LA MERDA
di Hans Magnus Enzerberger *
Sempre ne sento parlare
come se avesse colpa di tutto.
Ma guardate come mite e modesta
ella si asside tra noi!
Perché insozziamo
il suo buon nome
e lo applichiamo
al presidente USA
alla polizia, alla guerra,
e al capitalismo?
Com’è peritura,
e com’è duraturo
ciò che chiamiamo col suo nome!
Lei, l’arrendevole,
ci viene sulla punta della lingua
per designare gli sfruttatori.
Lei che abbiamo espressa,
dovrebbe ora esprimere
anche il nostro furore?
Non ci ha forse recato sollievo?
Di morbida consistenza
e particolarmente non violenta
fra tutte le opere umane
ella è forse la più pacifica.
Ma che male ci ha fatto?
* da Gedichte 1955-1970, Surkamp 1971 (In "Quaderni Piacentini", n. 46, 1972).
La Merda d’artista
Il corpo magico dell’artista
Il 12 agosto 1961, in occasione di una mostra alla Galleria Pescetto di Albisola Marina, Piero Manzoni presenta per la prima volta in pubblico le scatolette di Merda d’artista ("contenuto netto gr.30, conservata al naturale, prodotta ed inscatolata nel maggio 1961"). Il prezzo fissato dall’artista per le 90 scatolette (rigorosamente numerate) corrispondeva al valore corrente dell’oro.
Le scatolette di Manzoni hanno numerosi precedenti nell’arte del Novecento, dall’orinatoio di Duchamp ("Fontaine", 1917) alle coprolalie surrealiste. Salvador Dalì, Georges Bataille, e prima di tutti Alfred Jarry con "Ubu Roi" (1896), avevano dato dignità letteraria alla parola "merde". L’associazione tra analità e opera d’arte (e tra oro e feci) è poi un tema ricorrente della letteratura psicanalitica che Manzoni può avere recepito attraverso la lettura di Jung.
La novità di Piero Manzoni è avere collegato queste suggestioni ad una riflessione sul ruolo dell’artista di fronte all’autoreferenzialità dell’opera d’arte.
La chiusura tautologica dell’Achrome (una semplice superficie bianca che non significa altro se non se stessa) e l’invisibilità della Linea, sigillata nel suo contenitore, generano la speculare autoreferenzialità del corpo dell’artista.
Alla domanda che la gallerista Iris Clert rivolse a Piero Manzoni, su quale fosse il suo apporto ai Corpi d’aria, Manzoni rispose: "il fiato d’artista, signora". Nascono così la Merda d’artista (venduta a peso d’oro), il Fiato d’artista (i palloncini gonfiati dall’alito vitale di Manzoni) e il progetto del Sangue d’artista. [...]
Il soffio magico di Piero Manzoni
Dagli «Achromes» ai «Corpi d’aria» alle celebri «Merde», una mostra allestita fino al 24 settembre al Madre di Napoli inserisce l’opera dell’artista, morto non ancora trentenne nel 1963, nel contesto di una stagione straordinaria
di Elena Del Drago (il manifesto, 31.05.2007)
A Piero Manzoni sono bastati sette anni di straordinaria attività per ripensare il movimento dell’Informale e quella concezione eroica dell’artista che aveva dominato il secondo dopoguerra, sette anni di progressive intuizioni, di ragionati exploits e di sostanziali sperimentazioni, raccontati nella grande antologica che, curata da Germano Celant, segna l’estate del Madre, il museo d’arte contemporanea nel cuore popolare di Napoli. Duecento opere, alcune delle quali mai esposte evocano, a dieci anni dall’ultima antologica, il breve percorso di Manzoni, morto non ancora trentenne nel 1963 per arresto cardiaco, in un confronto serrato con il contesto culturale italiano ed internazionale, senza il quale le sue ricerche, mutuate da Burri e Fontana e condivise con i protagonisti di una stagione culturale straordinaria, non sono comprensibili in tutta la loro portata. Dopo aver vissuto intensamente l’atmosfera milanese accanto ad artisti come Ettore Sordini, con il quale divideva lo studio, Baj e Ugo Mulas, Manzoni seppe infatti intrecciare rapporti stretti e divertiti con Yves Klein innanzitutto, con i confratelli del gruppo Zero, con Heinz Mach.
