Un saggio di Massimo Cacciari affronta una classica controversia da San Paolo fino a Nietzsche e Carl Schmitt
Se la religione si sporca col potere
di Roberto Esposito (la Repubblica, 27.02.2013)
C’è un passo enigmatico, nella Seconda Lettera ai Tessalonicesi (2, 6-7) attribuita a S. Paolo, su cui si è esercitata una schiera di esegeti, antichi e moderni, senza mai venirne definitivamente a capo. In esso si fa riferimento a un katechon che trattiene il trionfo finale del male, ritardando così anche il suo annientamento da parte del Signore. Il “mistero”, come l’autore stesso lo definisce, contenuto in questo testo riguarda insieme il soggetto e il significato del katechon.
Chi, o cosa, è questa forza che frena al contempo lo scatenamento del male e la vittoria del bene? E come, tale funzione, va interpretata - come espressione diabolica o come forza spirituale? La questione torna ad essere interrogata, con straordinaria acutezza analitica, da Massimo Cacciari in un piccolo, ma denso, libro appena edito da Adelphi col titolo Il potere che frena. Saggio di teologia politica.
Nella sua interpretazione, naturalmente, non è in gioco solo il senso di quel passo e l’identità della figura che esso evoca, ma l’intero rapporto tra teologia e politica - il ruolo del potere e la maschera della sovranità, il contrarsi del tempo e l’immagine dell’eternità, il travaglio del cristianesimo e il destino del mondo contemporaneo.
Il presupposto da cui Cacciari parte è che tra teologia e politica vi sia una relazione ineliminabile. Non solo nel senso, teorizzato da Carl Schmitt, che i principali concetti politici abbiano un’origine teologica. E neanche in quello, affermato dal grande egittologo Jan Assmann, che le categorie teologiche contengano un originario nucleo politico. Ciò che presuppone Cacciari è un rapporto insieme più vincolante e più contraddittorio. E cioè che la vita religiosa abbia già in sé un impulso politico, così come un autentico operare politico non possa mai smarrire la propria radice spirituale.
La drammatica figura del katechon si situa precisamente all’incrocio di queste traiettorie - rendendole, se è possibile, ancora più impervie. Intanto non è chiaro chi storicamente lo incarni. Gli interpreti sono divisi - la maggioranza di essi pensa alla potenza dell’impero romano, altri all’apparato istituzionale della Chiesa. In nessuno dei casi, tuttavia, il mistero del katechon sembra sciogliersi, acquietarsi in una soluzione soddisfacente. Certamente esso si pone in un tempo ultimativo.
L’età presente sta per finire - questa è la convinzione della comunità cristiana cui Paolo dà voce. Ma come avverrà tale fine? E cosa ci sarà dopo di essa - un’altra epoca o l’Evo eterno, la fine gloriosa della storia? Che il soggetto del katechon sia l’Impero oppure la Chiesa, resta la domanda di fondo.
Come comporre gli opposti - tempo ed eternità, potere e bene, forza e giustizia? L’un termine non renderà vano l’altro? Per trattenere il male, sia l’Impero sia la Chiesa non possono fare a meno di usare quel potere che ad esso è connaturato. Perciò il katechon, qualunque cosa sia, opera sempre con le armi del Nemico dello Spirito.
Ciò è ben visibile nelle vicende sanguinose dell’Impero romano; ma risulta altrettanto evidente nella storia della Chiesa, da sempre impastata con le forze che combatte, incapace di rispondere alla parola purissima da cui nasce. Certo, entrambi, Impero e Chiesa guardano oltre il proprio tempo, si fanno carico di una missione universale. Ma per produrre novitas - per dare espressione veritiera alla propria epoca - essi devono prima di tutto durare, conservarsi, con ogni mezzo possibile, compresi l’inganno e la violenza.
Le pagine di Cacciari restituiscono a pieno l’intensità di questo dramma. Il bene non è rappresentabile dal potere, ma per realizzarsi, sia pure imperfettamente, in questo mondo, è costretto a far ricorso ad esso.
Così le due autorità che per un millennio hanno combattuto per assicurarsi il governo, politico e spirituale, degli uomini, si sono a lungo specchiate l’una nell’altra. Agostino e Dante sono i due grandi interpreti di questo scontro epocale. Il primo destituendo di ogni sacralità il potere dell’impero. Il secondo, cercando in esso il necessario contraltare alla potenza della Chiesa.
Nonostante questa divergenza profonda, per entrambi le due città non soltanto sono divise tra loro, ma divise anche al loro interno tra i salvi e i reprobi, tra coloro che limitano lo sguardo al proprio interesse e coloro che lo allargano all’intera comunità.
