Se...
Se riuscirai a non perdere la testa quando tutti
la perdono intorno a te, dandone a te la colpa;
se riuscirai ad aver fede in te quando tutti dubitano,
e mettendo in conto anche il loro dubitare;
se riuscirai ad attendere senza stancarti nell’attesa,
se, calunniato, non perderai tempo con le calunnie,
o se, odiato, non ti farai prendere dall’odio,
senza apparir però troppo buono o troppo saggio;
se riuscirai a sognare senza che il sogno sia il padrone;
se riuscirai a pensare senza che pensare sia il tuo scopo,
se riuscirai ad affrontare il successo e l’insuccesso
trattando quei due impostori allo stesso modo
se riuscirai ad ascoltare la verità da espressa
distorta da furfanti per intrappolarvi gli ingenui,
o a veder crollare le cose per cui dai la tua vita
e a chinarti per rimetterle insieme con mezzi di ripiego;
se riuscirai ad ammucchiare tutte le tue vincite
e a giocartele in un sol colpo a testa-e-croce,
a perdere e a ricominciar tutto daccapo,
senza mai fiatare e dir nulla delle perdite;
se riuscirai a costringere cuore, nervi e muscoli,
benché sfiniti da un pezzo, a servire ai tuoi scopi,
e a tener duro quando niente più resta in te
tranne la volontà che ingiunge: "tieni duro!";
se riuscirai a parlare alle folle serbando le tue virtù,
o a passeggiar coi Re e non perdere il tuo fare ordinario;
se né i nemici o i cari amici riusciranno a colpirti,
se tutti contano per te, ma nessuno mai troppo;
se riuscirai a riempire l’attimo inesorabile
e a dar valore ad ognuno dei suoi sessanta secondi,
il mondo sarà tuo allora, con quanto contiene,
e - quel che è più, tu sarai un Uomo, ragazzo mio!
***
If...
If you can keep your head when all about you
Are losing theirs and blaming it on you;
If you can trust yourself when all men doubt you,
But make allowance for their doubting too;
If you can wait and not be tired by waiting,
Or being lied about, don’t deal in lies,
Or being hated, don’t give way to hating,
And yet don’t look too good, nor talk too wise:
If you can dream -- and not make dreams your master;
If you can think -- and not make thoughts your aim;
If you can meet with Triumph and Disaster
And treat those two imposters just the same;
If you can bear to hear the truth you’ve spoken
Twisted by knaves to make a trap for fools,
Or watch the things you gave your life to, broken,
And stoop and build ’em up with worn-out tools;
If you can make one heap of all your winnings
And risk it on one turn of pitch-and-toss,
And lose, and start again at your beginnings
And never breathe a word about your loss;
If you can force your heart and nerve and sinew
To serve your turn long after they are gone,
And so hold on when there is nothing in you
Except the Will which says to them: "Hold on!"
If you can talk with crowds and keep your virtue,
Or walk with kings -- nor lose the common touch,
If neither foes nor loving friends can hurt you,
If all men count with you, but none too much;
If you can fill the unforgiving minute
With sixty seconds’ worth of distance run --
Yours is the Earth and everything that’s in it,
And -- which is more -- you’ll be a Man, my son!
Sul tema, si cfr. anche INVICTUS, la poesia di Wiolliam Henley, ripresa nell’omonimo film di Clint Eastwood:
I due mondi DI RUDYARD KIPLING
Un autore capace di sognare in lingue conflittuali tra loro
Una serie di riedizioni e di letture critiche incrociano l’intramontabile scrittore: dal volume della Bur che riunisce le opere maggiori del Kipling indiano con una introduzione di Viola Papetti alla antologia titolata I figli dello Zodiaco, a cura di Ottavio Fatica per Adelphi ai due studi di Matteo Baraldi, uno dei quali dedicato ai ragazzi selvaggi, uscito da Quodlibet
di Silvia Albertazzi (il manifesto, 12.10.2008)
Se si stilasse una classifica degli autori di long-sellers, Rudyard Kipling senza dubbio si posizionerebbe ai primi posti. A scadenza quasi regolare la nostra editoria ripropone suoi titoli, ora in nuove traduzioni, ora in edizioni impreziosite da introduzioni di nomi illustri. Sembra quasi paradossale questa attenzione costante per uno scrittore sul cui capo permangono accuse di filo-imperialismo e che la maggior parte dei lettori ricorda soprattutto per i suoi pronunciamenti - in versi e in prosa - sulla necessità da parte dei bianchi di civilizzare le popolazioni di colore, di caricarsi, cioè, del «fardello dell’uomo bianco», secondo un’immagine che ha finito col divenire una sorta di slogan. Per comprendere l’interesse che Kipling continua a suscitare, e la sua anacronistica attualità, sarebbe sufficiente rifarsi alle parole di Salman Rushdie, un autore certo non sospettabile di simpatie neocolonialiste, per di più indiano, dunque appartenente a una di quelle terre che secondo Kipling i bianchi avevano la missione di «mondare».