Scorrono così due esposizioni parallele, quella che srotola anno dopo anno la produzione di Manzoni e l’altra che narra gli avvenimenti più importanti dello stesso periodo e i risultati raggiunti dai compagni di strada, una doppia prospettiva suggerita al curatore dal desiderio di legare saldamente gli avvenimenti artistici a una più ampia storia collettiva: «Il visitatore si troverà a confronto - spiega Celant - con una mostra che non vive in un limbo tipico delle stanze bianche museali, ma in un intreccio tra l’avventura individuale di Manzoni e i suoi referenti nazionali e internazionali». Si comprende bene, in questa alternanza che ci suggerisce anche quel nomadismo vissuto da Manzoni nel suo continuo viaggiare per l’Europa, lo stretto rapporto in cui nacquero le opere più interessanti di quella stagione. Fu infatti una mostra tenutasi nel 1957 a Milano, in cui erano esposti dei monochromes di Yves Klein a illuminare, con un’apertura sulle sperimentazioni dei Nouveaux Réalistes, i primi tentativi che nel frattempo Manzoni realizzava con il catrame.
Già lo stesso anno fecero la loro comparsa i celebri Achromes, superfici rigorosamente bianche, che intendevano distanziarsi così dal romanticismo eroico dell’Informale (il quale seppure segnato dall’immane sconfitta della guerra, metteva l’artista e dunque l’uomo al centro della ricerca) per lasciare spazio alla materia, capace persino di autoprodursi. Il caolino e il gesso innanzitutto, ma anche l’ovatta, il peluche, i pallini di polistirolo: materiali che non vengono mai «lavorati» dall’artista, ma piuttosto lasciati decantare. La tela non è dipinta, il caolino non viene steso, ma la prima è intrisa, il secondo lasciato a essiccare perché nessun gesto «estraneo» possa influenzarne il processo. In mostra, a segnare l’intero percorso espositivo, ci sono numerosi Achromes: e se inizialmente sono tele con minimi interventi essi prendono poi, in particolare dal 1958, a piegarsi secondo un ritmo più evidente, a ordinarsi in quadrati regolari semplicemente cuciti o realizzati con la celebre ovatta. Oppure, ancora, le variazioni si fanno più ardite e allora le declinazioni sono in panno, in paglia, in cotone intrecciato, in fibra artificiale, ma anche ottenute con la giustapposizione di tanti piccoli panini, dall’incontro dei pallini di polistirolo, dall’impiego della carta da pacchi.
In questa costante reinvenzione materica, interviene però progressivamente anche quella deriva più concettuale che ha portato alla realizzazione delle Linee (strisce di pittura potenzialmente infinite, racchiuse in cilindri neri ed etichettate) e all’utilizzo del corpo: «Dal 1960 all’impulsività della materia corrisponde, nel suo lavoro, la carica nervosa di una vitalità che porta il corpo dalla periferia dell’arte al suo centro» scrive Celant sul catalogo Electa. Una trasposizione iniziata con una sorta di sacrificio: il 21 luglio 1960 alle 21, presso la Galleria Azimuth di Milano con la Consumazione dell’arte dinamica del pubblico, Manzoni - offrendo da mangiare agli spettatori uova bollite e poi timbrate con la propria impronta digitale - comincia a considerare le più diverse emanazioni del proprio corpo come prodotto artistico. Ecco dunque comparire i Corpi d’aria che, spiega l’artista, vengono venduti compresi di fiato dell’autore: «Nel 1959 ho preparato una serie di 45 corpi d’aria del diametro massimo di 80 cm (altezza, con la base 120 cm); l’acquirente qualora la voglia, può acquistare, oltre all’involucro e alla base (chiusi in un piccolo astuccio) anche il mio fiato, da conservare nell’involucro stesso».
Seguono poi le celeberrime scatole con Merda d’artista, che contengono trenta grammi di escrementi ancorati con spirito alchemico e preveggente da Manzoni alle quotazioni dell’oro. E quello che poteva sembrare nel ’61, quando vennero preparate le novanta scatole, una indicazione presuntuosa, oggi deve essere aggiornata per difetto perché valgono assai più del prezioso metallo. Sotheby’s ne ha assegnato di recente un esemplare per centoventimila euro, mentre, per la cronaca, il valore degli Achrome si aggira sui due milioni. E se Manzoni con un «soffio» attribuisce valore a ogni sua emanazione, diventa comprensibile come lo stesso processo possa essere applicato a qualsiasi persona e poi al mondo nella sua interezza.
Accanto alla Base magica, infatti, capace di trasformare chiunque vi salga in un’opera d’arte, spazio sospeso in cui l’arte esplica il suo potere di transustanziazione, non poteva mancare, atto riassuntivo di un’intera poetica, una Base del Mondo (1963): un grande piedistallo in ferro con il titolo inciso al contrario perché al possibile sguardo gettato verso il basso da un abitante dell’universo, la Terra appaia appoggiata su un piedistallo, anch’essa risultato di un gesto d’artista.
Piero Manzoni, il provocatore che anticipò la stagione concettuale
di Francesco Prisco *
In soli trent’anni di vita e in meno di dieci di attività ha dato un calcio all’idea stessa di produzione artistica, anticipando i movimenti più radicali degli anni Sessanta. Il cremonese Piero Manzoni come pochi altri nel Novecento ha spostato i confini tra arte e non arte nella terra di nessuno del concetto. Il tutto alla vigilia della rivoluzione intrapresa dall’Arte concettuale.
