chiede tanto. Si spera però che non si lasci contaminare. Proprio perché possiede un’aura di Medico-senza-frontiere, Bertolaso ha molto da perdere, dalla contiguità con la gelatina di cui è fatto Palazzo Grazioli. Se ha errato, il suo errore sarà giudicato immorale, e l’immorale distingue perfettamente il bene dal male. Solo dimettendosi Bertolaso eviterà che il corridoio verso il potente diventi, come nelle parole di Schmitt, una letale «scala di servizio».
Possono essere due, i motivi di una dimissione. O si perde la fiducia dei vertici, o la richiesta nasce nella coscienza. È difficilmente pensabile che Bertolaso non abbia orecchie per questa seconda voce, vedendo la degenerazione dell’opera che dirige da anni. Un aiuto autentico dall’alto non gli verrà, perché Berlusconi non gli somiglia: più che un immorale, lui è un a-morale. Non è Nixon pienamente conscio del male commesso che si confessa, nel 1977, al giornalista David Frost. Il film di Ron Howard lo descrive bene: la colpa lo corrode. Non così Berlusconi, ignaro di corrosioni. Egli non sa cosa sia la morale, e neppure cosa sia l’ideologia. Sventolerà l’una o l’altra, se servirà per deturpare istituzioni e contropoteri. Se non fosse a-morale non avrebbe osannato agli inizi di Mani Pulite, scatenando contro gli indagati il fuoco delle sue televisioni (lo ricordò prima di morire il tesoriere indagato della Dc, Severino Citaristi).
L’argomento che usano sia Berlusconi che Bertolaso è l’efficienza. Dice il primo: «Se un’opera è fatta bene al cento per cento e poi c’è l’1 per cento discutibile, quell’1 va messo da parte». Non è chiaro chi decida le percentuali, tuttavia. E come possa ben operare, alla lunga, una poltiglia dove si mescolano Grandi Eventi e disastri; spasso e dolore; show, morte e risate. La sindrome di impunità che regna nell’anticamera del potere, i costi maggiorati senza controllo, le imprese che si sbrigano male pur di lucrare sulla fretta: questo non è efficienza. Dalla corruzione non scaturisce efficienza.
In un editoriale sul Corriere del 30 gennaio, Sergio Romano dice una cosa assai giusta, su Blair, Sarkozy e Schröder. Denuncia la propensione a mescolare pubblico e privato, a edificare carriere «sull’immagine e sulla comunicazione piuttosto che sulla buona gestione della Cosa pubblica», e conclude: «Il giudizio politico non ha bisogno di scranni, parrucche e banco degli imputati, secondo le liturgie della giustizia (...). La vera punizione, molto più grave di una semplice sentenza, è la fine di una brillante carriera». Se giornalisti prestigiosi come lui dicessero le stesse cose sull’Italia di oggi, e l’avessero detta molti anni fa, forse gli studenti dell’Aquila si sentirebbero meno soli, meno scoraggiati, meno impotenti. Poveri magari, ma non poveracci.
Da uno studio presentato oggi alla Camera emerge un quadro desolante dei ragazzi tra i 18 e i 29 anni
Rom, sinti e romeni i meno graditi. Il profilo più estremo riguarda il 10 per cento e si espande online
Razzismo, quasi la metà dei giovani
chiusa agli stranieri o xenofoba
ROMA - Quasi la metà dei giovani italiani è razzista, diffidente nei confronti degli stranieri mentre solo il 40 per cento si dichiara "aperto" alle novità e alle nuove etnie che popolano il nostro Paese. E’ lo sconfortante ritratto offerto dall’indagine "Io e gli altri: i giovani italiani nel vortice dei cambiamenti" da cui emerge che il razzismo è un fenomeno tutt’altro che sradicato tra i ragazzi. Presentato oggi alla Camera, alla presenza del presidente, Gianfranco Fini, lo studio è promosso dalla Conferenza delle assemblee delle Regioni nell’ambito delle iniziative dell’Osservatorio della Camera sui fenomeni di xenofobia e razzismo, ed è stato realizzato da Swg su duemila giovani.
Chiusure e fobie. L’area tendenzialmente fobica e xenofoba è del 45,8 per cento, con diverse sfumature al suo interno. Lo studio indica tre agglomerati. Il primo è quello dei Romeno-rom-albanese fobici, pari al 15,3 per cento del totale degli interpellati, e manifesta la propria intolleranza soprattutto verso questi popoli. E’ l’unico gruppo la cui maggioranza (56 per cento) è costituita da donne. Il secondo riunisce soggetti con comportamenti improntati al razzismo. E’ il più esiguo, perché rappresenta il 10,7 per cento dei giovani, ma il più estremo, perché in sostanza rifiuta e manifesta fastidio per tutti, tranne europei e italiani. Ci sono poi gli xenofobi per elezione (20 per cento): non esprime forme di odio violente, quel che conta è che le altre etnie se ne stiano lontane, possibilmente fuori dall’Italia.