Dall’autobiografia alle lettere
Scriveva, dunque, Rushdie quando ancora si proponeva come autore emergente di provata fede marxista: «ci sarà sempre molto in Kipling che farò fatica a perdonare; ma vi è anche una tale verità nelle sue storie che è impossibile ignorarle». E continuava spiegando che tale verità si trova nella sua pittura dell’India, la più autentica che si possa riscontrare nella letteratura occidentale, poiché «nessun autore occidentale ha conosciuto l’India come Kipling, ed è proprio la conoscenza del luogo, dei costumi e dei dettagli che dà alle sue storie un’autorità innegabile». Non per caso, quindi, è proprio sulla biografia dell’autore inglese (e, di riflesso, sulla sua frequentazione del mondo indiano) che insiste Viola Papetti nella introduzione a un volume appena uscito per i caratteri della Bur, che riunisce le opere maggiori del Kipling indiano: Kim, i Libri della giungla e un’ampia scelta di racconti, aggiornandone la figura attraverso il ricorso all’autobiografia e alle lettere. Opponendosi all’atteggiamento di quanti - la maggioranza non solo dei lettori, ma anche dei critici - hanno «rinunciato a tutto Kipling per gustare separatamente e in buona coscienza tanti Kipling minori, finalmente coerenti per trama e tono», Papetti, pur intitolando le proprie pagine «Kipling e la sua India», cerca di non tralasciare alcun aspetto della sua produzione, dedicando anche parecchio spazio, per esempio, alla poesia, che nel libro non è antologizzata. Ne risulta il ritratto di un autore inserito in una complessa realtà storica, puntualmente descritta dalla studiosa: un individuo che, pur avendo «una testa che alberga la differenza... e parla come colui che immaginativamente si nutre di due culture, ha il piede in due mondi. E sogna in due lingue diverse». Come spiegava Manganelli in un articolo apparso sul Corriere nel cinquantenario della morte di Kipling e a più riprese citato da Papetti, Kipling non sceglie tra le due realtà, perché, «il vero gioco, il vero personaggio non è l’inglese e non l’indiano, è la violenza dei loro rapporti».
Del resto, lo stesso Rushdie (autore che non compare nella bibliografia posta in calce all’introduzione del volume Bur), quasi un lustro prima dell’intuizione di Manganelli, aveva progettato un film dedicato a Kipling in cui, riprendendo lo stratagemma usato da Buñuel per Quell’oscuro oggetto del desiderio, si proponeva di utilizzare due attori per il ruolo dello scrittore: un indiano per Ruddy Baba, il frequentatore di bazaar, e un inglese per Kipling Sahib, l’imperialista. Questo aneddoto, raccontato da Rushdie in uno dei saggi raccolti in Patrie immaginarie, fu ripreso alcuni anni fa in un suo intervento su Kim da un giovane studioso, Matteo Baraldi, già apprezzato per il suo lavoro in ambito australiano. Ma neanche il volume in cui il saggio appariva (Il lama e il bambino, a cura di Giorgio Grilli e Emilio Varrà, Il Ponte Vecchio, 1999), compare nella bibliografia della raccolta Bur, pur trattandosi probabilmente dell’unico lavoro - insieme a un numero monografico della rivista «Hamelin» dell’aprile 2002 - che in Italia sia stato interamente dedicato a Kipling da un gruppo di giovani studiosi nell’ultimo decennio.