Al Madre di Napoli, fino al 24 settembre, sarà possibile ammirare una personale che ben rappresenta l’eredità lasciata dal celebre artefice di "Merda d’artista". Potrà piacere o meno, ma nessuno discute sul ruolo di precursore che Manzoni svolge nell’economia dell’arte del Novecento. Soltanto un precursore poteva infatti scrivere, sull’invito della performance "Azimuth" del 1960, «Siete invitati il 21 luglio alle 19, a visitare e collaborare direttamente alla consumazione dei lavori di Piero Manzoni». Gli happenig, nel bene o nel male di pubblico, critica e mercato, sarebbero arrivati soltanto qualche anno più tardi.
La mostra napoletana, curata da Germano Celant, intende così offrire, ad un decennio dall’ultima antologica del Maestro, una profonda rilettura del suo percorso creativo attraverso le diverse fasi della breve ma intensa carriera (dal 1956 al 1963, anno della sua prematura scomparsa) ed il contesto storico nel quale si trovò calato. Le circa 250 opere esposte, provenienti da collezioni pubbliche e private europee e nordamericane, documentano la sua ricerca pittorica a partire dai catrami e dalle impronte di oggetti fino a tutte le tipologie di "Achromes".
Il termine coniato proprio da Manzoni (letteralmente significa "non-colore") esprime la distanza che separa l’attività dell’artista cremonese sia delle istanze irrazionali e gestuali dell’Informale che dalla pittura monocroma a lui contemporanea, per affermare il valore primario dei materiali utilizzati, dal caolino al gesso, dalla tela al peluche, dalla fibra naturale in cotone a quella artificiale in vetro, dall’ovatta al polistirolo. L’aspetto concettuale ante litteram del suo fare (la parabola dell’Arte concettuale propriamente intesa si sviluppa infatti dal 1965 al 1980) è testimoniato, inoltre, dalle "Linee", tracciate, dal 1959 al 1961, su rotoli di carta di varie lunghezze e poi racchiusi in scatole cilindriche (la più lunga, creata ad Herning, in Danimarca nel 1960, grazie al mecenatismo di Aage Damgaard, misura 7200 metri), mentre il suo interesse per il corpo umano quale produttore di segni e tracce da impiegare in arte si concretizza nei leggendari "Fiati d’artista", palloncini gonfiati a bocca dallo stesso Manzoni, e nelle celeberrime scatolette di "Merda d’artista". A Napoli è presente una significativa selezione delle opere che rappresentarono l’artista cremonese nell’esordio della "IV Fiera mercato" al castello Sforzesco di Soncino o l’anno successivo alla mostra "Arte Nucleare", presso la galleria San Fedele di Milano.
L’unicità del percorso espositivo che si sviluppa al Madre è data inoltre dalla presentazione, accanto all’ampia sezione dedicata al lavoro manzoniano, del contesto storico-artistico in cui l’autore è vissuto e con cui si è confrontato, fino a mettere bene in evidenza il suo determinante contributo. Ci sono le opere di coloro che lo hanno influenzato, come Jean Fautrier, Alberto Burri e Lucio Fontana, o hanno avuto con lui importanti affinità come Enrico Castellani, Yves Klein, Heinz Mack e Robert Ryman. Proprio con Fontana, profeta dello Spazialismo, il giovane Manzoni si confrontò ad Albisola Marina, luogo ameno della costa ligure dove le famiglie dei due trascorrevano l’estate.
Al termine del percorso espositivo si coglie così un’inedita prospettiva del lavoro di Manzoni ed una maggiore comprensione delle scelte artistiche che lo rendono uno dei principali protagonisti dell’arte italiana del Ventesimo secolo. «Non ci si stacca dalla terra correndo o saltando - scriveva il performer cremonese nel 1960 -, occorrono le ali; le modificazioni non bastano; la trasformazione deve essere integrale». Quelle stesse ali Manzoni provò ad indossarle. Se con esse sia riuscito a raggiungere i cieli dell’arte universale o se, alla maniera di Icaro, sia rimasto vittima di un sole accecante e ingannatore lo stabilirà la critica dei secoli a venire.
