CHI SIAMO NOI IN REALTÀ. Relazioni chiasmatiche e civiltà
di Federico La Sala *
[...] Platone è l’esponente della vecchia aristocrazia terriera che, fattosi discepolo delle forze demiurgiche (Socrate - colui che sa di non sapere quello che fa) e assuntane la guida, spiega loro che cosa non sanno di sapere e, persuasele (la Repubblica: un apologo alla Menenio Agrippa, all’ennesima potenza), le riconfina all’interno dei rapporti sociali di produzione tradizionali, aggiogandole al carro della vecchia classe dominante.
Se prima, per dirla con le parole di Marx, “l’accumulazione di oro e argento si presenta originariamente come privilegio sacerdotale e reale, giacché il dio e il re delle merci si addice soltanto a chi è dio e re”, ora - all’epoca di Platone e per Platone - può diventare dio e re solo chi, con la sua anima, ha saputo vedere le idee (forme - valori di scambio) e l’Idea (Forma-Valore) del Bene (Denaro), la misura di tutte le ricchezze (chrémata) - il dio di tutte le merci.
Protagora non sa niente degli dei e delle dee, non riesce a comprendere nemmeno la domanda e il lavoro che Socrate fa, e perde: non è più l’uomo, e la politica, la misura di tutti gli affari sociali (pràgmata) e di tutti le merci-ricchezze (chrémata), ma il Dio-Denaro. La bilancia della società, gli uomini riuniti in assemblea (ecclesìa), si spezza e la democrazia è distrutta e Atene anche.
Ma il discendente di Codro e di Solone afferra l’anima dell’Agorà, le regole (le categorie) dello scambio e del dialogo, della discussione delle opinioni e dell’esame delle merci, le forme-valori dei pensieri (idee) e delle merci (valori di scambio) e la loro Misura, la Forma-Valore del Bene-Denaro (l’equivalente generale), e li riporta in cielo, sull’Acropoli, nelle mani del Dio degli dei e delle dee: la bilancia è nelle mani del retto filosofo, re e papa, che sa indicare con senno come regolarsi nella vita pubblica e nella vita privata.
L’anima di Atene, della sua Repubblica, è posta in salvo e traghettata, al di là della crisi, nel cielo intelligibile e virtuale della scrittura alfabetica. In altri tempi e in altri luoghi troverà chi saprà riportarla nel mondo sensibile - il modello è pronto. Le avventure ‘siracusane’ dell’Occidente hanno inizio.
Solone sapeva del male e del bene che c’era nella sua stessa anima e in quella degli ateniesi e delle ateniesi: “La nostra città non perirà mai: è il volere di Zeus e l’intenzione degli dei immortali, sempre beati; e questo perché la protegge, tenendole le mani sopra, Pallade Atena, dea generosa dal padre possente”(fr. 3). E aveva scelto di non favorire il peggio.
Così anche Platone, nel suo presente storico. Egli aveva capito (Timeo: 36, c) che l’Anima era “a figura della lettera X [oion chei]” e, da Demiurgo, pur sapendo di non sapere bene come si facesse a ‘produrla’, cerca di fare del suo meglio.
Egli si rende e non si rende conto di ciò che produce la nascita e la separazione del mondo intelligibile dal mondo sensibile (corpo e anima, lavoro manuale e lavoro intellettuale, scrittura-pittura e scrittura alfabetica, molti e Uno) e lo spinge a riutilizzare i miti della religione orfica e a intraprendere la seconda navigazione, tuttavia ne coglie la grande importanza e potenza e, intorno a esso, tenta l’impossibile, riorganizzare-rifondare il nuovo ordine del vecchio sapere e della vecchia società in agonia e assicurarle l’eternità (e così è stato, fino ad ora).
L’operazione è geniale e titanica, e di tutto quello che egli vede e capisce, lo scrive e lo comunica a tutti e a tutte. Di quello che non ha visto e capito (perché non lo poteva né vedere né capire), non ha scritto e non poteva scrivere - ovviamente. (Così per Dante, in linea generale: egli, con l’‘aiuto’ della sua nuova anima - orfico-cristiana: Euridice-Beatrice-Maria, coglie il nesso moneta- fede, fa un’operazione degna di Platone prima ed Hegel poi).
Il presente di Platone (come di Dante, che non solo è stato ma è, in parte, anche il nostro) aveva (ed ha) un punto cieco, l’idea di lavoro in generale e ancor di più l’idea di rapporto sociale di produzione - idee possibili solo in una società non più dominata dalla necessità e dalla forza della natura, ma dal capitale, dal denaro e dall’uomo (l’individuo proprietario della propria forza-lavoro e dei mezzi di produzione e l’individuo proprietario solo della propria forza-lavoro), come nell’epoca moderna e contemporanea.
Ciò che Platone non ha visto e non ha capito, solo Hegel ha potuto cominciare a vederlo e a capirlo. Ed è solo Marx (che amava e citava Dante e) che, grazie al lavoro di Hegel, di Feuerbach, e degli economisti politici, ha cominciato a focalizzarlo consapevolmente, a capirlo, e a dare gli strumenti per farlo capire meglio e dare l’opportunità di scriverne - non la Scuola di Tubinga. Ciò che questa Scuola (altrettanto si potrebbe dire della ‘scuola’ di studi esoterici danteschi) ha scritto, su quanto Platone (Dante) non ha scritto, non sono ancora e altro che anticaglie teologico-cattoliche camuffate...
Contro queste pretese, già Hegel, che era cattolico protestante e non cattolico cattolico, e conosceva bene la scuola di Tubinga, aveva detto l’ultima parola:
“Così come in pedagogia si tende a educare gli uomini per preservarli dal mondo, cioè per mantenerli in una determinata cerchia (p. es. nell’agenzia commerciale, o a coltivare idilliacamente i fagioli) in cui essi non sanno nulla del mondo, non ne hanno nessuna notizia, allo stesso modo anche in filosofia si è ritornati alla fede religiosa, quindi alla filosofia platonica. Questi due momenti hanno il loro punto di vista essenziale e la loro collocazione; ma non sono la filosofia della nostra epoca. Sarebbe giusto ritornare alla filosofia platonica per imparare nuovamente che cos’è l’Idea, che cos’è la filosofia speculativa; è invece segno di leggerezza già solo parlare in generale, boriosamente e con trasporto, di bellezza e di eccellenza in senso platonico. Bisogna mirare a conoscere il bisogno che lo spirito pensante ha nella nostra epoca, o meglio, bisogna suscitare in se stessi questo bisogno”(Hegel, Platone, trad. di V. Cicero, Milano, Rusconi, 1998, pp. 74-75)
[...]
* Questo breve testo è ripreso da:
Federico La Sala, L’enigma della Sfinge e il segreto della Piramide. Considerazioni inattuali sulla fine della preistoria, Roma-Salerno, Ripostes Edizioni, 2001, dal primo capitolo (pp. 12-15): "Chi siamo noi in realtà. Relazioni chiasmatiche e civiltà".
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Mario Vegetti ha scritto un libro sulla visione politica del filosofo
Platone tradito dal Novecento
"Era un illuminista, non è stato capito"
È il pensatore più controverso, accusato di totalitarismo. Ecco una lettura diversa e sorprendente
Per Hitler grecità e germanesimo erano alleati nella lotta per la civiltà
Il teorico della ‘caverna’ pensava a un governo delle élite intellettuali
di Antonio Gnoli (la Repubblica, 01.05.2009)
Non poteva prevedere Google e l’utopia della rete. Di fronte a un oggetto di cultura di massa come Matrix sarebbe rimasto interdetto. Ve lo immaginate un dialogo tra Socrate e Neo, il predestinato della grande saga dei fratelli Wachowsky? Eppure non c’è esperienza immateriale, o complicazione virtuale, che oggi non evochi le analisi platoniche. Quando estrasse, come da un cilindro, il mito della caverna avrebbe potuto inventare il cinema, se la tecnologia di allora glielo avesse consentito. Invece ne fece un involontario format in anticipo di 2500 anni sulla televisione. In fondo, realtà platonica e reality sono più contigui di quanto si immagini.
Quello che nel quinto secolo fu concepito come una grande sistema speculativo, con tanto di demiurgo, rivive oggi in molte analisi. Platone è il filosofo più letto, più cliccato, più controverso. Il Novecento ne ha fatto un’icona politica, ma al tempo stesso se ne è spaventato. Su di lui è stato detto di tutto, di più. Platone totalitario e democratico, liberale e nazista, etico e immorale, amante dell’eros e fustigatore dei cattivi costumi, elitario e tollerante (o quasi). Non amava la democrazia, ne temeva le degenerazioni, la presa retorica sul popolo. Oggi guarderebbe con orrore ai populismi mediatici. Insomma perché un libro come La Repubblica ha attraversato la storia dell’Occidente sino a giungere a noi così carico di suggestioni?
Mario Vegetti - tra i più grandi antichisti in attività - ha scritto un bellissimo libro sul Platone politico da Aristotele al Novecento. Un paradigma in cielo ne è il titolo, edito da Carocci (pagg. 181, euro 18.50).
Un paradigma in cielo richiama il modo in cui Platone nella Repubblica definisce il suo modello di società giusta. Ma quel testo, credo si possa leggere e forzare in molte altre direzioni. È d’accordo?
«La Repubblica è un repertorio ricchissimo di metafore, di immagini, di paradossi. I primi due libri presentano una teoria dell’origine della giustizia e una genealogia della morale che portano diritto a Hobbes e Nietzsche; il quarto una psicologia dell’io scisso e conflittuale che ha il suo parallelo in Freud; il quinto l’utopia comunistica, l’abolizione della proprietà privata e della famiglia; il settimo un saggio straordinario di epistemologia antiempiristica delle matematiche; l’ottavo una memorabile critica parallela della democrazia e della tirannide».
E il Platone più familiare, quello delle idee, del bene e dell’immortalità dell’anima?
«C’è anche quello. Ma la cosa impressionante è lo sforzo di tenere tutto questo insieme, se non in un sistema almeno in un movimento dialettico unitario. Certo, un progetto eccessivo, che avrebbe destato la comprensibile irritazione di Aristotele. Ma l’eccesso credo sia la cifra dello stile filosofico di Platone, al quale egli rimedia spesso attenuandolo con un certo distacco ironico».
A proposito di eccesso, il Novecento è sceso a valanga su questo filosofo.
«C’è stata un’orgia di appropriazioni e di usurpazioni di Platone per motivi ideologici che risultano alla fine intollerabili».
Pensa alle letture "totalitarie" del suo pensiero?
«Nonostante l’assimilazione proposta da Popper fra i "totalitarismi", bisogna distinguere. I nazisti negli anni Trenta hanno trovato un’immagine di Platone in qualche modo già predisposta al loro abuso. Questa storia comincia con Hegel che aveva negato il carattere utopistico della Repubblica e vi aveva letto lo spirito del tempo, il riflesso dell’eticità sostanziale del popolo greco. E questa eticità consisteva nell’unità organica della comunità statale, la sua incommensurabile superiorità rispetto all’individuo. Quello che per Hegel era un limite di Platone, fu considerato un suo merito, un’idea forza nella Germania della crisi post-bellica, ostile tanto al capitalismo liberale quanto all’anarchismo socialista».
Ma in che modo il nazismo se ne appropriò?
«Platone divenne una bandiera ideologica già con illustri filologi "umanisti" come Wilamowitz, Jaeger e Stenzel. Quando il programma del partito nazional-socialista diceva che i nazisti si proponevano di "governare l’ordine come guardiani nel più alto senso platonico del termine", o quando Hitler scriveva nel Mein Kampf che "grecità e germanesimo" sono alleati nell’imminente lotta per la "civiltà", essi non facevano che citare parole già scritte dai professori berlinesi di filologia classica».
C’era anche Nietzsche alle spalle.
«C’era, ma con questa precisazione: l’idea che si dovesse formare un uomo nuovo e superiore, una "razza di signori", i nazisti la trovarono in parte almeno nella lettura nicciana di Platone».
Nietzsche se ne serve, Marx invece liquida Platone. Perché?
«Marx lo descrive come "l’ideologo ateniese del sistema egiziano delle caste". Sfortunatamente quel Platone divenne una specie di mantra nelle interpretazioni marxiste-leniniste».
A cosa si deve la fortuna della lettura popperiana di Platone?
«Più che di fortuna direi che si debba parlare di impatto. L’aggressione di Popper ha turbato il sonno di tanti che consideravano Platone, come dice Gadamer, "uno dei padri fondatori della nostra tradizione cristiana e liberale". Ma come, abbiamo da sempre avuto in casa il nemico totalitario e non solo non ce ne siamo accorti, ma l’abbiamo studiato e onorato? Si trattava di un attacco alle radici stesse della cultura occidentale, troppo forte per venire accettato. La seconda metà del Novecento ha quindi assistito a una sequenza interminabile di tentativi di difendere Platone da Popper».
Difesa legittima?
«Credo che un nemico come Popper aiuti a pensare Platone meglio di tanti suoi pretesi amici che ne fanno una caricatura perbenista per renderlo simile a se stessi e al loro "pensiero unico". La questione non è di capire se Popper ha bene interpretato Platone, e di segnalare i suoi errori con la matita rossa. La questione è di confrontare i presupposti teorici del pensiero politico di Platone con quelli di Popper, non dando per scontati né gli uni né gli altri: per esempio egualitarismo e antiegualitarismo, liberalismo democratico e governo delle élites, individualismo e comunitarismo. A questo livello, per contrasto, la critica di Popper ci aiuta a capire meglio Platone, e forse Platone può aiutarci a capire i limiti del pensiero liberal-democratico».
Leo Strauss fornì una lettura ironica e dissimulatrice di Platone. Nel farlo pose al centro il complicato legame tra l’intellettuale e il potere. È un rapporto che ha ancora senso?
«Strauss pensava che la filosofia fosse superiore alla politica perché il suo oggetto non è storico umano ma eterno e trascendente, e che quindi l’intellettuale non dovesse farsi coinvolgere nel gioco politico. Al contrario, il suo amico-rivale Kojève pensava hegelianamente che un filosofo non può rimanere estraneo alla storia e alla grande riflessione sulla verità che accade solo nel movimento storico. Questa discussione è interessante, ma a me pare molto viziata dal fatto che entrambi hanno un’idea del tutto astratta dei termini "intellettuale" e "potere", come se in ogni epoca si trattasse sempre delle stesse figure. Quanto a Platone, il suo era un progetto in fondo illuministico: il governo delle élites dell’intelligenza e della conoscenza. Chi crede che oggi governino i tecnocrati pensa che in qualche modo il progetto sia stato realizzato. Chi pensa invece che siamo in preda all’anarchia capitalista e ai suoi imbonitori populisti, può ancora nutrire qualche nostalgia per quel programma».
Fu un bersaglio di Popper
Il primo volume dell’opera di Karl Popper "La società aperta e i suoi nemici" è interamente dedicato a Platone. Si chiama infatti "Platone totalitario" ed è un violento attacco al platonismo politico e filosofico, per il suo carattere autoritario e teso a costruire una società piegata al volere dei governanti. Popper definisce la posizione di Platone come "radicalismo estremo".
Macché illuminista, Platone era totalitario
I suoi sapienti-re assomigliano all’idea che avevano di sé le gerarchie naziste o comuniste, convinte di possedere il Bene
di DARIO ANTISERI (Avvenire, 05.05.2009)
I due volumi de La società aperta e i suoi nemici apparvero il primo nel dicembre del 1973 e il secondo nel gennaio del 1974. E quella dell’accoglienza da parte dell’intellighenzia italiana dell’opera politica di Popper è un’altra triste storia. L’opera non venne criticata su di un punto o su un altro e con argomentazioni di tipo scientifico; essa, sostanzialmente, venne o ignorata ovvero, il più delle volte, coperta di insulti: cosa poteva mai insegnare ai tanti possessori di modelli di società perfetta, di verità incontrovertibili e di ineluttabili sensi della storia un «reazionario» come Popper, un «maccartista», difensore delle società capitalistiche occidentali?
Al «Platone totalitario» di Popper sono contrari anche noti antichisti italiani come Margherita Isnardi Parente, Gio¬vanni Reale e Mario Vegetti, che è tornato sul tema venerdì scorso su La Repubblica, presentando il suo nuovo volume Un paradigma in cielo (Carocci). A partire da Aristotele sino ai nostri giorni, precisa Vegetti, la tradizione del pensiero liberale ha con grande decisione respinto il progetto politico di Platone. Fa presente Vegetti che «Popper vedeva in Platone il primato assoluto dello Stato sull’individuo, e, all’interno dello Stato stesso, la consegna di un potere assoluto a una minoranza che si proclamava depositaria di un sapere assoluto, i cui metodi e i cui fondamenti non potevano però venir resi pubblicamente espliciti: che cosa ci può garantire, diceva Popper, che questa minoranza (di filosofi in Platone, ma magari anche di dirigenti di partiti quali quello giacobino, comunista o nazista) non eserciti di fatto una dittatura sottratta a ogni controllo democratico?».
Di fronte ad attacchi del genere, prosegue Vegetti, i difensori di Platone si sono divisi in due gruppi. Da una parte si trovano coloro che, da posizioni liberal-democratiche, hanno sostenuto che il progetto utopico proposto da Platone nella Repubblica non deve venire preso alla lettera. Diversamente dai simpatizzanti di posizioni liberaldemocratiche, «i simpatizzanti del pensiero socialista e comunista, come Pohlmann, hanno visto in Platone uno dei precursori di questa tradizione.
Non sono mancati, infine, negli anni Venti e Trenta del nostro secolo, usi di Platone in senso fascista e nazista: essi apprezzavano il primato che Platone indubbiamente assegna allo Stato, rispetto ai cui interessi le libertà e i diritti individuali vengono in secondo piano». Ebbene, quel che va sottolineato è che, ad avviso di Vegetti, «Platone ritiene che la costruzione della società descritta nella Repubblica è difficile ma non impossibile. Si tratta dunque di un ’mondo possibile’ che deve venire progettato, desiderato e, se le circostanza sono favorevoli, costruito; di un dovere etico-politico».
Ora, però - viene da chiedere a Vegetti - se il progetto politico di Platone non è un gioco intellettuale, un sogno, un castello sulle nuvole, ma è il tentativo di trasformare in mondo reale un mondo ideato e guidato da una pattuglia di filosofi che sanno che cosa è il Bene e che, di conseguenza, saranno divorati dallo zelo - dal diritto e dovere - di imporre questo Bene a ogni costo, attraverso quali argomenti un simile progetto potrà distinguersi da una concezione totalitaria del potere politico?
«Platone fu il giuda di Socrate e la Repubblica fu per lui non soltanto Il capitale, ma anche il suo Mein Kampf» - così Gilbert Ryle sintetizzò nel 1948 su ’Mind’ l’intepretazione popperiana di Platone. Nel 1951 uno studioso di Platone come Richard Robinson scrisse: «Popper sostiene che Platone ha pervertito l’insegnamento di Socrate. Platone, ad avviso di Popper, è in politica una forza perniciosissima, mentre Socrate è una forza estremamente benefica ».
Ancora nel 1959 Popper afferma: «La mia opinione che Platone sia stato il più grande di tutti i filosofi non è per nulla mutata. Ma i grandi uomini possono commettere grandi errori»; il grande errore di Platone fu che egli incoraggiò «il perenne attacco contro la libertà e la ragione».
Un altro durissimo e ben argomentato - sebbene meno noto - attacco contro Platone l’aveva formulato nel 1937 Alfred Hoernlé. La pretesa dei dittatori del suo tempo, ad avviso di Hoernlé, era proprio quella di essere dei filosofi-re: «Uomini con una Weltanschauung, con un piano per la salvezza spirituale dei loro popoli, con una esplicita teoria su quel che è bene per i loro popoli, addirittura per l’umanità tutta; uomini che giustificano per se stessi un uso brutale della forza, la spietatezza nel plasmare i soggetti secondo lo standard dei loro ideali e nello schiacciare qualsiasi opposizione, e questo esattamente in vista del bene che essi cercano di realizzare, non a beneficio personale, quanto piuttosto a beneficio dei popoli che loro gover¬nano ».
I filosofi-re di Platone, prosegue Hoernlé, governano con un’autorità assoluta: «Essi non consultano il popolo; non vengono eletti dal popolo; non pos¬sono venir rimossi dal popolo; non sono, tanto per usare il linguaggio delle democrazie parlamentari, ’responsabili’ davanti al popolo. Son un corpo che si autoperpetua reclutando i propri membri tramite cooptazione tra più giovani uomini e donne la cui educazione è stata da loro controllata per circa trent’anni; uomini e donne che loro hanno plasmato e messi a prova, più duramente di quanto il ferro sia provato sul fuoco, come dice lo stesso Platone». Ebbene, conclude Hoernlé, «i filosofi-re e i loro ausiliari (le due classi più alte nello Stato di Platone) sono sostanzialmente l’analogo del dittatore moderno e del fedele, disciplinato Partei (sia il partito comunista in Russia, il partito fascista in Italia, o il partito nazionalsocialista in Germania), per mezzo del quale il dittatore domina».
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI. Alcune note di Federico La Sala
L’ILLUMINISMO, OGGI. LIBERARE IL CIELO.
Federico La Sala
PLATONE E NOI, #OGGI (*):
"IL COLTELLO E LO STILO" E IL "CONCETTO". UNA RIFLESSIONE INTORNO A TEMI DI ARCHEOLOGIA E ANTROPOLOGIA FILOSOFICA (#KANT, 1724-2024) E DI #COSMOTEANDRIA PLATONICA, PAOLINA ED HEGELIANA.
COME NASCONO I #BAMBINI, COME NASCONO LE #IDEE, COME NASCONO I #SOGNI? SE E’ VERO COME E’ VERO CHE « [...] Platone non può #concepire la “pura teoria” che come transito, necessario ma provvisorio, verso una restaurazione del dominio: un dominio certo fondato ora non sull’immediatezza della forza ma sulla cogenza di una verità neutralizzata, perciò necessariamente valida in universale.» (M. Vegetti, "Il coltello e lo stilo. Le origini della scienza occidentale", il Saggiatore, Milano 1996, p. 74), è possibile continuare a usare il "coltello" e lo "stilo" e, addirittura, a sezionare cadaveri all’inferno?! E’ mai possibile continuare a costruire piramidi come il "#Sapiente" (1510), ancora teorizzato da #Bovillus e dalla ecclesiastica "#Scuola di Atene" di #Raffaello (1509-1511) e a seguire sul piano di un #androcentrismo ateo e devoto la lezione teologico-politica di Paolo di Tarso?!
LEZIONE ANDROCENTRICA DI #TEOLOGIA-POLITICA DI #PAOLO DI #TARSO: "Diventate miei imitatori [gr.: mimetaí mou gínesthe], come io lo sono di Cristo. Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [gr. ἀνήρ, ἀνδρός «uomo»], e capo di Cristo è Dio" (1 Cor. 11, 1-3).
* Sul tema, mi sia lecito, si cfr. PLATONE: ILLUMINISTA O TOTALITARIO?! PLATONE E NOI, OGGI.
ANTROPOLOGIA (KANT), STORIOGRAFIA, E LETTERATURA (BAUDELAIRE):
IL CASTIGO DELL’ORGOGLIO ("Châtiment de l’orgueil").
DAI "FIORI DEL MALE", UN #RACCONTO "STORICO" DI ALTA PROFONDITA’: COME UN TEOLOGO, CHE EBBE PAURA DEL "TRAUMA DELLA NASCITA" E, SULLA #NEGAZIONE DEL "RIDICOLO FETO", APRI’ LA STRADA ALLA "GLORIA" DELLA #COSMOTEANDRIA DELLA "#CAVERNA" PLATONICO-LUCIFERINA ("MAMMONICA") E FINI’ PER ESSERE "LA GIOIA E LO SCHERNO DEI #FANCIULLI".
In quei tempi meravigliosi in cui la Teologia fiorì con la massima forza ed energia, si narra che un giorno uno dei più grandi dottori, dopo aver forzato i cuori indifferenti ed averli commossi ne le loro nere profondità; dopo aver superato verso le glorie celesti strani sentieri a lui stesso ignoti, dove forse eran giunti solo i puri Spiriti, come un uomo salito troppo in alto, preso da vertigine, gridò in un trasporto di satanico orgoglio:
Immediatamente la sua ragione scomparve. Lo splendore di quel sole si velò; tutto un caos piombò in quell’intelligenza, tempio già vivo, pieno d’ordine e di opulenza, sotto le cui vòlte tanto fasto era stato sfoggiato. Il silenzio e la notte regnarono in lui, come in un sotterraneo di cui si è smarrita la chiave.
Da quel giorno fu simile a le bestie di strada, e, quando andava pei campi senza nulla vedere, incapace di distinguere l’estate da l’inverno, sudicio, inutile e brutto come una cosa logora, formava la gioia e lo scherno dei fanciulli. (Charles Baudelaire, "I fiori del male").
PIANETA TERRA (PROMESSA), ONU (=UNO), E "UmaNITÀ" ("HUMANITAS"):
PROFEZIA, ANTROPOLOGIA, E TEOLOGIA-POLITICA.
SE E’ VERO CHE "DA TEMPO I PROFETI PARLANO A UNA CITTA’ CHE NON LI VUOLE PIU’ ASCOLTARE!" (Nicola Fanizza), E’ ALTRETTANTO VERO CHE, DA #TEMPO, DA MOLTO TEMPO, nonostante tutta la #storia (già solo quella) dell’#arte e, in particolare, la grande lezione di #Michelangelo #Buonarroti, che sapeva anche di #anatomia e di "vecchio" e "nuovo" #testamento" , è anche colpa dei #PROFETI che hanno "silenziato" le #Sibille, hanno buttato via la #bilancia (Vermeer ), e vogliono continuare a "pesare" solo "l’ #oro"!!!
CON DANTE ALIGHIERI, GIORDANO BRUNO, GALILEO GALILEI, SPINOZA, FREUD, ED EINSTEIN, #OLTRE. Senza #Kant, solo milioni di milioni di "mille piani", vecchi "ritornelli", e "dotta ignoranza" (1440) a volontà.
NOTE:
PSICOANALISI E LETTERATURA: UNA "STRAORDINARIA" IDEA DI DANTE ALIGHIERI.
SEGUIRE LACAN, PER IMPARE A RI-LEGGERE LA "DIVINA TRAGEDIA".
QUANDO L’INTERA CULTURA ACCADEMICA (LAICA E RELIGIOSA), ANCORA E PER LO PIU’, NAVIGA NELL’ORIZZONTE (v. allegato) DEL "SAPIENTE" (1510) DI BOVILLUS, IN UN ANDROCENTRISMO CHE IGNORA ADDIRITTURA "COME NASCONO I BAMBINI", E’ SEMPLICEMENTE "PANE QUOTIDIANO" LEGGERE DELLA SEGUENTE OPINIONE, TEORICAMENTE "DIMOSTRATA", SULLA VITA DELL’AUTORE DELLA "DIVINA COMMEDIA":
DOPO 700 ANNI E OLTRE DALLA MORTE DI DANTE ALIGHIERI, COME NON SI PUO’ NON CONTINUARE A DESIDERARE (VIVERE, SOGNARE E RAGIONARE) IN UN MARE DI "TRAGICHE" ED "EDIPICHE" PREMESSE E, NEL CONTEMPO, A PORTARE LO SVILUPPO DEL "MARCIO NELLO "STATO DI DANIMARCA" (SHAKESPEARE, "AMLETO") OLTRE OGNI LIMITE?!
"COSTRUZIONI NELL’ANALISI" (SIGMUND FREUD, 1937). Contrariamente a quanto la scuola "platonica" di Lacan sostiene, a ben riflettere, non è "un amore senza desiderio [che] è un amore morto", ma è un desiderio ("Eros", "cieco" e "saettante", violento) senza amore ("grazia") che è un desiderio morto: #apriregliocchi, e #amare "sé come un altro", alla luce del sole (e del "padre" e della "madre"), è vietato, come dinanzi a un "padre" edipicamente #morto (#Freud, in movimento autoanalitico, insegna).
UNA "CADUTA" NELLA "PREISTORIA". Solo una "bella" storiografia e, altrettanto, una "bella" #filologia, segnate da un comune e profondo #sonnodogmatico (#Kant), probabilmente, hanno potuto rendere possibile il permanere di questa concezione tragica del desiderio e ri-consegnare la #Commedia di #Dante #Alighieri nella mani di #Socrate e #Platone e "costringere" a ri-leggerla come una "divina tragedia"!
NOTA. Sul tema, per eventuali approfondimenti, si cfr. Federico La Sala, «La Fenomenologia dello Spirito... dei “Due Soli”. Ipotesi di rilettura della "Divina Commedia"», «il dialogo», 2007 ).
LA FINE DELL’ ERA "ICEBERGHIANA" E DEL #DESTINO DELLA #NECESSITA’ ( #ANANKE: #VICTORHUGO):
LO SCIOGLIMENTO DELL’ANDROCENTRICO #CORPOMISTICO DEL "RE DELL’UNIVERSO" E L’USCITA DALLA "#PREISTORIA" (K. #MARX) .
Una breve nota su una metafora "ghiacciata" e "agghiacciante"!
PSICOANALISI, #ANTROPOLOGIA, ED #ECOLOGIA: SOTTO LA #MONTAGNA (#BERG) DI #GHACCIO (#ICE), COSA C’E’ SE NON SOLO L’ ACQUA "SPORCA" E "RISCALDATA" DELLO STESSO CHIACCIO? Continuare ad usare l’ #iceberg, come metafora della coscienza della "specie" umana, non porta fuori dalla "diritta via" e impedisce di conoscere sé e, al contempo, che ciò che "galleggia" sull’oceano è solo la #testa, la #coscienza capovolta del luciferino Signore del #ghiaccio infernale, come aveva ben capito #Dante, nel momento stesso in cui con #Virgilio riesce ad attaccarsi al #vello di #Lucifero e venir fuori dalla #caverna in cui si era smarrito e da cui pensava di non poter più uscire? Non è forse meglio rimettere i piedi a terra (Inf. XXXIV, vv. 88-90: "Io levai li occhi e credetti vedere /Lucifero com’io l’avea lasciato, /e vidili le gambe in sù tenere") e rileggere non solo con Dante e Virgilio, ma anche con Maria Beatrice e Lucia il viaggio di ogni essere umano nello spazio-tempo cosmico in cui si svolge la #Commedia umana, la "divina Commedia"?
NOTA:
L’ALBA DELLA MERAVIGLIA E LA STORIA DELLA COSMOLOGIA E DELLA FILOSOFIA (#KANT2024): CON #DANTEALIGHIERI E #GALILEO #GALILEI, DALLA LUNA IL SORGERE DELLA TERRA:
INFANZIA, ANTROPOLOGIA, E STORIOGRAFIA: USCIRE DALLA #CAVERNA DEL POLIFEMICO PLATONISMO DI SOCRATE E RICORDARE IL "SEGRETO" DEL VIAGGIO DI "ULISSE" ("#DIVINACOMMEDIA"):
ITACA, LE "ITACHE": L’#ODISSEA, LE "ODISSEE". Un piccolo passo del cammino della #coscienza terrestre sulla importanza di #storiciżżare il legame con il proprio #Sé, con la propria #Tradizione, e con il proprio Pianeta, con la propria "#Terra" - con le proprie "Itache", come precisa Konstantinos #Kavafis.
EARTHRISE
NOTA
USCIRE DALL’#INFERNO DELLA #RIPETIZIONE E DAL #LETARGO DI MILLENNI (Par. XXX, III, 94).
Storia, filosofia, filologia, #psicoanalisi: una nota su una "ignota" #svolta_antropologica in corso...
IL PROGRAMMA DI #DANTEALIGHIERI ALL’ORDINE DEL GIORNO (#25MARZO 2024: #Dantedì).
Riprendere il cammino di "#Ulisse" e portarsi oltre il "Convivio", il #Simposio, di #Platone e del suo "socratico" #amore (#Eros), avido e cupìdo, #figlio nato dalla astuta alleanza (#Metis) dell’#uomo-#Ingegno (gr. #Poros) e della #donna-#Povertà (gr. #Penia). La lezione di Platone appare essere la chiara codificazione di una fenomenologia dello spirito della #tragedia e la sua parola una versione della #Legge del #Figlio di Dio (#Zeus) , #Apollo: "«non è la madre la generatrice di quello che è chiamato suo figlio; ella è la nutrice del germe in lei inseminato. Il generatore è colui che la feconda...» (#Eschilo, #Eumenidi, 657 ss.): : un ’#cattolicesimo’ platonico.
ARTE, #ANTROPOLOGIA, #FILOLOGIA E #TEOLOGIA:
LA "STORICA" #LEZIONE ANTROPOLOGICA DELLA #CORNICE LIGNEA DEL #TONDODONI (E DELLA #NARRAZIONE DELLA #VOLTA DELLA #CAPPELLASISTINA: DUE PROFETI E #DUE SIBILLE "INDICANO" LO #SPAZIOTEMPO DELLA #NASCITA DEL #FIGLIO DI #MARIAEGIUSEPPE. Come mai gli esperti della #GalleriadegliUffizi "insistono" a sostenere che nella "cornice del Tondo [...] sono raffigurate la testa di Cristo e quelle di #quattro profeti"?!
FILOLOGIA, FILOSOFIA, E PEDAGOGIA:
UN "INVITO" A USCIRE DAL LETARGO (Par. XXXIII, 94) E A RILEGGERE IL "CRATILO" DI #PLATONE, A RIASCOLTARE "LA VOCE DELLA SPOLA NEL #TEREO DI #SOFOCLE" (#ARISTOTELE), A INSEGNARE E IMPARARE A COME MEGLIO "FARE LA SPOLA", E, ANTROPOLOGICAMENTE, A CONCEPIRE UN ALTRO MODO DI #TESSERE IL RAPPORTO SOCIALE DI PRODUZIONE E RIPRODUZIONE, IN GENERALE:
"[...]
SOCRATE: Se io ora domandassi: «Che strumento è la spola?». Non quello con cui tessiamo?
ERMOGENE: Sì .
SOCRATE: E, tessendo, che cosa facciamo? Non distinguiamo forse la trama e gli stami confusi insieme?
ERMOGENE: Sì .
SOCRATE: E non avrai modo di dire così anche del trapano e degli altri strumenti?
ERMOGENE: Certo.
SOCRATE: E hai modo di dire lo stesso anche del nome? Quando diamo denominazioni con il nome, che è uno strumento, che cosa facciamo?
ERMOGENE: Non so cosa rispondere.
SOCRATE: Non insegniamo qualcosa gli uni agli altri e distinguiamo le cose come stanno?
ERMOGENE: Certo.
SOCRATE: Il nome dunque è un mezzo suscettibile di insegnare e di farci cogliere l’essenza come la spola a proposito del tessuto?
ERMOGENE: Sì .
SOCRATE: La spola è un mezzo per tessere?
ERMOGENE: Come no?
SOCRATE: Il tessitore si servirà bene della spola: e bene vuol dire da tessitore, così chi è atto a insegnare si servirà bene del nome e bene vuol dire da insegnante.
ERMOGENE: Sì . [...]"
("Cratilo", 388 b-c)
CONTRO "LA MISURA" DELL’#ANTROPOLOGIA (DI #ERACLITO E #PROTAGORA), L’#ALIBI DEL DEMIURGICO "SO-CRATILO" #DIALETTICO DI ESSERE #ALTROVE, NEL MONDO DELL’#IDEE, DOPO OLTRE "#VENTICINQUESECOLI" (#DANTEALIGHIERI), NON E’ ANCORA CHIARO CHE E’ UNA "STORICA" #APOLOGIA DELL’ #ANDROCENTRISMO PROPRIO DELLA #TRAGEDIA"?:
"SOCRATE: Ascolta dunque, [...] dopo la #giustizia di che cosa ci resta da #parlare? Il #coraggio, "andreia", non l’abbiamo ancora esaminato, io credo. è chiaro infatti che l’ingiustizia, "adikia", è di impedimento per l’ente ’che passa attraverso’, "diaion"; "andreia", invece, ’il coraggio’, significa come se questo nome di coraggio gli fosse stato attribuito in battaglia; e battaglia è nell’ente, se questo scorre, niente altro se non la ’corrente contraria’, "enantia rhoe"). Se dunque si elimina il "delta" dal nome di "andreia", il nome "anreia" significa proprio questa opera. E pur sempre chiaro che non la corrente contraria a ogni corrente è coraggio, ma quella che contrasta alla corrente che si oppone al giusto: diversamente infatti non verrebbe lodato il coraggio. E così "arren" (’#virilità’) e #aner (’#uomo’) si riferiscono a un qualcosa simile a questo, "ano rhoe" (’corrente verso l’alto’). #Gyne (’#donna’), poi, pare a me voglia significare ’#generazione’, "gone", e "thely" (’femminile’) pare che sia chiamato così da "thele" (’mammella’). E la "thele", Ermogene, non ritieni che sia detta così perché ’fa fiorire’, "tethelenai",) come tutto quello che viene annaffiato?