Nulla meglio della figura del Grande Inquisitore di Dostoevskij rappresenta questo tragico conflitto. Con lui il male ha già vinto. Dando per scontata l’incapacità dell’uomo a sostenere la libertà, egli si è posto a fianco dell’Anticristo.
Eppure anche nella sua maschera esangue traspare qualcosa dell’antica battaglia, come una eco non spenta di quell’annuncio che, dolorosamente, ha tradito. C’è anche questa infinita nostalgia nel bacio livido che egli depone sulle labbra di Cristo. L’Inquisitore è l’ultimo rappresentante di quella vicenda prometeica che ha scandito la storia del mondo, sospendendola allo scontro senza esito tra verità e potere.
Dopo di lui non resta che il compimento del nichilismo - il tempo dell’ultimo uomo di cui parla Nietzsche. In esso non trapela più il raggio di una possibile redenzione. Ma non si avverte neanche il frastuono dell’apocalisse. Piuttosto il deserto del nulla - la gestione tecnica come forma anomica dell’età globale.
Esaurito lo spazio del sacro, viene meno anche quello del politico che ad esso corrisponde. Senza la polarità teologica non si dà vera politica. Naturalmente ciò vale, se regge il presupposto di partenza di tutto il discorso - e cioè il radicamento originariamente teologico del politico e viceversa.
Che così sia, Cacciari lo dà per scontato. Ma si tratta dell’unica verità possibile? O non è un effetto ottico della stessa macchina teologico-politica che egli analizza, situandosi al suo interno? E ancora - qual è oggi il compito della filosofia contemporanea? Scendere sempre più a fondo dentro questo tragico viluppo o tentare di aprire un nuovo orizzonte di pensiero, con tutto il rischio che ciò comporta? Il dibattito che si va aprendo sulla teologia politica ha per posta questa questione decisiva.
Il potere che frena di Massimo Cacciari Adelphi pagg. 211 euro 13
INTERVISTA
Cacciari: chi mette il freno all’Apocalisse?
di Alessandro Zaccuri (Avvenire, 27 febbraio 2013)
Anche i Titani non sono più quelli di una volta. Tramontato il sogno di progresso del quale si era fatto carico l’ambizioso Prometeo, tocca al fratello dello sconfitto, il prudente Epimeteo, governare le sorti degli umani. Il suo incarico sembrerebbe modesto, ma richiede in effetti una grande abilità tecnica: si tratta di impedire l’apertura dei vasi in cui sono contenuti i mali del mondo. Attenzione al verbo. Contenere, trattenere. Frenare, insomma. Il potere che frena (in uscita da Adelphi, pagine 214, euro 13) è il titolo del saggio in cui il filosofo Massimo Cacciari torna su uno dei temi centrali della cosiddetta "teologia politica", ovvero quella corrente di pensiero, teorizzata fin dagli anni Venti da Carl Schmitt, che suggerisce di interpretare il divenire della Storia in prospettiva teologica. «Più andiamo avanti - ribadisce Cacciari - e più mi convinco che non c’è altro modo per cercare di comprendere il nostro tempo».
È per questo che bisogna partire da san Paolo?
«Dalla Seconda lettera ai Tessalonicesi, per l’esattezza: capitolo 2, versetti 6 e 7. Lì Paolo introduce un concetto del tutto originale, che sta all’origine di una lunga e complessa tradizione esegetica».
Stiamo parlando del misterioso "katechon"?
«Esatto: quel qualcosa, o qualcuno, che "contiene", trattenendo e rallentando, la venuta dell’Anticristo. Questo framezzo, che si pone tra l’Evento dell’Incarnazione e la battaglia finale contro l’Avversario, è un tempo rilevantissimo. In esso, fa intendere Paolo, agisce un potere che non può essere identificato nell’Anticristo, di cui appunto "trattiene" l’avvento, ma che neppure coincide con la Chiesa, alla quale è affidato il compito di custodire la speranza nel prolungarsi dell’attesa. Su questo Paolo è molto chiaro: il katechon è destinato a essere "spazzato via", proprio perché non partecipa della speranza che deriva dalla fede».
Sì, ma allora da che parte sta?
«Il katechon esprime una tensione costante. Per sua natura, tiene a entrambe le parti: ha a che vedere con l’Anticristo ("con-tenere" significa "tenere dentro di sé") e nel contempo partecipa alla battaglia contro l’Anticristo. Del resto, nell’evo cristiano ogni potere partecipa di questa contraddizione».
Può essere più esplicito?