Piero Manzoni, Napoli, Madre/Museo d’Arte Donna Regina
Dal 19 maggio al 24 settembre 2007
A cura di Germano Celant
Orari: dal lunedì al giovedì e domenica ore 10 - 21Venerdì e sabato ore 10 - 24. Chiuso il martedì
Biglietti: intero euro 7; ridotto euro 3.50
Per informazioni: 081 19313016
* Il Sole-24 ore Galleria fotografica , 25 maggio 2007
NAPOLI
Una retrospettiva sull’artista lombardo discendente di Alessandro. Cercava di dimostrare l’effimero dell’operazione d’arte, a partire dallo stesso concetto. Documentato anche il contesto storico
Piero Manzoni, il «newdada»
Belli tra i suoi oggetti anche le sculture semoventi, come quelle sostenute da un getto d’acqua, che sono tese a formare continuamente volumi variabili
Da Napoli Giorgio Agnisola (Avvenire, 29.05.2007
«Non c’è nulla da dire, solo da essere, solo da vivere». Piero Manzoni, l’artista lombardo discendente del celebre Alessandro, di cui s’è aperta a Napoli, al Museo Madre, un’antologica curata da Germano Celant, questa frase soleva ripeterla a spiegazione del suo lavoro. E, in effetti, l’espressione in qualche modo chiarisce il senso della sua ricerca, essenzialmente concettuale, pure nella forma newdada che la caratterizzò dal 1957 al 1963, anno della prematura scomparsa.
Indubbiamente, a rileggerla oggi, la produzione di Manzoni ha una carattere di particolare intensità nel contesto delle sperimentazioni tese a sottrarre definitivamente l’arte ad una modalità convenzionale, e a coniugare arte e vita, anche al di là delle stesse esperienze dadaiste che restano comunque alla base di gran parte della ricerca del dopoguerra. È l’idea stessa dell’arte ad essere messa in discussione, in eguale misura alterata e rigenerata con illuminanti provocazioni. Ed è in questa chiave, soprattutto, che si interpreta l’opera di Manzoni, come sguardo teso ad indagare soprattutto le motivazioni profonde del linguaggio.
Opportunamente la mostra napoletana, la più significativa dopo quella milanese, tenuta dieci anni fa nel Palazzo Reale, è stata allestita con un doppio parallelo segmento narrativo. Da una parte viene documentato il percorso artistico di Manzoni, dall’altro il contesto storico-culturale, in cui l’opera del maestro si è affermata. Ne deriva un confronto prezioso, non solo sul piano conoscitivo e su quello dei collegamenti con l’attività degli artisti che su fronti convergenti operavano nell’area occidentale, da Klein a Mack, o da cui l’artista aveva tratto importanti suggestioni, da Fautrier a Burri, a Fontana, ma soprattutto su quello estetico e concettuale.
Ovviamente una tale contestualizzazione dell’opera ripropone anche le perplessità, le riflessioni sul valore intrinseco di molta arte contemporanea e in particolare sulla prevalenza del dato intellettuale su q uello propriamente espressivo. Ciò comunque non sminuisce la forza delle intuizioni del maestro lombardo e il fascino di alcuni suoi più famosi interventi, dalle sue Scatole-linee, degli anni ’59 e ’60, ai suoi Achromes dei primi anni ’60, alle sue ormai celebri Merde d’artiste. Del resto Manzoni, pure nel breve arco della sua vita artistica, fu versatilissimo. Il suo interesse spaziò dalla demistificazione linguistica, attivata per dare risalto alla specificità e alla autonomia espressiva dei materiali, anche i più insoliti, come l’ovatta e il polistirolo, alla provocazione filosofica, alla sperimentazione di spazi e contesti innovativi. Negli anni ’60 l’artista sperimentò ad esempio una sorta di sculture semoventi, sfere mantenute in sospensione da getti d’acqua, le quali girando creavano volumi virtuali, o sculture con movimenti autonomi, che si contraevano, emettendo suoni, o si muovevano col variare della luce.
Il lavoro di Manzoni è stato in fondo un continuo interrogarsi sul senso dell’arte, documentando la consistenza effimera dell’opera, che non è solo nell’oggetto che in definitiva viene esposto al pubblico, ma anche e talora soprattutto nell’idea che lo sovrintende. Assumono allora importanza fondamentale le dichiarazioni stesse dell’artista, i suoi progetti, le sue alchimie. L’opera può essere anche solo reperto, citazione, al più un indizio metaforico, come nella celebre Base del mondo, del 1961, esposta a Napoli e proveniente dal Parco di Herning, una base in ferro che sostiene, rovesciato, il mondo, e in cui può leggersi tutta la forza sovversiva e ludica del suo sguardo. O come nelle sue Uova scultura, del 1960, o nei suoi Fiato d’artista, dello stesso anno, in cui si legge la sua attenzione al corpo, non come manipolazione fisica, bensì come tensione a cogliere la sua natura spirituale, la sua scintilla vitale. In realtà, come ha scritto Lara-Vinca Masini, c’è in Manzoni il tentativo lirico e filosofico di esprimere l’inesprimibilità dell’arte ste ssa.
Piero Manzoni
Fino al 24 settembre