Peraltro, non c’è traccia, nella stessa bibliografia, di un ben più corposo saggio di Baraldi apparso quest’anno da Quodlibet, I bambini perduti. Il mito del ragazzo selvaggio da Kipling a Malouf, in cui l’autore si sofferma soprattutto sui Libri della giungla, e in particolare sulla figura di Mowgli. Certo, la prospettiva da cui Baraldi sceglie di partire è molto diversa da quella di Papetti. Da sempre interessato alla letteratura per l’infanzia, Matteo Baraldi sceglie l’epigrafe dell’autobiografia, «Datemi i primi sei anni di vita di un bambino e potete tenervi tutto il resto» quale punto di partenza per sviluppare l’indagine sull’influsso che i primi sei anni di vita trascorsi in India hanno avuto sulla produzione di Kipling. Mentre Viola Papetti è più interessata all’autore ragazzo, che ritorna in India a diciassette anni e si avvia a una carriera precoce di giornalista, Matteo Baraldi individua tracce del piccolo Ruddy Baba sia in Kim sia, soprattutto, in Mowgli, come si legge nei Bambini perduti, dove analizza il mito del feral child, e quel richiamo alla natura che va sotto il nome di sauvagerie. Non sfugge al Baraldi studioso di letterature postcoloniali come Rousseau, facendo conformare il suo Emile allo stereotipo del Buon Selvaggio, tracci una corrispondenza tra fanciullezza e popolazioni d’oltremare, stabilendo implicitamente la dicotomia selvaggio (colonizzato)/europeo (colonizzatore). Largo spazio è ovviamente dedicato nel libro a Victor, il bambino cresciuto con i lupi nella regione francese dell’Aveyron, e al tentativo (fallito) di civilizzarlo del dottor Itard, che Truffaut interpretò nel suo capolavoro Il ragazzo selvaggio.
Tra i feral children letterari, nel libro di Baraldi hanno un ruolo protagonista Mowgli e l’anonimo bambino selvaggio di Una vita immaginaria dell’australiano David Malouf, un autore che ha avuto in comune con Kipling almeno la scrittura del libretto per un’opera lirica, Baa Baa Black Sheep, in cui la trama del tristissimo racconto autobiografico kiplinghiano Bee Bee pecora nera si fonde con spunti tratti dai Libri della giungla. Soprattutto nel caso di Mowgli, Baraldi rivela molto opportunamente come il ragazzo kiplinghiano rappresenti non solo una figurazione mitica dell’infanzia e una esaltazione «orientalista» dello stato naturale indigeno, ma anche e soprattutto una manifestazione del rinato interesse europeo per il mito panico e della peculiare attenzione britannica per la formazione dell’Imperial boy, la cui caratteristica fondamentale è la pluckiness, un misto di incoscienza e spregio del pericolo largamente posseduto dal piccolo Mowgli.
Il cuore di tenebra africano
All’educazione e alle letture dell’Imperial boy (che Baden Powell, il fondatore dei boy scout, non esitava a identificare con la fetta più violenta della gioventù proletaria e sottoproletaria, gli hooligans) Baraldi dedica poi un bel saggio apparso nel volume Tenebre bianche. Immaginari coloniali fin de siècle (Diabasis 2008), di cui è co-curatore e autore insieme a Luca Acquarelli, Maria Chiara Gnocchi e Vincenzo Russo. I quattro studiosi - specialisti rispettivamente di visual studies e di letterature postcoloniali francofone, lusofone e anglofone - indagano sulle «inquietanti rifrazioni del Cuore di tenebra africano sulla cultura imperiale delle nazioni europee», esaminando le rappresentazioni letterarie e fotografiche che le potenze d’Europa piegano alla causa imperiale e decostruendone i dispositivi mitografici: ne viene fuori uno dei migliori lavori apparsi in Italia sulla cultura europea coloniale di fine ’800, l’unico che tenti quella lettura comparatistica e contrappuntistica raccomandata da Edward Said.
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KIPLING
Dieci varianti di una infinita gamma narrativa
di Francesca Lazzarato (il manifesto, 12.10.2008)
Nella prefazione a Mine Own People Henry James scrisse di Kipling, per il quale un tempo aveva previsto un futuro di grandezza letteraria, «ho perso questa speranza a mano a mano che l’ho visto passare sistematicamente dagli argomenti meno semplici ai più semplici; dagli anglo indiani agli indigeni, dagli indigeni ai soldati, dai soldati ai quadrupedi, dai quadrupedi ai pesci, e dai pesci alle macchine e alle eliche». Un giudizio durissimo e alquanto snob, quello dello scrittore americano, che viene tuttavia in mente quando si affronta la lettura dei Figli dello Zodiaco, una recente antologia curata da Ottavio Fatica (Adelphi, pp. 285, euro 219), in cui sono riuniti racconti di diversa provenienza scritti nel periodo che va dal 1890 al 1902, gli anni in cui Kipling pubblicò buona parte delle sue opere più importanti e più amate dal pubblico. Nello sprezzante elenco di James sono infatti inclusi tutti i temi e i personaggi di queste dieci storie magistrali, che spesso rimandano a testi più ampi e più noti, elaborati e pubblicati dall’autore nel medesimo periodo.