«Certo. Quello sul katechon è, da sempre, un discorso che rifugge dall’astrazione. Già i Padri della Chiesa, quando affrontano l’argomento, sono estremamente concreti, cercano corrispettivi precisi alle figure evocate da Paolo e dall’Apocalisse. Fino a un certo punto, l’interpretazione prevalente è che il katechon sia l’Impero romano. Il problema, però, è che la forma imperiale non si accontenta di esercitare una potestas di tipo pratico-amministrativo. La sua ambizione, al contrario, è di conseguire un’auctoritas spirituale, ma così facendo entra in conflitto con la Chiesa. La quale, a sua volta, non è estranea alla funzione espressa dal katechon. Il ritorno di Cristo non può essere accelerato, i credenti non devono cedere all’impazienza, la loro missione è semmai di vegliare nell’attesa. Anche la Chiesa, dunque, "trattiene", per rendere possibile la conversione e fare in modo che il Figlio dell’Uomo, quando verrà, trovi la fede su questa terra».
La soluzione quale sarebbe?
«Un’alleanza tra potestas amministrativa e auctoritas della Chiesa. Sembrerebbe uno scenario medievale, ma a ben pensarci è lo stesso obiettivo al quale mirava l’idea di uno Stato moderno perfettamente laico, che lasciasse alla Chiesa il primato in campo spirituale. Il guaio, però, è che la potestas politica non può mai rinunciare alla sua ambizione imperiale, con relativo sconfinamento nell’auctoritas. Il potere, quando si riduce all’ordinaria amministrazione, diventa impotente. E questa è esattamente la situazione in cui ci troviamo".
Una situazione apocalittica?
«Una potestas ridotta all’impotenza lascia emergere le tendenze dell’Anticristo. Ma non dobbiamo immaginarci una devastazione all’Apocalypse Now. I segni dell’affermarsi dell’Avversario sono molto differenti, già Paolo invita ad allarmarsi nel momento in cui si sente annunciare un tempo di pace e benessere. Il principale attributo dell’Anticristo, infatti, consiste nell’essere Placidus: le guerre contro di lui si sono concluse con la sua vittoria, nessuna forza più gli si oppone, la prosperità può diffondersi indisturbata. Regna l’ordine, e questa è la fine. A patto, si capisce, che si sia compiuto anche l’altro passo decisivo, e cioè l’apostasia della Chiesa, la secessio dei credenti dalla fede. È l’atteggiamento del Grande Inquisitore di Dostoevskij, il cui trionfo coincide, non a caso, con il ritorno di Gesù. Se l’Anticristo ha avuto la meglio, solo Cristo può tornare a dargli battaglia».
Ma noi, ora come ora, a che punto siamo?
«Che la nostra sia un’epoca apocalittica mi pare indubbio. Viviamo in una dimensione globale che neppure l’Impero romano aveva conosciuto e questo comporta una continua omologazione dei princìpi, dei comportamenti, dell’etica. Ci siamo lasciati alle spalle i totalitarismi, che si presentavano esplicitamente come forze prometeiche, anticristiche e , in quanto tali, chiamavano in causa il katechon, la cui funzione era esercitata da altri poteri, sia politici sia religiosi. Ora è la volta di Epimeteo, l’Anticristo si mostra con il suo volto conciliante e il rischio è che la Chiesa non riesca a presentarsi come segno di contraddizione in un mondo ormai assuefatto all’indifferenza. Nietzsche aveva visto giusto: oggi davvero chi va per strada alla ricerca di Dio viene prima deriso e poi guardato con indifferenza».
E la Chiesa come può reagire?
«Continuando a pregare perché sia dato il tempo, anzitutto. Ma anche perseverando nella sua azione pedagogica nei confronti di quei figli che ancora non sanno di essere figli. Le conversioni immediate, come quella di Paolo, sono sempre possibili, però la missione della Chiesa appartiene principalmente all’ambito dell’educazione. Dell’attesa, quindi. E della pazienza».
La Fede e la Grazia, unici rimedi contro le insidie dell’Anticristo
di Giorgio Montefoschi (Corriere della Sera, 27.02.2013)
Tutto è scritto nella Seconda Lettera che Paolo inviò ai Tessalonicesi: poche righe nelle quali è descritta la sconvolgente dinamica della fine. La riassume, con efficacia e chiarezza, Massimo Cacciari all’inizio del suo libro intitolato Il potere che frena (Adelphi): il Signore Gesù non verrà prima del compiersi dell’opera del suo Avversario, l’Anticristo.
Più avanti, Cacciari osserva che il termine Anticristo «non ricorre nel Nuovo Testamento se non nelle Lettere di Giovanni... E tuttavia i tratti dell’Avversario, qui come in Apocalisse e, prima, in Marco, 13,22 (gli pseudocristi e pseudoprofeti che daranno segni e compiranno portenti per sedurre gli stessi eletti) sono i medesimi».