ERMOGENE: Mi pare di sì , o Socrate.
SOCRATE: E anche lo stesso thallein (’fiorire’) mi sembra che rapresenti la crescita dei giovani perché è rapida e
improvvisa. Ed è proprio quello che il legislatore ha imitato con il nome componendolo con il thein (’correre’) e
hallesthai (’saltare’). Ma tu non ti rendi conto che io mi lascio trascinare fuori dal seminato non appena imbocco un
tratto liscio. E sì che restano ancora molte questioni di quelle che sembrano impegnative.
ERMOGENE: Dici il vero.
SOCRATE: E una di queste è vedere anche #techne (’#arte’) che cosa mai vuol dire.
ERMOGENE: Ma certo.
SOCRATE: E non significa dunque techne "hexis nou" (’condizione della mente’), per chi toglie il tau e vi aggiunge
ou tra il ch e il n e tra il n e l’eta?
ERMOGENE: Sì , ma in modo molto cavilloso, o Socrate. [...]" ("Cratilo", 413 d-e/414 a-b).
Voci di donne nell’epica. Personaggi e modelli poetici femminili nell’Iliade e nell’Odissea *
“Perché, sorella, sei venuta?” Voci di donne nell’epica, di Cecilia Nobili
di Sofia Fiorini (La monografia di Cecilia Nobili, [Voci di donne nell’epica->https://www.carocci.it/prodotto/voci-di-donne-nellepica" class="spip_out">"ClassiCult" , 8 gennaio 2024 (Carocci, 2023), si apre con un mito che rappresenta un perfetto paradigma delle forme di sopravvivenza della voce femminile in letteratura. È il mito di Procne, Tereo e Filomena riportato nel romanzo greco di Leucippe e Clitofonte.
Il punto focale del mito non consiste tanto nella violenza subìta, e nemmeno nel tentativo maschile di soffocare la comunicazione tra donne. Anche il mito latino di Tacita Muta (la mitica madre dei Lares compitales), speculare a quello di Filomena, racconta di una Naiade resa muta da Giove come punizione per aver rivelato alla propria sorella l’interesse del re degli dèi nei suoi confronti. E anche nel mito di Lara-Tacita c’è una violenza sessuale2: quella che Tacita subisce da parte di Mercurio, incaricato da Giove di condurla nel regno dei morti. E, di più, in entrambi i miti, la comunicazione che si teme - qui scongiurata, lì punita - è tra sorelle. Ciò in cui la storia di Filomena differisce da quella di Tacita, ciò che lo rende archetipo positivo, è che, anche priva di lingua, Filomena non si rassegna al silenzio e fa della tela il suo testo.
Voce silenziosa, voce della spola
Questa fu la forma di sopravvivenza della voce femminile nell’epos, di cui questo mito segna in modo mirabilmente preciso la rotta. Queste voci - quelle di Teti, Ecuba, Penelope, Nausicaa, Elena, Andromaca, Circe, Calipso, le sirene - sopravvivono davvero come la voce di Filomena sulla tela. La loro è una sopravvivenza sempre clandestina, di certo quando appartiene a donne-outsider (la scandalosa Elena, la perturbante Circe), ma anche quando apparentemente si uniformano al mondo che abitano (le mogli e madri esemplari Andromaca, Penelope). I poemi omerici, pur espressione di un epos maschile, a loro non poterono rinunciare, almeno come verosimili comparse. Quello fu lo spazio in cui sopravvissero.
D’altronde, già la prima apparizione di Penelope nell’Odissea fissa permanentemente i confini della giurisdizione femminile per quel che concerne la parola. Quando, commossa fino allo strazio dai racconti del cantore sul nostos degli Achei, Penelope scende dalle sue stanze e domanda all’aedo di scegliere un argomento meno doloroso per il suo canto, il figlio Telemaco, assunto il ruolo di erede del padre in casa, impone prontamente alla madre di tacere. Nel ricordarle che la parola pubblica, il mythos, non le compete, le ingiunge anche di avere il coraggio di ascoltare quella parola. Ancora una volta, la voce maschile, di massima dignità, è quella da cui la voce femminile deve imparare, a cui deve piegarsi.
Forme della sopravvivenza della voce femminile nell’epos
Il continuo colloquio con la poesia di Saffo in questa monografia ricorda al lettore che quella in corso non è soltanto una ricognizione di personaggi mitologici. È anche un’investigazione intorno alla poesia femminile nella Grecia antica. Se il genere epico per le donne greche era pressoché interdetto, alcune forme di espressione poetica eleggevano le donne in via preferenziale o esclusiva. È il caso della preghiera. Mezzo con cui mogli e madri intercedono presso le divinità per gli uomini a loro cari: con la preghiera retoricamente ben congegnata le donne dell’epos sanno piegare e vincolare gli dèi. È altresì il caso del lamento, modalità espressiva femminile per eccellenza, anche a prescindere dall’occasione funebre. Ma le voci di donne trovano mezzi espressivi anche nella poesia nuziale - Nausicaa - simposiale e oracolare - Circe.
Nobili dimostra inoltre come due donne - Elena e Penelope - arrivino, per la poliedricità dei registri, a competere con Omero in persona, a configurarsi come suoi alter ego. Ma questo non avviene per loro senza un prezzo da pagare. Per Elena, in grado con la sua eloquenza di “imporre addirittura la propria voce su quelle degli uomini che le stanno intorno”, è il biasimo. Per Penelope, è il silenzio. Come la sorella di Shakespeare immaginata da Virginia Woolf in Una stanza tutta per sé, Penelope è dotata di una metis pari a quella del marito, ma
“può metterla in atto solo grazie alla tessitura poiché il mondo delle parole e del canto le sono preclusi”7.
“Perché, sorella, sei venuta?” O del fare pace coi modelli
Così Penelope apostrofa Atena quando le appare in sogno con le sembianze della sorella Iftime. Nei primi quattro versi è contenuto tutto il dramma dell’eredità della voce femminile. Queste donne che hanno trovato posto clandestinamente nell’epos, per sopravvivenza giunte fino a noi; queste donne che, privilegiate almeno nella memoria tra torme di altre pari senza nome, sono state traghettate dalle lingue antiche; queste donne che, inevitabilmente, scopriamo avere come espressione privilegiata il lamento. Queste donne forse è così che ci avrebbero apostrofate, oggi, come Penelope apostrofa la sorella-Atena, nello scoprire che le avremmo disprezzate per la loro eredità.
Ogni parola poetica nasce da uno sforzo di emersione dagli abissi. Quando tale sforzo è compiuto e la parola si salva dal silenzio, la parola è alla luce e può essere guardata. Lì inizia il suo destino. Ma ogni parola pronunciata da donna porta con sé un’ombra ulteriore, un nuovo abisso in cui è condannata a entrare dopo essere nata. Quest’ombra dipende dallo sguardo che su quella la proietta. Non è salvifica, come l’altra da cui era uscita. È l’ombra della mano che, non avendo potuto in tempo tagliare la lingua, ne brucia le carte. Per mettere a tacere le voci femminili si è operata la tecnica dello sminuimento del loro valore, la peggior forma di condanna e la più efficace censura, da quando alle donne si è aperto stabilmente il mestiere della scrittura.
E tra i vari giudizi e pregiudizi di genere, anche le donne del mito ritrovano la loro lunghissima eredità: tra le colpe imputate alle voci di donne in poesia c’è, ad esempio, quella di suonare lacrimevoli. Come sopportare, per chi si scontra quotidianamente con la realtà di questo sguardo, l’eredità delle donne dell’epos? Uno dei capitoli della monografia di Nobili s’intitola “La poetica del lamento”. Quello precedente, “La preghiera agli dèi: una prerogativa femminile”, quella successiva “la poetica nuziale”. Il libro si apre e si chiude con l’immagine di donne al telaio. Le donne nell’epos furono questo. E nell’essere questo furono tantissimo. Questo suggerisce scandalosamente questo libro, il cui primo merito sta nell’atto di accendere la luce sulle parole di queste donne. L’intero equilibrio del saggio è saldo sul pilastro della citazione. È dalle parole che si riparte, dalla lettera che si chiede al lettore: “Ascolta. Ascolta meglio”.
Voci di donne: costellazioni parallele
Nella mia percezione, il lavoro di Nobili non può essere disgiunto da un’altra operazione di riscoperta della voce femminile, a cui ho avuto occasione di collaborare, Costellazione parallela. Poetesse italiane del Novecento (a cura di Isabella Leardini, Vallecchi, 2023). In entrambi i casi non si tratta di scoprire il nuovo, ma dell’atto di togliere il velo da ciò che è noto. Così come Nobili parla di donne celeberrime e canonizzate del mito, Leardini affastella sedici nomi già affermati della poesia italiana del secolo scorso. Ma entrambe le operazioni, per quanto riportino a galla ciò che già era, sono tanto benefiche quanto è totalizzante il buio che continuamente tenta di inghiottire la voce femminile, in tutti i secoli. In entrambi i casi si tratta di rifare i conti con un’eredità che troppo spesso si è stati tentati o costretti a disconoscere.
Penelope, forse la più famosa tra le donne dell’epos, davvero potrebbe dire così in sogno alle donne-sorelle che oggi la riscoprono, la guardano, la giudicano: “da quale lontananza siete venute, ora, ad ascoltarmi e come ora chiedete di non piangere, a me che non posso fare altro?”. Così da un altro capo del mondo le risponderebbe oggi un’altra voce:
Scandaloso è riconoscere non solo che il lamento sia femminista, ma accettarlo anche in quanto più antica e propria delle forme di canto femminili. Cecilia Nobili lo fa con un’operazione culturale che è tutta occhi ed ascolto aperto. Un ascolto che ci mostra, ad esempio, come il lamento di Andromaca, perfetto modello di moglie da cui ci si aspetterebbe perfetta conformità ai canoni, sia la più sovversiva delle voci femminili di questi due poemi - non Elena, non Circe, non Calipso. Il suo lamento ricorda come l’indignazione personale sia l’inizio di ogni vera denuncia sociale.
“E non mi hai detto una parola saggia”: la vita oltre il kleos
Proviene da Andromaca, la “lamentatrice” per eccellenza nelle parole di Nobili, l’attacco più duro al sistema di valori dell’Iliade, al kleos che governa le vite degli eroi e li rende ciechi di fronte a tutto il resto. Come da copione, il lamento funebre di Andromaca sul cadavere di Ettore contiene, accanto alla tenerezza e all’elogio, la commiserazione per il triste destino a venire e per la disperata condizione di chi resta, solo e indifeso, sulla terra. Ma queste parole di Andromaca contengono, io credo, anche una critica più dura. Un attacco peggiore di quello ai versi appena precedenti, in cui viene rinfacciato a Ettore di aver reso, con le stragi di nemici, sua moglie e suo figlio passibili di orribili vendette. Lì Andromaca mostrava le conseguenze oscure della fame di gloria del marito. Ma in questi versi dice di più: quella “parola saggia” che lamenta di non aver ricevuto da Ettore significa non un semplice motto consolatorio, ma la carenza, in lui, di una saggezza esistenziale che possa sorregge nel dolore della sua assenza. Andromaca sta così denunciando il fallimento del sistema di valori del marito, e della società di cui era il campione: il mondo del kleos non è capace di salvare dal dolore, l’intero mondo del kleos non vale una parola saggia detta sul letto di morte.
Note:
1 Cecilia Nobili, Voci di donne nell’epica. Personaggi e modelli poetici femminili nell’Iliade e nell’Odissea, Roma, Carocci, 2023, p.11.
2 Eloquentemente, la protagonista di questo mito cambia nome dopo gli eventi subìti: colei che parla (Lara) divenuta colei che tace (Tacita).
3 Nobili, op. cit., p.12.
4 Ivi, pp. 12-13.
5 Ivi, pp. 126-7.
6 Ivi, pp. 18-19.
7 Ivi, pp. 133.
8 Clarissa Pinkola Estés, Donne che corrono coi lupi, Sperling & Kupfer, Milano, 2016, p. 407.
9 Nobili, op. cit., p. 69.
SOFIA FIORINI
Sofia Fiorini (Rimini, 1995) è scrittrice e insegnante. In poesia ha pubblicato “La logica del merito” (Interno Poesia, 2017) - premiato dal Premio Violani Landi e dal Premio Prato, recentemente ripubblicato come "La logica del merito e nuove poesie" (Interno Poesia, 2023) - e “La perla di Minerva” (La Noce d’Oro, 2023). Ha tradotto l’antologia italiana delle poesie di Ralph Waldo Emerson “Il cervello di fuoco” (La Noce d’Oro, 2022) e ha collaborato a curare l’antologia “Costellazione parallela. Poetesse italiane del Novecento” (Vallecchi, 2023).
* INDICE
Avvertenza
1. Le donne nell’epos: la tela, il canto e la memoria
Comunicare per immagini: le donne e la tela/Iliade e Odissea: donne a confronto/Le voci femminili e il linguaggio della lirica/Lirica ed epica
2. La preghiera agli dei: una prerogativa femminile
Tra uomini e dei: le donne e la preghiera/Le preghiere di Teti/La preghiera di Ecuba/La preghiera di Penelope
3. La poetica del lamento
«Dangerous voices»: il lamento funebre tra poesia e rituale/I lamenti di Saffo/La madre dolente: Teti, Ecuba e Penelope/Il lamento per lo sposo e l’autocommiserazione: Andromaca
4. Nausicaa e la poetica nuziale
Il matrimonio nell’universo femminile/Nausicaa: una giovane sposa e le sue nozze mancate
5. Donne ai margini: Circe, Calipso e la poetica dell’esclusione
Circe e Calipso: dee terribili che sanno parlare agli umani/Calipso e la poetica “femminista”/Circe: l’etera e la profetessa
6. Elena e Penelope: le alter ego di Omero
Le tante vite e le tante voci di Elena/Elena tra giambo e lamento/Elena e i klea andrôn/Elena, Penelope e il linguaggio profetico/Le voci, silenziate, di Penelope
Bibliografia
Indice dei passi citati
Indice analitico
(fls)
Filosofia.
Gustavo Bontadini e la metafisica del ’900, un genio da riscoprire
Nel XX secolo il pensiero del filosofo è un "unicum" oscurato in primis dai pensatori cattolici e dalla Chiesa. Un libro di Messinese ne riscopre genialità e capacità dialogica con la modernità
di Pierangelo Sequeri (Avvenire, martedì 27 febbraio 2024)
Il termine “metafisica”, la parola «davanti alla quale ognuno, più o meno, si affretta a fuggire come davanti a un appestato» (Hegel), ritorna nella forma di un appello alla serietà “politica” - nientemeno - del pensiero (Cacciari). Ritorna come paradosso del mondo, prima che come domanda su Dio. Ma infine, l’uomo non potrà separare ciò che Dio ha congiunto.
Il segreto della concretezza del mondo, sta certamente “nel mondo” (se stesse fuori, il mondo sarebbe solo virtuale, un’astrazione); ma, altrettanto certamente, “non è del mondo” e lo trascende (proprio come il Logos del vangelo di Giovanni). Che accada un mondo, e che non si possa fare a meno di domandarsi se il mondo è tutto quello che accade, non ha nulla di ovvio. Dal nulla non viene assolutamente niente: ed è ovvio, questo sì, che alla luce di questa banale considerazione l’essere non è mai incominciato e non saprebbe dove finire. Il nulla non è un tempo, non è un luogo, per l’accadere. Ma nella nostra esperienza, “niente” di ciò “che è” (che acrobazie deve fare il nostro linguaggio, per parlare dell’accadere) assomiglia neppure lontanamente all’essere che non incomincia e non finisce. Con ciò si è già enunciato il tema - e il paradosso - di questo choc del pensiero: che appare inevitabile anche quando cerca di essere evitato.
Una cosa che sembrava così ovvia - l’essere è, il mondo esiste, il nulla non esiste - non lo è più. Possiamo anche scrollare le spalle e pensare di aver digerito male. Ma il tarlo è lì, nella coscienza, ormai. La domanda metafisica è una domanda alla quale, in ogni caso, l’inconscio risponde sempre: nelle pratiche e nelle culture, nelle scienze e nelle politiche. Nelle religioni e nelle stesse filosofie.
Le premesse teoretiche per una ripresa cosciente della “metafisica concreta”, all’altezza del “problematicismo radicale” della contemporaneità, erano già apparse nel progetto messo a punto dal pensatore cattolico Gustavo Bontadini (1903-1990). Tale progetto, radicalmente innovativo anche nell’ambito della tradizione filosofica di ispirazione cattolica, ha rivelato la sua potenza attraverso gli sviluppi che ne ha tratto il suo allievo Emanuele Severino (1929-2020), divenuto, a differenza del suo maestro, una figura di rilievo nel confronto filosofico contemporaneo e un critico della cultura noto anche al grande pubblico.
In effetti, l’irruzione nella scena contemporanea di una filosofia che proclama “l’eternità di ogni essente”, mentre denuncia il radicale “nichilismo” della stessa concezione cristiana-cattolica dell’eternità di Dio e della creazione del mondo, aveva di che suscitare impressione. Bontadini, pur apprezzandone l’ispirazione (come “pungolo” per il laicismo decostruttore di ogni assoluto, e ragione filosofica ospitale per la “nostalgia” dell’eterno), ha contrastato la deduzione “eternistica” del “principio di Parmenide” che imponeva la necessaria rimozione del “principio di Creazione”. Ma Bontadini non fu ascoltato, né fu presa in considerazione la questione di coerenza dell’impianto che Bontadini stesso aveva inventato.
Il dibattito, all’interno del mondo cattolico, si risolveva e si spegneva nel semplice accertamento della contrapposizione fra Severino, che negava la creazione, e la Chiesa che, ovviamente, la difendeva. In certo senso, questa semplificazione faceva torto a entrambi. Ma soprattutto, essa ha oscurato la reale portata innovativa , speculativa e culturale del progetto metafisico di Bontadini, nel quadro complessivo della contemporaneità filosofica novecentesca.
Quello che ci siamo persi nell’oscuramento della “invenzione” bontadiniana, è puntualmente e puntigliosamente narrato nel “romanzo metafisico” di Leonardo Messinese (Dopo Kant, oltre il problematicismo. Il Novecento come un ‘romanzo metafisico’, Schibboleth, pagine 428, euro 26). Messinese, narra la storia della costruzione bontadiniana, dalle origini fin dentro il dibattito con Severino, attraverso un “racconto” per eventi e attori (come Giovanni Gentile e Benedetto Croce, Ugo Spirito e Ludovico Geymonat, e molti altri), dei quali Bontadini fu interlocutore, diretto e dialogico, acuto ed esigente. Messinese è già intervenuto con molti saggi di ricostruzione critica e di approfondimento teorico dei temi implicati nel confronto fra Bontadini e Severino, sia per quanto riguarda la metafisica, sia per quanto si riferisce al cristianesimo. Il valore aggiunto di questo “romanzo” è nella esposizione della storia vissuta, oltre che teorica, della progressiva costruzione del modello metafisico di Bontadini.
Nella minuziosa ricostruzione storico-teorica di Messinese emergono infatti anche due mosse metodologiche, trascurate dalla filosofia e dalla teologia del cattolicesimo, che offrono indicazioni di intatta originalità. La prima è la proposta di essenzializzazione - che è insieme semplificazione e rigorizzazione - del paradosso metafisico, che l’ipertrofia dell’ontologia scolastica ha finito per indebolire del suo vigore e per svuotare della sua provocazione.
La seconda invenzione, anche più elegante della prima, consiste nella deduzione storica dell’approdo metafisico: inteso come inevitabile auto-superamento del problematicismo radicale, col quale si devono fare i conti ragionando metafisicamente, appunto. Il problematicismo radicale, cifra del nostro tempo, secondo Bontadini, prepara obiettivamente il ritorno inevitabile della metafisica: infatti, nel momento in cui il problematicismo radicale diventa teoria trascendentale della totalità reale, lascia spuntare un assoluto metafisico indimostrato e indimostrabile.
Il tracciato filosofico della contemporaneità, nell’ermeneutica speculativa di Bontadini, apre così obiettivamente un solco favorevole alla ripresa della metafisica come sapere essenziale e dialogico. In questo Bontadini è stato sorprendentemente innovatore - in termini di contenuto e di stile filosofico - rispetto alla postura polemica allora prevalente nella filosofia cattolica. Il genio di Bontadini si manifesta infatti proprio nella disposizione a valorizzare dialetticamente le fasi della storia della metafisica inclusa nella storia della stessa filosofia moderna.
Messinese rende giustizia a questa genialità e si impegna a esaminare e valutare il confronto polemico di Bontadini e di Severino anche in termini di reale affinamento speculativo della questione di merito (il negativo del divenire, garantito dall’eterno, è la sua accertabile finitezza processuale, ma non la sua impossibile nientificazione assoluta). Dopo la lettura di questo racconto verrebbe da aggiungere una domanda “fuori testo” (ma non ”fuori argomento”). Che cosa sarebbe successo se la teologia cattolica - che l’ha ignorata - avesse preso sul serio, almeno in Italia, l’invenzione bontadiniana? Forse c’è materia per un nuovo romanzo (che immagina il futuro, questa volta).
NOTA.
RISALIRE AL PRIMA DELLA "CADUTA" (NELL’ORBITA DI PLATONE - DI PAOLO DI TARSO):
Finché abbiamo il corpo e la nostra anima è intrisa assieme a tale malanno, non raggiungeremo mai adeguatamente ciò che desideriamo: e diciamo che questo è il vero. Innumerevoli impegni infatti ci procura il corpo per il necessario sostentamento. E ancora, se si abbattono delle malattie, impediscono la nostra ricerca della realtà. (Esso) poi ci riempie di amori e di passioni e di paure e di immaginazioni di ogni genere e di molta vanità, cosicché, come si dice, veramente in realtà per colpa sua non ci accade neppure di concepire nel pensiero mai nulla.
E infatti guerre e rivolte e battaglie null’altro le procura se non il corpo e le sue passioni. Infatti per l’acquisto dei beni materiali tutte le guerre avvengono, e i beni materiali siamo costretti a procurarceli per il corpo, servendo alla di lui servitù; e in seguito a ciò non abbiamo tempo libero per la filosofia per tutte queste ragioni. E la cosa peggiore fra tutte (è) che, se anche ci capita un qualche momento libero da esso e ci volgiamo al considerare qualcosa, nelle ricerche ancora intromettendosi dovunque procura confusione e turbamento e ci sconvolge, tanto che, per colpa sua, non possiamo scorgere la verità.
Ma in realtà a noi è dimostrato che, se intendiamo mai conoscere qualcosa puramente, dobbiamo distaccarci da esso e guardare con l’anima stessa le cose in sé: e allora, come pare, ci sarà per noi ciò che desideriamo e (di cui) diciamo di essere innamorati, la saggezza, quando saremo morti, come indica il ragionamento, ma da vivi no. (Platone, Fedone, 66 c-d).
TIMEO IN PARADISO. METAFORE E BELLEZZA DA PLATONE A DANTE
di Donato Pirovano (Treccani, 29 novembre 2023
Su uno sfondo a finto mosaico dorato una donna, bionda e bellissima, si protende in avanti e pone la sua mano destra sul cosmo; accanto a lei si muovono simmetricamente due putti nudi e alati con libri sottobraccio. Questa figura femminile è stata variamente interpretata, ma risulta convincente la didascalia che Piero Boitani ha scelto per l’immagine della sovraccoperta del suo nuovo libro:
Sophia crea l’universo in veste di Motore Primo o Demiurgo.
È il geniale affresco incipitario che Raffaello dipinse nel 1508 nella camera di papa Giulio II della Rovere, che poi divenne Stanza della Segnatura. In uno spazio pittorico destinato a ospitare il trionfo delle categorie neoplatoniche del Vero, del Bene e del Bello non poteva esserci esordio più idoneo. Sophia tocca il cosmo e vi imprime il movimento, la vita e la bellezza. L’atto primigenio è un soffio della potenza di Dio - come dice il Libro della Sapienza, 7 25 -, e fin da questo primo istante «quando [Dio] dispose la volta sulla superficie dell’abisso» (Prov., 8 27) la Sapienza già esisteva e giocava davanti a Dio tutto il tempo della Creazione.
Verità razionale (La scuola di Atene) e rivelata (La disputa del sacramento), bellezza (Il Parnaso) e giustizia (L’approvazione delle Decretali da parte di Gregorio IX e La consegna delle Pandette a Giustiniano) si dispiegano lungo le pareti, mentre le icone della Teologia, della Filosofia, della Giustizia e della Poesia, cui sono aggiunte sezioni rettangolari con episodi simbolici (per esempio il Peccato originale e il Giudizio di Salomone) campeggiano nelle volte: idealmente è come se tutti gli affreschi prendessero forma, colore e vita da Sophia che tutto crea e contempla.
Al centro della Scuola di Atene, vicino al punto di fuga, si ergono in piedi uno accanto all’altro Platone e Aristotele, il primo con l’indice destro alto verso il cielo e il secondo con la mano destra aperta verso il terreno, gesti che riassumono il DNA della loro filosofia. Il «maestro di color che sanno» (Inf., iv 131) tiene con la sinistra la sua Etica, mentre Platone, raffigurato con le fattezze del genio contemporaneo Leonardo da Vinci, ha sotto il braccio il Timeo.
Ai tempi di Raffaello, grazie soprattutto a Marsilio Ficino, il corpus platonico era ampiamente noto e aveva affascinato il pensiero umanistico, ma il Timeo è stato l’unico dialogo «conosciuto in Occidente per mille anni» (p. IX). Mettendolo in mano al suo Platone il grande pittore sente ancora il fascino di quello scritto «che, sostituendosi ai miti di Esiodo e ai dialoghi di Parmenide, immagina la creazione del cosmo, la sua struttura, la sua anima e il suo corpo, la generazione dell’uomo» (p. 5). Più che dialogo, monologo, perché, dopo le pagine d’esordio Socrate e i suoi ospiti restano silenti e lasciano la parola al lungo discorso di Timeo di Locri, che racconta le origini del cosmo e dell’uomo e incanta con la potenza dell’argomentazione logica e con l’icasticità del suo linguaggio metaforico.
La storia della ricezione del Timeo fino a Dante e oltre si squaderna nelle pagine di questo ricco, denso e bellissimo libro di Piero Boitani che si autodefinisce «un non-filosofo e un non-teologo» (p. IX), ma che prende per mano il lettore e lo guida in questa mirabile avventura intellettuale, mosso dall’impulso primitivo e fondante di ogni ricerca, la meraviglia.
Per accompagnare il lettore nell’albero frondoso che trae linfa dal Timeo, Boitani divide opportunamente l’argomentazione in 34 piccoli capitoli, preceduti da una Prefazione e chiusi da un Epilogo che varca la soglia dantesca annunciata dal sottotitolo e si spinge con rapidi tocchi magistrali fino a Heisenberg e a Whitehead.
In Appendice viene pubblicato il Timeo nella traduzione italiana di Federico Maria Petrucci.
Nella Prefazione (p. VII), Boitani confessa che la «sua meraviglia» ha suscitato il desiderio di percorrere i sentieri del linguaggio figurato che da Platone portano a Dante, e l’endecasillabo «quel che Timeo de le anime argomenta» (Par., iv 49) è stato a lungo il titolo dell’opera, poi sostituito dal non meno accattivante Timeo in Paradiso. A Dante sono, infatti, dedicati 17 capitoli (dal XVIII al XXXIV), dunque metà dell’opera. E non poteva essere diversamente perché nella Commedia in più punti il sommo poeta tange il fulcro dell’opera platonica: la bellezza della creazione.
Boitani ripercorre con quadri limpidi la fortuna antica e medievale del Timeo - che ha affascinato i più grandi pensatori, da Cicerone all’Anonimo Del Sublime, da Plotino a Proclo, da Agostino a Dionigi pseudo-Areopagita, da Boezio alla Scuola di Chartres, da Alberto Magno a Tommaso d’Aquino -, e dedica alcuni capitoli anche alla Bibbia concentrandosi sulla creazione, sulla Sapienza e soprattutto sulla bellezza, incarnata in figure femminili come Sara, Rebecca, Rachele («la fanciulla più affascinante di tutta la Bibbia», p. 33), Ester e la sposa del Cantico dei Cantici.
Del resto - sostiene Boitani - «leggere la Scrittura con Platone si può, ma occorre trovare i modi giusti» (p. VII). A differenza della cosmologia aristotelica che si fonda sull’eternità dell’universo, per Platone, così come per la Bibbia, c’è un atto creativo di un ποιητὴν καὶ πατέρα τοῦδε τοῦ παντὸς ‘produttore e padre di questo universo’. Infatti, come spiega Tommaso commentatore dei Nomi divini di Dionigi pseudo-Areopagita dal momento che c’è stata una creazione quando si discorre di immortalità si può parlare non di «sostanze eterne», ma «sempiterne», non perché sono sempre esistite, ma perché, dal momento che hanno iniziato a esistere, non cessano più di essere e quindi, in questo senso, sono partecipi dell’eternità (Tommaso d’Aquino, Commento ai nomi divini, cap. V, lezione 2 659).
Ne parla anche Dante rispondendo a san Giovanni sulla carità: «Tal vero a l’intelletto mïo sterne / colui che mi dimostra il primo amore / di tutte le sustanze sempiterne», ‘Questa verità spiega alla mia mente colui che mi dimostra qual è il primo oggetto d’amore di tutti gli esseri immortali’ (Par., XXVI 37-39).
Il «colui», variamente interpretato dai commentatori, è l’Aristotele della Metafisica, che Dante legge nella spiegazione di Tommaso (cfr. Commento alla Metafisica, libro xii, lezione 7 2529). Le sustanze sempiterne si muovono, pertanto, per amore del sommo bene che è il primo motore immobile. Quando Dante scrive «tutte le sustanze sempiterne» pensa certamente ai cieli, che sono in grado di amare perché mossi dalle intelligenze angeliche e dunque in possesso di una vita psichica, senza la quale non si può amare, ma anche agli angeli e agli uomini, perché amare Dio è la perfezione somma della creatura ragionevole. Aristotele sì, dunque, ma con uno sguardo, indirizzato dal Doctor Angelicus, all’atto creativo primigenio della Bibbia, ma anche del Timeo platonico.
E se Beatrice spiega a Dante che le anime dei beati non ritornano al cielo come Platone sembra dichiarare nel Timeo (con riferimento a 41d-42b), poi precisa così: «e forse sua sentenza è d’altra guisa / che la voce non suona, ed esser puote / con intenzion da non esser derisa», ‘ma forse la sua vera opinione è diversa da come suonano le parole e può avere un senso non risibile’ (Par., IV 55-57). A Platone «è opportuno concedere il beneficio d’inventario!» (p. 126). E, infatti, se Dante non prescinde teologicamente e poeticamente dalla splendida raffigurazione di tutte le anime nella candida rosa dell’Empireo, tuttavia, grazie a una lettura non letterale del Timeo, ha usato le influenze celesti per costruire la narrazione del suo viaggio celeste e chiudere in perfetta simmetria i tre cammini oltremondani, tanto più che le tre cantiche si chiudono con la medesima parola «stelle».
ANTROPOLOGIA, FILOLOGIA, E TEOLOGIA-POLITICA, OGGI (12 SETTEMBRE 2023).
UN "INVITO ALLA LETTURA" di una breve annotazione di Giorgio Agamben (Quodlibet, 30 agosto 2023) sulla "fede" e sulla "esperienza della parola":
La neve in Romania
di Giorgio Agamben (Quodlibet, 30 agosto 2023)
A che cosa siamo fedeli, che cosa significa aver fede? Credere in un codice di opinioni, in un sistema di idee formulate in un’ideologia o in un «credo» religioso o politico? Se così fosse, fedeltà e fede sarebbero una triste faccenda, nient’altro che il tetro, compiaciuto dovere di eseguire prescrizioni dalle quali per qualche ragione ci sentiamo vincolati e obbligati. Una tale fede non sarebbe qualcosa di vivo, sarebbe lettera morta come quella che il giudice o lo sbirro ritengono di applicare nello svolgimento delle loro funzioni. L’idea che il fedele sia una specie di funzionario della sua fede è così ripugnante, che una ragazza, che aveva sopportato la tortura pur di non rivelare il nome dei suoi compagni, a coloro che elogiavano la sua fedeltà alle proprie idee rispose semplicemente: «non l’ho fatto per questo, l’ho fatto per capriccio».
Che cosa intendeva dire la ragazza, che esperienza della fedeltà voleva esprimere con le sue parole? Una riflessione su quella fede per eccellenza, che fino a qualche decennio fa era ancora considerata la fede religiosa, può fornirci indizi e riscontri per una risposta. Tanto più che proprio in questo ambito la Chiesa a partire dal Simbolo niceno (325 d.C.) ha ritenuto di dover fissare in una serie di dogmi, cioè di proposizioni vere, il contenuto della fede, ogni discordanza rispetto alle quali costituiva un’eresia condannabile. Nella lettera ai Romani Paolo sembra dirci anzi esattamente il contrario. Egli lega innanzitutto la fede alla parola («la fede viene dall’ascolto attraverso la parola di Cristo») e descrive l’esperienza della parola che è in questione nella fede come una immediata vicinanza di bocca e cuore: «Vicina (eggys, letteralmente alla mano) a te è la parola, nella tua bocca e nel tuo cuore, questa è la parola della fede... Col cuore infatti si crede nella giustizia, con la bocca si professa per la salvezza». Paolo riprende qui un passo del Deuteronomio che affermava questa stessa prossimità: «la parola è vicinissima nella tua bocca e nel tuo cuore ed è nelle tue mani attuarla».
L’esperienza della parola che è in questione nella fede non si riferisce al suo carattere denotativo, al suo corrispondere a dei fatti e a delle cose esteriori: è, piuttosto, esperienza di una vicinanza che ha luogo nell’intima corrispondenza tra bocca e cuore. Testimoniare della propria fede non significa fare delle affermazioni fattualmente vere (o false) come si fa in un processo. Non siamo fedeli, come nel credo o nel giuramento, a una serie di enunciati che corrispondono o non corrispondono a dei fatti. Siamo fedeli a un’esperienza della parola che sentiamo così vicina, che non c’è spazio per separarla da ciò che dice.
La fede è, cioè, innanzitutto un’altra esperienza della parola rispetto a quella di cui crediamo di servirci per comunicare dei messaggi e dei significati ad essa esterni. A questa parola siamo fedeli perché, nella misura in cui non possiamo separare la bocca e il cuore, viviamo in essa e essa vive in noi. È una tale esperienza che doveva avere in mente quella ragazza berbera che, mentre un giorno le chiedevo che cosa la legava così fortemente a un uomo che diceva di aver amato e con il quale era vissuta per un anno in una capanna nelle montagne rumene, rispose: «io non sono fedele a lui, sono fedele alla neve in Romania».
#PIANETATERRA, #RECINZIONI (#ENCLOSURES) E #CIVILTA’:
L’#ABC DELLA #FILOLOGIA, DELLA#LOGICA, E DELLA FILO-#SOFIA DELLA #DIGNITA’ DELL’#UOMO ("DE HOMINIS DIGNITATE").
"COME FARE COSE CON LE PAROLE". LA "PREMESSA" DI UN "ANTICO" SILLOGISMO.
"Avevo cinque anni. L’insegnante ha scritto sulla lavagna: "Tutti gli uomini sono mortali". -Ho provato un enorme sollievo, una grande gioia.
Quel pomeriggio, quando uscii da scuola, corsi a casa e abbracciai molto strettamente mia madre.
"Che fortuna mamma, tu non morirai mai! "Gli ho detto, rapito.
"Cosa? " chiese mia madre, sorpresa.
Mi sono separato appena da lei e le ho spiegato:
La maestra ha scritto sulla lavagna che gli uomini sono mortali.