I soldati, gli indigeni, gli ufficiali, che incontriamo in racconti come «Sulla collina di Greenhow» o «La guerra dei Sahib», sono indubbiamente gli stessi della vasta produzione dedicata al mondo anglo-indiano e alle truppe che la «Vedova di Windsor /con la sua maledetta corona d’oro in testa» mandava a fare la guerra «dai tropici al polo», come ci ricordano le celebri Barrack-Room Ballads in cui sono incluse «Gunga Din» e «Il fardello dell’uomo bianco». Soldati che combattono anche da morti, fantasmi ancora fedeli allo spirito di corpo come in «La legione perduta», anche loro obbedienti a una legge che per Mowgli e i suoi compagni è quella del branco, per l’esercito quella della disciplina e della tradizione, per i popoli quella di una civilization che impone ordine e progresso e trova il suo cemento nell’azione, nel fare, nella concretezza del lavoro «grande educatore e consolatore dell’uomo».
Quanto agli animali, come il Coccodrillo, il Toro o la Tigre dei «Costruttori di ponti», oppure come le fantastiche figure celesti di una vera e propria fiaba per adulti qual è «I figli dello zodiaco» fanno inevitabilmente pensare alle meravigliose Storie proprio così e ovviamente ai Libri della Giungla di cui troviamo qui una sorta di affascinante anticipazione, uscita quasi contemporaneamente a «I fratelli di Mowgli», primo racconto del ciclo dedicato al ragazzo lupo. Curiosamente, nel racconto titolato «Nel rukh» si comincia dalla fine: il personaggio ci appare già grande, innamorato e infine padre di un «bimbetto nudo, di pelle scura» sorvegliato da un lupo grigio. Come nella «Corsa di primavera», che concluderà I libri della giungla, Mowgli non è più un fanciullo, ma un adulto che tuttavia conserva la sua miracolosa qualità di creatura a metà tra il mondo umano e quello mitico e semi-divino degli animali. Nella categoria «pesci», infine, si possono collocare i mostri marini strappati da un sisma al fondo dell’oceano e contemplati dagli occhi stupefatti eppure cinici di tre giornalisti nel racconto «Un dato di fatto», in cui l’autore rielaborò, oltre alla sua passione per il mare, l’incontro improvviso con una balena durante una traversata atlantica. Tra prodigi della tecnica (il telefono senza fili di cui si parla in «Via etere»), cieche creature degli abissi, soldati che parlano il dialetto dello Yorkshire, spettri guerrieri che infestano le valli afghane, sikh arruolati nei reggimenti indigeni, bestie favolose, l’antologia si propone quindi come un riuscito riepilogo dell’infinita capacità di Kipling di «cambiare avventura», come scrive Fatica nella postfazione, nonché registro linguistico, e di esplorare ogni possibilità narrativa restando sempre se stesso e costruendo mattone dopo mattone una propria idea del mondo, che andrà infine a infrangersi contro l’immensa tragedia della prima guerra mondiale.
CURIOSITÀ
Passaggi di una biografia a lungo esplorata
Tra le curiosità che popolano la peraltro nota biografia di Kipling, la prima riguarda la scelta del suo nome, che venne preso dal lago omonimo situato nello Staffordshire, dove i suoi genitori si erano conosciuti e corteggiati. All’età di sei anni Kipling venne mandato in Inghilterra insieme alla sorella, dove cadde sotto le grinfie di una istitutrice i cui maltrattamenti furono determinanti nel segnare le sue opere intrise simpatia per i bambini. Esordì come editore per un piccolo giornale locale, il «Civil & Military Gazette», quanto alla sua vita sociale venne iniziato come massone nella Loggia "Hope and Perseverance" di Lahore. Kipling se ne andò nel 1936 a causa di una emorragia cerebrale, poco dopo avere avuto la falsa notizia della sua morte, che così commentò: «Ho appena appreso di essere morto dal vostro giornale: non dimenticate di cancellarmi dalla vostra lista di abbonati.»