Quali siano questi tratti, meglio di ogni altro fra gli autori dei testi che accompagnano il volume, lo esprime Ippolito (Asia, 170 - Sardegna, 235) nella sua Demonstratio de Christo et Antichristo. Vale la pena riferire interamente il brano: «Come il Signore nostro Gesù Cristo e Dio, per la sua regalità e il suo splendore, è considerato simile a un leone, così, allo stesso modo, le Scritture considerano anche l’Anticristo come un leone, per il suo carattere tirannico e la sua violenza. Il seduttore, infatti, vuole sembrare, in ogni cosa, simile al Figlio di Dio... Il Cristo è re, ma è re anche l’Anticristo. Il Salvatore è presentato come un agnello; lo stesso Anticristo si mostrerà sotto le sembianze di un agnello, pur essendo interiormente un lupo. Il Salvatore è venuto al mondo nella circoncisione, e lo stesso farà anche l’Anticristo. Il Signore ha inviato gli apostoli presso tutte le genti, e l’Anticristo invierà dappertutto falsi apostoli. Il Salvatore ha ricongiunto le pecore che erano disperse e l’Anticristo, allo stesso modo, ricongiungerà il popolo dei Giudei, che si è disperso. Il Signore ha consegnato ai suoi fedeli un sigillo, l’Anticristo, parimenti, lo darà. Il Salvatore è apparso in forma di uomo, e l’Anticristo, ugualmente, si mostrerà in sembianze umane. Il Salvatore ha fatto della sua santa carne un tempio; l’Anticristo, allo stesso modo, innalzerà il tempio di Gerusalemme costruito di pietra».
Questo l’inganno. Ma torniamo alla dinamica dell’evento, come parafrasata da Massimo Cacciari. Dunque: «Al mistero che è l’epifania del Cristo segue l’apocalisse, secondo la forza di Satana, dell’Empio, di colui che finge di essere Dio e come Dio esige di essere onorato. Il giorno del Signore deve dunque essere atteso, attraversando questo tempo di immensa devastazione. La fine è decisa... Tuttavia, un’altra potenza sembra operare nello spasmo di questo tempo ultimo, sulla cui durata è vano congetturare - una potenza che raffrena l’apocalisse, il disgelarsi perfetto dell’Empio. Ma quando colui che la incarna sarà tolto di mezzo, allora, nulla restando fra l’Avversario e il Signore Gesù, verrà finalmente quest’ultimo a condannare tutti coloro che non hanno creduto alla sua verità».
Qual è questa verità? Una sola: che Egli, Gesù, è il Cristo, il Figlio incarnato di Dio. Chi nel momento finale (che non sappiamo quando avverrà, perché Cristo tornerà all’improvviso, come il ladro di notte, in un giorno che è sepolto nell’abisso della volontà divina) crederà che Gesù è il Figlio incarnato di Dio sarà salvo; gli altri, coloro i quali non lo hanno mai creduto, o hanno fatto finta di credere (sono loro gli anticristi, formano il corpo dell’Anticristo, perché l’iniquità - dice l’apostolo - è già in atto), saranno distrutti dal soffio della bocca del Signore e si perderanno per sempre.
La parola greca usata per definire la forza che «trattiene», questa forza che «frena» il trionfo dell’Avversario - vale a dire l’apostasia, l’abiura della religione cristiana - è la parola katechon.
Sappiamo quis o quod est katechon: questa diga che si oppone, alla quale Cacciari dedica la riflessione del suo saggio profondo e attualissimo, e sulla identità della quale si sono interrogati in molti? No. È forse l’Impero (con le sue leggi che ritardano l’iniquità), nelle sue incarnazioni epocali giuste e meno giuste, specchio o contraltare, in quanto potere politico, del potere spirituale? O è la stessa Chiesa che, trattenendo gli anticristi confusi al popolo dei credenti, impedisce l’esplosione dell’Anticristo?
Giustamente, Cacciari non espone soluzioni nette, affrontando un mistero. E, innanzitutto, si pone domande (anche queste prive di risposte definite) su quale sia il significato reale del «trattenere», del «fare diga»: se, cioè, questa azione avvenga in contrasto all’Avversario o operi all’interno dell’energia dell’Avversario. Ma le sue pagine sulla Chiesa sono insieme lucidissime e terrificanti. Perché, se è vero che l’iniquità è già in atto, e «L’Anticristo forma una comunità a immagine capovolta della ekklesia. Ha un corpo formato da coloro che, caduti nell’inganno, agiscono come anticristi»; se, seguendo la Lettera di Giovanni e poi Agostino, è vero che «l’Anticristo mostra tutta la sua potenza proprio nel dividere la Chiesa, strappandole tutti quelli che non le appartengono gratia (per la Grazia)», ed è anche vero che molti anticristi sono usciti dalla Chiesa ma molti vi rimangono, e ciascuno deve interrogarsi se non appartiene al loro numero; se è vero tutto ciò, allora diventa immediatamente tragica l’immagine della Chiesa che riconosciamo nella storia.