E tu sei una donna!. Per fortuna sei una donna, ho detto e l’ho riabbracciata.
Mia madre mi ha teneramente separato dalle sue braccia.
Questa frase, mia cara, include uomini e donne. Tutti e tutte moriremo un giorno.
Mi sono sentita completamente sconvolta e delusa.
Allora perché non l’ha scritto? : "Tutti gli uomini e le donne sono mortali"? Ho chiesto.
Beh - ha detto mia madre, in realtà, per semplificare, noi donne siamo rinchiuse nella parola "uomini".
Chiuse? - Ho chiesto. Perché?
Perché siamo donne - mi rispose mia madre.
La risposta mi ha sconcertato.
E perché ci rinchiudono? Gliel’ho chiesto.
È molto lungo da spiegare, rispose mia madre. Ma accettalo così. Ci sono cose che non sono facili da cambiare.
Ma se dico "tutte le donne sono mortali"? Rinchiude anche gli uomini?
No- rispose mia madre. Questa frase riguarda solo le donne.
Ho avuto una crisi di pianto.
Ho capito all’improvviso molte cose e alcune molto spiacevoli, come che il linguaggio non era la realtà, ma un modo per rinchiudere cose e persone, a seconda del loro genere, anche se sapevo a malapena cosa fosse il genere: oltre a servire a fare gonne, il genere era una forma di prigione. "
* Cristina Peri Rossi - Scrittrice uruguaiana vincitrice 2021 del Premio Cervantes.
#SONNODOGMATICO (#KANT), #PREISTORIA (#MARX) #LETARGO (#Dante2021)! A ONORE E OMAGGIO DELL’ Attacco Poetico di #CristinaPeriRossi ... ALLEGO LA #SINTESI DELLA #TEORIA PLATONICO-ARISTOTELICA DEL "#SAPIENTE" (#BOVILLUS. 1510), #CRITICA-#MENTE AL CENTRO DEL LORO LAVORO DA #STEFANOMANCUSO E #ALESSANDRAVIOLA NEL LIBRO "VERDE BRILLANTE. SENSIBILITà E INTELLIGENZA DEL MONDO VEGETALE" (Giunti Editore).
STORIA E FILOSOFIA E ANTROPOLOGIA...
DISAGIO DELLA CIVILTA’ (S. FREUD, 1929) E MILLENNI DI VITA NELLA CAVERNA "COSMICA": NEL TOTALE FRAINTENDIMENTO SOCRATICO DELLA LEZIONE DI DIOTIMA DI MANTINEA E DELLA MEMORIA DELL’ ARCADIA, ANCORA NEL MITO GRECO DELLA"CADUTA" E NEL SOGNO DEL SOGNO DI PLATONE.
Due citazioni dalla "Repubblica" ("Politeia") e alcune note di commento:
«Bene. Siamo quindi d’accordo, Glaucone, che nella città destinata al governo più perfetto devono essere in comune le donne, i figli e l’intera educazione, come pure le occupazioni in pace e in guerra, e devono regnarvi i migliori nella filosofia e nella guerra».
«Siamo d’accordo», disse.
«E abbiamo anche convenuto che i governanti, una volta insediatisi, faranno alloggiare i soldati nelle abitazioni descritte sopra, dove nessuno avrà nulla di proprio, in quanto saranno comuni a tutti; e oltre a queste abitazioni abbiamo concordato, se ti ricordi, anche le norme che regoleranno i loro possessi».
«Sì », confermò, «ricordo: pensavamo che nessuno dovesse possedere nulla di ciò che ora possiedono gli altri, e che in qualità di atleti della guerra e di guardiani dovessero prendersi cura di sé e del resto della città, ricevendo come compenso per il loro servizio il mantenimento annuale da parte degli altri concittadini». [...] (Platone, "La repubblica ["Politeia"]", Libro VIII, 543 a).
***
IL PROBLEMA DELL’UNO E DEL RAPPORTO "UNO E MOLTI" E LA NASCITA DELL’ UOMO-LUPO:
[...]«Ma il popolo non ha sempre l’abitudine di mettere alla sua testa un solo individuo, di cui alimenta e accresce il potere?»
«Sì , ha questa abitudine».
«E allora», dissi, «è evidente che quando nasce un tiranno, germoglia dalla radice di un capo e non da un’altra».
«E come se è evidente!».
«E come inizia la trasformazione da capo a tiranno? Non è chiaro che ciò avviene quando il capo incomincia a comportarsi come nel mito che si racconta sul tempio di Zeus Liceo in Arcadia?»
«Quale mito?», chiese.
«Quello secondo il quale chi ha gustato viscere umane, tagliate e mescolate a quelle di altre vittime sacrificali, si trasforma inevitabilmente in lupo. Non hai mai sentito questa storia?»
«Sì , certo». «Ebbene, allo stesso modo chi è stato messo a capo del popolo, se incontra una massa troppo obbediente, non si astiene dal sangue dei concittadini, ma con false accuse, come accade di solito, trascina l’avversario in tribunale e si macchia di un delitto togliendo la vita a un uomo, e gustando con lingua e bocca impure sangue della sua razza manda in esilio, condanna a morte e proclama cancellazioni di debiti e divisioni di terre. Non è forse inevitabile che dopo queste azioni un individuo simile sia destinato a cadere vittima dei suoi nemici o a diventare tiranno, trasformandosi da uomo in lupo?»
«E’ del tutto inevitabile», rispose. [...] (Platone, La repubblica ["politeia"]", Libro VIII, 565 d-e).
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"IL TEMPO E’ FUORI DAI CARDINI" (SHAKESPEARE, "AMLETO"): A PLATONE, LA QUADRATURA DEL CERCHIO NON RIESCE E NON PUO’ RIUSCIRE. A mio parere, il suo circolo ermeneutico ed antropologico, il "nodo" che lega ogni-uno con ogni-uno è ancora viziato e vizioso: la sua concezione dell’ultima cena (quella del "Simposio"), realizzata a "ricordo" della Arcadia perduta e sulla pelle e sulle parole di Diotima di Mantinea, replica di nuovo il "gesto" del mito che narra della "rottura" del "patto" con "Zeus". L’Uno di ogni-uno è fuori dalla "caverna" e ogni essere umano ( ogni-uno), dopo millenni, non sa ancora come uscire e come diventare virtuoso con sé e con ogni altro "uno" ("Homo homini deus"). La lezione del "presepe" ("menschwerdung") è ancora incompresa e ignorata: il buon messaggio non è mai arrivato, e, se arrivato, è quello "platonico" ed "hegeliano".
"CLAUSTROFILIA" (ELVIO FACHINELLI, 1983) E INFINITI TENTATIVI DI RINASCIMENTO. Se, dopo Erasmo da Rotterdam ("Colloqui",1522), si continua a ripetere il suo «Sancte Socrates ora pro nobis» ("Santo Socrate ["So - kratos" = "tutto-forza"], prega per noi"), come è possibile svegliarsi dal sonno dogmatico (Kant) e uscire dal gioco e del giogo dell’antinomie della dialettica del Mentitore?!
(Sul tema, mi sia lecito, si cfr. Federico La Sala, "La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica", Antonio Pellicani editore, Roma 1991).
PLATONISMO DI LUNGA DURATA E TRAGEDIA:
"MASCHERE PLATONICHE"... DI UNA RAGIONE TRAGICA E DI UNA "STORIA NOTTURNA".
DIVINA COMMEDIA E ARCHEOLOGIA FILOSOFICA. Per meglio capire "il problema Socrate" e gli interi millenni di labirinto (Nietzsche) e, possibilmente, uscire dall’#inferno antropologico ed epistemologico della "storia notturna" (#CarloGinzburg) in cui ancora ci agitiamo pericolosamente, forse, è opportuno portarsi oltre "il platonismo classico" con chi, come #DanteAlighieri, ha saputo ascoltare il canto delle #Sirene e con Giasone ("Un punto solo m’è maggior letargo / che venticinquesecoli a la ‘mpresa, / che fé Nettuno ammirar l’ombra d’Argo." (Pd. XXXIII, 94-96), ha saputo "ricostruire" la nuova Arca, la nuova Argo, e, finalmente, sollecitare a riprendere la navigazione nell’oceanoceleste (Keplero a Galileo Galilei, 1611).
P. S. - MASCHERE ANTICHE, "PRISCA TEOLOGIA", E "DICERIE SACRE" (1614): "[...] E chi non sa che sotto l’invoglio di così fatti velami et enimmi soleva molti, anzi tutti i più riposti e maravigliosi secreti nascondere la supestiziosa antichità? Che perciò ritrovate furono le statue de’ sileni, le cui concave viscere erano gravide de’ simulacri degl’iddii, accioché i divini arcani si tenessero alla gente vulgare appannati et occulti. Più oso di dire: che sotto queste bende misteriose non solo si celano le fallacie delle bugiarde deità degli Etnici, ma chiunque con zelo pio e con ingegno catolico prende a spiarle addentro, vi può contemplare eziandio adombrati assaissimi sacramenti della cristiana religione."(Giovan Battista Marino, "Dicerie Sacre", 1614).
L’ONDA LUNGA DEL RINASCIMENTO MERIDIONALE E E LA LEZIONE CRITICA DI PADRE GIOVANNI POZZI: GIOVAN BATTISTA MARINO, LE “DICERIE SACRE”, E DUE MAGISTRATI DELLA FAMIGLIA PEPI DI CONTURSI TERME (SALERNO), NELLA BASILICA DI SAN DOMENICO MAGGIORE A NAPOLI.
A) - MEMORIA E STORIA: BASILICA DI SAN DOMENICO MAGGIORE (NAPOLI). NELLA CAPPELLA CON L’ALTARE dove c’è la “MadonnadellaNeve tra il Battista e S. Matteo”, a destra, c’è il cenotafio di Giambattista Marino (m. 1625), il famoso poeta secentista, con busto in bronzo, di Bartolomeo Viscontini (1682) e, a sinistra, il monumento sepolcrale di Bartolomeo e Girolamo Pepi (1580), illustri giureconsulti “da Contursi”, con una lapide su cui è scritto: “Bartholomaeo Pepi Iurisconsulto, qui claros gessit summa continentiae et æquitatis laude Magistratus, Parenti optvmo Hieronymoque germano fratri et nomini in omnibus vitæ partibus integerrimo. Marcus Antonius Pepi Dominus Contursii, Sancti Angeli Fasanellæ, Optati, Optatelli, et aliorum Benemerentibus. Anno Domini M.D.LXXX»”.
B) - POLITICA RELIGIONE E ARTE NEL REGNO DI NAPOLI: 12 SIBILLE CON I CARMELITANISCALZI NELLA TERRA (DEL PRINCIPE DI EBOLI E) DELLA FAMIGLIA PEPI. A CONTURSI, nell’ attuale Città di CONTURSI TERME (SALERNO), una grande pala d’altare, collocata sull’altare della Chiesa della Madonna del Carmine, con pareti affrescate con le figure di 12 Sibille, fu commissionata e dedicata dal giureconsulto Paolo Pepi, alla memoria dello zio Paolo Antonio Pepi: «AD HONOREM SACRATISS. VIRGI DE MO/TE CARMELO, ET IN MEMORIA CELE/BERRI IUREC: D. PAULI ANTO. PEPI/... PAULUS PEPI IUREC: PRONEPOS/ / F/EC. ANNO DOMINI 1608/IACOBUS DE ANTORA NEAP. PNGB».
C) - LA “PRISCA TEOLOGIA”, LE SIBILLE E I PROFETI DELLA “CAPPELLA SISTINA”, E ISAAC CASAUBON (Ginevra, 18 febbraio 1559 - Londra, 1º luglio 1614). “Nel 1608, in piena bufera controriformistica, pochi anni prima che in tutta Europa divampassero le guerre di religione e che il filologo Isaac Casaubon (De rebus sacris et eccleslasticis exercitatíones XVI. Ad Cardinalis Baronii prolegomena in Annales, Londra 1614) demolisse “in un sol colpo la costruzione del neoplatonismo rinascimentale con alla base il culto dei prisci teologi principale dei quali era Ermete Trismegisto; [...] la posizione del mago e della magia rinascimentali con il relativo fondamento ermetico- cabalistico; [...] il movimento ermetico cristiano non magico del XVI secolo; [...] la posizione di un ermetico estremista, quale era stato Giordano Bruno; [...] tutti i tentativi di costruire una teologia naturale sull’ermetismo, come quello in cui Campanella aveva riposto le sue speranze”, un ignoto teologo e filosofo carmelitano rimedita nelle linee essenziali il problema e la lezione di Niccolò Cusano, di Marsilio Ficino, di Pico della Mirandola e, con l’aiuto di modesti artisti, a Contursi - in provincia di Salerno, nella chiesetta di Maria SS. del Carmine (monastero di padri carmelitani dal 1561 al 1652), scrive il suo poema sulla nascita e sulla pace fidei. [...]” (Cfr. Federico La Sala, “DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE. Note sul “Poema” rinascimentale di un ignoto Parmenide carmelitano (ritrovato a Contursi Terme nel 1989)").
D ) GIOVAN BATTISTA MARINO, LE “DICERIE SACRE” (1614), E LA PROPOSTA DI “LETTURA” DI GIOVANNI POZZI: “[...] Possiamo accogliere l’indicazione metodologica di Pozzi anche per quanto riguarda il rapporto con il mito, qui assunto da Marino come “prisca teologia”: sulla scorta di una lunga tradizione, s’intende, ma declinata secondo modalità, se non del tutto inedite, certo pochissimo praticate. Subito all’inizio, Marino rintraccia in molti miti pagani il nucleo di altrettante verità cristiane. L’elenco è sorprendentemente lungo [...]".
(cfr.Federico La Sala, "Le parole e le cose").
FLS
ARCHEOLOGIA, FILOLOGIA, ILLUMINAZIONE E ANTROPOLOGIA: "SÀPERE AUDE!" (KANT, 1784).
Un omaggio a Flavio Piero Cuniberto e alla sua riflessione sul
***
HAMLETICA: LA PORTA DELLA CAVERNA E LA QUESTIONE DEL NOME. Gloria a Pitagora, e a Teano ("Viva Verdi"), ma non confondiamo la "furbata" di Socrate che, al "Convivio" di Platone, si porta dietro il ricordo (falso e bugiardo) del discorso di Diotima, di cui ribalta tutto il senso sia sul piano materialistico sia idealistico! Dopo interi millenni di labirinto (Nietzsche) e, dopo aver perso l’Italia e la Costituzione, si hanno ancora grandi difficoltà a ricordarsi di M_Arianna, di Maria Maddalena, e di Maria Beatrice (Dante-2021), e si continua a vivere allucinatamente nella illuminata caverna del platonico Mentitore? Tra l’alto dell’Acropoli e il basso dell’Agorà, nella città di Pitagora, come di Parmenide e Zenone, c’è il ponte (un viadotto), non una "Porta Rosa" d’accesso alla fabbrica del "plateale" camuffato Demiurgo acropolitano.
FILOLOGIA FILOSOFIA STORIA E DIVINA COMMEDIA (DANTE 2021):
QUANTE "NUVOLE" NEL CIELO DELLA "REPUBBLICA"!
UN LETARGO TEOLOGICO-POLITICO ANTROPOLOGICO E COSTITUZIONALE PROFONDO ha mandato in collasso tutte le istituzioni culturali e politiche di tutte le #Città.
Nelle #Università e nelle #Accademie laiche e devote si insegna ancora a credere che #Aristofane scherzasse su #Socrate! #Nietzsche ("#Crepuscolo degli #idoli") aveva ragione: la #filosofia del suo allievo #Platone contiene il segreto sul come rendere forte il discorso debole e debole il discorso forte, e sul come realizzare il #sogno del #sofista #re: egli ha truccato le "regole del gioco" dell’#Occidente e ha insegnato a una "parte" della intera umanità a come mettersi al di sopra di tutte le "parti", a un "partito" come mettersi al di sopra di tutti i "partiti", e a come imporre le proprie "olimpiche" demiurgiche "#Leggi" su tutta la #Fattoria! Un colpodistato più che millenario - al capolinea... #Giornatadellamemoria, #27gennaio 2023.
ARTE, FILOLOGIA, "NASCITA DELLA TRAGEDIA" (NIETZSCHE), E
QUESTIONE ANTROPOLOGICA ("ECCE HOMO", 1888):
PLATONE E "NOI", OGGI (11MAGGIO 2023). MESSA A MORTE LA #GIUSTIZIA (#DIKE) DI #PARMENIDE, #PLATONE SALE SULL’ACROPOLI E DICHIARA: "IO, PLATONE, SONO LA [DEA DELLA] #VERITÀ". "L’essere che realmente è, senza colore, senza forma, non apparente [...] occupa questo luogo. [...] e [l’anima] contemplando il vero se ne nutre e ne gode" (Fedro 247 c-d).
ELEUSIS_2023. Abbandonata "M_Arianna", interi millenni di labirinto ... nella ’invisibile’ caverna plutonica (ricordando Demetra ed Eleusis).
Dopo #Dante2021, ancora in un profondissimo #letargo (Pd., XXXIII, 94)!
P. S. - Su Platone, oggi, alcuni appunti per una possibile diversa "lettura": nelle Università e nelle Accademie (laiche e devote) si insegna ancora a credere che Aristofane scherzasse su #Socrate!
HAMLETICA: FILOLOGIA, ANTROPOLOGIA (CRISTOLOGIA), LINGUISTICA, E "COSTRUZIONI NELL’ ANALISI" (FREUD). Un omaggio a Shakespeare, alla "question" di Hamlet (Amleto, e a Ferdinand de #Saussure. In #principio era il #Logos, non un #logo...
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EUROPA, CRISTIANESIMO E "DISAGIO DELLA CIVILTÀ": IL "CORPO DEL SIGNORE ("CORPUS DOMINI)" E L’ EUCARISTIA (Eu-charis-tia").
Due note:
A) SACRAMENTALISMO. "Il termine #sacramentalismo descrive il sistema concettuale e pratico attraverso il quale in particolare la Chiesa cattolica romana, ma anche il #cristianesimo ortodosso comprende la funzione e l’uso dei #sacramenti come mezzi mediante i quali la #grazia di Dio verrebbe impartita ai fedeli. Esso è strettamente legato alla figura del #sacerdote [...]" (https://it.wikipedia.org/wiki/Sacramentalismo);
B) SACRAMENTARISMO. "Si definisce sacramentismo o #sacramentarismo il movimento di opposizione, sviluppatosi nei Paesi Bassi alla fine del Medioevo, alla tradizionale teologia eucaristica e alle relative pratiche devozionali, consistente nel #rifiuto della dottrina della transustanziazione e della messa intesa come ripetizione del #sacrificio di Cristo, dando alla comunione, la cena del #Signore, un carattere simbolico e commemorativo.
A definire sacramentisti o sacramentari i seguaci di tale movimento furono le stesse autorità ecclesiastiche, per le quali sacramentarius era chiunque sostenesse che ogni sacramento era soltanto un #segno, senza che nella cerimonia avvenisse alcuna alterazione della materia sacramentale. Anche Lutero, creatore della teoria della consustanziazione, chiamò sacramentari i suoi avversari nella controversia eucaristica che ebbe con Carlostadio, Ecolampadio, Schwenckfeld e Zwingli, quest’ultimo il più autorevole sostenitore del carattere simbolico della comunione. [...]
Alla crescita del movimento sacramentario fece seguito la reazione dell’Inquisizione. La prima vittima fu Lauken van Moeseken, decapitato nel 1518 a Bruxelles; l’ex-prete Jan de Bakker fu bruciato a L’Aja nel 1525, mentre la prima donna a morire per la sua fede fu Wendelmoet Claesdochter, strangolata e bruciata nel 1527. Negli interrogatori dichiarò che il sacramento dell’altare era « solo pane e farina» e, riferendosi all’estrema unzione, che « l’olio è buono per l’insalata e per lucidare le scarpe». Sul patibolo, rifiutando il crocifisso, dichiarò: «Il mio Dio e Signore non è questo. Il mio Signore è in me e io in lui ».[...]"(https://it.wikipedia.org/wiki/Sacramentarismo).
Federico La Sala
FILOLOGIA FILOSOFIA PSICOANALISI
"ABBRACCIATEVI, MOLTITUDINI" (F. SCHILLER, "INNO ALLA GIOIA", 1785): "INTERPRETAZIONE DEI SOGNI" (S. FREUD, 1899) DEI NIPOTINI E DELLE NIPOTINE DI PLATONE...
«Che cos’è, o uomini ["anthropoi"], che volete ottenere l’uno dall’altro? [...] Forse è questo che volete: diventare la medesima cosa l’uno con l’altro, in modo che non vi dobbiate lasciare né giorno, né notte? Se è questo che desiderate, io voglio fondervi e unirvi insieme nella medesima cosa, in modo che diventiate da #due che siete #uno solo, e finché vivrete, in quanto venite ad essere in questo modo uno solo viviate insieme la vita, e quando morirete, anche laggiù nell’Ade, invece di due siate ancora uno, uniti insieme anche nella morte. Orsù vedete se è questo che volete e se vi farebbe lieti ottenerlo...» (Platone, "Simposio", 192 d-e)
PLATONISMO E TECNOCRAZIA. Dopo interi millenni di letargo, non è meglio svegliarsi e capire che l’intenzione di "Platone" (e di Efesto) è pure lodevole, ma molto, molto artigianale (demiurgica), il suo amore è avido e cieco (Cupìdo) e il suo fare "di due che siete uno solo" sembra voler correggere la divisione fatta da Zeus, ma alla fine fa tutto all’incontrario e fa solo un campo di sterminio, un deserto. All’altezza del 2023, come scriveva Nietzsche, siamo ancora ignoti a noi (stessi e stesse).
MATEMATICA E ANTROPOLOGIA. Forse conviene riprendere il filo da ELEUSI (quest’anno è una delle capitali europee della cultura: Eleusis2023) e cercare di capire il segreto dei misteri eleusini, come nascono i bambini, e, finalmente, scoprire (immergendosi, battesimalmente, nel) l’acqua calda, che ognuno e ognuna è già uno, una, in due; ripartire da sé e riprendere il cammino: "Sàpere aude! (Kant, 1784 - Michel Foucault, 1984). Ricominciare a contare da due, non da uno (dei due, che fa il furbo): "un uomo più una donna ha prodotto, per secoli, un uomo" (Franca Ongaro Basaglia). In principio era il Logos - non il logo di una "fattoria degli animali"!
ANTROPOLOGIA FILOSOFIA E PSICOANALISI: A TEATRO, A TEATRO! Per "aprire gli occhi" (Freud) e ricomprendere il senso dell’amore di Platone, rileggere il "Simposio" e riascoltare i poeti: ripartire da Shakespeare!
LA "REPUBBLICA" DI PLATONE: "C’È DEL MARCIO IN DANIMARCA"("AMLETO"). A seguire le indicazioni filologiche (più che i manuali di storia della filosofia, forse, si può meglio comprendere il gioco e il giogo di Platone: appropriarsi di "tutta" la "forza" ("sos-kratos") di una figura del "demos" (popolo), il famoso e saggio "So-crate", e restaurare e ripresentare tutta la forza ("sos-kratos") della vecchia aristocrazia terriera come l’arché, il principio, il fondamento dell’intera società ateniese e... di tutta la Terra.
IL "SIMPOSIO", FONDAMENTO DEL PLATONISMO PER IL POPOLO (Nietzsche): "COME VI PIACE". Per ben orientarsi e comprendere il senso del racconto di Diotima narrato da Socrate sulla figura di Eros, l’amore platonico, vale la pena riflettere su quanto già dice Shakespeare circa quattrocento anni fa:
"HANG UP PHILOSOPHY"("ROMEO E GIULIETTA", III, 3, 57):"L’AMORE NON E’ LO ZIMBELLO DEL TEMPO" (Sonetto 116). A commento di "queste parole" pronunciate da Rosalinda, la "donna più arguta", Harold Bloom scrive: "Shakespeare non consente a nulla che assomigli alla suprema intelligenza di Rosalinda di interferire con l’autentico rapimento di Giulietta [...] Shakespeare fa in modo che Giulietta pronunci la più nobile dichiarazione d’amore romantico mai scritta in inglese:
Dobbiamo valutare il resto dell’opera in base a questi cinque versi, mirabili per il loro giusto orgoglio e la loro intensità [...] Credo di non essere il solo a sostenere che l’amore condiviso da Romeo e Giulietta sia la passione più sana e costruttiva regalataci dalla letteratura occidentale" (H. Bloom, "Shakespeare. L’invenzione dell’uomo", Rizzoli, Milano 2001, pp.62-63).
ARITMETICA, CIELO STELLATO, E ANTROPOLOGIA. IL PROBLEMA DELL’UNO...
CERCARE DI NON DARE I NUMERI E IMPARARE A CONTARSI E A CONTARE:
UNA POESIA DI TRILUSSA...
I NUMMERI
Conterò poco, è vero:
- diceva l’Uno ar Zero -
ma tu che vali! Gnente: proprio gnente!
Sia ne l’azzione come ner pensiero
Rimani un coso voto e incorcrudente.
Io invece se me metto a capofila
De cinque zeri tale e quale a te,
lo sai quanto divento? Centomila.
E’ questione de nummeri. A un dipresso
è quello che succede ar dittatore
che cresce de potenza e de valore
più so’ li zeri che je vanno appresso
TRILUSSA (Poesie scelte, Mondadori).
***
IL PROBLEMA DELL’UNO. UNA DOMANDA AI MATEMATICI:
COME MAI "UN UOMO PIU’ UNA DONNA HA PRODOTTO, PER SECOLI, UN UOMO" (Franca Ongaro Basaglia)?!
Non è il caso di ripensare i fondamenti?!
Federico La Sala
LA POCA SAGGEZZA DELLA FILOSOFIA, I “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO DI DANTE E LA PRESENTE STORICA CRISI DELLA CULTURA EUROPEA...
CONSIDERATO CHE UN FILOSOFO, “Anche quando sbaglia di grosso, se è un vero filosofo sbaglia con argomenti non banali, fino al punto che, grazie a lui, l’errore brilla della luce convincente della verità” (cf. S. Benvenuto, cit. - su), E VISTO CHE EGLI HA MESSO IL DITO NELLA PIEGA (e nella piaga) della storia della filosofia, nel gioco sofistico di Socrate: «Malgrado lo slogan “so di non sapere”, tutti ci rendiamo conto che Socrate in realtà sapeva tante cose. Ma il suo sapere squisitamente filosofico era proprio quello di non sapere, ovvero, il suo appello all’epistheme come “ricominciare tutto daccapo”» (op. cit. - su), VISTO IL PERSISTERE E , AL CONTEMPO, L’ESAURIRSI DELLA “GRANDE INSTAURAZIONE” ANTROPOLOGICA ED EPISTEMOLOLOGICA apollinea-socratica (su questo, si cfr. la grande analisi di Nietzsche!), forse, è bene e salutare riprendere alla radice (Marx!) la questione e, riaccogliendo l’indicazione di Sofocle, ripensare le «perversioni» di tremila e più anni (come sapeva Dante, meglio di Goethe), rileggere il cap. 15 del manuale di “Anatomia” (Roma, 1560) di Giovani Valverde, e ripensare l’«edipo completo», come voleva Freud e Fachinelli. Altro che continuare a menare la canna per l’aria. O no?!
Sul tema,nel sito, si cfr.:
Antropologia, Storia e Diritto. Donne e Uomini.... PER LA VERITA’ E LA RICONCILIAZIONE. RIMEDITARE LA LEZIONE DI ESCHILO. Dalla storia di Clitennestra, si arriva anche a immaginare una nuova giustizia, all’interno di nuovi rapporti sociali e politici
FLS
CHE COS’ E’ LA DIALETTICA
di Theodor W. Adorno (Le parole e le cose, 17 marzo 2021)
Il concetto di dialettica di cui ci occuperemo qui non ha niente a che fare con quello diffuso di un pensiero lontano dalle cose, che si smarrisce in meri artifici concettuali. Già nel luogo della filosofia in cui il concetto della dialettica emerge per la prima volta, in Platone, con esso si intende l’opposto, cioè una disciplina del pensiero che ha il compito di proteggerlo dalle manipolazioni sofistiche.
Platone sostiene che si può dire qualcosa di razionale sugli oggetti solo se si ha una comprensione della cosa (Gorgia, Fedro)[iii].
Nella sua origine la dialettica significa il tentativo di superare, proprio grazie a una rigorosa organizzazione del pensiero concettuale, il mero illusionismo concettuale. Il tentativo di Platone è colpire i suoi avversari, i sofisti, con i loro stessi mezzi.
Tuttavia il concetto di dialettica, così come ci è stato tramandato dall’antichità, è molto diverso da ciò che io intendo. Infatti il concetto antico della dialettica è il concetto di un metodo filosofico. E in una certa misura essa è sempre rimasta tale. La dialettica è entrambe le cose: un metodo del pensiero, ma anche qualcosa di più, cioè una determinata struttura della cosa, che d’altra parte, per ragioni filosofiche fondamentali, dev’essere presa a misura e guida dell’indagine filosofica.
In Platone dialettica significa che il pensiero filosofico non si mantiene in vita tale qual è nel singolo punto, bensì in modo tale da plasmare, senza che noi ce ne rendiamo conto, la nostra coscienza. La dialettica platonica è la dottrina del corretto ordinamento dei concetti, dell’innalzamento dal concreto a ciò che è più elevato e generale. Le idee non sono, anzitutto, che i concetti generali supremi cui il pensiero si solleva[iv]. Dall’altro lato dialettica significa anche, viceversa, procedendo dall’alto, suddividere i concetti nel modo corretto[v].
Platone, con la questione della corretta suddivisione dei concetti, si trova di fronte al problema di ripartirli in modo tale che siano adeguati alle cose comprese sotto di essi. Da un lato bisogna esigere la formazione logica dei concetti, ma essa non dev’essere realizzata in modo violento, a partire da uno schema; piuttosto, i concetti devono essere formati in modo tale da essere commisurati alla cosa. Confronto con il sistema della botanica di Linneo[vi] e il sistema naturale secondo la struttura delle piante. Il vecchio, tradizionale concetto di dialettica non era altro che il metodo dell’ordinamento dei concetti.
D’altra parte, era chiaro già a Platone che noi non sappiamo in partenza se l’ordine concettuale che imprimiamo alle cose sia anche quello che hanno gli oggetti stessi. Per Platone e Aristotele era importante riprodurre i concetti della natura in modo tale che portassero a espressione la cosa compresa sotto di essi. Come facciamo a sapere qualcosa dell’essere non concettuale, che si trova anzitutto al di là dei concetti? -Notiamo che i concetti si impigliano in certe difficoltà; allora, a causa di questa deficienza, dobbiamo passare a una migliore formazione dei concetti. Questa è l’esperienza fondamentale della dialettica, la messa in moto dei concetti attraverso il confronto con ciò che essi esprimono. Bisogna andare a vedere se i dati si accordano o meno con i concetti.
La dialettica è certamente un metodo, che si riferisce al modo del pensiero, ma al tempo stesso si distingue da altri metodi, perché cerca continuamente di non rimanere ferma, perché si corregge continuamente sulla datità delle cose stesse. Tentativo di definizione: dialettica è un pensiero che non si accontenta dell’ordinamento concettuale, ma è l’arte di correggere l’ordinamento concettuale con l’essere degli oggetti. È questo il nervo vitale del pensiero dialettico, il momento dell’opposizione. La dialettica è il contrario di ciò che si pensa: non una semplice arte dell’operazione, ma il tentativo di superare la manipolazione meramente concettuale, di portare a compimento, a ogni livello, la tensione fra il pensiero e ciò che sta sotto di esso. Dialettica è il metodo del pensiero che non è semplice metodo, ma il tentativo di superare il semplice arbitrio del metodo e accogliere nel concetto, insieme, ciò che non è a sua volta concetto.
Sull’“esagerazione”[vii]: si dice che la verità dev’essere sempre la cosa più semplice, primitiva; ciò che se ne discosta sarebbe soltanto un’aggiunta arbitraria. Questa immagine presuppone che il mondo coincida con ciò che esso esibisce nella sua facciata. Qui il compito della filosofia è disorientare radicalmente. Un pensiero che non si faccia carico di tutta la fatica necessaria per superare le rappresentazioni impresse nel senso comune, non è altro che la mera riproduzione di ciò che si pensa e si dice. La filosofia deve insegnare a non farsi abbindolare. Hegel in una conversazione con Goethe: “La filosofia è lo spirito di contraddizione organizzato”[viii]. Ogni pensiero che sfonda la facciata, la parvenza necessaria, l’ideologia, è sempre esagerato. La propensione della dialettica a portare agli estremi ha oggi esattamente la funzione di tener testa alla smisurata pressione esterna.
La dialettica è consapevole che da un lato c’è il pensiero e, dall’altro, ciò su cui esso si affatica. Il pensiero dialettico non è qualcosa di puramente intellettualistico, ma anzi il tentativo del pensiero di autolimitarsi attraverso la cosa. Come fa il pensiero, all’interno della determinazione concettuale, a dare alla cosa il suo peso? Hegel, Fenomenologia: l’immediatezza ritorna a ogni livello del movimento compiuto dal pensiero. Continuamente il pensiero si ritrova a confrontarsi con il suo opposto, con ciò che si può chiamare natura.
Una introduzione alla dialettica deve svolgersi in un confronto costante con il problema del positivismo. Non può fare come se i criteri del positivismo non ci fossero, ma deve cercare di commisurarli a loro stessi, e con ciò andare oltre il concetto proprio del positivismo. Quest’ultimo è un elemento della dialettica, non una visione del mondo.
[i] Non esiste una trascrizione della prima lezione dell’8 maggio 1958. Pubblichiamo al suo posto il testo di uno stenoscritto della lezione.
[ii] [La prima e la seconda lezione sono state tradotte a quattro mani con Manfred Posani.]
[iii] Nel dialogo giovanile Gorgia Platone fa sostenere, dapprima, al sofista omonimo (483-375 a.C.) che “non v’è materia su cui [il retore] non riesca più persuasivo di qualsiasi competente di fronte a una massa di persone” (Gorgia 456c, trad. it. di F. Adorno, in Opere complete, Roma-Bari, Laterza, 1993, vol. 5, pp. 133-248; p. 155). Il suo interlocutore Socrate distingue quindi due tipi di persuasione, per mezzo dei quali Platone pone la propria dialettica in contrasto specifico con la sofistica: una persuasione che genera solo opinione e credenza, perché non capisce nulla delle cose di cui parla, e una che produce sapere attraverso la conoscenza della natura, del concetto e del fondamento della cosa rispettiva. La prima parte del dialogo si chiude con l’ammissione di Gorgia che un vero retore deve disporre di una conoscenza oggettiva per poter insegnare la sua arte, la retorica (459c-460b, pp. 458 s.).
Nel più tardo Fedro la seconda parte, dedicata alla differenza fra il buono e il cattivo retore, si apre con la stessa antitesi fra presenza e assenza di una conoscenza oggettiva: “Socrate: Forse un discorso ben detto e con successo non deve presupporre nella mente di chi lo dice la conoscenza della verità sull’argomento di cui sta per parlare?” (Fedro 259e, trad. it. di P. Pucci, in Opere complete, cit., vol. 3, pp. 207-280; p. 254). -Nella sua copia dei dialoghi platonici (Sämtliche Dialoge, a cura di O. Apelt, Leipzig, Meiner, [1922], vol. 2), Adorno ha sottolineato questo passo contrassegnandolo a margine con una F (“Forte”); più in alto nella stessa pagina si trova l’annotazione: “nocciolo della teoria della retorica”. Anche nel Fedro la discussione arriva allo stesso risultato del Gorgia: “Fino a che non si conosce la verità sul soggetto di cui si parla o si scrive e non si è in grado, poi, di definirlo in se stesso [...], fino a questo momento non si sarà in grado di trattare l’oratoria a regola d’arte, per quanto è umanamente possibile, né al fine di insegnare né al fine di persuadere, come tutto quanto s’è detto prima ci ha dimostrato” (277b-c, trad. it. cit., p. 278).
[iv] Per questo movimento ascensionale dal concreto al generale (all’idea), il luogo classico è il passo conclusivo del discorso di Diotima nel Simposio, al quale Adorno si riferisce più volte e che si trova annotato fittamente con sottolineature e commenti a margine nella sua copia del dialogo (Simposio 210a-211b, trad. it. di P. Pucci, in Opere complete, cit., vol. 3, pp. 139-205; pp. 190-192. Cfr. anche infra, p. 23 e n. 26).