letteratura
I racconti ora riuniti dell’autore del «Libro della giungla» rivelano un interesse per fiabe misteriose. Sull’autore ha pesato a lungo un interdetto legato alla politica, il colonialismo, quando invece nelle sue pagine si dimostra tutt’altro che incline alla propaganda
Kipling tra mito ed esoterismo
DI ALESSANDRO ZACCURI (Avvenire, 13.09.2008)
Nascere adulti è il privilegio degli eroi. La loro infanzia non ci interesserebbe, se le loro imprese non giustificassero e quasi imponessero il viaggio a ritroso nel tempo, fino al momento al momento della verità in cui l’eroe si ritrova, solo, davanti a se stesso. Il romanzo di formazione, in fondo, non avrebbe senso se non sapessimo che il personaggio di cui ci stiamo minutamente occupando è destinato a una qualche grandezza. Anche Mowgli, il proverbiale ragazzo-lupo protagonista dei Libri della giungla di Rudyard Kipling nasce adulto per poi regredire all’infanzia.
Il primo racconto in cui appare, «Nel rukh», è datato 1892, e viene scritto pressoché contemporaneamente a «I fratelli di Mowgli», che sarà poi il primo capitolo del primo Jungle Book. La differenza sta nel fatto che la prima storia ci presenta l’eroe al termine del proprio percorso, pronto a mettersi al servizio dell’Impero britannico e ad accasarsi, senza per questo rinunciare alla compagnia delle belve al cui fianco è cresciuto. Ha imparato a correre prima di camminare e porta sul corpo, sulle gambe e sulla braccia, i segni di questo apprendistato selvaggio. Ma nel frattempo ha imparato a parlare, a essere astuto nel linguaggio non meno che nell’azione. Se soltanto volesse, potrebbe essere lui a raccontare la propria storia.
«Nel rukh» (ossia «nella riserva») è uno dei dieci testi del periodo 1890-1912 che l’anglista Ottavio Fatica ha scelto per I figli dello Zodiaco, il volume che viene ad aggiungersi alla sua impresa, ormai decennale, di una nuova traduzione italiana dell’opera di Kipling, nella prospettiva di una diversa e più circostanziata collocazione critica di un autore su cui, per troppo tempo, ha pesato un interdetto di natura politica o, meglio, politicamente corretta.
Kipling cantore del colonialismo? Basterebbe leggere un altro dei racconti presenti in questa raccolta, «La guerra dei Sahib», per rendersi conto che, anche quando costeggia i terreni della propaganda (la vicenda è ambientata nel contesto della guerra anglo-boera), Kipling è interessato anzitutto all’esplorazione delle psicologie e dei sentimenti, in particolare di quelli maschili. Ne escono ritratti memorabili, come i soldati di «Sulla collina di Greenhow» o «Sciupafemmine», ma anche il farmacista Shaynor, che senza accorgersene riscrive, in preda a una misteriosa ispirazione, una celebre poesia di Keats (il racconto si intitola «Via etere», ma l’originale Wireless suona più attuale e, per molti aspetti, più inquietante).
Spicca, su tutti, il modesto contabile Charlie Mears, che ne «La storia più bella del mondo» cerca disperatamente di soddisfare le proprie ambizioni letterarie, ma non riesce a rendersi conto che dalla sua memoria stanno riaffiorando i reperti prodigiosi di epiche esistenze passate.
Più ancora dei racconti presenti nelle precedenti raccolte curate da Fatica per Adelphi (in particolare Loro del 2001 e La Città della tremenda notte, apparso nel 2007), dalle pagine de I figli dello Zodiaco emerge infatti con insistenza l’interesse di Kipling - che del resto fu massone dichiarato - per i temi del mito nella sua accezione più esoterica. La misteriosa fiaba eponima rappresenta addirittura un unicum nella sua produzione: un serissimo gioco combinatorio giocato con il bestiario dell’astrologia, in perfetta coerenza con il politeismo presente, in modo tutt’altro che velato, anche ne «I costruttori di ponti».
Ma il Kipling migliore va forse ricercato altrove, per esempio nello smaliziato reporter di «Un dato di fatto», testimone di una straordinaria apparizione marina e perfettamente consapevole che, già alla fine del Novecento, il sistema dei media non è abbastanza grande per accogliere e restituire la verità. Un compito che spetta, semmai, alla narrativa. Per essere più precisi, alla letteratura.
Rudyard Kipling
I FIGLI DELLO ZODIACO
Adelphi. Pagine 287. Euro 19,00