La Chiesa «trattiene», «frena» l’avvento dell’Avversario sperando di convertire quanti più esseri umani possibile in vista della loro salvezza. Però è pure dimora di anticristi: di esseri umani i quali, non credendo che Cristo è il Figlio incarnato di Dio, operano nell’iniquità: compiono il Male.
Del resto, la Chiesa è una istituzione terrena. La Chiesa vive nel tempo, ed è fatalmente condannata alle imperfezioni e alla miseria del tempo. Continua a lavorare, con i suoi limitati mezzi, la vigna del Signore. Ma nel presente. E non può fare altro. «La Chiesa - scrive Cacciari - non può fingere eterna durata. Il luogo, qualunque esso sia, dove l’Eterno si rappresenta non è eterno né l’Eterno si deve confondere con il tempo del resistere, del durare».
La Chiesa non salva. La vera salvezza viene dalla Fede. E dalla Grazia. Poi - nel giorno che non conosciamo - tornerà il Cristo. E sarà la morte del tempo: «Il tempo si riassorbirà, allora, nella Luce, imploderà in essenza luminosa, accolto nel Dio-Luce di Giovanni. La nuova terra, infatti, non conosce notte».
SUL TEMA, NEL SITO E IN RETE, SI CFR.:
Cacciari: chi mette il freno all’Apocalisse?
intervista a Massimo Cacciari
a cura di Alessandro Zaccuri (Avvenire, 27 febbraio 2013)
Anche i Titani non sono più quelli di una volta. Tramontato il sogno di progresso del quale si era fatto carico l’ambizioso Prometeo, tocca al fratello dello sconfitto, il prudente Epimeteo, governare le sorti degli umani. Il suo incarico sembrerebbe modesto, ma richiede in effetti una grande abilità tecnica: si tratta di impedire l’apertura dei vasi in cui sono contenuti i mali del mondo. Attenzione al verbo. Contenere, trattenere. Frenare, insomma.
Il potere che frena (in uscita da Adelphi, pagine 214, euro 13) è il titolo del saggio in cui il filosofo Massimo Cacciari torna su uno dei temi centrali della cosiddetta ’teologia politica’, ovvero quella corrente di pensiero, teorizzata fin dagli anni Venti da Carl Schmitt, che suggerisce di interpretare il divenire della Storia in prospettiva teologica. «Più andiamo avanti - ribadisce Cacciari - e più mi convinco che non c’è altro modo per cercare di comprendere il nostro tempo».
È per questo che bisogna partire da san Paolo?
«Dalla Seconda lettera ai Tessalonicesi, per l’esattezza: capitolo 2, versetti 6 e 7. Lì Paolo introduce un concetto del tutto originale, che sta all’origine di una lunga e complessa tradizione esegetica».
Stiamo parlando del misterioso ’katechon’?
«Esatto: quel qualcosa, o qualcuno, che ’contiene’, trattenendo e rallentando, la venuta dell’Anticristo. Questo framezzo, che si pone tra l’Evento dell’Incarnazione e la battaglia finale contro l’Avversario, è un tempo rilevantissimo. In esso, fa intendere Paolo, agisce un potere che non può essere identificato nell’Anticristo, di cui appunto ’trattiene’ l’avvento, ma che neppure coincide con la Chiesa, alla quale è affidato il compito di custodire la speranza nel prolungarsi dell’attesa. Su questo Paolo è molto chiaro: il katechon è destinato a essere ’spazzato via’, proprio perché non partecipa della speranza che deriva dalla fede».
Sì, ma allora da che parte sta?
«Il katechon esprime una tensione costante. Per sua natura, tiene a entrambe le parti: ha a che vedere con l’Anticristo (’contenere’ significa ’tenere dentro di sé’) e nel contempo partecipa alla battaglia contro l’Anticristo. Del resto, nell’evo cristiano ogni potere partecipa di questa contraddizione ».
Può essere più esplicito?
«Certo. Quello sul katechon è, da sempre, un discorso che rifugge dall’astrazione. Già i Padri della Chiesa, quando affrontano l’argomento, sono estremamente concreti, cercano corrispettivi precisi alle figure evocate da Paolo e dall’ Apocalisse. Fino a un certo punto, l’interpretazione prevalente è che il katechon sia l’Impero romano. Il problema, però, è che la forma imperiale non si accontenta di esercitare una potestas di tipo pratico amministrativo. La sua ambizione, al contrario, è di conseguire un’auctoritas spirituale, ma così facendo entra in conflitto con la Chiesa. La quale, a sua volta, non è estranea alla funzione espressa dal katechon. Il ritorno di Cristo non può essere accelerato, i credenti non devono cedere all’impazienza, la loro missione è semmai di vegliare nell’attesa. Anche la Chiesa, dunque, ’trattiene’, per rendere possibile la conversione e fare in modo che il Figlio dell’Uomo, quando verrà, trovi la fede su questa terra».