[v] Il passo di Platone che Adorno ha chiaramente in mente rispetto a questo doppio movimento (ascesa al concetto generale supremo, discesa all’articolazione del concetto mediante partizione), così come nelle riflessioni che seguono, si trova nella parte finale del Fedro, dove, in base alla determinazione dialettica del concetto di amore come specie divina del delirio, si legge:
“Socrate: Ecco: per la maggior parte il nostro discorso ha giocato in verità festosamente; ma fra le altre cose che abbiamo detto casualmente non sarebbe affatto privo di ricompensa cogliere scientificamente il significato di due procedimenti. - Fedro: Che procedimenti? - Socrate: Uno: abbracciare in uno sguardo d’insieme e ricondurre ad un’unica forma ciò che è molteplice e disseminato affinché definendo ciascun aspetto si attinga chiarezza intorno a ciò di cui s’intenda ogni volta insegnare. [...] - Fedro: E qual è l’altro procedimento che dici, o Socrate? - Socrate: Consiste nella capacità di smembrare l’oggetto in specie, seguendo le nervature naturali [he pephyken], guardandosi dal lacerarne alcuna parte come potrebbe fare un cattivo macellaio. [...] Credimi, Fedro, io sono innamorato di queste cose, delle suddivisioni e delle riunificazioni [ton dihaireseon kai synagogon], per essere in grado di parlare e di pensare. E se ritengo che qualcun altro sia capace per sua natura di abbracciare l’unità che è naturalmente nel molteplice, lo seguo, ‘tenendo dietro alla sua traccia, come quella di un dio’. E ancora quelli capaci di far ciò - dio sa se dico bene o male - li chiamo finora ‘dialettici’” (Fedro 265c-266c, trad. it. cit., pp. 262 s.).
Questo passo è fittamente commentato nell’esemplare di Adorno. L’espressione “seguendo le nervature naturali” (he pephyken) è tradotta da Apelt “conformemente alla natura” (der Natur entsprechend) e sottolineata da Adorno. Più in alto nella stessa pagina si trova l’appunto sottolineato tre volte: “diairesiV secondo la natura”. L’esigenza, avanzata qui da Platone, di un’aderenza non violenta alla natura della cosa nel processo di determinazione concettuale ha un significato centrale nella concezione adorniana della dialettica. Adorno sviluppa estesamente queste idee, sempre riferendosi al Fedro, nella Dialettica negativa (DN, pp. 40-42). Quelli che Platone formula qui nel Fedro sulla sua concezione matura della dialettica sono, peraltro, semplici cenni generali al nuovo procedimento della definizione come diairesi del concetto, che solo nel Sofista sarà svolto pienamente ed elevato al concetto in quanto “scienza della dialettica” (Sofista 253d-e, trad. it. di A. Zadro, in Opere complete, cit., vol. 2, pp. 173-250; p. 232).
[vi] Carl von Linné (1707-1778). La sua opera Systema Naturae (1735) è considerata la base del moderno sistema biologico. Il suo procedimento di ripartizione degli oggetti era per Adorno la quintessenza di un metodo solo esteriore, che opera secondo uno schema logico-astratto.
[vii] La struttura di questa prima lezione consisteva nell’esame e nella confutazione progressiva di tre pregiudizi diffusi nei confronti della dialettica: che essa consista in un’operazione artificiale con meri concetti, che esageri tutto, che sia intellettualistica.
[viii] Secondo il resoconto di Eckermann Hegel, interrogato da Goethe su cosa intendesse per dialettica, avrebbe risposto: “In fondo, [...] non si tratta d’altro se non dello spirito di contraddizione, regolato e metodicamente sviluppato, che è insito in ogni essere umano e che si manifesta in tutta la sua grandezza come capacità di distinguere il vero dal falso” (J. P. Eckermann, Conversazioni con Goethe negli ultimi anni della sua vita, ed. it. a cura di E. Ganni, trad. di A. Vigliani, Torino, Einaudi, 2008, nota del 18 ottobre 1827, pp. 519 s.; p. 519).
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. --- I "venticinque secoli" di letargo di Dante, la crisi dell’Europa e la poca saggezza della filosofia.
FLS
COSTITUZIONE (META-REGOLE), POLITICA (REGOLE), E RICORDI DI SCUOLA SULLA CRITICA DELLA “RAGIONE PURA” (“SOFISTICA”)!. Una nota*
SE E’ VERO CHE, “Per coloro che, come chi scrive, percorrono da molti anni i corridoi delle aule giudiziarie e degli altri palazzi del potere conoscendo le dinamiche sottese alle scelte della “politica giudiziaria”, diventa particolarmente fastidioso leggere e sentir raccontare autentiche favole metropolitane su quel che potrebbe ora accadere o sarebbe mai accaduto nelle proverbiali stanze dei bottoni”, NON E’ ALTRETTANTO VERO CHE, “Salvo cataclismi naturali e a dispetto dei clamori che fomentano il popolo con cronache enfatizzanti sul futuro panorama delle collusioni tra politica e giustizia, non accadrà assolutamente nulla, se non la futura giusta punizione a carico di coloro che non hanno rispettato le regole di appartenenza alle proprie aree di influenza del potere” (Laura Vasselli, "La giustizia, la politica e le relazioni pericolose", "InLibertà", 2 luglio 2020).
AD EVITARE eccessi di pericolose semplificazioni e produzioni di “nuvolose” illusioni, per contestualizzare meglio il problema, NON SOLO rileggerei l’ottimo “riassunto” di una questione complessa come quella affrontata nell’articolo in “#iorestoacasa, Forza Italia!” (di Italo Mastrolia, “InLibertà”, 16 aprile 2020), MA rivisiterei ANCHE i luoghi della memoria degli anni di scuola e riguarderei con maggiore attenzione la grande lezione di Aristofane (cfr. “Le nuvole”) su un “Socrate” che non è mai giunto a “conoscere sé stesso” e tuttavia viene “venduto” e “contrabbandato” (pubblicità-progresso!) come un grande saggio, non solo ieri (ad Atene) ma anche oggi (nel “villaggio globale”) - dopo Marshall McLuhan?! O no?!
L’ORAZIONE SULLA DIGNITA’ DELL’UOMO - A UNA DIMENSIONE.
Da Giovanni Pico della Mirandola* a Herbert Marcuse** e ... ***
CARO ARMANDO, PER IMPARARE "a vivere meglio senza lasciarci condizionare dalla paura della morte, cioè dalla religione, qualunque essa sia", CREDO CHE SIA NECESSARIO riconsiderare il problema di "come nascono i bambini" (a tutti i livelli) ! Hai ragione : "Non possiamo permetterci, con le Sibille, Maria Vergine, Cristo come dio, Maometto ed altre favolette l’illusione di un altro Messia"! Ci siamo addormentati nella tradizione cattolico-costantiniana e illuministica acritica (contro Kant), e abbiamo finito per "concepire" noi stessi e noi stesse secondo la bio-logia e l’andro-logia “unidimensionale” dell’omuncolo !
L’«ECCE HOMO» di Ponzio Pilato, al contrario!, ci dice proprio questo - la fine delle "favolette" e di ogni "illusione di un altro Messia". Il discorso è di diritto e di fatto, romanamente universale, vale a dire, antropologico (non limitato all’« omuncolo » di qualche "uomo supremo" o “superuomo” !) :
SE SIAMO ANCORA CAPACI DI LEGGERE, COSA VA SIGNIFICANDO NEL TEMPO LA LEZIONE DI PONZIO PILATO ?! Non è una lezione critica contro i "sovranisti" laici e religiosi di ieri e di oggi ?!
Che vogliamo fare ? Continuare a riportare noi stessi e noi stesse davanti a Pilato e ripetere da scemi e da sceme la stessa scena, riascoltare il suo "Ecce Homo" e non capire una "H" (acca) ?!
* Discorso sulla dignità dell’uomo.
P.S. - RICORDANDO ... GLI ARCADI DI TERRA D’OTRANTO, VIRGILIO, E IL “VECCHIO DI CORICO”. A SOLLECITAZIONE E CONFORTO DELL’IMPRESA.
***
Federico La Sala "Fondazione Terra d’Otranto", 01/03/2020).
NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ": LO STATO DI "ECCEZIONE UMANA" ....*
La comunità degli abbandonati
di DIVYA DWIVEDI - SHAJ MOHAN *
Per molto tempo l’India è stata un paese ricco di gente eccezionale, il che ha svuotato di significato il concetto di ‘stato di eccezione’ o quello della sua ‘estensione’. I bramini sono eccezionali perché solo loro possono presiedere ai rituali che regolano l’ordine sociale e perché non possono essere toccati (meno che mai desiderati) da coloro che appartengono alle caste inferiori per tema di minare la purezza del rituale. In tempi moderni, in alcuni casi, questo prevede servizi igienici separati per loro. A loro volta anche i Dalit, le persone delle caste più basse, non possono essere toccate, e tantomeno desiderate, dalle caste superiori perché ritenute le più ‘impure’. Come si può notare, l’eccezione del bramino è diversa dall’esclusione del Dalit. Una delle caste dei Dalit chiamata ‘paria’ è diventata nell’opera di Arendt un ‘paradigma’, illuminandone tristemente la realtà di sofferenza. Nel 1896, quando la peste bubbonica arrivò a Bombay, l’amministrazione coloniale britannica cercò di contrastare il diffondersi della malattia con l’emanazione dell’Epidemic Diseases Act (legge sulle malattie epidemiche) del 1897. Ma le barriere tra le caste, tra cui la richiesta da parte delle caste più alte di ospedali separati e il rifiuto di ricevere assistenza medica da persone di caste inferiori appartenenti al personale medico, andarono a sommarsi alle cause di morte per più di dieci milioni di indiani.
La diffusione del coronavirus[1], che ha infettato più di 100.000 persone a quanto dicono le cifre ufficiali, porta allo scoperto la domanda che oggi ci poniamo su noi stessi - Vale la pena di salvarci, e a quale costo? Ci sono da un lato le teorie complottistiche, che vanno dalle ‘armi biologiche’ a un presunto progetto globale di frenare le ondate migratorie. Dall’altro, ci sono fastidiosi equivoci, dalla convinzione che il COVID-19 si propaghi attraverso la birra Corona, alle notazioni razziste sui cinesi. Ma ancora più preoccupante è che, in questa con-giuntura di morte di dio e di nascita del dio meccanico, perdura una crisi che riguarda direttamente il ‘valore’ dell’uomo. Si vede nelle reazioni alla crisi climatica, nell’‘esuberanza’ tecnologica, e nel coronavirus.
Prima l’uomo si conquistava il proprio valore tramite svariate teo-tecnologie. Per esempio, ci si poteva immaginare che creatore e creatura fossero la determinazione di qualcosa di precedente, per esempio “l’essere”, dove il primo si dava come infinito e il secondo come finito. In una divisione di questo tipo, si poteva pensare a dio come uomo infinito e all’uomo come dio finito. Nel nome dell’uomo infinito gli dei finiti eleggevano i loro scopi. Oggi, deleghiamo la determinazione degli scopi alla macchina, quindi il suo ambito a questo punto si può definire tecno-teologico.
È in questa con-giuntura particolare che vanno considerate le recenti osservazioni di Giorgio Agamben, secondo il quale le misure di contenimento contro il COVID-19 vengono impiegate come un’“eccezione” volta a permettere un incredibile ampliamento dei poteri dei governi nell’imporre restrizioni straordinarie alle nostre libertà. Cioè, le misure adottate, con notevole ritardo, dalla maggior parte degli stati per prevenire la diffusione di un virus che potenzialmente può uccidere almeno 1% della popolazione, potrebbero condurre al livello successivo di “eccezione”.
Agamben ci chiede di scegliere tra “l’eccezione” e l’ordinario benché la cosa che lo preoccupi sia che l’eccezione diventi la regola.[2]
Jean-Luc Nancy ha in seguito risposto a questa obiezione osservando che oggi ci sono solo eccezioni, vale a dire, tutto quello che un tempo consideravamo ordinario è ormai infranto.[3]
Nel suo ultimo saggio, Deleuze si riferiva a ciò che ci interpella alla fine di tutti i giochi tra ordinarietà ed eccezioni come a “una vita”[4]; ovvero che si è afferrati dalla responsabilità quando ci si confronta con una vita individuale che è nella presa della morte. Morte e responsabilità vanno insieme.
Occupiamoci allora della non-eccezionalità delle eccezioni. Fino alla fine del 1800, negli ospedali molte donne incinte dopo aver partorito morivano di febbre puerperale o di infezioni post-parto. A un certo punto, un medico ungherese, Ignác Semmelweis, si rese conto che ciò succedeva perché le mani degli operatori sanitari veicolavano agenti patogeni passando da un’autopsia a un paziente, o dall’utero di una donna a un’altra, provocando così infezioni e morte. La soluzione proposta da Semmelweis fu di lavarsi le mani dopo ogni contatto. Per questa ragione fu trattato come un’eccezione e messo al bando dalla comunità medica. Morì di setticemia in manicomio, pare contratta dopo essere stato bastonato dalle guardie. In realtà, i sensi delle eccezioni sono infiniti. Nel caso di Semmelweis, la tecnica stessa per combattere le infezioni rappresentava l’eccezione. Nella Politica, Aristotele ha parlato del caso dell’uomo eccezionale, come di colui che sa cantare meglio del coro, che viene messo al bando in quanto dio tra uomini.
Non c’è un unico paradigma per l’eccezione. La via di una patologia microbica è diversa di quella di un’altra. Per esempio, gli stafilococchi vivono all’interno del corpo umano senza arrecare difficoltà, anche se scatenano infezioni quando la risposta del nostro sistema immunitario è “eccessiva”. Al punto estremo dei rapporti non-patogeni, i cloroplasti nelle cellule vegetali e i mitocondri nelle cellule del nostro corpo rappresentano delle convivenze antiche e ben assorbite tra specie differenti. In particolare, virus e batteri non ‘intendono’ uccidere il loro ospite, perché non è sempre nel loro ‘interesse’[5] distruggere l’unico tramite che gli permette di sopravvivere. Sul lungo termine - milioni di anni di tempo della natura - “tutte le cose imparano a vivere insieme” o per lo meno raggiungono un equilibrio reciproco per lunghi periodi. Questo è il senso che ha il biologo della temporalità della natura.
In anni recenti, in parte in seguito a pratiche agricole, microrganismi che vivevano in modo indipendente l’uno dall’altro si sono uniti e hanno cominciato a scambiarsi materiale genetico, a volte solo frammenti di DNA e RNA. Quando questi organismi hanno fatto il “salto” e sono passati agli esseri umani, a volte per noi sono cominciati disastri. Il nostro sistema immunitario percepisce questi nuovi arrivati come uno shock e, sopravvalutandone le risorse, induce infiammazioni e febbre che spesso uccidono noi e anche i microrganismi.
Etimologicamente il “virus”[6] è legato al veleno. È un veleno nel senso che quando un nuovo virus trova una soluzione negoziata con gli animali umani, noi siamo già morti da un pezzo. Ossia, ogni cosa può essere considerata secondo il modello del pharmakon (che è sia veleno che cura) se ci basiamo sul tempo della natura. Ma la distinzione tra farmaco e veleno per lo più riguarda il tempo dell’uomo, l’animale meraviglioso. Ciò che si definisce ‘biopolitico’ prende posizione partendo dal presupposto di una temporalità della natura, e di conseguenza trascura quello che è un disastro nell’ottica del nostro interesse in - la nostra responsabilità per - “una vita”, cioè la vita di tutti coloro che rischiano di morire per aver contratto il virus.
Qui sta il nocciolo della questione: siamo stati in grado di determinare gli ‘interessi’ del nostro sistema immunitario dando luogo a eccezioni in natura, per esempio attraverso il metodo di Semmelweis di lavarsi le mani e attraverso le vaccinazioni. Siamo una specie animale che non ha epoche biologiche a sua disposizione per poter perfezionare ogni intervento. Per cui, anche noi, come la natura, commettiamo errori di codifica e generiamo mutazioni in natura, rispondendo a ogni necessità nei modi migliori che possiamo.
Come ha fatto notare Nancy, l’uomo come eccezionale artefice di tecnologie e meraviglioso a sé stesso, fu pensato molto tempo fa da Sofocle nella sua ode all’uomo. Analogamente, diversamente dal tempo della natura, gli esseri umani si preoccupano di questo momento, che deve condurre al successivo con la sensazione che noi siamo gli abbandonati: coloro che sono condannati a chiedere “il perché” del loro esistere ma senza avere i mezzi per chiedere. O, come precisava Nancy in una lettera privata, ‘abbandonati da nulla’.
Il potere di questo “essere abbandonati” è diverso dagli abbandoni rappresentati dall’assenza di cose particolari le une rispetto alle altre. Questo essere abbandonati esige, come abbiamo visto in Deleuze, che ci si prenda cura di ogni vita in quanto preziosa, pur sapendo al contempo che nelle comunità degli abbandonati possiamo sperimentare la chiamata della vita individuale abbandonata di cui noi soli possiamo prenderci cura. Altrove abbiamo chiamato l’esperienza di questa chiamata dell’abbandonato, e la possibile nascita della sua comunità dalla metafisica e l’ipofisica, ‘anastasis’[7]
Tradotto dall’inglese da Fiorenza Conte. A cura dell’European Journal of Psychoanalysis.
[1] Per pura coincidenza, il nome del virus è ‘corona’, la metonimia della sovranità.
[2] Il che ovviamente è stato percepito come una non-scelta da quasi tutti i governi dopo il 2001 per rendere sicuri tutti i rapporti sociali in nome del terrorismo. La tendenza importante in questi casi è che la securizzazione dello stato è proporzionata alla aziendalizzazione di quasi tutte le funzioni dello stato.
[3] Si veda, Jean-Luc Nancy, L’intruso, Cronopio, 2005.
[4] Si veda, Gilles Deleuze, Immanenza: una vita, Mimesis, 2010.
[5] È assurdo attribuire un interesse a un micro-organismo, e i chiarimenti a questo proposito potrebbero occupare più spazio di quanto concesso per questo intervento. Oggi è altrettanto impossibile determinare l’“interesse dell’uomo”
[6] Da notare che i “virus” esistono sulla linea critica tra vivente e non-vivente.
[7] Shaj Mohan, Divya Dwivedi, Gandhi and Philosophy: On Theological Anti-Politics, prefazione di J.-L. Nancy, Londra, 2019.
* Fonte: "Antinomie", 12/03/2020 (ripresa parziale).
*
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DI FRONTE A PONZIO PILATO E NON CAPIRE UN’ACCA ?!
Federico La Sala
"DUE SOLI" (DANTE): I "DUE PADRONI", I "DUE MONDI", E LA DEMOCRAZIA, OGGI.... *
Democrazia e cristianesimo
Per una democrazia inclusiva
di Dario Antiseri (L’Osservatore Romano, 23 ottobre 2019)
In tema di democrazia una domanda ineludibile è la seguente: l’essere cristiano è compatibile con la laicità dello Stato? O, rovesciando l’interrogativo, lo Stato laico sarebbe stato possibile senza l’avvento del cristianesimo? Nella pratica politica, il relativismo - ha affermato qualche anno fa l’allora cardinale Joseph Ratzinger - è benvenuto perché ci vaccina dalla tentazione utopica. E novità essenziale del cristianesimo per la storia è che «fino a Cristo l’identificazione di religione e Stato, divinità e Stato, era quasi necessaria per dare stabilità allo Stato. Poi l’islam ritorna a questa identificazione tra mondo politico e religioso, col pensiero che solo con il potere politico si può anche moralizzare l’umanità».
In realtà, «da Cristo stesso troviamo subito la posizione contraria: Dio non è di questo mondo, non ha legioni, così dice Cristo, Stalin dice non ha divisioni. Non ha un potere mondano, attira l’umanità a sé non con un potere esterno, politico, militare ma solo col potere della verità che convince, dell’amore che attrae. Egli dice “attirerò tutti a me”. Ma lo dice proprio dalla croce. E così crea questa distinzione tra imperatore e Dio, tra il mondo dell’imperatore al quale conviene lealtà, ma una lealtà critica, e il mondo di Dio, che è assoluto. Mentre non è assoluto lo Stato [...]. I padri hanno pregato per lo Stato riconoscendone la necessità, ma non hanno adorato lo Stato».
Questa, ad avviso di Ratzinger, è «la distinzione decisiva» - una distinzione che rappresenta uno straordinario punto di incontro tra il pensiero cristiano e cultura liberal-democratica. «Io penso - afferma Ratzinger - che la visione liberal-democratica non potesse nascere senza questo avvenimento cristiano che ha diviso i due mondi, così creando una nuova libertà. Lo Stato è importante, si deve ubbidire alle leggi, ma non è l’ultimo potere. La distinzione tra lo Stato e la realtà divina crea lo spazio di una libertà in cui una persona può anche opporsi allo Stato. I martiri sono una testimonianza per questa limitazione del potere assoluto dello Stato. Così è nata una storia di libertà. Anche se poi il pensiero liberal-democratico ha preso le sue strade, l’origine è proprio questa».
Il cristiano de-assolutizza, cioè relativizza, il potere politico; non può servire a due padroni: Dio e il dio-denaro; non può genuflettersi davanti all’altare di una ragione trasformata in dea. E dev’essere fedele al comandamento di amare il prossimo come se stesso. Ed è esattamente in base a questi princìpi che il messaggio cristiano, per dirla con Pëtr J. Čaadaev, «è più che storia, più che psicologia, è la fisiologia dell’uomo europeo». Thomas S. Eliot: «Un singolo europeo può non credere che la Fede cristiana sia vera, e tuttavia tutto ciò che egli dice, e fa, scaturirà dalla parte di cultura cristiana di cui è erede, e da quella trarrà significato». Per questo, è ancora Eliot a parlare, se il cristianesimo se ne va, è l’Europa che scompare: «Se il cristianesimo se ne va, se ne va tutta la nostra cultura; e allora si dovranno attraversare molti secoli di barbarie».
In altre parole, la decadenza dell’Europa è una decadenza spirituale: è l’allontanarsi degli europei dalle idealità cristiane. E quando gli ideali della fede cristiana si sono spenti, l’Europa - annota Röpke - ne ha cercato «un surrogato nelle ideologie politico-sociali (le “religioni sociali”, come le ha definite Alfred Weber): il socialismo, il comunismo e, soprattutto, il nazionalsocialismo».
E oggi che cosa è rimasto nella mente di non pochi cittadini e soprattutto - e purtroppo - di non pochi dei nostri giovani, una volta lontani dalle idealità cristiane? Rimane l’idolatria del potere sugli altri, considerati e trattati come oggetti delle proprie voglie; rimane l’idolatria del denaro quale fonte perenne che alimenta la vasta fenomenologia della corruzione, con migliaia e migliaia di giovani e meno giovani che scorrazzano sul palcoscenico del gran teatro dell’illegalità; si impone una situazione dove alle ragioni della legge si sostituisce la ragione della forza o, più esattamente, la non-ragione di bande violente di intolleranti - di predoni divorati dalla brama di vestirsi da padroni - padroni del narcotraffico e, dunque, padroni della vita e della morte altrui.
di Dario Antiseri
Professore emerito di Epistemologia delle scienze sociali - luiss, Roma
L’Osservatore Romano, 23.10.2019.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
"ERODE" E LE GERARCHIE CATTOLICO-ROMANE CONTRO CRISTO E "CONTRO CESARE. Cristianesimo e totalitarismo nell’epoca dei fascismi".
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico.
Federico La Sala
L’EUROPA, “SOCRATE E ARISTOFANE", E “LE “REGOLE DEL GIOCO” DELL’OCCIDENTE ... *
Leo Strauss, i classici greci per capire il rapporto tra filosofia e politica
di Matteo Moca (Alfabeta-2, 14.07.2019)
«La nostra Grande Tradizione include la filosofia politica e perciò sembra garantirne la possibilità e la necessità. Secondo la medesima tradizione, la filosofia politica è stata fondata da Socrate. Dal momento che Socrate non ha scritto libri o discorsi, la nostra conoscenza delle circostanze in cui, o delle ragioni per cui, la filosofia politica è stata fondata, dipende interamente dai resoconti di altri uomini». Così, squadernando una questione di grande importanza e difficile soluzione, si apre l’introduzione che Leo Strauss scrisse per il suo Socrate e Aristofane, pubblicato adesso come primo volume - curato e introdotto da Marco Menon - della nuova importante collana “Straussiana” delle Edizioni ETS, diretta da Carlo Altini, Raimondo Cubeddu e Giovanni Giorgini, una collana che si propone, anche scorrendo i titoli che risultano in preparazione, di dare un nuovo e maggiore spazio editoriale a uno dei pensatori più importanti del Novecento. Socrate e Aristofane rappresenta certamente una summa del pensiero filosofico di Strauss, e dunque una privilegiata porta di accesso alla sua filosofia, per molteplici motivi: innanzitutto per l’andamento e la forma precisa e minuziosa dell’interrogazione del testo antico, che pare assecondare quel dialogo con gli autori che deve precedere la lettura dell’opera, ma anche perché l’analisi del testo di Aristofane mette in gioco i temi principali della sua riflessione, ovviamente riscontrabili nelle altre sue opere, come la relazione tra la filosofia e la politica, l’analisi della religione e il rapporto tra la politica e l’arte.
L’interesse per Aristofane e per i classici greci nell’orizzonte della ricerca sulla filosofia politica, come ricostruisce precisamente nella prefazione Marco Menon, diventa per Strauss sostanzioso a partire dalla fine degli anni Trenta: questa attenzione prende la direzione dell’analisi del rapporto tra Aristofane, Senofonte e Platone, come testimonia chiaramente una lettera di Strauss del 1947 che fa bene intendere su cosa si stia assestando la sua ricerca: «Sto studiando ancora la Repubblica. Penso che la querelle tra filosofia e poesia possa essere intesa nei termini di Platone; filosofia significa la ricerca della verità; [...] poesia significa qualcos’altro, ad esempio, nel migliore dei casi, la ricerca di un tipo particolare di verità». All’interno di questa discussione emerge la centralità della figura di Aristofane, perché Strauss rintraccia come il suo attacco a Socrate, rintracciabile non solo nelle Nuvole ma in molte delle sue commedie, si concentri proprio sulla questione della superiorità della filosofia o della poesia. Tentare di comprendere la centralità di Socrate nella filosofia politica, come emerge anche dal passo dell’Introduzione precedentemente citato, implica la lettura di Aristofane: via privilegiata per comprendere la vera natura di Socrate sarà il confronto tra il ritratto platonico e quello aristofaneo, l’autore del Simposio ammirava Socrate, Aristofane no, (l’attenzione di Strauss si concentra anche su Senofonte, che insieme a Platone e Aristofane conobbe Socrate di persona): si tratta però di uno studio che sottende un discorso al presente e non si limita solo allo studio dell’antichità. Su questo punto è preciso Strauss quando scrive di come, dopo gli attacchi di Nietzsche a Platone e a Socrate, il suo ritorno alle origini «è diventato necessario a causa della radicale messa in discussione di quella tradizione».
Socrate e Aristofane viene concluso da Strauss, dopo una lunga fase preparatoria e di studio, nel 1965, ma la sua pubblicazione è accolta con freddezza anche da parte dei suoi corrispondenti più stretti (Karl Löwith per esempio, a cui Strauss scriverà dopo aver ricevuto uno stringato commento: «La sua frase sul mio capitolo sulle Nuvole mi ha rallegrato molto: è quasi l’unica parola di incoraggiamento che ho sentito da molti anni! Ma non vorrebbe leggere anche gli altri capitoli?»), nonostante questo testo si concentri, come sottolinea Menon, sulla questione fondamentale della differenza tra physis e nomos, «che riveste un ruolo costruttivo per la filosofia stessa» e trascenda ben presto, pur nell’organicità della lettura, i testi di Aristofane per addentrarsi tra i sentieri speculativi a lui più cari, come la natura del teatro drammatico e il suo ruolo edificante, la dualità tra illuminismo e tradizionalismo, la vita nella città o l’imprescindibile ruolo della politica. -Strauss espone come le fonti platoniche e aristofanee su Socrate siano divergenti (Senofonte è invece considerato da Strauss come un testimone più solido in quanto continuatore delle storie di Tucidide): nei dialoghi del primo, Socrate è idealizzato ed è molto difficile distinguere nettamente ciò che Socrate ha pensato e quello che gli viene attribuito da Platone, utilizzando invece le Nuvole di Aristofane è possibile conoscere il Socrate presocratico, e cioè analizzare il passaggio dalla filosofia stricto sensu alla filosofia politica e dunque, ancora, andare a ricercare nei territori che sono alla base della disciplina filosofica.
La lettura di Strauss si articola in numerosi capitoli, ognuno dedicato a una delle commedie di Aristofane: attraverso una lettura filologica, in queste testi emergono alcuni temi centrali della filosofia di Strauss, come il discorso sugli dei, già precedentemente evocato, nella lettura di Uccelli, Rane e Pluto, dove Aristofane solleva problematiche centrali per la definizione della divinità, oppure la riflessione sul rapporto tra Atene e Gerusalemme, nome di uno dei suoi libri più importanti ma soprattutto metafora della scelta tra filosofia e Bibbia, tra due città sacre.
Lo spazio maggiore è dedicato a Nuvole, nonostante comunque ognuna delle commedie venga messa in relazione da Strauss con le altre, costruendo un vero e proprio studio organico sull’opera di Aristofane, perché Nuvole rappresenta il luogo centrale per l’indagine sul giudizio aristofaneo su Socrate. Attraverso questa dettagliata analisi, Strauss arriva alla conclusione, se di giudizi definitivi si può in questi casi parlare, che Aristofane si credeva superiore a Socrate, «in virtù della sua conoscenza di sé e della sua prudenza»: infatti, scrive Strauss, «se da una parte Socrate è totalmente indifferente nei confronti della città che lo mantiene, dall’altra Aristofane si occupa molto della città» e, ancora, se Socrate «non rispetta le necessità fondamentali della città, o non vi si attiene, dall’altra Aristofane lo fa».
La saggezza di Aristofane assume la sua forma attraverso la parola del poeta, sia esso comico o tragico: le sue commedie sono «il vero Discorso Giusto» che tratta le cose comicamente (questa la chiave utilizzata da Strauss, che anche in un lettera a Kojéve scrive di come il suo libro potesse divertire un filosofo: «Ho appena finito di dettare un libro, Socrate e Aristofane. Credo che qua e là le strapperà un sorriso, e non solo per le battute di Aristofane e le mie parafrasi vittoriane») e che, «presentando come ridicoli non solo gli ingiusti ma anche i giusti, riesce a far sì che la sua commedia sia totale». Solo in questa maniera e attraverso questo filtro a lui congeniale, è possibile tratteggiare ciò che altrimenti sfuggirebbe o trascenderebbe ogni possibilità.
* NOTA
LA LEZIONE DI NIETZSCHE - E DI DIOTIMA. Con Socrate ha inizio l’avventura dell’Occidente! Leo Strauss condivide con Nietzsche l’analisi, ma non riesce a portarsi oltre e a risalire la corrente! E la filosofia è ancora immersa, come denunciava Kant, nel suo profondo “sonno dogmatico” (cfr. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN)!
“NeÌla sua cecità e protervia, l’uomo Platone è l’incarnazione più propria del sogno “diabolico” di Adamo e della sua donna Eva: diventare “come Dio”. contro Dio stesso. I Greci sapevano. Platone sa di ciò che è avvenuto in tempi remotissimi, ma non ha la mente come da una sua battuta contro il grande Diogene di Sinope per comprendere (...) Il racconto è di Aristofane, nel Simposio, e, come si può vedere, ricalca abbastanza fedelmente il racconto biblico relativamente al prima e al dopo del peccato originale, e indica anche la via ... per restaurare I’antica natura. L’indicazione del Commediografo è più che chiara e non è affatto (non fraintenderlo, “non volgerlo al comico”, egli ripete a chi ascolta il suo discorso - noi abbiamo sempre sottovalutato le sue Nuvole, ma egli aveva visto molto bene che cosa Socrate stava preparando) una boutade. Platone non comprende nulla, stravolge e continua, con il suo Eros (avido, cieco e saettante) e con lasua filosofia, sulla strada del padre. Titanicamente, come Zeus, spaccato tutto in due, tenterà di rimettere insieme i cocci, con la forza - una storia di steminata e “incurabile” follia. Aristofane parla della nostra mente, della nostra anima e della nostra vita e Platone taglia e ricuce - a specchio, “divinamente” (...) (Cfr. L’EUROPA, LE “REGOLE DEL GIOCO” DELL’OCCIDENTE, E LA LEZIONE DI NIETZSCHE).
Federico La Sala
Catechesi sul “Padre nostro”: 7. Padre che sei nei cieli
di Papa Francesco *
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
L’udienza di oggi si sviluppa in due posti. Prima ho fatto l’incontro con i fedeli di Benevento, che erano in San Pietro, e adesso con voi. E questo è dovuto alla delicatezza della Prefettura della Casa Pontificia che non voleva che voi prendeste freddo: ringraziamo loro, che hanno fatto questo. Grazie.
Proseguiamo le catechesi sul “Padre nostro”. Il primo passo di ogni preghiera cristiana è l’ingresso in un mistero, quello della paternità di Dio. Non si può pregare come i pappagalli. O tu entri nel mistero, nella consapevolezza che Dio è tuo Padre, o non preghi. Se io voglio pregare Dio mio Padre incomincio il mistero.
Per capire in che misura Dio ci è padre, noi pensiamo alle figure dei nostri genitori, ma dobbiamo sempre in qualche misura “raffinarle”, purificarle. Lo dice anche il Catechismo della Chiesa Cattolica, dice così: «La purificazione del cuore concerne le immagini paterne e materne, quali si sono configurate nella nostra storia personale e culturale, e che influiscono sulla nostra relazione con Dio» (n. 2779).
Nessuno di noi ha avuto genitori perfetti, nessuno; come noi, a nostra volta, non saremo mai genitori, o pastori, perfetti. Tutti abbiamo difetti, tutti. Le nostre relazioni di amore le viviamo sempre sotto il segno dei nostri limiti e anche del nostro egoismo, perciò sono spesso inquinate da desideri di possesso o di manipolazione dell’altro. Per questo a volte le dichiarazioni di amore si tramutano in sentimenti di rabbia e di ostilità. Ma guarda, questi due si amavano tanto la settimana scorsa, oggi si odiano a morte: questo lo vediamo tutti i giorni! E’ per questo, perché tutti abbiamo radici amare dentro, che non sono buone e alle volte escono e fanno del male.
Ecco perché, quando parliamo di Dio come “padre”, mentre pensiamo all’immagine dei nostri genitori, specialmente se ci hanno voluto bene, nello stesso tempo dobbiamo andare oltre. Perché l’amore di Dio è quello del Padre “che è nei cieli”, secondo l’espressione che ci invita ad usare Gesù: è l’amore totale che noi in questa vita assaporiamo solo in maniera imperfetta. Gli uomini e le donne sono eternamente mendicanti di amore, - noi siamo mendicanti di amore, abbiamo bisogno di amore - cercano un luogo dove essere finalmente amati, ma non lo trovano. Quante amicizie e quanti amori delusi ci sono nel nostro mondo; tanti!
Il dio greco dell’amore, nella mitologia, è quello più tragico in assoluto: non si capisce se sia un essere angelico oppure un demone. La mitologia dice che è figlio di Poros e di Penía, cioè della scaltrezza e della povertà, destinato a portare in sé stesso un po’ della fisionomia di questi genitori. Di qui possiamo pensare alla natura ambivalente dell’amore umano: capace di fiorire e di vivere prepotente in un’ora del giorno, e subito dopo appassire e morire; quello che afferra, gli sfugge sempre via (cfr Platone, Simposio, 203). C’è un’espressione del profeta Osea che inquadra in maniera impietosa la congenita debolezza del nostro amore: «Il vostro amore è come una nube del mattino, come la rugiada che all’alba svanisce» (6,4). Ecco che cos’è spesso il nostro amore: una promessa che si fatica a mantenere, un tentativo che presto inaridisce e svapora, un po’ come quando al mattino esce il sole e si porta via la rugiada della notte.