Aperture e tolleranze. La fetta di quanti hanno invece un atteggiamento aperto è del 39,6 per cento. All’interno si riconoscono gli inclusivi (19,4 per cento) con un’apertura totale e serena (55,3 per cento); i tolleranti (14,7 per cento), un po’ più freddi rispetto ai precedenti e gli aperturisti tiepidi (5,5 per cento), ossia giovani decisamente antirazzisti, ma con forme più caute e trattenute, minore interazione con le altre etnie e un riconoscimento più ridotto dell’amore omosessuale. Al centro lo studio posiziona i mixofobici (14,5 per cento), giovani che non sono del tutto proiettati verso la chiusura, ma neppure verso il suo opposto e che vivono un sentimento di fastidio verso ciò che li allontana dalla loro identità.
Rom, sinti e romeni i meno graditi. I giovani italiani tra i 18 e i 29 anni giudicano ’simpatici’ gli europei in genere con un voto pari a 8,2 su una scala da 1 a 10, gli italiani del Sud (7,8) e gli americani (7,7), mentre ritengono antipatici e da tenere a distanza soprattutto Rom e Sinti (4,1), romeni (5,0) e albanesi (5,2). Attraverso un’indagine è stato chiesto ai giovani di rispondere come si sarebbero comportati in determinate situazioni. Ecco le risposte.
Scegliere con chi andare a cena. I giovani hanno messo in testa le persone disagiate economicamente, giudicano "accettabile" una cena con un ebreo, un omosessuale o con un extra-comunitario. Accettato, ma con freddezza un musulmano. Impensabile pasteggiare con un tossicodipendente o un rom.
Il vicino di casa. Verrebbero accettati tranquillamente omosessuali, ebrei e poveri. No invece a zingari e a chi utilizza sostanze stupefacenti e zingari.
Se un figlio si fidanza. I giovani italiani riterrebbero accettabile avere un figlio che ha un partner o una partner di religione ebraica, ma anche qualcuno con evidenti disagi economici. Meglio comunque se a ritrovarsi in questa situazione è il maschio: per la figlia femmina, infatti, c’è qualche resistenza in più. Scarso entusiasmo se la coppia si formasse con un o una extra-comunitaria o con una persona musulmana. Assai più difficile convivere con l’omosessualità di un figlio. Ma l’incubo peggiore è la possibilità che uno dei propri figli faccia coppia con un tossicodipendente o un rom, situazione considerata inaccettabile.
Identikit del giovane razzista. Il profilo più estremo del razzismo tra i giovani, così come emerge dall’indagine presentata alla Camera, descrive una persona che ostenta superiorità e persistente bisogno di potenza. Ha atteggiamenti apertamente omofobici, spinte antisemitiche, convinzione dell’inferiorità delle donne. E non accetta nessuna razza o etnia diversa dalla propria. Un profilo che riguarda il 10,7 per cento dei giovani, ma estremamente preoccupante. L’indagine definisce questa tipologia come quella dei soggetti "improntati al razzismo".
Un clan che si espande online. Questo clan, rileva la ricerca, si distingue non solo per l’intensità estremizzata delle proprie posizioni, ma anche per la sua capacità di produrre un vero e proprio modo di essere nella società, per la sua tendenza a essere una comunità, per quanto chiusa e ristretta. Si tratta di un agglomerato che sviluppa un forte senso di appartenenza, che ha trovato nella rete il proprio ambito di espressione e riconoscimento, e il proprio megafono. Questo clan ha, anche se per ora non in modo uniforme e unificato, una propria strategia di "espansione", per creare nuovi fan, per sviluppare e far crescere i propri adepti, di ingrossare le proprie fila.
Su Facebook oltre mille gruppi xenofobi. Dalla ricerca emerge inoltre che sono oltre un migliaio i gruppi razzisti e xenofobi che si trovano su Facebook. "Nel nostro studio sul razzismo e i giovani - ha spiegato il direttore di Swg, Enzo Risso, - abbiamo condotto un’indagine su Facebook, una sorta di censimento sui gruppi xenofobi, effettuato tra ottobre e novembre. Ne abbiamo contato un centinaio anti musulmani, 350 anti immigrati alcuni con punte di 7 mila iscritti, 400 anti terroni e napoletani e 300 anti zingari, anche qui con fino a 7mila iscritti". Risso ha spiegato che questa parte dell’indagine "non può essere considerata un censimento vero e proprio perché quella di internet è una realtà che varia continuamente, ma ha un valore indicativo".
* la Repubblica, 18 febbraio 2010