La soluzione quale sarebbe?
«Un’alleanza tra potestas amministrativa e auctoritas della Chiesa. Sembrerebbe uno scenario medievale, ma a ben pensarci è lo stesso obiettivo al quale mirava l’idea di uno Stato moderno perfettamente laico, che lasciasse alla Chiesa il primato in campo spirituale. Il guaio, però, è che la potestas politica non può mai rinunciare alla sua ambizione imperiale, con relativo sconfinamento nell’ auctoritas. Il potere, quando si riduce all’ordinaria amministrazione, diventa impotente. E questa è esattamente la situazione in cui ci troviamo’.
Una situazione apocalittica?
«Una potestas ridotta all’impotenza lascia emergere le tendenze dell’Anticristo. Ma non dobbiamo immaginarci una devastazione all’ Apocalypse Now. I segni dell’affermarsi dell’Avversario sono molto differenti, già Paolo invita ad allarmarsi nel momento in cui si sente annunciare un tempo di pace e benessere. Il principale attributo dell’Anticristo, infatti, consiste nell’essere Placidus : le guerre contro di lui si sono concluse con la sua vittoria, nessuna forza più gli si oppone, la prosperità può diffondersi indisturbata. Regna l’ordine, e questa è la fine. A patto, si capisce, che si sia compiuto anche l’altro passo decisivo, e cioè l’apostasia della Chiesa, la secessio dei credenti dalla fede. È l’atteggiamento del Grande Inquisitore di Dostoevskij, il cui trionfo coincide, non a caso, con il ritorno di Gesù. Se l’Anticristo ha avuto la meglio, solo Cristo può tornare a dargli battaglia».
Ma noi, ora come ora, a che punto siamo?
«Che la nostra sia un’epoca apocalittica mi pare indubbio. Viviamo in una dimensione globale che neppure l’Impero romano aveva conosciuto e questo comporta una continua omologazione dei princìpi, dei comportamenti, dell’etica. Ci siamo lasciati alle spalle i totalitarismi, che si presentavano esplicitamente come forze prometeiche, anticristiche e , in quanto tali, chiamavano in causa il katechon , la cui funzione era esercitata da altri poteri, sia politici sia religiosi. Ora è la volta di Epimeteo, l’Anticristo si mostra con il suo volto conciliante e il rischio è che la Chiesa non riesca a presentarsi come segno di contraddizione in un mondo ormai assuefatto all’indifferenza. Nietzsche aveva visto giusto: oggi davvero chi va per strada alla ricerca di Dio viene prima deriso e poi guardato con indifferenza ».
E la Chiesa come può reagire?
«Continuando a pregare perché sia dato il tempo, anzitutto. Ma anche perseverando nella sua azione pedagogica nei confronti di quei figli che ancora non sanno di essere figli. Le conversioni immediate, come quella di Paolo, sono sempre possibili, però la missione della Chiesa appartiene principalmente all’ambito dell’educazione. Dell’attesa, quindi. E della pazienza».
MESSAGGIO DELL’EVANGELO ("DEUS CHARITAS EST": 1 Gv. 4.8), MESSAGGIO DEL POSSESSORE DELL’"ANELLO DEL PESCATORE" ("DEUS CARITAS EST": BENEDETTO XVI, 2006), E TEOLOGIA POLITICA DELL’"UOMO SUPREMO" ("DOMINUS IESUS", 2000):
DIBATTITO
Apocalisse alle porte, il potere si scatena
di Alessandro Zaccuri (Avvenire, 28 febbraio 2013)
A porre la domanda in modo diretto è il monaco Enzo Bianchi: «I cristiani, oggi, sono ancora consapevoli di vivere nel tempo dell’attesa? La prospettiva escatologica ha ancora importanza per i credenti oppure il discorso sulla fine è qualcosa che, in definitiva, pensiamo non ci riguardi?». Interrogativi che nascono dall’intervista - pubblicata ieri su «Avvenire» - in cui il filosofo Massimo Cacciari presenta i temi del suo nuovo libro, Il potere che frena, in uscita da Adelphi. Una riflessione sul katechon, la misteriosa entità evocata da Paolo nella Seconda lettera ai Tessalonicesi (2,6-7) alla quale è deputato il compito di «trattenere» l’Anticristo, ritardandone la vittoria.