Quante volte noi uomini abbiamo amato in questa maniera così debole e intermittente. Tutti ne abbiamo l’esperienza: abbiamo amato ma poi quell’amore è caduto o è diventato debole. Desiderosi di voler bene, ci siamo poi scontrati con i nostri limiti, con la povertà delle nostre forze: incapaci di mantenere una promessa che nei giorni di grazia ci sembrava facile da realizzare. In fondo anche l’apostolo Pietro ha avuto paura e ha dovuto fuggire. L’apostolo Pietro non è stato fedele all’amore di Gesù. Sempre c’è questa debolezza che ci fa cadere. Siamo mendicanti che nel cammino rischiano di non trovare mai completamente quel tesoro che cercano fin dal primo giorno della loro vita: l’amore.
Però, esiste un altro amore, quello del Padre “che è nei cieli”. Nessuno deve dubitare di essere destinatario di questo amore. Ci ama. “Mi ama”, possiamo dire. Se anche nostro padre e nostra madre non ci avessero amato - un’ipotesi storica -, c’è un Dio nei cieli che ci ama come nessuno su questa terra ha mai fatto e potrà mai fare. L’amore di Dio è costante. Dice il profeta Isaia: «Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai. Ecco, sulle palme delle mie mani ti ho disegnato» (49,15-16).
Oggi è di moda il tatuaggio: “Sulle palme delle mie mani ti ho disegnato”. Ho fatto un tatuaggio di te sulle mie mani. Io sono nelle mani di Dio, così, e non posso toglierlo. L’amore di Dio è come l’amore di una madre, che mai si può dimenticare. E se una madre si dimentica? “Io non mi dimenticherò”, dice il Signore. Questo è l’amore perfetto di Dio, così siamo amati da Lui. Se anche tutti i nostri amori terreni si sgretolassero e non ci restasse in mano altro che polvere, c’è sempre per tutti noi, ardente, l’amore unico e fedele di Dio.
Nella fame d’amore che tutti sentiamo, non cerchiamo qualcosa che non esiste: essa è invece l’invito a conoscere Dio che è padre. La conversione di Sant’Agostino, ad esempio, è transitata per questo crinale: il giovane e brillante retore cercava semplicemente tra le creature qualcosa che nessuna creatura gli poteva dare, finché un giorno ebbe il coraggio di alzare lo sguardo. E in quel giorno conobbe Dio. Dio che ama.
L’espressione “nei cieli” non vuole esprimere una lontananza, ma una diversità radicale di amore, un’altra dimensione di amore, un amore instancabile, un amore che sempre rimarrà, anzi, che sempre è alla portata di mano. Basta dire “Padre nostro che sei nei Cieli”, e quell’amore viene.
Pertanto, non temere! Nessuno di noi è solo. Se anche per sventura il tuo padre terreno si fosse dimenticato di te e tu fossi in rancore con lui, non ti è negata l’esperienza fondamentale della fede cristiana: quella di sapere che sei figlio amatissimo di Dio, e che non c’è niente nella vita che possa spegnere il suo amore appassionato per te.
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PAPA FRANCESCO - UDIENZA GENERALE -Aula Paolo VI
Mercoledì, 20 febbraio 2019 (ripresa parziale).
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico. Una nota (del 2006)
UN NUOVO CONCILIO, SUBITO. 95 TESI? NE BASTA UNA SOLA! Cattolicesimo, fascismo, nazismo, stalinismo: il sogno del "regno di ‘dio’" in un solo ‘paese’ è finito.
Federico La Sala
Jacques Derrida e la tentazione di Siracusa
di Francesca Rigotti (Doppiozero, 21 febbraio 2019)
Inizio con un ricordo personale. Era il 1970, avevo 19 anni e preparavo insieme ad alcune compagne gli esami di maturità classica. Allo scopo di «svecchiare» la nostra cultura scolastica, ci facevamo talvolta assistere e consigliare da uno studente universitario di filosofia dai riccioli neri che ci faceva da mentore. Un giorno Ugo - che divenne un illustre semiologo, Ugo Volli - arrivò sventolando un libro ed esclamando entusiasta: buttate vie tutti i vostri superati libri di filosofia e leggete questo. Era La voce e il fenomeno, una delle prime traduzioni italiane di un’opera di Jacques Derrida.
Un filosofo-star
Il libro era stato pubblicato in francese nel 1967, annus mirabilis per la filosofia, perché uscirono allora, dello stesso autore, anche La scrittura e la differenza e La grammatologia. Derrida aveva allora 37 anni e si avviava a diventare un nome grande, anche se molto discusso, della filosofia, in patria ma ancor di più all’estero, soprattutto negli Stati Uniti. Una carriera strepitosa per il giovane filosofo nato in Algeria da famiglia ebrea sefardita e recatosi a frequentare l’università a Parigi, per poi insegnare in quella città e in numerose università americane, tra le quali infine, stabilmente, a Irvine in California. Che cosa portava di nuovo Derrida e perché era tanto acclamato in alcuni ambiti, al punto di diventare una star mediatica, con sale strapiene di ascoltatori alle sue conferenze, film e programmi televisivi su di lui?
Decostruzione e differenza («différance»)
Derrida portava una nuova visione interpretativa che introduceva nel circolo ermeneutico il decostruzionismo e la differenza. L’ermeneutica è la scienza di Hermes/Mercurio, il messaggero degli dei. Hermes porta il messaggio degli dei e l’ermeneutica è l’arte di leggere quel messaggio, l’arte di interpretare e comprendere in vari modi la storia dell’umanità. L’ermeneutica si opponeva all’aborrito positivismo e al realismo ingenuo di chi voleva adattare i metodi delle scienze naturali ai fenomeni del mondo umano. Sono comunque i concetti tutt’altro che semplici di decostruzione e différance a caratterizzare maggiormente il pensiero di Derrida.
Oggi sono termini banditi dal linguaggio filosofico (insieme a quelli di uno dei grandi referenti filosofici di Derrida, Heidegger), perché riflettono, sostengono i suoi avversari, un modo di pensare illogico e impreciso, mentre gli estimatori lodano proprio gli aspetti evocativi, parodossali e illuminanti di quello stile di pensiero. La decostruzione è un modo di criticare testi letterari e filosofici non meno che istituzioni politiche; non è sinonimo di distruzione quanto piuttosto di analisi e scomposizione, dedita alla ricerca del significato che spesso non sta nelle enunciazioni di fondo ma magari a margine del testo, in una nota. Decostruire è dichiarare che non esiste un modo univoco e non equivoco di significare, ma esistono le interpretazioni. Decostruzione è non assumere come naturale ciò che naturale non è, in quanto condizionato dalla storia, dalla società o dalle istituzioni.
L’altro termine chiave, différance, scrive con la a una parola, différence, scritta con la e, per indicare il cambio di statuto che insiste piuttosto su differire, spostare. In altri termini i diversi (différents) significati di un testo possono essere individuati tramite la différance decostruendo la struttura del linguaggio e differendo la loro interpretazione.
Argomentare e evocare
Col suo peculiare stile evocativo e letterario Derrida si attirò gli strali dei filosofi analitici capitanati da John Searle, che considerano se stessi gli unici «veri» filosofi e il loro modo di intendere la filosofia l’unico «vero», all’interno di una concezione monista e realista della realtà, della verità, della conoscenza e del linguaggio nella quale non c’è spazio per l’abito poetico-letterario-narrativo. Esempio ne fu la lettera scritta nel maggio del 1992 da un gruppo di filosofi analitici di dieci paesi e pubblicata in «The Times», il 9 dello stesso mese, per protestare contro la laurea h.c. da parte della Cambridge University a Derrida perché la sua opera «non incontra standards accettati di chiarezza e rigore», usa uno stile scritto che «sfida la comprensione» e offre soltanto asserzioni «false o triviali» ecc.
La lectio di Siracusa
Detto ciò arriviamo al 2001, non ancora annus terribilis quale sarebbe diventato dopo l’11 settembre. Il 18 gennaio Jacques Derrida riceve, a Siracusa, per iniziativa del Collegio Siciliano di Filosofia, la cittadinanza onoraria della città da parte dell’allora sindaco Giambattista Bufardeci. Siracusa, la città dei viaggi di Platone descritti e narrati nella Settima lettera. Per l’occasione Derrida tenne un discorso che non fu un discorso d’occasione ma una lectio vera e propria, riproposta in traduzione italiana in questo libretto, calorosamente quanto dottamente circondata da una prefazione di Caterina Resta e da due postfazioni, di Elio Cappuccio e di Roberto Fai (Jacques Derrida, Tentazione di Siracusa, Milano-Udine, Mimesis, 2018).
Derrida arriva a Siracusa per la prima volta, come scrive anche di sé Platone (Lettera VII, 324 a) e vi giunge, spiega, non da Nord, non da Parigi, ma da Sud, da un posto ancora più a Sud della Sicilia, da Algeri. Lì infatti è nato e lì ha goduto del sole e del mare a buon mercato, anzi gratis, come Camus. Come il piccolo Albert che nonostante le origini poverissime aveva potuto godere del mare e del sole che erano lì per tutti. E la cui patria spirituale era diventata, attraverso il privilegio degli studi classici, la Grecia, perché io, diceva di sé Camus, «ho un cuore greco» (Oeuvres complètes, 1948, II, 476). Un cuore greco, e anche un coraggio di ispirazione secolare che credo si possano attribuire senza sbagliare anche a Derrida. Già in Algeria, spiega Derrida, si respirava «la molteplicità dei retaggi mediterranei, la profusione cosmopolita della memoria» (Tentazione di Siracusa, p. 22). Le stesse molteplicità e profusione che il filosofo riconosceva a Siracusa, allora, nel 2001, e che ora, non sono passati neanche quattro lustri, già ci vogliono togliere per sostituirle con l’angustia di celle di purezza e omogeneità identitaria.
Mi presento a Siracusa non nudo ma innocente
Mi presento a Siracusa, continua Derrida nella sua lectio, non nudo ma innocente. Non nudo, perché non mi si sospetti di voler imitare il grande Archimede che esce nudo e bagnato dalla vasca per annunciare al mondo la sua strabiliante scoperta. Non nudo perché non viviamo nella dolce libertà delle primitive leggi della natura (questo veramente non è argomento di Derrida ma di Montaigne-Rousseau). Non nudo perché non voglio essere un re nudo ma soprattutto non voglio essere un re né ambisco a spartire tentazioni di potere. Ecco la tentazione di Siracusa, quella che coglie Platone negli attimi in cui pensa che potrebbe governare, o almeno che i filosofi potrebbero dar leggi ai governanti. È la tentazione che coglie il filosofo nell’immaginare di prendere il potere e di gestirlo sì, ma in maniera perversa. Indirettamente cioè, mandando avanti re e imperatori con i suoi consigli e con suggerimenti di leggi, ordinamenti, propositi. Applicando il farmaco ambiguo della propria saggezza, rimedio e veleno tirato fuori dall’armadietto della farmacia di Platone.
Finiti sono ora e per fortuna i tempi tirannici in cui il filosofo poteva sognare di diventare consigliere del re eppure ciò non significa, conclude Derrida, che la filosofia politica sia morta e inutile e ancor meno che lo sia la filosofia del politico. Anche perché il politico è cambiato, è diventato globale («mondiale») e non è più legato agli stati-nazione, all’autoctonia, alla lingua e alla religione, al Blut und Boden, sangue e suolo. Si annuncia la nuova era della cittadinanza cosmopolita, della nuova ospitalità allo straniero, proprio come quella che la città di Siracusa offre quel giorno allo straniero Derrida.
Un altro salto nel tempo, e siamo ancora a Siracusa, nella Siracusa di oggi, simbolo di ogni porto cui tentano di approdare persone, esseri umani, che come Jackie provengono dal Sud del mondo. Saranno forse non xenoi/hospes, stranieri nemici, ma stranieri residenti, come si augura Donatella Di Cesare, e come forse si sarebbe augurato lo stesso Derrida?
SULLE TRACCE DI EUROPA. ARACNE, PENELOPE, E "UN FALSO MITO"... *
Pàllade, la dèa del Tritone, aveva seguito con attenzione il racconto. Elogiò il canto delle dee d’Aònia, e trovò giusta la loro ira. Ma poi, tra sé: “Lodare va bene, ma anche io voglio essere lodata, nemmeno io permetterò che si disprezzi la mia divinità impunemente!” E decise di rovinare Aracne della Meònia, la quale - le era giunta voce - non intendeva considerarsi inferiore a lei nell’arte di lavorare la lana. Costei, non per ceto o lignaggio era famosa, ma perché era un’artista. Suo padre, Idomone di Colofonie, tingeva la lana spugnosa con porpora di Focèa; la madre era morta, ma anch’essa era una popolana, della stessa condizione del marito. Malgrado ciò, Aracne con la sua attività si era fatta n gran nome per le città della Lidia, benché, nata appunto da umile famiglia, abitasse nell’umile Ipèpe.
Per vedere i suoi meravigliosi lavori, spesso le ninfe del Timolo lasciarono i loro vigneti, le ninfe del Pactòlo lasciarono le loro acque. E non soltanto meritava vedere i tessuti finiti, ma anche assistere a quando li faceva, poiché era un vero spettacolo. Sia che agglomerasse la lana greggia nelle prime matasse, sia che lavorasse di dita e sfilacciasse uno dopo l’altro con lungo gesto i fiocchi simili a nuvolette, sia che con l’agile pollice facesse girare il liscio fuso, sia che ricamasse, si capiva che la sua maestria veniva da Pàllade. Ma Aracne sosteneva di no, e invece di essere fiera di una così grande maestra, diceva impermalita: “Che gareggi con me! Se mi vince potrà fare di me quello che vorrà”.
Pàllade si traveste da vecchia, si mette sulle tempie una finta capigliatura bianca e prende anche un bastone che sorregga le membra piene di acciacchi. Poi comincia a parlare così: “Non tutto è male nell’età avanzata. Più si invecchia più cresce l’esperienza. Dài retta a me: ambisci pure ad essere la più grande tessitrice, tra i mortali; ma non voler competere con la dèa,e chiedile con voce supplichevole di perdonarti per quello che hai detto, o temeraria; chiediglielo, e non ti rifiuterà il perdono”.
Aracne le lancia una torva occhiata, lascia andare i fili già cominciati e a stento trattenendosi dal percuoterla, con una faccia che tradisce l’ira, così dice di rimando a Pàllade che ancora non si è palesata: “O scimunita, smidollata dalla lunga vecchiaia, vivere troppo eccome se rovina! Queste cose valle a dire a tua nuora, valle a dire a tua figlia, se ne hai una! Io mi so regolare benissimo da me, e perché tu non ti creda di aver combinato qualcosa con i tuoi ammonimenti, sappi che io la penso come prima. Perché non viene qui? Perché non accetta la sfida?”
Allora la dèa: “È venuta!”, dice, e si spoglia della figura di vecchia e si rivela - Pàllade. Le ninfe e le donne della Lidia si prostrano dinnanzi alla divinità; soltanto la vergine non si spaventa. Tuttavia trasalisce, e un improvviso rossore le dipinge suo malgrado il viso e poi ridilegua, come l’aria s’imporpora al primo comparire dell’aurora e dopo breve tempo s’imbianca, quando sorge il sole. Insiste sulla via che ha preso, e per insensata bramosia di gloria corre verso la propria rovina.
E infatti la figlia di Giove non rifiuta, e non l’ammonisce più, e nemmeno rinvia più la gara. Subito si sistemano una da una parte, l’altra dall’altra, e con gracile filo tendono ciascuna un ordito. L’ordito in alto è legato al subbio, il pettine di canna tiene distinti i fili, la spola appuntita inserisce la trama, con l’aiuto delle dita, e i denti intagliati nel pettine, dando un colpo, comprimono la trama passata tra un filo e l’altro.
Lavorano tutte e due di lena, e liberate le spalle dalla veste muovono le braccia esperte, con tanto impegno che non sentono fatica. Mettono nel tessuto porpora che ha conosciuto la caldaia a Tiro, e sfumature delicate, distinguibili appena: così, quando la pioggia rifrange i raggi solari, l’arcobaleno suole tingere con grande curva, per lungo tratto, il cielo, e benché risplenda di mille diversi colori, pure il passaggio dall’uno all’altro sfugge all’occhio di chi guarda, tanto quelli contigui si assomigliano, sebbene gli estremi differiscano. Anche intridono i fili di duttile oro, e sulla tela si sviluppa un’antica storia.
Pàllade effigia il colle di Marte nella città della di Cècrope [ATENE] e l’antica contesa sul nome da dare alla contrada. Sei dèi più sei, e Giove nel mezzo, siedono con aria grave e maestosa su scanni eccelsi: ciascuno ha come impressa in volto la propria identità; l’aspetto di Giove è quello di un re. Poi disegna il dio del mare, mentre colpisce col lungo tridente il macigno di roccia e da questo squarciato fa balzare un cavallo indomito, perché la città gli venga aggiudicata. A sé stessa assegna uno scudo, un’asta dalla punta acuminata, un elmo e l’egida per proteggere il capo e il petto; e rappresenta la terra che percossa dalla sua lancia genera l’argentea pianta dell’ulivo con le sue bacche; e gli dei che guardano stupefatti; infine la propria vittoria. Ma perché la rivale capisca da qualche esempio cosa dovrà aspettarsi per così folle ardire, aggiunge ai quattro angoli quattro altre sfide, vivaci nei colori, ma nitide nei tratti minuti. In un angolo si vedono Ròdope di Tracia ed Emo, ora gelidi monti, un tempo esseri mortali, che avevano usurpato il nome degli dei maggiori. Dall’altra parte la sorte pietosa della madre dei Pigmei: avendola vinta in una gara, Giunone impose che diventasse una gru e s’azzuffasse col suo popolo. Poi effigia Antigone, che una volta osò competere con la consorte del grande Giove e che dalla regale Giunone fu mutata in uccello: né Ilio né il padre Laomedonte poterono impedire che, spuntatele le penne, come candida cicogna applaudisse sé stessa battendo il becco. Nell’angolo che rimane Cìnira, perdute le figlie, abbraccia i gradini di un tempio, già carne della sua carne, e, accasciato sulla pietra, si staglia in lacrime.
Contorna i bordi con rami d’olivo, segno di pace, e con la pianta che le è sacra conclude l’opera sua.
Aracne invece disegna Europa ingannata dalla falsa forma di toro: diresti che è vero il toro, vero il mare; la si vede che alle spalle guarda la terra e invoca le compagne, e come, per paura d’essere lambita dai flutti che l’assalgono, ritragga timorosa le sue gambe. E raffigura Asterie che ghermita da un’aquila si dibatte, raffigura Leda che sotto le ali di un cigno giace supina; e vi aggiunge Giove che sotto le spoglie di un satiro ingravida di due gemelli l’avvenente figlia di Nicteo; che per averti, Alcmena di Tirinto, si muta in Anfitrione; che trasformato in oro inganna Dànae, in fuoco la figlia di Asopo, in pastore Mnemosine, in serpe screziato la figlia di Cerere. Effigia anche te, Nettuno, mentre in aspetto di torvo giovenco penetri la vergine figlia di Eolo, mentre come Enìpeo generi gli Aloìdi, e inganni come ariete la figlia di Bisalte; te, che la mitissima madre delle messi dalla bionda chioma conobbe destriero, che la madre con serpi per capelli del cavallo alato conobbe uccello e Melanto delfino. Ognuno di questi personaggi è reso a perfezione e così l’ambiente. E c’è pure Febo in veste di contadino, e le volte che assunse penne di sparviero o pelle di leone, e che in panni di pastore ingannò Isse, figlia di Macareo. C’è come Libero sedusse Erìgone trasformandosi in uva, come Saturno in cavallo generò il biforme Chirone.
Tutto intorno alla tela corre un fine bordo, con fiori intreccisti a rami d’edera flessuosi.
Neppure Pàllade, neppure la Gelosia poteva trovar qualcosa da criticare in quell’opera. Ma la bionda dèa guerriera ci rimase malissimo e fece a brandelli la tela che illustrava a colori le colpe degli dèi, e trovandosi in mano la spola di legno del Citoro, tre e quattro volte colpì con quella sulla fronte Aracne, figlia di Idmone. La poveretta non lo tollerò, e corse impavida a infilare il collo in un cappio.
Vedendola pendere, Pàllade ne ebbe compassione e la sorresse, dicendo così: “Vivi pure, ma penzola, malvagia, e perché tu non stia tranquilla per il futuro, la stessa pena sia comminata alla tua stirpe e a tutti i tuoi discendenti!” Detto questo, prima di andarsene la spruzzò di erbe infernali, e subito al contatto del terribile filtro i capelli scivolarono via, e con essi il naso e gli orecchi; e la testa diventa piccolissima, e tutto il corpo d’altronde s’impicciolisce. Ai fianchi rimangono attaccate esili dita che fanno da zampe. Tutto il resto è pancia: ma da questa, Aracne riemette del filo e torna a rifare - ragno - le tele come una volta.
RIANDANDO CON LA MEMORIA alla “poesia” della RAGAZZA e del RAGNO, della “TARANTATA”, di Pellegrino Scardino di San Cesario, e, RICORDANDO CHE il mito di ARACNE raccontato da OVIDIO (Metamorfosi, VI, 1-145) "narra della sfida tra Athena ed Aracne sull’arte della tessitura. E’ proprio Aracne a lanciare la sfida, e ne pagherà le tragiche conseguenze: non solo ha osato sfidare la dea, ma la rabbia che suscita in Athena è nel fatto che le sue tele si mostrano addirittura superiori a quelle della dea stessa. L’ira che la fanciulla provocherà in Athena sarà tale da costringerla al tentativo di suicidarsi: non poteva reggere difatti il peso della rabbia divina. Ma la dea fermerà il tentativo di suicidio di Aracne e la trasformerà in ragno" e, ANCORA, che sul tema - come ha ricordato lo stesso Gianfranco Mele (ARACNE, LE TARANTATE, E UN FALSO MITO - il prof. Armando Polito ha offerto brillanti contributi di approfondimenti iconografici, credo sia opportuno invitare ancora e di nuovo a una lettura attenta dell’intera narrazione ovidiana, per cercare possibili ragioni del "falso mito".
CONTRARIAMENTE a quanto si è pensato e si continua a pensare, c’è un filo doppio che lega Athena e Aracne - una identità speculare (uguale e opposta) che emerge chiara dal confronto della loro situazione "familiare" e e della loro “ideologia” emergente dalle "immagini" dei loro arazzi: quello di Athena che celebra la fondazione di Atene, sé stessa, e la punizione di chi osa sfidare soprattutto la sposa di Zeus, e, quello di Aracne che celebra le "avventure" di Zeus (e di altri déi) con donne mortali, a partire dal famoso "ratto di Europa" ...
ENTRAMBE, rimaste senza madre (quella di Aracne è morta, quella di Athena l’ha "ingoiata" Zeus) ed entrambe al "servizio" dei loro "Padri", SONO tutte e due collegate nelle varianti del mito a Penelope, come da scena di una xilografia del XVI sec.: Pallade e Penelope con le ancelle e Aracne indignata a tessere la tela - in attesa di un... Ulisse/Zeus, partito per le sue avventure “europee”. O, dato che ormai l’Europa è sulla via del tramonto, anche questa "variante" è da ritenersi "un falso mito"? O, in altro modo, che Athena, Aracne, Penelope, e la stessa Arianna tentano di offrire ancora la chiave per saper riconoscere un falso mito e riprendere il cammino? O no?
Federico La Sala
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Doomsday Clock.... Fine della Storia o della "Preistoria"?
TROIA, L’OCCIDENTE, E IL PIANETA TERRA. PER LA PACE PERPETUA.
METAFISICA. LA LEZIONE IMMORTALE DI KANT, DALLA STIVA DELLA "NAVE" DI GALILEI.... *
Martin Heidegger
Così la metafisica lavora al proprio annientamento
Filosofia. Nessuna concessione all’antisemitismo nazista nel IV dei «Quaderni neri»: a metà anni ’40, l’avversario è piuttosto il «monoteismo ebraico-cristiano», responsabile, tra l’altro, dei «sistemi della dittatura totale»: da Bompiani
di Lucio Cortella (il manifesto, 27.01.2019)
Chi pensava di trovare la teorizzazione del supposto antisemitismo di Martin Heidegger nel quarto volume dei suoi Quaderni - Note I-V. Quaderni neri 1942-1948 (traduzione di Alessandra Iadicicco, Bompiani, pp. XVIII-700, euro 30,00) rimarrà deluso. Alla «questione ebraica» il filosofo tedesco dedica in tutto una quindicina di righe. Per le restanti 700 pagine, a parte un rapido accenno al «profetismo», nient’altro.
Anche questa quarta puntata dei Quaderni neri si conferma come un «diario filosofico», una meditazione pensante di Heidegger su se stesso, sui grandi temi della propria filosofia, in particolare sulla questione che, a partire dalla «svolta» avvenuta alla fine degli anni Venti, era diventata per lui centrale e cruciale, la questione dell’essere e della sua «storia». Per Heidegger l’essere non va confuso con gli «enti»: non è né una cosa del mondo né una sostanza trascendente e sovrasensibile al di fuori del mondo, come l’ente «supremo» della tradizione metafisica cristiana. L’essere non è identificabile con una «sostanza», è invece un essenziale sottrarsi (e nascondersi) a ogni tipo di «entificazione», a ogni oggettivazione. Ciò che noi comprendiamo dell’essere emerge solo dalla storia, dalla «sua» storia che è poi anche la «nostra». Ma al tempo stesso questa è la storia del suo tradimento, della sua perdita, del suo abbandono.
L’efficienza del fare
Già la filosofia degli inizi, in Grecia, aveva trattato l’essere come un ente, come una «presenza», anche quando lo ha pensato come un’entità trascendente (le idee di Platone, il motore immobile aristotelico, il Dio cristiano), ma così ha annullato e rimosso quella che Heidegger chiama differenza ontologica, la differenza essenziale tra «essere» ed «ente». Riducendo l’essere all’ente lo ha reso disponibile all’oggettivazione, alla manipolazione, alla strumentalizzazione, aprendo le porte all’età della tecnica. La modernità diventa così la realizzazione estrema di quella metafisica che ha dimenticato l’essere a favore dell’ente. Quella dimenticanza, tuttavia, non è un errore umano. Al contrario, è proprio il modo in cui l’essere stesso si è reso «presente» nella storia. L’oblio sta inscritto in quella ambivalenza per cui l’essere è al tempo stesso un nascondersi e un presentarsi. La sua riduzione a ente e la stessa civiltà della tecnica sono perciò il destino che l’essere stesso ci ha riservato.
La nozione fondamentale che Heidegger usa in questi anni, e che ricorre spesso nei quaderni, è quella della «macchinazione», un termine che veniva spesso impiegato dalla propaganda antisemita contro il presunto disegno di «dominio ebraico» sul mondo. Ma la «Machenschaft» assume in Heidegger un significato che va ben al di là, perché indica la caratteristica fondamentale dell’età della tecnica, in cui centrale è l’efficienza del fare (machen) e del produrre. La «macchinazione» si rivela, perciò, come il destino che l’essere ci ha riservato facendoci dimenticare la sua differenza dall’ente e presentandosi come ciò che può venire infinitamente prodotto, trasformato e manipolato. La conseguenza è la «desertificazione» (Verwüstung), la cancellazione del mondo e lo sradicamento dell’essere umano.
È in questo contesto che Heidegger colloca la sua comprensione della «ebraicità» (Judenschaft). Nelle poche righe contenute nel primo dei cinque quaderni che compongono il volume, riconduce l’essenza dell’ebraismo all’essenza della tecnica. Siamo nel pieno della seconda guerra mondiale, durante l’estate del 1942, e la distruzione dell’Europa avanza, con i suoi massacri, i bombardamenti, le devastazioni. Heidegger definisce tutto ciò «l’anti-Cristo», ma questo spirito di distruzione - aggiunge - non può che derivare dal suo stesso fondamento, cioè dal «Cristo».
Un destino delle origini
È il Cristianesimo, dunque, il responsabile, insieme alla metafisica, della distruzione cui sta andando incontro l’Occidente. Ma ecco che - con una mossa inaspettata - Heidegger riconduce anche il «Cristo» a una radice più profonda: quella della «ebraicità». Cristianesimo, metafisica ed ebraismo vengono coinvolti in una comune responsabilità di fronte alla distruzione di quei tempi. Nel momento del suo massimo dispiegamento, la metafisica produce il proprio stesso annientamento: questo il destino che attende anche «ciò che è essenzialmente ebreo». Teorizzare l’autoannientamento (Selbstvernichtung) del popolo ebraico proprio negli anni in cui la Germania nazista portava a compimento la barbarie dell’olocausto desta indubbiamente sconcerto e una legittima indignazione, tanto più se si pensa che dieci anni prima Heidegger aveva aderito entusiasticamente al nazismo, salvo poi ricredersi e ritirarsi dalla vita pubblica.
Tuttavia, la tesi dell’autoannientamento esprime una concezione ben più generale e riguarda il destino della metafisica e della tecnica, destino in cui l’ebraismo viene coinvolto solo tangenzialmente. Secondo Heidegger infatti, quella parabola di autodistruzione era già inscritta nel pensiero aurorale greco, pensiero che fin dagli inizi aveva obliato l’essere a favore dell’ente. E se negli anni della sua adesione al nazismo Heidegger aveva creduto alla possibilità di un «nuovo inizio» nella storia dell’essere, ora guarda a quell’adesione come a un errore di prospettiva: «L’errore fu la fretta precipitosa, fu solo un errore di tempo. Fu il non vedere ancora chiaramente che quel tempo era “lungo”».
Non ci sarà un nuovo inizio ma l’inesorabile autoannientamento della Germania, dell’Europa e dello stesso esserci. Da queste pagine non sembra dunque emergere alcuna concessione all’antisemitismo nazista, che, anzi - in un veloce passaggio del diario di qualche anno dopo - viene giudicato da Heidegger «folle e riprovevole». In quel periodo, l’avversario non è tanto l’ebreo quanto il «monoteismo ebraico-cristiano», al quale vengono ricondotti anche «i moderni sistemi della dittatura totale». La polemica più dura è rivolta al cristianesimo e alla sua «teologia clericale»: «io non sono un cristiano», scrive Heidegger, «e unicamente per la ragione che non posso esserlo». Tra pensiero e fede c’è «fessura», inconciliabilità assoluta: se esiste una «filosofia cristiana», bisogna chiedersi «fino a che punto una tale filosofia pensi», dato che «per il pensiero non vi è nessun Dio».
Un interrogativo, tuttavia, rimane: come mai - dopo che alla fine della guerra era diventata evidente a ogni tedesco la mostruosità dell’olocausto - Heidegger insiste, sebbene tramite pochi accenni, con la sua critica filosofica nei confronti di «ciò che è ebreo» invece di fare i conti seriamente con lo sterminio perpetrato dai nazisti? La risposta non può che essere intrinseca alla sua ontologia, incapace di interrogarsi sull’enormità di quell’evento. Agli occhi di Heidegger, il destino dell’essere sembra decidersi più sul terreno, per lui nefasto, della democratizzazione verso cui si sta avviando la Germania del dopoguerra, sotto il segno della perdita per lui incolmabile dell’identità, e come un «macchinario omicida» che conduce al «completo annientamento», piuttosto che sull’atroce sterminio di un intero popolo.
La sofferenza delle vittime, la meditazione sull’orrore e la negazione estrema dell’umano che l’olocausto rappresenta finiscono, dunque, per non avere alcuna rilevanza davanti al punto di vista anonimo e imperscrutabile della storia dell’essere.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
ORIENTARSI, OGGI - E SEMPRE. LA LEZIONE IMMORTALE DI KANT, DALLA STIVA DELLA "NAVE" DI GALILEI.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
I medici nascono senza frontiere
di Roberto Mussapi (Avvenire, venerdì 18 gennaio 2019)
«In quante case io entri mai, vi giungerò per il giovamento dei pazienti tenendomi fuori da ogni ingiustizia e da ogni altro guasto, particolarmente da atti sessuali sulle persone sia di donne che di uomini, sia liberi sia schiavi». Siamo all’inizio di uno scritto che segna una tappa fondamentale della civiltà: il Giuramento di Ippocrate, il medico che fonda il compito e traccia le basi della sua arte. «Io giuro su Apollo medico e Asclepio e Igieia e Panacea, e su tutti gli dei e le dee, prendendoli a miei testimoni...».
Il giuramento di Ippocrate, su cui si fonda la medicina, è fatto agli dèi, il compito del medico non riguarda esclusivamente il mondo della polis, ma è vincolato a quello sacro del divino. Studi recenti datano il giuramento intorno al V secolo a. C, il secolo che vede nascere la tragedia come genere teatrale di poesia, e la filosofia, pensiero come logos. Alle spalle il rito dionisiaco tragico, e il pensiero dei presocratici, i baldi e travolgenti scienziati-poeti. Prodigioso momento di creazione dei Greci che fondano l’Occidente.
Cittadini di una democrazia, non servi di un Re come gli Egizi o i Persiani. Ma civiltà non ancora compiuta. Le donne non godono di diritti civili, né considerazione, meno ancora degli schiavi. Insomma molestare una donna, o uno schiavo, non è, per il greco del tempo, così grave. Non sono cittadini, maschi.
Per Ippocrate invece è la stessa cosa. Supera i limiti della sua civiltà. Va oltre: giuro di non fare violenza a nessuno, perché tutti, comprese donne e schiavi, sono, siamo uguali. Supera i pensatori del suo tempo. È un medico. I medici nascono senza frontiere.
Filosofia. In «Partorire con la testa» (Marsilio) Dorella Cianci ragiona sulla maieutica e fa emergere lati meno noti del pensatore greco, anche al di là della versione platonica
Ritratto inatteso di Socrate, sapiente maestro di ribelli
di Franco Manzoni (Corriere della Sera, 15.01.2019)
Una persistente e densa immagine mentale in evoluzione. Mito e raziocinio ruotano fra la tecnica dell’anamnesi e gli aspetti terapeutici della forma dialogica verso la scoperta del sé nascosto nell’inconscio, sorpreso a ragionare con reminiscenze primordiali. Tant’è che oggi si trovano a confluire sulla genesi del pensiero differenti discipline: pedagogia, storia, antropologia, psicoanalisi, filosofia, retorica, teologia.
Con analisi accurata delle fonti dall’antichità al Medioevo, un inatteso Socrate, non più esclusivamente «controllato» dalla versione platonica, scopriamo ora nel volume Partorire con la testa. Alle origini della maieutica di Dorella Cianci (Marsilio).
Nata a Cerignola (Foggia) nel 1984, filologa classica, docente universitaria, l’autrice ritiene che Socrate sia passato alla storia come filosofo grazie alla volontà dall’allievo Platone. È sufficiente leggere fra le righe dei documenti. Una di queste prove si trova non a caso in un dialogo platonico, il Menone. Un giovane schiavo, che credeva di non avere dubbi, dopo l’incontro con Socrate non ha più certezze. Anzi, il ragazzo viene indotto a ricercare il sapere, perché si trova in uno stato di fame della conoscenza.
Socrate è davvero un maestro di parto, un’abilissima ostetrica. Da dove arriva l’idea di generare senza utero se non dal mito? È noto come Atena, dea della sapienza, fosse la figlia prediletta di Zeus, nata dalla testa del padre, aiutato da Efesto che gli spaccò il cranio in due. La potenza simbolica dei miti è ineluttabile nella cultura classica. Giulio Guidorizzi, grecista di chiara fama, sottolinea nell’illuminante prefazione: «Nulla nasce senza dolore e rottura. Questa è in definitiva la natura della maieutica socratica; ...a poco a poco, una nuova idea viene al mondo e con essa un nuovo modo di essere cresce nella mente di una persona, che alla fine ne viene mutata fondamentalmente».
Senza dubbio la teoria socratica parte dall’assunto che la verità esiste già nella mente di una persona. Siamo nel campo dell’inconscio. Tocca al maestro, induttore di idee e non solo levatrice, far emergere la coscienza di sé, quando ancora l’allievo giace in uno stadio d’inconsapevolezza.