«È una prospettiva ben nota all’apocalittica giudaica - sottolinea Bianchi -, nella quale si incontrano spesso figure di falsi messia, le cui sembianze sono ingannevolmente simili a quelle del Figlio di Dio. È la stessa dinamica per cui, nell’Apocalisse di Giovanni, la Bestia del potere imperiale assume la stessa forma dell’Agnello e pretende una liturgia che ricorda quella che all’Agnello stesso sarebbe dovuta. Il che non significa che, per i credenti, il potere partecipi necessariamente di questa natura diabolica. Il cristianesimo, nel suo manifestarsi storico, rifugge dall’anarchia e predilige un ordine statale ben delineato. Nel contempo, però, occorre vigilare affinché lo Stato non si travesta da angelo di luce, in modo da dissimulare il volto della Bestia». Sì, ma il katechon quale ruolo gioca? «Misterioso, secondo Paolo. E qui dobbiamo fermarci - suggerisce Bianchi -. Del resto, è l’atteggiamento tenuto dalle Chiese orientali, che non hanno mai mostrato eccessiva curiosità per questa categoria. Il dibattito sulla Seconda lettera ai Tessalonicesi si è sviluppato più che altro in Occidente, determinando una serie di identificazioni storiche e politiche non di rado influenzate dall’ideologia del momento».
«A partire da quei due versetti si può dire di tutto e tutto, in effetti, è stato detto», avverte Marco Rizzi, lo studioso di letteratura cristiana antica che, insieme con Gian Luca Potestà, sta curando per la Fondazione Valla la raccolta di testi patristici e medievali sull’Anticristo. «L’orizzonte - prosegue Rizzi - è quello del prolungarsi dell’attesa. Lo stesso Paolo, che nella Prima lettera ai Tessalonicesi, si è detto convinto dell’ormai imminente ritorno del Signore, deve fare i conti con un ritardo che rischia di apparire inspiegabile.
Da qui il riferimento al katechon come forza che, in quel preciso momento, contribuisce a rallentare il disegno divino. L’accenno appartiene a un contesto sovrabbondante di immagini oscure, com’è normale nel genere letterario dell’apocalittica. Paolo, insomma, non mira alla precisione, gli basta trasmettere ai suoi lettori l’impressione e la consapevolezza che il loro presente è un tempo fortemente connotato in senso escatologico. Si tratta di suggestioni che più tardi confluiranno nell’opera di Ireneo di Lione, al quale dobbiamo la prima trattazione sistematica sulla figura dell’Anticristo. Ma del katechon, di fatto, Ireneo non si occupa e perfino Agostino affermerà di non comprendere quali fossero le intenzioni di Paolo».
A proporre una possibile interpretazione di questo che, ripete, resta un passaggio fra i i più complessi dell’epistolario paolino è il teologo Giacomo Canobbio: «Tra le tante ipotesi sembra avere una qualche plausibilità l’annuncio del Vangelo - osserva -. Nella storia si riscontra una contrapposizione tra il potere del Vangelo e le forze del male, già presente nella vicenda di Gesù.
Tuttavia il cristianesimo ha sempre respinto ogni forma di dualismo di sapore manicheo. L’ostacolo al trionfo dell’Anticristo sta dunque nell’azione di Dio quale si è manifestata in Gesù, che in quanto risorto diventa il segno e l’esemplare della vittoria sul male. In tal senso, comunque si identifichi l’Anticristo, esso è radicalmente depotenziato: nel mondo, nonostante la percezione di un’accresciuta virulenza del male, opera la forza di Gesù risorto, che si identifica con lo Spirito al quale va ascritto l’annuncio del Vangelo. Nessun potere “mondano” pertanto pare possa essere identificato con il katechon, neppure il potere della Chiesa quando questo fosse inteso nel senso “mondano”. Ovvio che non si può immaginare un annuncio del Vangelo senza un soggetto che lo annunci e quindi che metta in conto dinamiche anche di potere, purché questo sia da intendere nel senso indicato da Gesù».
In ogni caso, sostiene Canobbio, una dimensione “politica” è in una certa misura connaturata alla teologia. «La forza critica del Vangelo vale nei confronti di tutti i poteri - spiega -. Ciò non significa che si debba negare il valore del potere nella società e nella Chiesa. Significa piuttosto che il potere diventa una funzione per qualcosa d’altro. In riferimento al katechon, ogni potere potrebbe essere pensato come ostacolo al male, la cui virulenza a volte è accresciuta dal potere stesso quando dimentica la sua originaria funzione (sia nella società civile sia nella Chiesa). Una teologia politica diventa legittima quando, in nome del Vangelo, diventa smascheramento dell’uso ideologico delle categorie teologiche».
Massimo Cacciari, a proposito di potere. Riflessioni e paradossi
Nel suo saggio i passi più significativi della tradizione teologica ci aiutano a comprendere meglio
di Giuseppe Cantarano (l’Unità, 24.03.2013)
CHE COS’È IL POTERE? QUAL È LA SUA NATURA? E perché Tutti noi siamo - volentes o nolentes - inclini non solo a esercitarlo, ma a obbedirvi? Non ci sottomettiamo, forse - più o meno volentieri al potere politico? Non obbediamo, forse - più o meno volentieri - alle sue leggi? E ancora: a cosa serve il potere? Qual è la sua funzione? È immaginabile una auctoritas politica del tutto separata e distinta dalla potestas teologica? Non è forse vero - come ha affermato Carl Schmitt - che le categorie politiche si limitano a secolarizzare, a laicizzare un originario impianto teologico? Sono un po’ questi i radicali interrogativi sollevati dall’ultimo bel libro di Massimo Cacciari (Il potere che frena, Adelphi, pp. 211, euro 13,00).
Che vi sia un potere, che vi sia una Legge è un miracolo. E che vi sia chi si ribella, non è che trita banalità, scriveva il grande compositore austriaco Arnold Schönberg. Molto caro, del resto, a Massimo Cacciari. Ed è sull’esistenza di questo «miracolo» che il filosofo veneziano riflette nel suo libro. Misurandosi con quel celebre passo attribuito a san Paolo, compreso nella Seconda Lettera ai Tessalonicesi. Un passo controverso. Di difficile, ardua interpretazione. È qui che balena forse per la prima volta nella storia dell’Occidente - l’oscura tematizzazione di quel «miracolo». Di quell’irresolubile enigma che è il potere. Che è la Legge. Come poi ci racconterà Kafka.
Nel primo grande documento cristiano sulla politica, che è la Lettera ai Romani, san Paolo raccomanda obbedienza al potere politico. Poiché ogni potere politico ha ricevuto da Dio il mandato di proteggere il bene. E di arginare il male: «Ogni persona si sottometta alle autorità che le sono superiori. Non esiste infatti autorità se non proviene da Dio» (13, 1-2).
Del potere politico non possiamo fare a meno, ci dice san Paolo. Non fosse altro perché il potere politico - l’Impero romano, nel caso specifico rappresenta un «freno» nei confronti di una società tendenzialmente caotica, disordinata, anarchica. Il potere, pertanto, sembrerebbe avere un timbro esclusivamente positivo. La sua funzione sembrerebbe volta esclusivamente al bene. Giacché è quella di contenere, di arginare, di frenare il dilagare del male nella società. E tuttavia, le cose non stanno così, ci dice Cacciari.
Infatti, del potere come «freno» (katechon, in greco) si fa cenno anche nella Seconda Lettera ai Tessalonicesi. Su cui Cacciari esercita un’acutissima e penetrante esegesi. Laddove è scritto: «E ora conoscete ciò che trattiene (to katechon) la sua apocalisse, che avverrà a suo tempo. Già, infatti, il mistero dell’iniquità è in atto; ma chi trattiene (ho katechon) trattenga, precisamente fino a quando non venga tolto di mezzo” (2, 6-7).
Rispetto all’univocità della Lettera ai Romani, qui il potere assume invece un volto «diabolico», diciamo così. Nel senso letterale del termine: ingannevole, ambivalente, enigmatico. E a suo modo, tragico. Poiché viene concepito come una forza - non è chiaro se espressione di un soggetto o di una cosa - che per trattenere, per frenare il trionfo del male è costretta, contemporaneamente, a ritardare la definitiva vittoria del bene. A ritardare, pertanto, anche l’annientamento dello Spirito dell’empietà. Dunque del male. Fino a quando anche questo freno che trattiene sarà «tolto di mezzo», spazzato via, prima della parusia del Signore.
Come contenere in uno - si chiede Cacciari - queste due paradossali, tragiche dimensioni? Paradossali, tragiche dimensioni di ogni sovranità politica. Ogni potere - scrive Cacciari - «è chiamato a esprimersi come mediazione. Il mediatore dispone dell’effettuale comando, ma non risolve in sé immediatamente ogni auctoritas, non ne è autarchicamente fonte e sede. Il potere rappresenta - e viene così ad assumere sempre dal rappresentato la propria autorità». Insomma, nessuna potenza teologica detiene l’assoluta potestas su questa terra. E credersi idolatricamente eterna. Così come nessuna potenza politica detiene l’assoluta auctoritas. Senza la quale, tuttavia, il sovrano si ridurrebbe a semplice funzionario di un apparato burocratico-amministrativo. Che difficilmente riuscirebbe a legittimare le sue decisioni.