Platone attribuisce al comico Aristofane la maggiore responsabilità per la condanna a morte di Socrate nel 399 a. C. È vero, nelle Nuvole, commedia rappresentata nel 423, Socrate viene trasformato in un buffo manichino, maschera ridicola che si arrabbia nel caso qualcuno gli faccia abortire delle idee, un ateo che rigetta la religione olimpica. È il segno che Aristofane testimonia l’opinione dell’uomo della strada, mentre il pubblico ride del «supremo corruttore dei ragazzi». Nessuna colpa, quindi, del comico per la condanna decisa contro il filosofo dopo più di vent’anni dall’allestimento teatrale.
La questione maieutica in Socrate nasce dall’esigenza di proporre una pedagogia nuova. Chi esce dalla sua scuola è un ribelle pronto a demolire i valori etici dell’educazione tradizionale. Per questo Socrate deve morire.
Maestri Torna un testo dello studioso scomparso nel marzo del 2018 (Hoepli). Il suo metodo consisteva nel rileggere i classici attraverso le loro vicende personali
Aristotele fu anche zoologo, lo sguardo innovatore di Vegetti
di Eva Cantarella (Corriere della Sera, 03.01.2019)
È davvero importante l’uscita del volume Filosofia e sapere della città antica di Mario Vegetti (Hoepli), nella cui introduzione, scritta poco più di un mese prima del giorno in cui ci ha lasciati (l’11 marzo del 2018), l’autore saluta la ripubblicazione di un libro che quando uscì, verso la metà degli anni Settanta, fu - scrive Franco Ferrari nella premessa - un evento dirompente nel panorama culturale e scolastico italiano.
Come Vegetti ricorda, in quegli anni l’irreprensibile competenza specialistica di molti degli autori di studi filosofici «andava purtroppo unita a una desolante piattezza degli orizzonti culturali. Di qui il desiderio e la necessità di unire il rigore specialistico a una visione più ampia, aperta a una interdisciplinarietà che prevedeva il ricorso a strumenti del sapere diversi, dall’antropologia, alla sociologia culturale al lavoro critico sull’ideologia...».
Ad accrescere l’interesse del libro si aggiungevano altre importanti novità, quali per esempio la risposta di Vegetti a domande che allora nessuno si poneva, vale e dire il ruolo giocato nella formazione e nello sviluppo del pensiero filosofico dalle scienze naturali (la medicina, la geometria, l’astrologia): un ruolo talmente sottovalutato, ricorda Vegetti, da far dimenticare le ricerche zoologiche, che pure occupano circa un terzo delle opere di Aristotele.
Filosofia e sapere insomma era un libro nuovo, originale e affascinante, che divenne e restò per decenni il testo di formazione dei giovani studiosi, ai quali insegnava che i filosofi antichi non erano una categoria uniforme, indifferenziata e astratta, ma figure intellettualmente e socialmente diverse nelle diverse epoche, individui il cui pensiero andava collocato storicamente nel momento e nel contesto della loro vita.
Che rapporto c’era ad esempio tra la filosofia di Aristotele e la sua nascita nella città macedone di Stagira, il suo status ad Atene di meteco (uno straniero residente che non poteva partecipare alla vita politica della città), il ritorno in Macedonia come precettore del giovane Alessandro Magno e poi, nuovamente ad Atene, l’apertura del suo Liceo? Aristotele filosofo, insomma, va letto anche alla luce di Aristotele uomo. Se e quali siano stati gli influssi di queste vicende sul suo pensiero è una questione che qui non è possibile approfondire, ma che la lettura di Filosofia e sapere induce a valutare e comprendere appieno.
Il metodo di Mario Vegetti, si può ben dire, è il contrario del positivismo testuale, che legge e intende i testi come documenti autonomi, del tutto indipendenti dal contesto in cui sono nati e sono stati diffusi, ed è una delle tante qualità che fanno di lui un autentico maestro. Per essere tali non basta infatti essere grandissimi studiosi: i maestri sono quelli che aprono prospettive nuove alla ricerca anche al di fuori del proprio settore disciplinare, come Mario Vegetti ha fatto grazie alla sua straordinaria capacità di collegare il discorso filosofico alla realtà sociale, mettendo in luce da un canto la sua derivazione da questa realtà e dall’altro gli effetti che produce su di essa.
Un libro, questo, non solo da leggere, ma da conservare.
Intorno all’amore. Pietro Del Soldà ne individua una dimensione pubblica contro l’immagine dominante che ne dà invece una lettura privata. L’eros non va inteso solo in senso sentimentale e di coppia, ma soprattutto politico
Una visione plurale di felicità
di Remo Bodei (Il Sole-24 Ore, Domenica, 02.12.2018)
Nell’inflazione di pubblicazioni che trattano della felicità e delle ricette per raggiungerla o tra le numerose applicazioni del pensiero antico all’attualità, la prima cosa da dire è che questo libro riserva una gradita sorpresa: non è banale e, malgrado la perfetta conoscenza dei testi platonici utilizzati, non ha neppure un taglio didascalicamente accademico.
In quanto conduttore della rubrica radiofonica Tutta la città ne parla, Pietro Del Soldà gode, infatti, professionalmente del vantaggio di praticare una sorta di quasi quotidiano dialogo socratico nell’agorà tecnologica di RAI 3, di misurarsi, in maniera garbata ed equilibrata, con le questioni poste dal pubblico, con le sue preoccupazioni e inquietudini. Senza offrire soluzioni prefabbricate, egli utilizza Socrate come un reagente e non come un modello cui adeguarsi.
Il problema della felicità è trattato contropelo, a partire dalle radici dell’infelicità e delle sue cause e dalla domanda che oggi s’impone: perché tanta infelicità, se il mondo, rispetto al passato, è incomparabilmente migliore, se le aspettative di vita, di libertà e di sicurezza sono così aumentate? Contro l’immagine dominante di una felicità esclusivamente privata, Del Soldà ne mostra l’inscindibile con la dimensione pubblica. Sostiene poi la tesi che l’amore (eros) non debba essere inteso in senso sentimentale o di coppia, ma anche, e soprattutto, politico. In tale prospettiva, esso consiste nella ricerca di un legame in grado di dare «armonia alle “voci del coro”, cioè di governare se stesso e la città senza escludere nessuna delle parti che la compongono». Eros è la forza che abbatte il muro di separazione tra l’Io e il Noi.
Notevole è la parte del volume che, ripercorrendo la polemica di Socrate contro i sofisti (in dialoghi come il Protagora, il Gorgia, il Lachete, il Fedro, la Repubblica e le Leggi), Del Soldà indica in essi gli antesignani delle attuali forme d’individualismo narcisistico, caratterizzato dalla mancanza di pudore, dalla «spettacolarizzazione dell’intimità», dall’insofferenza alle regole e dalla ricerca del successo a qualsiasi costo. Nessuno si mette realmente in gioco nel dialogo, ma aggiunge addirittura nuovi mattoni al «muro» che lo divide, oltre che da se stesso, anche dagli altri, con cui intrattiene rapporti unicamente strumentali. Si è perciò soli pur vivendo in mezzo a una pluralità di persone, perché s’intessono con loro relazioni non vincolanti (quelle che il filosofo americano Robert Nozick aveva teorizzato come no binding committments).
L’esistenza è concepita da questi sofisti come una competizione senza quartiere, analoga alla corsa della vita descritta da Hobbes, che parafrasa San Paolo, della: «Guardare gli altri che stanno dietro, è gloria. [...] Esser superato continuamente, è infelicità. / Superare continuamente quelli davanti, è felicità / E abbandonare la pista, è morire».
L’ipertrofia dell’io conduce al paradosso per cui, più ci separiamo da noi stessi e dagli altri, più ci omologhiamo, in quanto egoismo e conformismo sono due facce della stessa medaglia. Come abbattere dunque la barriera che ci divide da noi stessi e dagli altri? La soluzione suggerita è quella che si trova nell’Alcibiade Maggiore, dove il precetto delfico «Conosci te stesso!» non va inteso come un invito a sprofondare nell’asfittica interiorità individuale, bensì a rispecchiare se stesso nella pupilla dell’altro: «Se un occhio vuole vedere se stesso, deve guardare in un altro occhio e in quella parte in cui nasce la forza visiva».
Ciascuno deve perciò uscire da sé proprio per andare verso se stesso, anche perché conoscere se stessi significa conoscere gli altri, ossia anche fare politica. Ma, per rovesciare l’ottica consueta dell’introspezione e ritrovarsi nella pluralità degli altri, per rimettere a posto i frammenti di se stessi in qualcosa di coerente, si richiede coraggio.
Riferendosi più direttamente alle vicende del presente, ciò implica non solo l’abbandono della retorica dell’identità autosufficiente, basata sull’esclusione dell’altro, ma anche - e questo, in tempi di fake news, è un suggerimento
prezioso - il non limitarsi a smontare le falsità evidenti attraverso il fact checking. Occorre, piuttosto, sforzarsi di capire l’eros, l’irrefrenabile bisogno, in chi si è sentito abbandonato e sminuito, di entrare a far parte di una comunità che lo rappresenti e per cui si è disposti ad accettare, come tassa d’inclusione, tutto quanto asserito dall’opinion leader.
Tale adesione ha tanto più valore in una fase in cui si assiste a una enorme crescita delle diseguaglianze o, come direbbe la sociologa Sakia Sassen, a una «secessione dei patrizi», al ritirarsi nelle loro dorate posizioni di quei pochi che posseggono le risorse di metà del genere umano (e che, nella rivendicazione di una eroica ignoranza, vengono spesso accomunati alla detestata casta dei detentori ufficiali del sapere).
Vi è un solo, difficile. rimedio all’attuale ribollire delle «passioni tristi» (odio, invidia, risentimento) e di quelle irruenti (ira, gelosia, aggressività) non sufficientemente orientate dal pensiero cosciente. Nelle Leggi tutte sono paragonate da Platone a rigidi e indeformabili fili di ferro, che muovono l’uomo come una marionetta. A esse bisogna sottrarsi, opponendo resistenza al loro potere, per «farsi guidare sempre da uno solo di questi fili, senza mai lasciarlo [...]. Si tratta del sacro filo d’oro del logos». Occorre, in altri termini, fare affidamento su una «ragione malleabile» come l’oro, capace di condurre a una «felicità plurale» e condivisa, al cui culmine «assaporare la gioia indicibile di un canto comune».
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
SPIRITO CRITICO E TEOLOGIA POLITICA DEL "MENTITORE". PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO, CHE GIA’ DANTE SOLLECITAVA ...
IL "DUE" DI SAUSSURE VINCE IL "DUE" DI ROBERTO ESPOSITO. Un commento di Remo Bodei.
"Due. La macchina della teologia politica e il posto del pensiero". Si può smontare il meccanismo teologico di sudditanza all’Uno su cui si fondano i rapporti di potere?
FILOSOFIA IN STATO COMATOSO. IL PARADOSSO DELL’IDENTITA’: IO E GLI ALTRI. REMO BODEI CERCA DI SVEGLIARSI E SI RIATTACCA AL VECCHIO E LOGORO FILO POPPERIANO. Ecco le tesi del suo "manifesto per vivere in una società aperta"
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89).
Federico La Sala
Il Socrate che non t’aspetti svelato da Dorella Cianci
La rigorosa ricostruzione della figura del pensatore nel suo “Partorire con la testa. Alle origini della maieutica” (Marsilio)
di Mirella Fortis (Leggere:tutti, 28 novembre 2018)
Un lungo minuzioso lavoro di analisi della letteratura greca, ma anche di tanti testi successivi, dell’antichità e del Medioevo. Da questo scaturisce il Socrate che non ti aspetti. Con rigore scientifico è Dorella Cianci a ricostruire in modo anche imprevisto uno dei più grandi pensatori di tutti i tempi nel suo libro “Partorire con la testa. Alle origini della maieutica” pubblicato da Marsilio. La figura di Socrate si allontana così non solo dai luoghi comuni ma anche dalla descrizione praticamente monopolizzata da Platone.
Antichista e filologa, docente nell’Università Lumsa di Filosofia con i bambini e assegnista di ricerca in storia della filosofia medievale, Dorella Cianci è risalita alle origini della maieutica, parola che deriva dal greco con un richiamo all’arte ostetrica, e che fu adoperata da Platone nel “Teeteto” per definire il metodo attribuito a Socrate: il dialogo ottenuto con il susseguirsi di domande e risposte per sollecitare l’interlocutore, come una levatrice, a partorire la verità.
Stanno proprio così le cose? Attenzione: “E’ Platone che vuol far diventare Socrate un vero filosofo!” esclama la Cianci. Che avverte come Socrate operi con convinzione e agilità “nella paradossalità dei suoi nuovi valori di insegnamento, quegli stessi valori che erano balzati agli occhi di un semplice comico, Aristofane, molto più di quanto il fedele Platone li avesse notati!”.
Ed ecco la conseguenza ricavata dall’esame di un’ampia gamma di fonti: “Socrate abortiva e partoriva idee negli allievi, dicendo poi che questi allievi facevano tutto da sé, ma a ben vedere - da bravo maestro - sapeva tirare da burattinaio colto i fili del suo discorso esattamente dove voleva e anzi,,, in alcuni casi era totalmente proiettato su di sé, tanto da creare idee esclusivamente a sua immagine e somiglianza”.
I primi importanti e qualificati apprezzamenti all’originalità dell’impostazione di Dorella Cianci sono espressi già nella prefazione al libro “Partorire con la testa” scritta dal grecista e filologo Giulio Guidorizzi: “Seguo con un certo agio la strada segnata dalla Cianci” riconosce Guidorizzi. In particolare osserva: “Nel "Menone" Socrate non attua alcun parto, non fa nascere ciò che è dentro il ragazzino, in relazione a concetti complessi a lui estranei. È l’atteggiamento
La Cianci, pertanto, entra nel vivo della “pedagogia del maestro Socrate” che, con il suo “paradosso educativo, si è elevato a potente comunicatore, usando una strategia difensiva che lo mettesse al riparo dall’accusa di corruzione dell’animo giovanile”. Così ha mirato a “creare naturalmente allievi grazie alla sua autorità dialettica, pur affermando di non essere un maestro e chiarendo, già nell’"Apologia", che cosa intende con l’essere o meno maestri”.
A proposito di comunicazione, spicca nella prima citazione di “Partorire con la testa” la constatazione di Diogene Laerzio secondo cui “di fatto Platone ha messo per iscritto un numero importante di discorsi che Socrate non ha tenuto”. Sembra quasi una traccia per arrivare al paragrafo di pagina 28 dedicato a una “Postilla sul fake” anzitempo. Le falsificazioni delle informazioni hanno dunque un cuore antico, fa sapere questo libro.
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Dorella Cianci
Partorire con la testa. Alle origini della maieutica
Marsilio, 2018
Euro 13,00, pp. 160
FILOSOFIA, ARITMETICA, E ANTROPOLOGIA. I SOGGETTI SONO DUE, E TUTTO E’ DA RIPENSARE ... *
Il lato matematico di Platone
Così Reale recuperò i Greci
Esce una raccolta di studi del grande antichista italiano, difensore dei classici contro la visione scientista e il disprezzo diffuso per la teoria. La concezione delle idee come principi numerici, il primato della dottrina non scritta
di Donatella Di Cesare (Corriere della Sera, La Lettura, 25.11.2018, p. 11)
Nel Fedone Socrate si mostra assai deluso dall’indagine rivolta ai fenomeni naturali. Teme che pretendere di cogliere le cose con i cinque sensi finisca per accecare l’anima. Qui si compie il passaggio decisivo dal sensibile all’intellegibile, dal sapere che si accontenta dell’apparenza a quello che si innalza ai concetti
Nel corso degli anni Novanta, quando la filosofia analitica, quella che si concepisce come analisi logico-formale, aveva raggiunto il suo apice, c’era chi aveva cominciato a gettare discredito sul pensiero antico, nonché ovviamente sullo studio della lingua greca e di quella latina. A che pro studiare quel capitolo chiuso e concluso? Perché perdere tempo con Platone anziché risolvere i problemi attuali?
In quel delicato frangente, che ha lasciato segni evidenti altrove, Giovanni Reale (scomparso nel 2014) ha svolto in Italia un ruolo decisivo a difesa della filosofia classica. Ne è testimonianza il volume Storia della filosofia greca e romana che, appena pubblicato da Bompiani, raccoglie gli studi del grande antichista in un percorso suggestivo che va dai primi frammenti, risalenti almeno al VI secolo a.C., fino al decreto con cui l’imperatore bizantino Giustiniano chiuse nel 529 d.C. tutte le scuole dell’Impero guidate da pagani. Oltre mille anni di storia della filosofia narrati con perizia, sapienza, semplicità.
Reale ha lavorato a quest’opera per quattro decenni, intendendola quasi come un commento e un supporto alla fortunata collana del «Pensiero occidentale», dove sono usciti in edizione italiana, con testo a fronte, numerosissimi classici.
Il richiamo a Martin Heidegger è significativo. L’inizio greco non è destinato ad essere superato in grandezza dalle altre epoche. Al contrario: la filosofia dei Greci è la più grande. E la filosofia è prettamente greca. Perciò è peculiarità dell’Occidente; non esiste in altre tradizioni nulla di paragonabile. Da un canto Reale punta l’indice contro lo scientismo, che pretenderebbe di misurare la filosofia con i criteri della scienza, dall’altro denuncia il dilagante disprezzo per la «teoria» che non servirebbe alla vita pratica. Occorre guardare alla filosofia greca dove la teoria è una forma di prassi. Come sostiene Aristotele nella Politica, attivi al più alto grado sono coloro che esercitano un’attività di pensiero; tanto più che theoreîn non significa solo «vedere», ma anche «partecipare».
Reale si riconosce nell’ermeneutica di Hans-Georg Gadamer che, rilanciando l’insegnamento di Heidegger, ribadiva l’attualità del pensiero greco. Erano gli anni in cui il conflitto con la filosofia analitica veniva letto secondo il paradigma: «Noi greci, loro moderni». Ma la ripresa della riflessione antica non è antiquaria. Se la filosofia è indissolubilmente legata alla sua storia, questa storia non segue la freccia del progresso. Ecco perché, nell’apertura circolare di un dialogo, ammette e, anzi, sollecita la partecipazione. Al contrario di quel che avviene nella scienza, le domande della filosofia sono sempre le medesime, solo poste in modo differente. In tal senso l’incontro con la filosofia greca è «l’incontro con noi stessi».
Nata nelle vie e nelle piazze della pólis, dove il cittadino è chiamato alla vita politica, la filosofia si sviluppa lungo il filo conduttore del lógos, del discorso, dell’argomentazione, della ragione. Ma per Reale ciò che contraddistingue la tradizione greca è la metafisica, quel modo di pensare oltre i dati sensibili della realtà presente. Ne scorge le tracce già nell’orfismo, in quella iniziale religiosità ascetica, che per la prima volta parla di un che di «divino», che alberga nel corpo umano, cioè l’anima, la psyché. La morte è una liberazione dalla prigione del corpo, un ritorno all’origine dopo le sofferenze patite in terra. Questa potente dottrina della trasmigrazione delle anime, scaturita dalla fantasia orfica, capace di dischiudere l’aldilà, si sarebbe poi innestata nel cristianesimo.
Protagonista del volume è Platone, in cui Reale riconosce il «vertice del pensiero antico». È stato infatti il primo filosofo a guardare la realtà con «nuovi occhi», quelli dell’anima. Reale ricorda la «seconda navigazione» descritta da Platone nel dialogo Fedone. A parlare è Socrate, deluso dall’indagine sui fenomeni naturali; il suo timore è che, seguendo coloro che si volgono immediatamente alle cose, pretendendo di coglierle con i cinque sensi, finisca per accecare la propria anima. Si prepara allora alla «seconda navigazione», metafora del linguaggio marinaresco, che indicava il caso in cui, non essendoci più vento, la nave poteva essere spinta solo dai remi.
Questo è il passaggio decisivo dal sensibile all’intellegibile, dalla conoscenza che si accontenta dei sensi a quella che si innalza alle idee, intese da Platone come le «forme» delle cose. In questo varco metafisico sta per Reale il vero inizio della filosofia. Le idee sono principi formali, numerici, sono anzi numeri ideali.
Vale la pena ricordare che Reale aderì alla Scuola di Tubinga, le cui figure più significative furono Konrad Gaiser, Hans Krämer, e in seguito Thomas A. Szlezák. L’insegnamento di Platone non può essere confinato agli scritti, ma va ricercato piuttosto nella dottrina «non scritta» trasmessa, fra gli altri, anche da Aristotele.
Ne risulta una filosofia sistematica e fortemente matematizzata, dove assume rilievo la riflessione sull’uno, ma soprattutto sul due - che cosa significa due? - sulla diade infinita, «principio e radice della molteplicità degli esseri». -Anche chi non ne condivida i contenuti, dovrà ammettere che questa interpretazione, di cui Reale è stato il maggior esponente in Italia, ha aperto nuove vie di ricerca.
L’ammirazione per Platone, il grande pioniere del soprasensibile, non impedisce a Reale di scrivere pagine eccellenti su Aristotele, dalla fisica all’etica, dalla logica alla poetica, ricostruendo la portata epocale del suo pensiero. Ma a segnare una cesura, capace di ripercuotersi sulla filosofia, è il tramonto definitivo della pólis nel tempo di Alessandro Magno. Al cittadino subentra il suddito e, mentre vengono meno le antiche passioni, ciascuno è rinviato a se stesso e alla propria individualità in un mondo dove l’etica si scinde dalla politica, come attestano le scuole filosofiche successive.
Il volume contiene un’ultima parte in cui, da Filone d’Alessandria ad Agostino d’Ippona, viene delineato l’incontro fra tradizione ebraica e filosofia platonica, da cui sarebbe scaturito il cristianesimo. Particolare risalto assumono anche le figure di Plotino e di Proclo.
Viene prospettata allora una «terza navigazione», quella che non si ferma all’oltresensibile delle idee, alle forme immutabili, ma si apre agli imponderabili misteri della fede.
Si legge qui in filigrana il cammino sia intellettuale sia autobiografico di Reale, molto improntato, in particolare negli ultimi anni, a un’ispirazione religiosa. L’oltre della metafisica, che riteneva di non trovare più nel mondo attuale, ha improntato la vita contemplativa di questo grande maestro.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA VIA DI KANT: USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”. Note per una rilettura della “Storia universale della natura e teoria del cielo”
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
Federico La Sala
AL DI LA’ DEL PARTO MASCHIO (O FEMMINA) DEL TEMPO. La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica... *
Mitologia
L’eros senza maschio di Leda e il cigno
Il dipinto ripropone il simbolo della donna che dall’antichità ai grandi artisti del Rinascimento afferma la propria indipendenza
di Silvia Ronchey (la Repubblica, 20.11.2018)
Ed ecco che a Pompei la sempre imponderabile cabala dei crolli e dei controlli fa riemergere una variante ancora più antica, pittorica, di un episodio amoroso da sempre simbolo, nella storia della pittura e della letteratura, dell’autoerotismo femminile: del piacere che la donna può darsi senza la cooperazione del maschio, anzi, di alcun umano. Nella scultura adrianea, copia di un originale ellenistico, il corpo di Leda, completamente nudo, è contratto nell’amplesso, la mano celata nel grembo premuto alle piume, stretto fra le unghie di un onirico cigno dotato di doppio fallo, dove quello proteso nel lungo collo, cui le labbra si accostano in un’appena dissimulata fellatio, prevale sull’altro che si insinua fra le cosce tremanti - per citare i versi di Yeats - della ragazza che è in piedi e barcolla. Nell’altrettanto esplicito erotismo dell’affresco pompeiano, Leda, i drappeggi dell’abito appena scostati, ancora cinta di diadema e calzari, è abbandonata su una sedia ed è al seno scoperto che si protende il becco del bianco fantasma erotico avvinghiato alle sue cosce.
Nelle grandi Lede della storia dell’arte successiva c’è sempre qualcosa di ineffabile dipinto sul viso della donna da cui non a caso nascerà Elena, e con lei la guerra di Troia, e dunque Roma, con la fuga di Enea. Perfino il sorriso leonardesco del dipinto della Galleria Borghese è solo uno dei tanti misteriosi, allusivi, indecifrabili sorrisi che Leda, moltiplicata nel suo sogno in infinite immagini pittoriche, regala prima, durante o spesso dopo l’amplesso all’empatia dei pittori.
Del resto, della meno censurata tra le Lede dei grandi maestri, quella di Michelangelo, non sopravvive l’esecuzione finale, smarrita o censurata in un giro di corti che dalla committenza estense si arenerà in quella di Francia, ma la copia di Rosso Fiorentino della National Gallery dà un’idea di quanto meno pudica della Leda post coitum di Leonardo fosse l’idea che Michelangelo aveva di quell’amplesso.
Il cigno non è una bestia. È la figurazione simbolica dei desideri repressi e insieme delle paure erotiche femminili. Tutta l’imponderabilità e irrefrenabilità dell’erezione maschile è richiusa e dischiusa in quelle grandi ali frementi, che nell’iconografia assumono, come sempre le immagini dei sogni, proporzioni vertiginosamente variabili, ora ridotte alla sensualità del passer della Lesbia di Catullo, ora talmente gigantesche da far intravedere nel corpo a corpo erotico delle Lede avviluppate nelle loro piume qualcosa di simile alla lotta di Giacobbe con l’angelo. In effetti, se a qualcosa la loro tradizione iconografica può essere accostata, è quella di una vertigine del volo - pensiamo allo slancio di Icaro - che il mondo greco, attingendo alla tradizione orientale, consegnerà all’angelologia cristiana e islamica.
Che siano di chimera, di fenice o di cigno, che richiamino Eros o Ermes dal piede alato, e con lui la natura stessa del sogno, le ali, tipico oggetto di fobia sessuale femminile, sono un altro potente simbolo di hybris fallica. Creato dalla fantasia, dalla forza del sogno, dall’urgenza del simbolo, il cigno di Leda è quanto di più lontano da una concreta presenza animale.
Nulla a che fare con gli accoppiamenti bestiali della mitologia greca, come quello di Pasifae col nero, potente toro dall’immenso membro, che non a caso farà sorgere alle fondamenta dell’edificio psicologico greco una creatura - il Minotauro - che simboleggia nella mitologia l’assoluto irrazionale, la parte bestiale che è in noi, tanto avida quanto sapiente, tenuta a guardia del grande labirinto dell’inconscio.
Ma neanche quel figlio, per i greci, è il male, anzi. Sarà la sua uccisione da parte dell’infido eroe Teseo a produrre la combinazione di eventi che porterà a un’ancora più potente compensazione simbolica: a consegnare Arianna, sorella del Minotauro e suo esatto contrario, sacerdotessa della razionalità della dea Atena, a farsi sposa, abbandonata a Nasso, di Dioniso, il dio della natura scatenata e dell’ebbrezza.
Il prodotto dell’accoppiamento di Leda non sarà meno inquietante. Elena incarnerà la femminilità più potente di tutto il mito greco, quella cui non si resiste, capace di addormentare con il suo nepente il cuore degli uomini, di scatenare le loro guerre, di disseminare, con la sua forza di donna creata dal puro piacere di una donna, il massimo disorientamento nel mondo dei maschi. Elena dalle bianche braccia, candida e onirica come "il bianco tumulto" che la fa nascere, sarà la femme fatale per eccellenza, la splendida strega capace di scardinare ognuno degli aspetti dell’egemonia maschile.
Il mito di Leda è dunque il mito d’origine dell’autonomia femminile, del suo desiderio sessuale emancipato dal maschio, delle sue non solo erotiche ma anche concrete paure - poiché certo essere ingravidate da un sogno è da sempre nelle donne uno dei più irrazionali e archetipi timori, non a caso esorcizzato nelle storie di maghe e di streghe. È forse questo solo, nel mito di Leda, l’intervento di Zeus.
Per una volta assolviamolo dalla sua fama di stupratore. Quello di Leda è il contrario di uno stupro. E la vasta fortuna della sua iconografia è uno dei tanti segni nascosti, sotterranei, carsici che la psiche femminile ha lasciato, indecifrati dai molti, còlti dagli artisti e dai poeti, serbati e sussurrati nel segreto delle corti, della sua indipendenza e della sua libertà.
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SUL TEMA, IN RETE E NEL SITO, SI CFR.:
"PARTORIRE CON LA TESTA. Alle origini della maieutica" (Dorella Cianci, Marsilio, Venezia, 2018).
SOCRATE, "LE "REGOLE DEL GIOCO" DELL’OCCIDENTE E IL DIVENIRE ACCOGLIENTE DELLA MENTE".
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89).
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
Caustico pamphlet su Atene
Classici ritradotti e commentati. Di chi è la «Costituzione degli Ateniesi»? Edizione commentata di Giuseppe Serra per la Valla. Con un saggio di Canfora
di Carlo Franco (il manifesto, 04.11.2018)
Pensare l’Atene antica, che per i moderni è il lieu de mémoire del Partenone e della Democrazia, come un posto in cui dominava la canaglia popolare. Pensare quella democrazia come un regime perverso, in cui tutto però era organizzato in maniera efficientissima per opprimere e derubare la «gente per bene», ossia i ricchi. Pensare quella società come un luogo dove per gli schiavi era una pacchia (come si direbbe oggi), tanto che vestivano quasi come i liberi, e quando se ne voleva bastonare uno (come giusto e normale, che diamine!) si rischiava di colpire un libero. Con queste e altre considerazioni ora acute, ora acide e forse spiazzanti, un famoso testo greco discute, anzi critica radicalmente, la forma di governo degli ateniesi.
Dell’opera che così seccamente distrugge il nostro mito, però, quasi nulla è certo: non la natura (saggio? dialogo? esercitazione retorica?), non la datazione (quinto secolo? prima, durante o dopo la guerra del Peloponneso? quarto secolo?), non la paternità (Senofonte, come dicono i manoscritti? oppure no? e chi allora?), non il titolo (giacché non di istituzioni si discute, ma di politica). Davvero, la Costituzione degli Ateniesi, attribuita convenzionalmente allo Pseudo Senofonte, ora edita a cura di Giuseppe Serra e accompagnata da un saggio di Luciano Canfora (Fondazione Valla/Mondadori, pp. LXXVI-224, € 35,00) è un testo molto particolare. Studiarla, leggerla, pensarci sopra, è quasi un’avventura intellettuale.
Una prosa spigolosa e poco ornata
Gli interrogativi suscitati dal testo sono ben rappresentati in questa edizione. Si vedono all’opera, in ruoli diversi, due espertissimi studiosi del tema, che sui punti controversi dialogano a distanza. L’introduzione, ampia e pacata, rende conto dei problemi critici e mostra quanto incerti siano i risultati conseguiti dalla pur lunga indagine sul testo. La traduzione conserva le spigolosità di una prosa poco ornata, apparsa a taluno «immatura» nell’argomentazione (quindi opera di un giovane?) con peculiari scelte di lessico e evidenti sbalzi d’umore. Il commento, pure dovuto a Serra, svolge un’analisi soprattutto filologica, studiando lingua e lessico e discutendo in dettaglio alcuni problemi testuali. Le note sono talora molto ampie, la discussione lascia aperte le ipotesi e manifesti i dubbi. Il saggio conclusivo, scritto da Canfora, presenta un’interpretazione generale differente, circa natura e obiettivi, paternità e cronologia del testo. Vi si riprende l’ipotesi che esso sia opera di Crizia, capo dei Trenta Tiranni, e che trasmetta la tensione politica dei circoli filospartani. La dura polemica contro la pesantezza del governo del popolo rivela la «democrazia come violenza» dei molti sui pochi e migliori. L’efficacia di questa lettura e la sua coerenza con il testo sono evidenti: la prospettiva filologica richiama comunque la non univocità degli indizi che la sorreggono.
Del resto, sembra l’autore il primo a «confondere le tracce» circa l’epoca in cui scrive, preferendo esprimere generalizzazioni e teorie invece che riferimenti concreti a fatti e persone. Che il testo sia ambientato ad Atene o no, che presupponga o invece preceda eventi reali della storia ateniese, che presenti peculiarità di lessico spiegabili «solo se» redatto in un certo momento o decennio, eccetera: ogni elemento, per questa anonima Costituzione degli Ateniesi è destinato a sfrangiarsi nella fuga dei dubbi, e nella circolarità delle prove. E non per difetto di metodo, sì perché in questioni di attribuzione e datazione, la pars destruens riesce più sicura di quella construens, ossia della proposta di nuova, pur ben argomentata ipotesi. Di fronte alle molte «scelte» che l’edizione, la traduzione e il commento richiedono, Serra non cela né impone il proprio giudizio. Il lettore è condotto a formarsi un’opinione sopra le tante incertezze che gravano sul (breve) testo, giudicando gli indizi, tutti controversi, sui quali si fondano le differenti soluzioni finora individuate.
Pervenuto tra gli scritti di Senofonte, il testo è stato ritenuto un apocrifo per ragioni stilistiche, contenutistiche e «ideologiche»: ma i risultati dell’analisi dipendono più di quanto si desidererebbe «dall’erudizione, dalla fantasia e dai preconcetti dell’interprete». Si è scritto che la maggior parte degli studiosi «non vuole» che il testo sia di Senofonte... Dall’ipotesi che l’autore sia un aristocratico, disgustato dalla lunga avversione per la democrazia ateniese è invalso l’uso di chiamarlo «Vecchio oligarca»: l’idea tuttora ha una certa fortuna, ma non una solida base. Un nome per l’autore non c’è: le proposte sono andate dal democratico «radicale» Cleone, all’oligarca Crizia, altrettanto «radicale». Gli indizi interni per la datazione interna risultano pure sfuggenti, e hanno condotto filologi e storici a proporre cronologie oscillanti di cinquant’anni o più (che per questa fase è cosa notevole, e preoccupante). E l’incertezza crescerebbe ancora se, come anche Serra suggerisce, il testo fingesse di essere ambientato negli anni della detestata democrazia, costituendo invece una meditazione «postuma», scritta nell’Atene del quarto secolo, in un contesto del tutto differente e con finalità ulteriormente ambigue.
Una lezione filologica di rigore
Molti delle riflessioni e dei materiali proposti indirizzano sottilmente a questa cronologia, portando a ripensare anche il rapporto, per molti aspetti innegabile, tra quanto sulla democrazia argomenta l’anonimo e quanto ne scrive Tucidide. Una cronologia «bassa», poi, rende «compatibile» l’attribuzione tradizionale del testo a Senofonte (se non a figura a lui prossima): ma ogni conclusione netta viene qui evitata, con una lezione di rigore e di stile. Il punto decisivo è un altro. Se il testo ha carattere «fittizio», ciò «equivale a dire che esso è letteratura», e il suo significato politico esce alquanto ridimensionato. Non tutti saranno pronti ad accettare questo passo: lo sguardo critico (o caustico) che le pagine dell’anonimo gettano sui meccanismi della democrazia ateniese risulta di fondamentale importanza.
Il volume della Fondazione Valla esce dieci anni dopo un commento inglese (J.L. Marr, P.J. Rhodes, The ’Old Oligarch’. The Constitution of the Athenians Attributed to Xenophon, Aris & Phillips, 2008), a pochi mesi dall’edizione per la Collection des universités de France (Pseudo-Xénophon. Constitution des Athéniens, a cura di D. Lenfant, Belles Lettres, 2017), in contemporanea con gli atti di un convegno sui due grandi testi relativi alla Costituzione degli Ateniesi (Athenaion Politeiai tra storia, politica e sociologia: Aristotele e Pseudo-Senofonte, Milano, Led 2018). E un altro convegno si annuncia in queste settimane a Strasburgo (Les aventures d’un pamphlet antidémocratique: transmission et réception de la Constitution des Athéniens du Pseudo-Xénophon). L’incessante lavoro sul testo è prova dell’interesse che esso suscita.
L’edizione di Serra dialoga in modo riflettuto con una bibliografia amplissima, nella quale hanno spazio (con mirate omissioni) contributi critici, testuali o storici, di studiosi italiani. Questo libro dunque è un importante frutto della filologia classica nostrana. Chissà se il paese potrà mantenere a lungo nei classics uno standard simile. L’accelerato declino costringe ormai gli ingegni migliori a fare altro o, se vogliono occuparsi dei classici, a farlo altrove.
Donne che fanno paura
Platone. Le riflessioni non arrabbiate ma ponderate di Adriana Caravero su eros, figure femminili e sul parto, dove il filosofo riserva agli uomini il ruolo di «ostetrici dello spirito»
di Maria Bettetini (Il Sole-24 Ore, Domenica, 23.09.2018)
Guerriere o sacerdotesse, le donne di Platone fanno un po’ paura. Come tutte le donne raccontate dai testi greci che a noi sono giunti, pensiamo a Circe, a Medea, alla prima fra tutte, quella Pandora che arrivò in un mondo abitato solo da maschi per scoperchiare il vaso dei mali, come racconta Esiodo. Una donna, una filosofa, ha studiato per una vita questi testi, ingaggiando con loro una lotta in punta di filologia. Ora, per onorarne l’impegno, Olivia Guaraldo ha raccolto dieci brevi saggi di Adriana Cavarero su Platone, editi e no. Si va da un Platone e la democrazia, del 1973, fino al 2017 con Per un’archeologia della post-verità.
Sono scritti «femministi», per usare un aggettivo che ha un suono obsoleto, ma che ritorna nelle pagine del volume? Preferisco pensare che siano riflessioni, non arrabbiate ma ponderate, su pagine milioni di volte indagate, questa volta studiate da un altro punto di vista. Che non è quello, non insensato ma troppo sentito, del linguaggio astratto del maschio da contrapporre alla sensibilità e alla passione della femmina. È quello piuttosto di chi vuole, semplicemente, studiare.
Così sorge quel confronto tra Omero e Platone che snida una sorta di invidia del filosofo per il poeta, capace di raccontare la fragilità della vita umana e di consegnarla alla memoria. I versi, ispirati dalla figura femminile della Musa, non hanno incertezze e sono caratterizzati da bellezza e armonia, mentre il parlare del filosofo - se pur alto - si deve limitare a indicare la bellezza, a invitare a perseguirla come unica vera fonte della felicità, secondo il tema greco dell’identità di bello e bene, o almeno del primo che proprio Platone nel Filebo definisce «vestibolo del bene». Ma non è la bellezza.
Inevitabile a questo punto la lettura delle pagine di Cavarero sul Simposio e sulla figura di Diotima, da cui ha preso nome proprio il gruppo di pensatrici sorto a Verona intorno alla filosofa, nonché la loro rivista. Diotima è la donna che ha rivelato a Socrate i segreti dell’amore, di quell’eros che solo inizialmente e parzialmente è amore corporeo. Il discorso è reso particolarmente interessante dalle opposte posizioni dei due «combattenti»: Platone per bocca di Socrate che riporta il discorso di Diotima non fa altro che strappare l’eros al corpo per condurlo sempre più lontano, al distacco da ogni materialità, all’amore del bello in sé. Cavarero intende invece la corporeità come unico possibile luogo di abitazione del soggetto e quindi delle sue passioni e azioni, dell’amare e dell’essere amato.
Come negare questa forza dell’antico principio di individuazione? Qui si scopre anche la profonda contraddizione della filosofia platonica in tutte le sue forme, la sublimazione del logos che però rifiutando ogni legame con la materia si perde in una sorta di collettività nebulosa, che - nota Cavarero - se garantisce immortalità all’umano, la nega al singolo uomo. Diotima di Mantinea dunque: sacerdotessa, straniera, donna.
Tre gradi di lontananza dal filosofo, da Socrate, a cui si aggiungono i due del discorso riportato, perché Socrate racconta l’incontro con Diotima, ed è a sua volta raccontato da Platone. Non finisce qui: per dire quanto sia difficile parlare di eros, tutto il dialogo che racconta del banchetto serale è narrato come una narrazione di Apollodoro che riporta ciò che gli ha detto Aristodemo, che fu presente al convivio, avvenuto però tre anni prima. Ancora tre gradi di distanza.
Ma torniamo a Cavarero: la sacerdotessa di Mantinea (cittadina vicinissima ad Atene, ma per gli ateniesi è comunque terra straniera e inferiore rispetto alla capitale) è uccisa dallo stesso discorso che fa. È oggetto di matricidio, perché - donna - propone la filosofia maschile di Platone, che imita gravidanza e parto, ma li rende opere dello spirito. Il cuore del discorso riportato da Socrate è infatti quel riuscire a generare bellezza, lasciandosi alle spalle successivamente il corpo bello per cui si è sentita attrazione, poi tutti i corpi belli, poi le bellezze generate dalla mente (i versi di Omero e le leggi di Solone, per esempio), fino a giungere alla visione del bello in sé.
Questa sorta di parto maschile è tema ricorrente di Platone, che presenta un Socrate ostetrico dello spirito, così come la madre lo era stata dei corpi. Alle donne la mera generazione materiale, necessaria alla sopravvivenza della specie, a una fittizia immortalità del singolo che dopo sé lascia un altro sé nel figlio. Agli uomini invece la generazione che rende immortale il singolo, perché è un parto senza materia, dove l’anima, la mente, lo spirito di un uomo raggiunge la visione che lo rende immortale.
Nella Repubblica, infatti, si legge di come i filosofi, dopo la morte, vadano direttamente a godere del regno delle idee. Cavarero nota anche come l’assassinio della donna Diotima sia preceduto da un’altra morte, quella della femmina nel racconto di Aristofane. Spesso il tema dell’uomo-donna tondo, poi tagliato in due da Zeus per placarne la tracotanza, viene attribuito a Platone direttamente. Questo non è corretto, Platone stesso lo riporta come invenzione del commediografo. Ma ciò che è del tutto platonico è invece ciò che indirettamente passa da tale «comico» racconto, ossia l’assoluta supremazia dell’amore omosessuale maschile sull’amore eterosessuale, utile solo, appunto, alla continuazione della specie. Quanta paura si doveva avere delle donne, allora.
Platone, il pensiero politico nei saggi di Adriana Cavarero
La raccolta pubblicata da Raffaello Cortina si concentra sui dialoghi del pensatore che affrontano il delicato rapporto tra filosofia e polis
di DONATELLA DI CESARE (Corriere della Sera, 29 ottobre 2018)
Nel femminismo italiano non c’è forse libro che ha fatto epoca come Nonostante Platone di Adriana Cavarero. Uscito nel 1990 per Editori Riuniti (quindi pubblicato in inglese dalla prestigiosa Polity Press nel 1995), richiamava l’attenzione sulla parte dimenticata della filosofia, quella femminile, che veniva rivendicata con intelligenza, finezza e decisione già a partire dagli esordi greci. Tra le figure considerate spicca quella di Diotima di Mantinea, la «straniera», a cui nel celebre dialogo Simposio viene attribuita la parte di protagonista. Il che non sorprende: dalla passione per la sapienza alla maieutica, l’arte della levatrice, il femminile permea la filosofia. E in fondo Socrate lo riconosce.
Il capitolo su Diotima di quel fortunato volume viene ora riproposto in una raccolta pubblicata in questi giorni da Raffaello Cortina e intitolata semplicemente Platone (pagine 199, e 19). Si tratta di saggi che coprono un arco di tempo di quarantacinque anni e vanno dal primo testo giovanile Platone e la democrazia, del 1973, all’ultimo che è il testo di una conferenza tenuta a Brighton nel 2017 Per un’archeologia della post-verità. È insomma il libro non scritto di Cavarero su Platone che vede finalmente la luce grazie a Olivia Guaraldo che ha curato la raccolta consentendo così di risalire quasi il percorso filosofico di una delle voci più interessanti della filosofia italiana. Platone nel pro e nel contro. Impossibile articolare il pensiero della differenza sessuale se non partendo dai dialoghi, quei testi classici che nessun filosofo e nessuna filosofa dovrebbero mai aggirare. Si può dire che Platone sia il punto di riferimento costante per Adriana Cavarero che va esemplarmente acquisendo originalità di riflessione in un confronto serrato con il «padre» della filosofia.
Nella raccolta emerge soprattutto la dimensione politica del suo pensiero. Preziosa interlocutrice diventa allora Hannah Arendt che, com’è noto, a sua volta è tornata sempre alle fonti greche. La questione sollevata in alcuni saggi è quella incandescente del rapporto tra filosofia e politica, in particolare nei termini in cui Platone lo delinea nella Repubblica. Quale ruolo spetta nella polis alla filosofia, dopo le innumerevoli sconfitte, la condanna a morte di Socrate, ma anche la tragica avventura di Platone a Siracusa? Se, malgrado tutto, l’una ha bisogno dell’altra, in che modo è possibile recuperare il rapporto tra lo sguardo teoretico dei filosofi e l’agire politico? La pista aperta da Arendt non porta Cavarero verso l’utopia, bensì verso la possibilità di una plurale condivisione della teoria. Se non si può fuggire dalla politica, come ha fatto Platone - è l’accusa di Arendt - non si può neppure fare a meno di quel peculiare «vedere» filosofico.
Si intuisce perché l’interesse di Cavarero, come mostra anche l’ultimo saggio della raccolta, quello sulla post-verità, si concentri sul tema attualissimo della democrazia, sul suo significato, sul suo valore. Impossibile non riprendere da Platone e dalla sua critica a quel regime politico che causa corruzione, manipola l’opinione, provoca demagogia.
Ecco la lezione della filosofia: non dare nulla per scontato. Forse la prossima tappa di Cavarero sarà allora un saggio su questo tema dove ormai all’interno della filosofia si fa sempre più chiaro lo iato tra chi auspica una democratizzazione della democrazia (questa sembra anche la via verso cui s’incammina la filosofa) e chi invece si dispone a una critica più radicale.
Alias Domenica
Il Platone smascherato
Saggi di filosofia. Adriana Cavarero ha fornito per tutta la vita un’appassionata e originale lettura «di genere» del filosofo greco: ora i suoi saggi sono raccolti da Raffaello Cortina
di Fulvia de Luise (il manifesto, 28.10.2018)
La raccolta di studi platonici di Adriana Cavarero, appena uscita a cura di Olivia Guaraldo, è qualcosa di più di un’occasione per tornare a parlare di uno dei contributi più originali che una studiosa abbia fornito a una lettura ‘di genere’ del grande filosofo antico. Mi riferisco al libro Nonostante Platone (Editori Riuniti, Roma 1990) e in particolare al saggio Diotima (un capitolo del libro riproposto nella raccolta), che ebbe il merito di catalizzare l’attenzione sull’ambiguità del personaggio che figura al centro del Simposio platonico: Diotima, appunto, la sapiente straniera che rivela a Socrate il significato esistenziale dell’eros, in termini talmente impregnati di femminilità da fare del suo nome un simbolo di opposizione alla visione maschilista e patriarcale del mondo.
La potenza del personaggio, che dalle pagine platoniche propone la metafora del «parto (tokos)» come modello di azione creativa e la cura riparatrice della «mancanza» (endeia) come antidoto alla fragilità della condizione umana, era tale da affascinare le pensatrici, in una stagione combattiva e intellettualmente feconda del femminismo italiano. Fino a dare corpo reale a Diotima, come se si trattasse di una voce diversa da Platone stesso; e intitolare a lei la ricerca del collettivo veronese, intrapresa col fine di riscrivere la storia, reinventare il linguaggio, rovesciare la rete simbolica dell’universalismo maschile, per fare spazio al «pensiero della differenza».
Studiose come Luce Irigaray (L’amour sorcier, in Irigaray, Ethique de la difference sexuelle, Les éditions de minuit, Paris 1985, 27-39) e Luisa Muraro (La maestra di Socrate e la mia, in Diotima. Approfittare dell’assenza, Liguori, Napoli 2002, 27-43) videro in Diotima la maestra di un’ironia sovversiva.
Adriana Cavarero diede invece subito corpo al sospetto che l’operazione platonica fosse più complessa e a suo modo subdola: conferire una straordinaria potenza espressiva a una donna sapiente per far compiere proprio a lei un vero e proprio inganno filosofico, un «furto» simbolico della potenza generativa, che è quanto appartiene nel modo più proprio alla figura femminile e all’esperienza delle donne, per farne solo una metafora della produttività del pensiero maschile. Mantenendo il primato della mente sul corpo, che è, come è noto, l’asse portante della gerarchia di genere.
Intorno all’idea di «furto», Cavarero stava costruendo in realtà un’operazione ben più ambiziosa e non solo anti-platonica: praticare a sua volta questa forma di attività criminale, penetrando nella scrittura poetica e filosofica degli antichi Greci per trafugare le eroine intrappolate in ruoli concepiti da menti maschili (Penelope, la servetta di Tracia, Demetra e Persefone, oltre Diotima), ridisegnando le loro figure e riscrivendo con voce di donna le loro storie.
Richiamare tutto ciò mi è necessario per dire della sorpresa con cui ho accolto questa raccolta di saggi platonici: una sequenza di studi distribuiti tra il 1973 e il 2017, che testimonia non solo di un corpo a corpo accanito e sempre critico con Platone, durato l’intera vita da studiosa di Adriana Cavarero, ma di un’ammirazione profonda per un pensiero che si dà in forma aperta e sperimentale, per una scrittura che conserva la drammaticità irrisolta delle questioni, senza perdere la sua tensione verso la trasparenza dell’idea.
Il nome della raccolta, semplicemente «Platone», suggerisce l’interesse e la continuità del confronto con il padre della filosofia occidentale, di fatto il primo scrittore filosofico, che resta referente obbligato e oggetto del contendere di un secolare conflitto interpretativo.
Trattandosi appunto del “padre” della filosofia occidentale, è ovvio che l’attenzione di Cavarero resti armata, lucida nel seguire le tracce di operazioni teoriche sospette, che, pur avendo le loro radici in un tessuto discorsivo e dialogico, tendono però a chiudere molti percorsi come impraticabili e ad assottigliare pericolosamente il sentiero della verità.
In ognuno dei dieci saggi raccolti nel volume, la questione della «differenza» resta banco di prova per individuare il sotto-testo della scrittura platonica, le implicazioni non dette di una strategia sempre mirata ad accedere all’area di coerenza assoluta dei paradigmi. Ed è qui che il femminile (ma anche, in senso lato, l’alterità dei soggetti sociali più deboli rispetto all’egemonia dei soggetti eccellenti) appare talvolta la posta in gioco, talvolta l’oggetto di un sacrificio necessario alla “neutralizzazione” del discorso che Platone persegue con la costruzione teorica.
In realtà, nei quattro saggi che precedono (temporalmente e nell’ordine del volume) Diotima, Adriana Cavarero spezza diverse lance a favore di un Platone più “pluralista” di quanto si immagini chi vede in lui l’inventore di una metafisica del mondo vero, che schiaccia e nega ogni alterità nel mondo reale: un Platone che in veste di critico della democrazia risulta «meno antidemocratico della democrazia dei sofisti» (saggio 1, p.26); o che, di fronte al disordine politico di Atene, «assume l’operare dei tecnici come polo positivo» (saggio 2, p.44); o ancora un Platone che, mentre indaga nel Cratilo il valore di verità del linguaggio, immaginando che esista o possa esistere in futuro un vero «legislatore dei nomi», lascia anche aperta la possibilità che proprio l’essenza del nome e del nominare, e non l’ousia immateriale dell’idea, sia «ciò su cui verte ogni ricercare» (saggio 3, p. 72); o infine, sulla scia (nietzschiana) di Giorgio Colli, un Platone che registra le ultime tracce del vitale dionisiaco, svelando la matrice erotica di ogni metafisica del bello, prima di cedere all’istanza razionalistica dell’apollineo, «consegnando al destino occidentale il primo sistema, la prima costruzione piramidale finalisticamente ordinata» (saggio 4, p.76).
Dopo Diotima si fa più evidente lo sforzo di smascheramento che Adriana Cavarero rivolge alle pagine platoniche. Direttamente ispirato al tema della «differenza» e alla problematica femminista sviluppata, in quegli stessi anni Ottanta-Novanta, anche da altre studiose e antichiste (Luce Irigaray, Giulia Sissa, Silvia Campese), appare l’impegnativo saggio Corpo in figure. Il discorso di Timeo, che scandaglia l’ambiguo racconto del Timeo platonico sulla costituzione del mondo naturale, da cui risulta che la sessuazione, destinata a legare il maschile e il femminile nell’unità sincronica della specie umana, si sviluppa tuttavia nella forma di una degradazione: dal «modello originario universale» del maschio, alla figura corporea manchevole della donna, che, occupando il primo gradino di una serie discendente verso l’animalità, va «a lacerare la monosessuata perfezione originaria del prototipo maschile» (saggio 6, p.116); e ciò mentre, sul piano cosmico, il femminile va a occupare lo spazio informe della Chora, compagna e antagonista dell’opera plasmatrice del Demiurgo secondo le idee.
La requisitoria procede per altre vie nei tre saggi che seguono, prevalentemente legati all’incontro di Cavarero con la prospettiva di ricerca di Hanna Arendt, studiosa tutt’altro che consonante con il filone di indagine della «differenza» femminile, ma incline a leggere Platone sotto l’angolatura fornita da Karl Popper in La società aperta e i suoi nemici (1944), e cioè come un portatore non innocente dei germi di un pensiero politico tendenzialmente totalitario, in quanto ostile alla pluralità dei soggetti e delle opinioni del mondo politico reale.
Sarebbe difficile entrare davvero nel merito dell’analisi puntuale e acuta svolta nei saggi 7-8-9, che percorre luoghi cruciali della Repubblica platonica, dall’allegoria della caverna (libro VII) alla condanna di Omero (libro X), al nesso tra teoria e pratica dell’utopia politica (libro IX). Mi permetto però di esprimere il mio dissenso sul fil rouge che li lega e che, a mio parere, costringe la ricchezza analitica dell’indagine testuale di Cavarero dentro la rete di un presupposto ermeneutico infondato: «che Platone sia l’antesignano di una clamorosa fuga dalla realtà della politica» (saggio 9, p.175).
Riportato correttamente come principio-base della lettura arendtiana, l’assunto si appoggia sull’importanza che la theoria riveste nella ricerca platonica della Repubblica e su quell’enfasi del ‘vedere’ che si rinviene in particolare alla fine della costruzione della «città perfettamente buona», quando essa si rende visibile come «paradigma in cielo» e se ne discute il possibile uso sul piano della realtà. Trasformare in un metafisico «primato della teoria sulla politica» un risultato teorico faticosamente raggiunto in aperto contrasto con le voci dissonanti della città reale, significa ignorare (come è sicuramente il caso della Arendt) le premesse conflittuali della ricerca platonica della giustizia, compreso il disagio morale espresso dai principali protagonisti della Repubblica a vivere in un ambiente politico degradato, in cui la possibilità stessa di praticare un comportamento di corretta reciprocità è negata, nel nome del più violento e naturale desiderio di sopraffazione. La visione arendtiana di una vocazione tipicamente umana alla vita activa era probabilmente di ostacolo a cogliere il valore propositivo di quel distacco dall’esistente, che è il cuore normativo dell’utopia platonica. Quale che sia il nostro giudizio sui contenuti specifici di quella utopia.
Tornando a Cavarero, io credo che la passione autentica per la forza provocatoria della scrittura platonica abbia alla fine avuto la meglio e trovato la strada per esprimersi. Nell’ultimo saggio della raccolta, un intervento del 2017, dedicato a rinvenire «un’archeologia della post-verità», la studiosa torna al Platone critico delle opinioni incontrollate, che suggestionano e orientano senza difficoltà la volubile mente dei «molti»; e ricollega la portata epocale del tema, nella città della democrazia, sia al dibattito sul rapporto ‘demagogico’ tra capo e masse, che segnò un momento cruciale della storia del Novecento, sia all’attuale dominio delle verità “virali”, attraverso l’immenso potere anonimo della rete in cui passano le comunicazione di massa.
È in questo contesto che la studiosa esprime un sostanziale apprezzamento della diffidenza platonica per quel demos raffigurato come un «vigoroso bestione», vezzeggiato e usato dai professionisti della politica, con sovrano disprezzo per una verità che non esiste o non può essere distinta da una menzogna efficace. L’interesse politico per Platone si riaccende di fronte a quella «descrizione della fenomenologia di una politica patologica» (p.190), che richiama, con tutte le dovute differenze, «l’attuale circo della post-verità» (p.195).
Così, restituendo a Platone tutta la ragione che aveva sulla difficoltà a comunicare ai «molti» sensibili alle tempeste emozionali il semplice rigore di un ragionamento fondato, Adriana Cavarero si spinge fino a una sorta di riabilitazione di quel «primato della teoria sulla politica», che era stato arendtianamente usato come capo d’accusa:
Ritengo che l’elitario Platone, la cui dottrina antidemocratica affascina così tanto le tradizioni di estrema destra e le ideologie fasciste, l’esecrabile Platone che disprezza i molti nel nome della verità razionale, ci possa aiutare a riflettere sulla vena demagogica che percorre il corpo democratico, trasformandolo in qualcosa di irresistibilmente patologico (p.197)
Da parte mia, credo sia possibile imboccare ancora, «nonostante Platone», ma ancora con lui e con i suoi fulminanti paradossi, la strada contraddittoria che unisce il realismo all’utopia, permettendo anche a noi di immaginare un «paradigma in cielo» che abbia la forza teorica di portarci fuori dalle angustie del presente politico. E potremmo ancora domandarci, pur mantenendo il sospetto del «furto» sulla creazione platonica di Diotima, quale straordinaria potenza di pensiero abbia permesso al filosofo di raffigurare la differenza profonda di una sapienza femminile, sullo sfondo del desolante e corale disprezzo delle donne che pervade la cultura del mondo greco.
PLATONE E NOI, OGGI. PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!.... *
Nel buio della «notte politica» la sfida di una filosofia militante
Esce giovedì il nuovo saggio di Donatella Di Cesare (Bollati Boringhieri)
Un forte richiamo alla funzione pubblica del pensiero critico
di Luciano Canfora (Corriere della Sera, 22.10.2018)
Un giovane filologo italiano, Max Bergamo, si accinge a pubblicare gli appunti che, alle lezioni di greco di Friedrich Nietzsche professore a Basilea, prese, e conservò, nel semestre invernale 1871-1872, un allievo d’eccezione, Jacob Wackernagel, destinato a diventare uno dei maggiori storici delle lingue classiche. Il corso di quel semestre verteva su Platone. Abbiamo dunque sia gli appunti dell’allievo, sia il molto ricco dossier preparatorio del maestro (ne è imminente la traduzione presso Adelphi), che ormai si integrano a vicenda e si completano.
Scrive Nietzsche: «Non è lecito considerare Platone come un sistematico in vita umbratica, ma come un agitatore politico che vuole scardinare il mondo intero e che è, a questo scopo, tra le altre cose anche scrittore (...) Egli scrive per fortificare nella lotta (bestärken im Kampfe) i suoi compagni dell’Accademia (da lui fondata)». L’allievo annotò le parole del maestro così: «L’Accademia non è per lui che un mezzo. Indirettamente scrittore. (A noi invece appare in primo luogo scrittore). Un politico che vuole scardinare il mondo intero». Notare che «scardinare» appare in entrambi (aus den Angeln heben). Dunque Nietzsche disse proprio così: «Scardinare il mondo intero».
Al centro della lotta per cambiare il mondo c’è Platone.
Ed è questo uno dei centri motori - insieme ai «casi» Marx e Heidegger - del nuovo saggio di Donatella Di Cesare Sulla vocazione politica della filosofia (Bollati Boringhieri). Scrive Donatella Di Cesare nel capitolo da cui prende avvio il suo saggio: «Guardiano della città, già prima di Platone e della sua politeia, Eraclito denuncia la notte politica». L’immagine della «notte» viene da un paio di frammenti dell’opera perduta di Eraclito, che paragonano la cecità impolitica dei suoi concittadini (di Efeso, metropoli greca sulla costa asiatica) al torpore del sonno.
A significare che la vocazione politica è inerente al filosofare, e ne costituisce l’avvio o anche la premessa, la Di Cesare parte da ben prima di Platone e segue quel filo fino al nostro presente. L’autrice potrebbe, credo, riconoscersi nelle parole con cui Togliatti tratteggiò il cammino di Gramsci: «Nella politica è contenuta tutta la filosofia reale di ognuno, nella politica sta la sostanza della storia, e per il singolo, che è giunto alla coscienza critica della realtà e del compito che gli spetta nella lotta per trasformarla, sta anche la sostanza della sua vita morale» (Convegno Gramsci, Roma, gennaio 1958).
Ma il filo conduttore è: «scardinare» l’esistente (Platone secondo Nietzsche) ovvero «trasformarlo», secondo la insopprimibile «tesi su Feuerbach» di Marx ventisettenne (1845). Il libro della Di Cesare è una battaglia in favore di questa concezione della filosofia, in antitesi rispetto a tutti i benpensanti (da Aristotele alla Arendt) secondo cui la politicità totale del filosofare sarebbe «passo falso» o «tentazione di intervenire».
Per Aristotele (nel secondo libro della Politica) le fondamenta e i presupposti della Kallipolis (città verso cui tendere) di Platone - superamento della proprietà, della famiglia etc. - sono devianze teoretiche e (forse anche) cadute immorali. La Arendt si riferisce a Heidegger. È chiaro che l’impegno a fianco del nazionalsocialismo fu un pauroso andare fuori strada, ma non lo fu il fatto stesso dell’impegnarsi. E questo vale anche per Gentile. Nel concreto dell’esistenza si sta «o con Lutero o con il Papa».
Il caso Heidegger e il suo gigantesco abbaglio sono ben noti alla Di Cesare: soprattutto, vien da dire, a lei, che ne ha attraversato il pensiero come - diceva l’ex coraggioso poeta Orazio all’amico Asinio Pollione - in una traversata «sui carboni ardenti».
Anche Platone, precoce, si era coinvolto nel governo più demonizzato che Atene abbia mai visto nella sua drammatica storia: quello dei Trenta cosiddetti «tiranni», capeggiati da Crizia, socratico e allucinato riformatore, di cui Platone era nipote. E Platone non lo nasconde affatto, al principio della lettera settima (che già per questa «confessione» sofferta e moralmente elevata, è ovviamente autentica!): perché - afferma - quel governo si proponeva come portatore di una rifondazione radicale della politica in nome di alcuni «princìpi». Platone ne descrive anche il fallimento e la sconfitta ma gli rende omaggio, del tutto controcorrente, rispetto al perbenismo della cosiddetta democrazia restaurata. E nel Timeo, al principio del dialogo - dove Socrate viene sollecitato da Timeo a riassumere «ciò che ha detto il giorno prima» (cioè il nocciolo della Repubblica) - Crizia dice a Socrate, rendendogli omaggio: «La città che tu ieri ci hai descritta come una favola (la città riordinata secondo la radicale proposta riformatrice illustrata nella Repubblica) noi la trasferiremo nella realtà e la porremo qui» (Timeo, 26E).
Platone fa, qui, dire a Crizia, cioè al capo dei Trenta, parole che rivendicano orgogliosamente la genesi socratica del tentativo (pur abortito) dei Trenta e la coincidenza di quel tentativo (per lo meno nelle intenzioni) col progetto «utopistico» contenuto nella Repubblica. La «leggenda nera» gravante su Crizia viene così cancellata. Ma nell’Atene democratica queste erano parole indicibili. E come dimenticare, a questo punto, l’appropriazione nazionalsocialista di Platone (Hitlers Kampf und Platons Staat di Bannes)?
Donatella Di Cesare, che ripercorre in questo saggio il cammino di alcuni grandi filosofi che «si sporcarono le mani», e descrive con efficacia l’esito di Marx come studioso che - dopo reiterate sconfitte - «si ritirò sempre più in sé stesso per scoprire anzitempo la legge della storia che avrebbe portato sino all’ultimo salto prima del regno della libertà», lancia al termine una sfida inattuale a chi predica (da qualche decennio) la fine della storia, la fine del pensiero («delle ideologie» dicono i pappagalli semicolti), cioè (suprema stupidità) la fine del moto perenne della storia. E propugna in un «poscritto anarchico» una via d’uscita di rifiuto indomito dell’arché, del comando. È certo consapevole del rischio di ridurre così i filosofi a «testimoni», sia pure emozionanti. E approda, a mio avviso, a un esito tolstoiano. Non è superfluo ricordare qui, conclusivamente, che quel gigante del pensiero e dell’arte europea che fu Tolstoj - il quale a lungo rifletté sul «moto storico» incessante - diede impulsi profondi sia a Lenin che a Trotsky.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
Eredità culturali
Perché non possiamo non dirci antichi greci
di Carlo Carena (Il Sole-24 Ore, Domenica, 09.09.2018)
Perché non possiamo non dirci cristiani titolava nel ’42 un breve saggio, ma clamoroso, Benedetto Croce, pur senza abiurare il suo laicismo. Lì constatava e argomentava che in ogni caso quella del cristianesimo fu una rivoluzione di tale portata, da aver inciso in modo determinante nell’ideologia, nella morale e nella società per tutti i secoli successivi.
Giuseppe Zanetto in Siamo tutti greci dimostra a sua volta quanto grande sia l’incidenza e l’eredità dell’antica civiltà greca in molti aspetti della nostra vita, del nostro pensiero, della nostra arte, dei nostri comportamenti e nell’organizzazione della nostra società. A volte, anzi spesso siamo greci senza avvederci e senza saperlo, quando parliamo, quando leggiamo, quando cerchiamo un panorama (pan-órama, “vista totale”) o contempliamo un’opera d’arte, quando votiamo, quando ammiriamo una donna e andiamo dal medico.
Il titolo deriva anche qui da una celebre frase di Shelley in pieno romanticismo, nella prefazione al poema drammatico Hellas, ultima sua opera: We are all Greeks. Né Zanetto si ferma lì, ma esplicita e svolge nel suo libro quant’altro poi specifica il poeta romantico: «... perché le nostre leggi, la nostra letteratura, la nostra religione, le nostre arti hanno le loro radici in Grecia. Essi ci governano ancora dal loro lontano passato».
La nostra lingua e il nostro atteggiamento intellettuale, problematico, appartengono a quel popolo a cui il vocabolo stesso di “problema” appartiene, come “porsi davanti a qualcosa per osservarlo attentamente e capirlo a fondo”.
Siamo greci quando facciamo politica (pólis, “città”) perché essi pensarono e misero in atto l’idea che per prendere una decisione importante per molti, per tutti, il modo migliore è riunirsi tutti quanti, discuterne, poi votare le varie proposte e infine adottare il parere della maggioranza dei cittadini. Aristofane immaginò persino il voto concesso alle donne e i loro comizi elettorali, e il conferimento, non poi così buffo e chimerico, del potere ad esse; nonché l’introduzione della comunione dei beni: così lo Stato sarà ben governato, e così tutti avranno di che mangiare a sazietà.
Accanto all’assemblea, l’ecclesía, sta un consiglio operativo di cinquecento membri estratti a sorte e in carica per un anno, la boulé, una specie di ministero degli interni; inoltre dieci strateghi eletti dall’assemblea comandano l’esercito, e pubblici ufficiali sorvegliano le attività commerciali e controllano la qualità delle merci, la correttezza dei pesi e delle misure, il rispetto delle norme igieniche. Le votazioni avvengono di norma palesemente, per alzata di mano, in base al principio tipicamente greco che in politica non ci si nasconde e non si fa i furbi, ma ci si schiera schiettamente e senza timore secondo le proprie idee. Per cui «in ultima analisi, il quadro della pubblica amministrazione, ad Atene o in una qualunque altra pólis, non è così diverso da quello di uno stato moderno». La differenza fondamentale è se mai quella della democrazia diretta, che peraltro rispunta anche negli sviluppi più recenti della partecipazione alla politica.
Anche alcuni personaggi di questo mondo e di quest’aria cittadina non sono molto diversi da quelli che occupano uno spazio nel mondo politico moderno. I più caratteristici e divertenti si trovano in un’altra commedia di Aristofane, I cavalieri (424 a.C.); ritratti dal vero dei politici più abietti e spudorati, che fanno a gara nell’adulare bassamente Demo (il Popolo), un vecchietto stupido.
Di qui, dall’idea che in democrazia decidano tutti, gli incompetenti e anche gli immeritevoli, le critiche mosse già nell’antichità e già dal sublime Platone. Platone sogna non il governo di tutti ma dei filosofi, ossia dagli amanti e competenti nella sapienza, capaci di pensare e di provvedere anche per la gente comune, la quale giudica e decide non col cervello ma “con la pancia”, correndo dietro a chi fa le promesse più mirabolanti: come avviene se si propone a un gruppo di ragazzini di scegliere fra un medico o un pasticcere.
Da questa prima parte dedicata alla struttura e al funzionamento dello Stato, Zanetto passa ad altri aspetti non estinti dell’antichità greca: la fisicità del corpo, la grazia delle sue forme nude, quali apparvero nella maliarda Calipso a Ulisse e quali appaiono negli atleti celebrati da Pindaro.
Ma il corpo è anche uno specchio dell’animo, e la sua bellezza e vigore sono prova di virtù. Perciò merita un’attenzione e una cura a cui provvede la magistrale scienza medica, studiata e modernizzata dalla scuola ippocratica operante e irradiante dal V secolo sull’isola di Cos nel mare Egeo, con alcune intuizioni anch’esse fondamentali: la salute fisica dipende dagli equilibri degli organi interni e dai loro umori, che vanno osservati e studiati metodicamente e non genericamente, in clinica, caso per caso, per trovarne le cure appropriate.
A incorniciare il quadro non manca nel volume la descrizione di una tipica giornata dell’uomo greco, quale narrata dall’ateniese Iscomaco a Socrate nell’Economico di Senofonte. Levata di buon mattino, andata nel podere a piedi e istruzioni ai braccianti; ritorno e una cavalcata in campagna per tenersi in esercizio da bravo soldato; rientro di corsa dalla scuderia, doccia e infine pranzo.
Uguaglianze, e diversità, ovviamente: come conclude Zanetto, il confronto col nostro mondo e col nostro modo di vivere ci impone di riconoscere che sono molto diversi: «e tuttavia non possiamo capire nulla di noi, se non ci confrontiamo con i Greci».
La filosofia serve ma non è servile. Vuole capire e cambiare la realtà
di MAURO BONAZZI (Corriere della Sera, 26.08.2018) *
«L’eredità lasciata dalla Grecia alla filosofia occidentale è la filosofia occidentale». Molti anni fa lo storico Moses Finley chiese ad alcuni eminenti colleghi di riflettere su quello che la nostra civiltà ha ereditato dal mondo antico. La lista è lunga: dalla democrazia al teatro, molte delle istituzioni e tradizioni che regolano le nostre vite sono nate proprio in Grecia, qualche millennio fa. Vale anche per la filosofia, naturalmente. Con una particolarità, però, che evidenziava Bernard Williams, uno dei più importanti pensatori di questi ultimi anni, nella frase appena citata. Non si tratta soltanto di ricordare che la filosofia si è formata in Grecia per poi svilupparsi altrove. In filosofia non ha senso parlare di progressi o evoluzioni.
L’eredità della filosofia greca è la filosofia, semplicemente: siamo sempre lì. Il problema è capire che cosa sia la filosofia.
Una delle prime occorrenze del termine si trova in uno storico, Erodoto, quando parla di Solone, un poeta, e dei viaggi che aveva compiuto alla scoperta del mondo mediterraneo. Per questo Erodoto lo chiama philosophos. Per Pericle, il grande politico ateniese, philosophoi erano addirittura tutti gli Ateniesi, sempre pronti ad andare a teatro e sempre curiosi di ogni novità. Per Eraclito, invece, era un insulto: philosophoi sono quelli che si perdono dietro al vano desiderio di erudizione e non capiscono le poche cose che contano. È curioso: uno dei primi filosofi rifiuta con sdegno la parola, che invece altri sono ben contenti di usare. Per fare un po’ di ordine, bisognerà aspettare Platone.
Che cosa significa philosophia? La risposta è semplice: un desiderio, un amore (philo-) per il sapere e la conoscenza (sophia). Sembra banale: siamo animali razionali, è evidente che l’uso del cervello, la conoscenza e il sapere, siano importanti per la nostra vita. Diventa meno banale quando ci rendiamo conto che conosciamo molto meno di quello che pensiamo. Philosophia è il desiderio di sapere. Ma il desiderio è sempre di quello che non si ha. E infatti su ciò che davvero conta non sappiamo anzi quasi nulla: chi siamo? Da dove veniamo e dove andiamo? Che cos’è la giustizia: esiste o è una semplice convenzione? E Dio o l’amore?
Non si tratta di problemi astratti o polverosi, come spiega Socrate a Trasimaco. Se non sappiamo cosa è bene e cosa è male, è difficile pensare di poter vivere felicemente. Ancora peggio: se crediamo di sapere e invece non sappiamo, se crediamo che sia bene qualcosa che è male, l’infelicità è assicurata. Non resta dunque che riflettere e ragionare, liberandoci delle convinzioni infondate, cercando ciò che davvero importa. L’ambizione della filosofia è imparare, e insegnare, a pensare bene per vivere bene.
Non è un compito facile e a volte sembra che si giri a vuoto con discussioni inconcludenti. Non stupisce allora che fin dai tempi di Platone l’obiezione sia sempre la stessa: filosofare non serve a nulla. Da un certo punto di vista è così: ed è la grandezza della filosofia. La filosofia non serve a nulla, perché non è un sapere servile, perché non si piega alla realtà, accettandola come viene presentata: la mette in discussione pensando a nuove soluzioni e alternative, ricordandoci che le cose potrebbero andare diversamente da come vanno, e magari pure meglio. Senza però, e questo è il punto più importante, voler imporre nulla a nessuno.
Era la lezione di Socrate, il filosofo per eccellenza per tutti (o quasi: Epicuro lo considerava un insopportabile trombone). Interrogava le persone che incontrava, mettendone alla prova il sapere (spesso più apparente che reale), cercando di liberarle dai pregiudizi. Ma non si pretendeva in possesso di alcuna verità: sapeva di non sapere. Criticava senza offrire risposte definite. Aiutava a mettere a fuoco i problemi e le domande; invitava a pensare, riflettere, ragionare. Ognuno poi, ciascuno singolarmente preso e ogni generazione nel suo insieme, avrebbe dovuto trovare la propria risposta. È la sfida più bella. Sarebbe un peccato non accettarla.
Per farlo bisogna evitare un errore decisivo. Tutti siamo naturalmente filosofi, perché i problemi della filosofia sono i problemi di tutti. Ma dobbiamo anche imparare a filosofare, vale a dire a ragionare, che è meno facile di quanto si creda. Per ragionare bene bisogna prima comprendere di che cosa si discute, quali sono le vere questioni, e come possono essere affrontate. A questo servono manuali, dizionari e storie, quando sono fatti bene. E per questo vale la pena, ancora oggi, di dedicarsi a Eraclito e Parmenide, Platone e Aristotele, Epicuro e gli Stoici, con le loro idee originali, a volte strampalate ma sempre appassionanti.
Tanto, piaccia o non piaccia, della filosofia non si può fare a meno, spiegava Aristotele: «Chi pensa che sia necessaria la filosofia, farà filosofia; e chi pensa che non sia necessaria, dovrà comunque filosofare per dimostrare che non si deve filosofare: dunque si deve filosofare in ogni caso, o andarsene di qui dando l’addio alla vita, perché tutte le altre cose sono solo chiacchere e vaniloqui». Se lo dice lui...
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Socrate, Platone, Aristotele, i grandi maestri antichi
In edicola dal 29 agosto al prezzo di 1,90 euro il primo volume, «Il pensiero greco»
di Redazione Cultura (Corriere della Sera, 26.08.2018)
Dal prossimo 29 agosto il «Corriere della Sera» offre ai suoi lettori una preziosa opportunità di approfondimento sui temi del pensiero e della conoscenza. Si tratta della collana Filosofia. Storia, parole, temi, realizzata in collaborazione con Utet: un percorso firmato da studiosi di grande prestigio come Nicola Abbagnano (1901-1990), Paolo Rossi (1923-2012) e Giovanni Fornero.
L’opera, costituita complessivamente da 22 volumi (nel grafico a destra i primi 15 titoli), comprende diverse sezioni. Si parte con la Storia della filosofia di Abbagnano, un autentico classico, completata e ampliata, con nuove introduzioni, da Fornero con la collaborazione di Franco Restaino e Dario Antiseri.
I cinque volumi dall’11 al 14 propongono invece un’opera di natura analitica, il Dizionario di filosofia realizzato da Abbagnano, anch’esso aggiornato e ampliato da Fornero.
Si passa poi, dal volume 21 in avanti all’opera La filosofia, diretta da Paolo Rossi, con saggi di approfondimento firmati di illustri studiosi.
Il primo volume è Il pensiero greco di Abbagnano, dedicato ai grandi filosofi classici dell’antichità, che parte dagli autori presocratici e giunge fino al neoplatonismo. Esce in edicola con il «Corriere» mercoledì prossimo al prezzo speciale di euro 1,90 più il costo del quotidiano, mentre tutti i successivi titoli di Filosofia. Storia, parole, temi saranno in vendita a euro 8,90 più il prezzo del giornale.
Seguiranno i volumi che proseguono il complesso itinerario storico tracciato da Abbagnano lungo i secoli: Il Cristianesimo e la filosofia medievale (5 settembre); Dal Medioevo al Rinascimento (12 settembre); Il pensiero moderno da Cartesio a Kant (19 settembre); Dal Romanticismo a Nietzsche (26 settembre).
La sconfitta. Il destino del pensatore condannato a morte dimostra che gli uomini rifiutano gli argomenti razionali La svolta.L’allievo, impressionato dalla sorte del maestro teorizzò l’uso delle emozioni e dei miti in campo politico
Socrate tradito da Platone
di Mauro Bonazzi (Corriere della Sera, La Lettura, 10.06.2018)
Socrate: il filosofo, l’unico e irripetibile esempio di quello che è e deve essere un filosofo. Fu anche l’uomo più giusto; addirittura l’unico vero uomo politico che Atene abbia mai avuto. Così scrive Platone, sempre pronto a esaltare la memoria del maestro. Quasi a mo’ di contrappunto, però, i suoi dialoghi sono attraversati anche da un altro motivo, più discreto ma assillante, e probabilmente più interessante, almeno di questi tempi.
Socrate è stato un maestro del pensiero; e non meno importante è stato il suo impegno politico nella vita di Atene. Fu il migliore. Ma il risultato fu un fallimento clamoroso, culminato nella condanna a morte. Solo colpa del popolo? O non è forse arrivato il momento di riconoscere che anche lui ha avuto la sua parte di responsabilità? È la domanda che non smise di tormentare Platone. Socrate aveva ragione: su questo non si discute. La sua verità, però, è rimasta sterile: e anche questo è un fatto. Quale è il valore di una parola che nessuno ascolta? E soprattutto, perché la sua parola è rimasta muta? Domande inquietanti, e non meno inquietante è la risposta che alla fine si diede Platone, dopo molti tormenti. Non poteva che essere così, i problemi erano troppo importanti.
Che cosa sia la filosofia per Socrate, e a che cosa serva, è raccontato ora da Pietro Del Soldà nel libro Non solo di cose d’amore (Marsilio): è un invito a usare la propria intelligenza per costruire una vita buona, per sé e per gli altri - una vita felice cioè, che valga la pena di essere vissuta insieme, in una città giusta. Non è facile, certo, ma la sfida è appassionante, e il premio vale l’impegno. La filosofia è un esercizio razionale, un dialogo in cui ognuno deve rendere conto delle opinioni su cui fonda la propria vita. È un confronto serrato, ma con regole chiare, a partire dalla convinzione che siamo esseri razionali capaci di affrontare razionalmente i problemi della nostra vita. Davvero?
Tutti sono convinti di fondare le proprie scelte su motivazioni razionali. Che non sia così, però, non c’è quasi bisogno di ricordarlo, come ben sanno i pubblicitari. Un dialogo socratico può funzionare tra due persone, prendendosi il tempo e la pazienza necessari. Ma è un modello destinato a soccombere quando la discussione si allarga al gruppo e altri fattori - le abitudini, i pregiudizi, e soprattutto le passioni - intervengono ad agitare le acque. Così successe il giorno del processo. Ancora una volta, per l’ultima volta, Socrate scelse di rimanere coerente con sé stesso, rispondendo ordinatamente alle accuse. Decise di mantenere il discorso su un piano esclusivamente razionale, rinunciando alle pratiche consuete dei tribunali - la ricerca di un’intesa con i giurati o l’appello alle emozioni. Tenne un discorso grandioso, che lo ha proiettato nei secoli: Socrate, l’eroe pronto a sfidare la morte nella sua battaglia per la giustizia e la verità. Così facendo, però, perse l’occasione - l’ultima occasione - di parlare con i suoi concittadini, e magari di aiutarli. E quindi?
Quel giorno, al processo, era presente anche Platone. Si racconta che salì sulla pedana degli oratori e cercò di prendere la parola nel tentativo disperato di difendere il maestro - un maestro che da solo non sapeva difendersi. Sommerso dai fischi, fu subito fatto scendere. Difficile che l’aneddoto sia vero. Ma è vero che quell’evento lo segnò profondamente, mettendolo di fronte alla potenza delle passioni irrazionali. La sua filosofia politica nasce qui, nel clima infuocato dei tribunali e delle assemblee, come ha spiegato magistralmente Mario Vegetti in tanti lavori. Il suo ultimo libro s’intitola Il potere della verità (Carocci): quale è il potere della verità, quando la verità è muta? In politica non basta stare dalla parte giusta; bisogna anche risultare efficaci se si vuole davvero essere utili. E allora, se la filosofia vuole farsi politica, se vuole conseguire dei risultati concreti, deve avere il coraggio di immergersi anche nel mondo delle passioni, un mondo ben diverso dai cieli puri del discorso razionale. Nella caverna platonica le cose vanno diversamente. Gli uomini sono più contorti di quello che pensava Socrate.
Platone e l’irrazionale: mentre in Europa infuriava la barbarie nazista, esule nella lontanissima Nuova Zelanda, Karl Popper scagliò parole di fuoco contro Platone, reo di aver tradito il suo maestro. Al netto di alcune forzature, c’è del vero in queste accuse. Quando teorizzava l’opportunità della menzogna o insisteva sulla necessità, per una comunità politica, di ritrovarsi intorno ad alcuni miti fondatori, Platone si allontanava consapevolmente dal sentiero tutto razionale che aveva percorso Socrate. Lo sapeva lui per primo, come testimoniano le continue giustificazioni che lascia cadere nei suoi scritti. «Non vorrei che il discorso rimanesse solo uno pio desiderio»; è amaro combattere da soli «in nome della giustizia», morendo «prima di aver giovato a sé e agli amici, risultando inutile a sé e agli altri».
Platone non teorizzava la necessità dell’inganno, si poneva il problema di come realizzare concretamente quelle idee che Socrate non era stato capace di spiegare alla città. La storia del suo maestro insegnava che i ragionamenti ben condotti non bastano a difendere la giustizia. Come affrontare, educare, la nostra parte irrazionale? Platone sapeva meglio di tanti altri che si corrono rischi gravi quando la verità inizia a essere nascosta, anche se il fine è la giustizia. Ma quali erano, e sono, le alternative? Che valore ha un’idea che rimane solo sulla carta, che non è capace di incidere sulla realtà?
O il fallimento di Socrate o il tradimento di Platone, insomma. Da una parte c’è la rivendicazione del valore della testimonianza; il coraggio di tenere accesa la fiammella mentre il buio sembra avvolgere tutto; e la convinzione che i tempi oscuri non sono destinati a durare per sempre, la fiducia nella capacità degli uomini di parlarsi e ascoltare. Dall’altra la presa d’atto che una testimonianza, da sola, per quanto nobile, non può cambiare la realtà delle cose, perché troppo grande è il disordine nel mondo degli uomini; e la decisione di immergersi in questo disordine per cercare di controllarlo, anche a costo di sbagliare.
«Chi cavalca la tigre non può smontare», recita un proverbio cinese: meglio rinunciare fin da subito, rimanendo coerenti con i propri princìpi, o rischiare? Difficile dire quale delle due posizioni sia la migliore - o la meno peggio. Ma altre non ce ne sono, e ognuno di noi si trova davanti a quello stesso bivio che Platone fu il primo a vedere. Oggi non meno di ieri.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
Quell’esoterico di Platone
Esce la raccolta di saggi sul filosofo greco di uno dei più autorevoli conoscitori del pensiero antico, scomparso a marzo. Un percorso di studi lungo un trentennio
di Mario Vegetti (1937 - 2018) *
Un regime di brezze moderate e costanti sembra dominare negli ultimi anni le acque degli studi platonici. Le rotte sono ben tracciate, la navigazione sicura anche se forse non troppo emozionante (posso chiamare a testimoni in questo senso i Simposi platonici internazionali di Pisa, 2013, e Brasilia, 2016).
Ma le cose non sono sempre andate così. Nell’arco dei circa vent’anni (...), quelle acque sono state agitate da tempeste violente, foriere di naufragi, di arenamenti, di derive senza meta.
La prima tempesta, iniziata negli anni Sessanta e rafforzatasi nei due decenni successivi soprattutto in Germania (Tübingen) e in Italia (Milano, Università Cattolica), è andata sotto il nome di «nuovo paradigma ermeneutico» (oralistico-esoterico). Per essere estremamente concisi, si trattava della miscela esplosiva risultante da una rivisitazione delle critiche platoniche alla capacità della scrittura di esprimere e comunicare «le cose più importanti della filosofia» (Fedro, Lettera VII), e dalla concomitante rivalutazione delle testimonianze di Aristotele circa l’esistenza di cosiddette «dottrine non scritte» dovute a Platone. Il contenuto di queste dottrine consisteva principalmente nella teoria della generazione dei diversi livelli della realtà a opera di due principi, quello di unità e quello di molteplicità. La conseguenza era devastante per le consuete letture di Platone. La sua vera filosofia - una «metafisica dei principi» - non era mai stata scritta, bensì solo trasmessa per via orale ai discepoli dell’Accademia; il solo accesso di cui disponiamo a queste dottrine sono le scarne testimonianze aristoteliche e poche altre.
Viceversa, l’immensa ricchezza di discorsi, ricerche, problemi presente nei dialoghi è ridotta, se non proprio allo stato di chiacchiera filosofica, almeno a quello della propedeutica a una filosofia che non può esporre né comunicare le sue più vere dottrine in forma scritta. Detto molto in breve, dunque, il rischio che la tempesta ermeneutica ci ha costretto ad affrontare è stato quello di trovarci con un Platone arricchito di «metafisica», ma amputato dei dialoghi.
Fortunatamente nel corso degli anni Novanta la tempesta andò finalmente placandosi, con il contributo, va detto, di studiosi di entrambe le tendenze: gli oralisti vennero ammettendo che i dialoghi costituivano nonostante tutto una parte integrante e imprescindibile della filosofia di Platone, e i loro avversari si convinsero che in essa anche gli esperimenti esoterici di filosofia dei principi attestati da Aristotele dovevano aver giocato un certo ruolo. Si esauriva così la carica eversiva cui mirava il nuovo paradigma ermeneutico e si tornava alla normalità dei progetti di ricerca.
Quasi si trattasse di un moto opposto, suscitato dallo scampato pericolo, a partire dagli anni Novanta si formò, soprattutto in ambito anglosassone, una grande ondata di studi che andavano nella direzione di una forte rivalutazione dell’efficacia della forma letteraria dialogica ai fini della configurazione della filosofia di Platone. Più che un dottrinario, Platone appariva ora soprattutto uno scrittore filosofico: la costruzione dei singoli dialoghi, il contesto, i personaggi, il gioco delle metafore, delle allusioni ironiche, degli sforzi persuasivi diventavano il centro dell’attenzione ermeneutica, rimodellando gli stessi sviluppi teorici. Tutto ciò aveva senza dubbio effetti positivi, come l’invito a dedicare maggiore attenzione alla dimensione letteraria dei dialoghi - vista come indispensabile anche alla comprensione dei loro contenuti dottrinali -, e i forti dubbi suscitati intorno alla possibilità di concepire Platone come pensatore sistematico, e i dialoghi come veicoli di questo sistema filosofico.
L’ondata dialogica rischiava però (e forse ancora rischia) di far arenare le ricerche platoniche su secche non meno pericolose degli scogli «oralisti» perché meno visibili. Sottolineare il carattere letterario della scrittura dialogica a scapito del tessuto dottrinale ha portato qualcuno a ritenere che in realtà nei dialoghi non sia riconoscibile alcuna formazione teorica, alcuna enunciazione di tesi filosofiche, alcuna pretesa di verità: saremmo insomma di fronte a una grandiosa «conversazione» intellettuale alla maniera di Rorty.
Mi preme mettere in luce un corollario importante di questo atteggiamento: la negazione di qualsiasi carattere politico a testi come la Repubblica, in cui tutto il discorrere apparentemente politico avrebbe nient’altro che una funzione metaforica rispetto ai problemi di moralità personale, che costituirebbero il vero centro del dialogo; nessun progetto, dunque, nessuna utopia, nessuna critica sociale, ma, ancora una volta, metafore e dispositivi retorici di persuasione.
Dopo un Platone metafisico ma senza dialoghi, avremmo invece ora un Platone ricco di scrittura dialogica ma privo di filosofia e di progetti di verità.
Poiché la tendenza dialogica, nonostante questi esiti estremi, mantiene a mio avviso acquisizioni metodiche importanti, credo sia il caso di venire in chiaro su qualche suo aspetto che mi pare centrale. Io condivido le tesi dell’autonomia dei singoli dialoghi, e dell’autonomia dei loro personaggi. Occorre però fare subito qualche precisazione. Autonomia dei dialoghi non significa che ognuno di essi sia un’isola senza rapporti con le altre, quasi non fossero opere di uno stesso autore. E autonomia dei personaggi non significa che essi parlino in proprio, come quelli delle opere di storia. I dialoghi mantengono forti interrelazioni teoriche tra loro, talvolta esplicite, più spesso implicite; i personaggi interpretano il copione d’autore - ma questo copione è per lo più costruito attribuendo ai personaggi convinzioni coerenti, scelte di vita consapevoli, argomenti efficaci.
Autonomia dei dialoghi significherà allora che essi non possono in nessun caso venir concepiti come capitoli di un trattato filosofico, i cui risultati si depositano nel testo in modo cumulativo; di conseguenza, in linea di principio nessun dialogo dovrebbe venire interpretato a partire dalle acquisizioni di un altro dialogo, o interpolandovi le conclusioni di questo. Un esempio basterà a chiarire il senso di questa autonomia. La Repubblica e il Simposio non fanno alcun cenno alla reminiscenza come via di accesso alla conoscenza delle idee; essa è invece centrale negli argomenti del Fedone e del Menone. Ora, sostenere su questa base che la reminiscenza deve essere implicitamente ammessa anche nei primi due dialoghi, visto che è argomentata nei secondi, sembra del tutto inaccettabile. La divergenza platonica andrà semmai interpretata, ma non brutalmente annullata attribuendo una supremazia immotivata di un dialogo su un altro, o supponendo una inesistente cumulatività dottrinale.
Dal canto suo, autonomia dei personaggi significa valutare attentamente le ragioni che Platone attribuisce loro, in qualche caso forse ispirate dalle loro posizioni storiche, in altri puro frutto della creatività filosofica dell’autore. Un esempio sarà sufficiente anche a questo proposito. Gli interpreti che si affrettano a esultare per la confutazione di Trasimaco condotta nel libro I della Repubblica (peraltro fallita), ben difficilmente riusciranno a comprendere la profondità e la forza della tesi del sofista, che indica nel potere la fonte primaria della legittimazione e quindi della stessa giustizia; tesi che certamente non appartiene al Trasimaco storico ma che Platone ha creduto di attribuirgli - facendone così un personaggio che gioca un ruolo cruciale in tutto lo sviluppo teorico del dialogo.
Quando si tratta di Platone, però, nessun criterio di metodo può essere considerato definitivo ed esclusivo.
* Il Sole-24 Ore, Domenica, 27.05.2018
Vegetti, inattualità di Platone e del comunismo
Filosofia antica. La città perfetta del filosofo greco letta come utopia progettuale: un ritratto di Mario Vegetti a due mesi dalla morte, mentre esce da Carocci l’ultimo libro
di Franco Ferrari (il manifesto, 20.05.2018)
L’imminente uscita dell’ultimo libro di Mario Vegetti, dal titolo Il potere della verità. Saggi platonici (Carocci «Frecce», pp. 284, € 24,00), revisionato in bozze dall’autore poche settimane prima della scomparsa avvenuta l’11 marzo scorso, rappresenta un’eccellente occasione per stilare un profilo, per forza di cose parziale, di uno studioso che ha rappresentato un punto di riferimento fondamentale per intere generazioni di antichisti, ma che ha esercitato un’influenza significativa anche nel dibattito culturale della sinistra italiana (tra la fine degli anni sessanta e gli inizi dei settanta fu vicino sul piano intellettuale e politico al gruppo del manifesto e alla sinistra radicale fu sempre legato, come testimonia anche la direzione della rivista «Marxismo oggi»).
Vegetti, che era nato a Milano nel 1937, insegnò per quasi quattro decenni Storia della filosofia antica all’Università di Pavia, dove aveva studiato, in qualità di alunno del prestigioso Collegio Ghislieri, nella seconda metà degli anni cinquanta. Fin dai suoi primi lavori seppe innovare in maniera incisiva il panorama degli studi sul pensiero antico, includendovi ambiti e testi fino ad allora collocati ai margini. Basti pensare che a lui si deve, nel lontano 1964, la traduzione degli scritti del Corpus Hippocraticum, un insieme di testi di argomento medico che contengono importantissime riflessioni di ordine epistemologico. Nel corso degli anni Vegetti si è imposto come uno dei massimi specialisti internazionali di storia della medicina antica; alla pubblicazione delle opere ippocratiche ha fatto seguito, nel 1978, un volume che raccoglie i principali scritti di Galeno, l’altro grande medico dell’antichità.
Le indagini di Vegetti sui testi medici antichi, che trovarono un significativo momento di sintesi nello splendido Il coltello e lo stilo. Animali, schiavi, barbari e donne all’origine della razionalità scientifica (Il Saggiatore, 1979), inaugurarono una stagione di studi vivacissima, che ancora oggi a distanza di tanti anni costituisce uno dei settori più interessanti e innovativi della ricerca sul pensiero antico. Vegetti ha ricostruito i metodi e le forme di conoscenza che hanno segnato l’origine di una nuova forma di razionalità, un pensiero di tipo congetturale e semeiotico, che si è progressivamente affrancato dal modello sapienziale e semi-religioso praticato dalla cultura tradizionale.
L’apporto di Vegetti all’innovazione degli studi sul pensiero antico non si è limitato alla medicina. A lui e al suo collega «pavese» Diego Lanza, amico di una vita, si deve la traduzione delle opere biologiche di Aristotele, fino ad allora trascurate dagli studiosi. La «scoperta» di questi scritti ha permesso di allargare notevolmente la nostra conoscenza del pensiero di Aristotele, consentendo di superare le ristrettezze di un approccio scolastico e banalizzante. Ad Aristotele Vegetti ha dedicato uno dei suoi ultimi libri, scritto in collaborazione con Francesco Ademollo, Incontro con Aristotele (Einaudi, 2016), un’opera nella quale la profondità del pensiero del grande filosofo antico viene valorizzata in tutte le sue componenti.
Il sodalizio con Diego Lanza
Al sodalizio con Diego Lanza si deve anche un’innovativa stagione di studi, dedicati ai meccanismi economici, sociali, istituzionali, politici e ideologici che agiscono alle spalle della costruzione della democrazia ateniese del V secolo. Il libro L’ideologia della città (Liguori, 1977) si serve dei raffinati strumenti analitici forniti dall’antropologia e dal neo-marxismo di quegli anni per indagare le dinamiche intorno alle quali si viene a costituire appunto l’ideologia di Atene (sempre nel 1977 esce per Feltrinelli anche il volume, curato da Vegetti, Marxismo e società antica, dedicato alla questione dell’applicabilità di categorie marxiane, come classe, mercato, sfruttamento, ideologia ecc., al mondo antico).
La democrazia ateniese nasce attraverso un complesso sistema di inclusioni ed esclusioni, che mette ai margini i poveri, gli schiavi, le donne e gli stranieri. Ma la città si dota anche di formidabili strumenti di autorappresentazione, che ne cementano l’identità (basti pensare al teatro, prima tragico e poi anche comico). Non c’è però dubbio che lo strumento più forte per mezzo del quale viene costruita l’ideologia della città sia l’uguaglianza politica, la celebre isonomia, la quale assegna pari dignità a ciascun cittadino, celando la profonda diseguaglianza nella distribuzione della proprietà e delle ricchezze. Lanza e Vegetti scrivevano che «gratificante e consolatoria, l’ideologia assicura ciascuno della propria identità», facendo sì che l’individuo si senta parte di una comunità omogenea.
Sulla funzione mediatrice e unificante del nomos, ossia della legge, Vegetti è tornato numerose volte nel corso degli anni, soffermandosi sulle voci critiche provenienti da coloro che misero in luce il carattere illusorio (si direbbe «ideologico») di questa pretesa. La più radicale di queste voci è senz’altro quella del sofista Trasimaco, il quale viene descritto da Platone nell’atto di sferrare un attacco formidabile alla pretesa di neutralità e universalità della legge e dei sistemi normativi che regolano la vita della città: la giustizia, proclama con forza Trasimaco, non è altro che «l’utile del più forte».
I sistemi normativi nei quali la giustizia si sostanzia smarriscono ogni ambizione «oggettiva», diventando l’espressione di rapporti di forza che si collocano alle loro spalle: chi ha la forza - si tratti dei più ricchi o della maggioranza - impone il rispetto di leggi il cui unico obiettivo è quello di perpetuare questo potere. Vegetti, che non ha mai nascosto la sua ammirazione per la radicalità e la potenza teorica di una simile tesi, è arrivato ad attribuire a Trasimaco la formulazione di un vero e proprio «teorema del potere», ormai indifferente alla natura «costituzionale» del governo: si tratti di un regime monarchico, aristocratico oppure democratico, il suo assetto legislativo dipende unicamente dalla forza, la quale finisce per rappresentare, contro ogni pretesa di universalità e neutralità, l’unica autentica fonte della legge e dunque della giustizia.
Fine dell’età dell’innocenza
Lo smascheramento della natura della legge e delle norme di giustizia operato dal Trasimaco platonico rappresenta per Vegetti tanto la fine dell’«età dell’innocenza» della città, quanto il punto di partenza per il grandioso progetto di rifondazione antropologica e politica messo in campo da Platone. A questi temi Vegetti dedicò sia la monumentale edizione commentata della Repubblica (uscita in 7 volumi per Bibliopolis, 1998-2007), sia numerosi altri contributi, tra i quali lo splendido Un paradigma in cielo (Carocci, 2009) e il recentissimo Chi comanda nella città. I Greci e il potere (Carocci, 2017).
Il senso della lettura che Vegetti propone del progetto politico platonico è chiaro, sorretto da una straordinaria conoscenza dei testi e da una solida competenza filologica, ma soprattutto animato da una inequivoca «scelta di campo».
Polemizzando tanto con le interpretazioni «liberali» quanto con quelle schiettamente «conservatrici», entrambe volte a depotenziare il messaggio «politico» contenuto nella Repubblica, concepito o come un documento di morale individuale oppure come un gioco letterario, Vegetti ha coraggiosamente affermato l’«inattualità» di Platone sia rispetto alla cultura individualistica e proprietaria della modernità, sia rispetto alla presunta unità «cristiana» dell’occidente: Platone non fu né liberale, né cristiano, fu anzi convinto che i provvedimenti intorno ai quali dovrebbe sostanziarsi la «città bella» (kallipolis), ossia a) l’uguaglianza dei generi rispetto ai compiti di governo, b) la soppressione della famiglia e della proprietà, cioè l’abolizione della componente privata sia sul piano patrimoniale sia sul piano affettivo, e c) il governo dei filosofi, non risultano solo desiderabili, ma anche, in qualche misura, «possibili», ossia realizzabili.
La città perfetta immaginata da Platone non rappresenta dunque un «castello in aria», un’utopia letteraria priva di significato politico, ma, come Vegetti ha sostenuto numerose volte, un’utopia progettuale, vale a dire un modello normativo che svolge la funzione di paradeigma dei comportamenti pubblici e privati degli individui.
L’ultimo libro di Vegetti, al quale si faceva riferimento in apertura, tratta con la consueta limpidezza molti dei temi ora richiamati.
In un divertissement pubblicato in una collana di «falsi d’autore» (Platone, Repubblica, libro XI, Guida, 2004), Vegetti immagina che nel 1937 in un convento dell’Armenia uno studioso sovietico dal non casuale nome di Josiph Vissarionovich annunciò il ritrovamento di un manoscritto contenente il libro XI della Repubblica di Platone. Il protagonista di questo libro, colui che intende superare le tesi di Trasimaco e di Socrate, è «uno straniero piuttosto tozzo e tarchiato, con una gran testa, un’incolta barba grigia e lo sguardo penetrante, cui faceva da seguito una piccola folla di manovali o di schiavi da poco liberati dalle loro catene».
Questo Marx che dialoga con Socrate, delineando i contorni di una società senza sfruttati né sfruttatori, senza ricchi né poveri, rappresenta l’estrema concessione - ironica e divertente, - di Vegetti alla passione politica, alla sua fiducia in un comunismo aperto e libertario, tanto «inattuale» quanto ineludibile, almeno per una riflessione che non si accontenti di registrare passivamente il presente, ma si proponga di immaginare criticamente il futuro.
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 ...
Il Sessantotto incompiuto di Alain Badiou
di Marco Assennato (Il manifesto, 01.03.2018)
Saggi. «Ribellarsi è giusto! L’attualità del Maggio 68» per le Edizioni Orthotes, a cura di Alberto Destasio
«In occasione del cinquantenario del Maggio 68», Alain Badiou prende la parola per rompere la doppia morsa della celebrazione ebete e della condanna all’oblio. In questione sono tanto «l’idea vaga che troneggia in testa agli articoli-anniversari» - il 68 come ribellione di costume, «ultima utopia», «danza della storia a suono di rock» - quanto l’immagine del 68 come premessa dell’individualismo neoliberale contemporaneo.
«L’attualità del Maggio 68» si disegna invece come «riserva di coraggio» da scagliare contro due dispositivi di accecamento contemporanei: la morale del capitale umano, del merito e del successo atomizzante, da una parte; e dall’altra le prediche apocalittiche e reazionarie secondo cui «è più semplice ormai immaginare la fine del mondo che quella del capitalismo».
LA PUBBLICAZIONE di questo piccolo pamphlet - Ribellarsi è giusto! L’attualità del Maggio 68 (pp. 112, euro 14) per le Edizioni Orthotes è quindi opportuna e coraggiosa: è una bella immagine questa del filosofo che rivendica una carica di speranza contro tanti corvacci stanchi.
Si tratta insomma di tornare ad interrogare l’evento, innanzitutto per restituirgli la sua intrinseca complessità. Il 68 non è stato un fenomeno unitario, piuttosto una molteplicità eterogenea. «Ci sono stati tre maggio 68», scrive Badiou, a volte in polemica tra loro, spesso effimeri, e tuttavia certamente potenti: il maggio studentesco - che ha segnato una forma radicale di critica alla democrazia rappresentativa; quello operaio - scosso da «scioperi selvaggi» e «insubordinazione» alle istituzioni tradizionali della sinistra storica, tanto socialista quanto comunista; e quello libertario, deposito prezioso di un profondo rinnovamento delle pratiche teoriche, artistiche e culturali. Ma, aggiunge Badiou, fornendo così una torsione decisiva al suo pensiero, in «questa effervescenza contraddittoria» la componente «essenziale» è costituita da «un quarto Maggio 68, che prescrive il nostro avvenire».
C’È UN’ARIA di rinnovamento che percorre queste pagine badiousiane, come se il filosofo tendesse a fare i conti con il reale. Se fino alla sua celebre riscrittura della Repubblica di Platone, Badiou aveva tolto di mezzo ogni possibilità di concretare il kairòs in qualsivoglia cristallizzazione storica osservabile, questo suo 68 si vuole invece come evento esemplificato. Di più: esso si inscrive in una genealogia - le lotte operaie che attraversano la Normandia e le periferie francesi lungo il 1967 - e si stende nei due decenni successivi. «L’evento - nota correttamente Alberto Destasio nella postfazione del volume - non è sciolto dal plesso con la storia, non è incondizionato. Ogni evento è storico». Più che esaltarne l’emergenza, si tratta insomma di misurarlo con «la tenacia delle sue conseguenze». Il quarto Maggio è quello che decreta la fine delle vecchie forme della politica e interroga le sue nuove e necessarie dimensioni: «che cosa è la politica» oggi? Quale forma organizzativa dobbiamo inventare, dentro la crisi della democrazia, per «farla finita con le leggi del profitto»? Ecco l’eredità viva del Maggio francese.
TUTTAVIA, giunti al punto massimo di tensione, il platonismo di Badiou torna pesantemente e precipita indietro il percorso svolto. Di nuovo, manca radicalmente ogni idea della produzione, tanto dei beni quanto dei soggetti. Anzi: è proprio a partire dalla completa obliterazione di ogni «agente soggettivo» che si manifesta la «distensione nichilista» di Alain Badiou. La politica comunista è una «Pura Idea», necessaria alla vita.
Dopo un elogio sperticato, e un poco ridicolo, del maoismo francese, il quarto Maggio vola nell’Iperuranio: urge «la ricerca di un’altra politica, illuminata dalla presenza immanente degli intellettuali», che - come insegna il comandante della lunga marcia - restituiscano alle masse «in modo preciso» ciò che esse consegnano «in maniera confusa». Nessuna inchiesta sulle singolarità antagoniste, anzi. Il filosofo non insegue le pratiche di lotta, né la sua conoscenza deriva da esse, piuttosto le chiarisce esattamente in forza della propria separatezza. Torna così l’ipotesi del comunismo come ideologia, utopia metafisica, radicalmente esterna all’agire collettivo, che già conosciamo. Dalla cattedra, tuttavia, non è possibile alcuna virtù, tantomeno quel «coraggio di ribellarsi» che attraversa tutto il libro.
COME REPLICARE a Badiou? C’è un celebre testo, scritto da Gilles Deleuze - cui Badiou rende un fuggitivo omaggio - e Felix Guattari, nel 1984, che varrebbe la pena accostare a questo libretto, per sbloccarne l’impasse. Anche lì era questione di evento. Notavano allora Deleuze e Guattari: il 68 non nasce da una crisi, è piuttosto la - lunghissima - crisi attuale che nasce dall’incapacità della società europea di operare una riconversione soggettiva di quanto accaduto cinquant’anni fa. Gli autori di Mille Plateaux ci hanno insegnato a rileggere il desiderio comunista come qualcosa che si costruisce dentro all’ammodernamento delle forme produttive, come fame di ricchezza e gioia della riappropriazione. «L’evento - scrivevano Deleuze e Guattari - crea una nuova esistenza, produce una nuova soggettività». Oppure non si genera. Perché non si dà critica fuori dalla densità di un agente storico e forse, ormai, non si dà neppure filosofia.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Pianeta Terra. Sull’uscita dallo stato di minorità, oggi......
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89).
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
L’inedito. Una riflessione di Mario Vegetti scomparso l’11 marzo sul mito greco che richiama il rapporto tra la scienza e la politica
Il dono di Prometeo non basta all’uomo. La potenza è veleno se manca la giustizia
di Mario Vegetti (Corriere della Sera, La Lettura, 18.03.2018)
Prometeo, figlio di Giapeto, eroe e semidio, discendeva dall’antica stirpe dei Titani. Verso di essa consumò il primo dei suoi molti tradimenti, dettati dal suo pensiero preveggente o tortuoso, come indica il nome (Prometeo, letteralmente, è colui che «comprende prima», pro-manthanei). Nella memorabile battaglia fra i Titani e i «nuovi dèi» guidati da Zeus, che grazie alla vittoria conquistarono il regno dell’Olimpo, Prometeo abbandonò i suoi fratelli e si schierò al fianco di Zeus. Ma l’alleanza con Zeus - verso la cui usurpazione nutre comunque rancore («nuovi signori governano l’Olimpo/ e con nuove leggi, al di fuori del Giusto, Zeus governa/ e annienta ora le potenze di un tempo», Eschilo, Prometeo incatenato, 149-51) - non è davvero il punto d’arrivo del disegno di Prometeo. Egli puntava piuttosto sulla nuova alleanza con l’ultimo arrivato sulla scena del mondo, il genere umano. Ma per questo occorreva compiere due passi. Il primo, spezzare l’amicizia fra uomini e dèi, e metterli in conflitto fra loro; il secondo, fornire agli uomini la potenza necessaria per sostenere il conflitto.
Il primo passo venne compiuto a Mekone. C’era allora commensalità fra uomini e dèi, che sedevano alla stessa tavola. Prometeo, maestro del banchetto, divise in due otri le parti di un grande bue. Nel primo, formato da una pelle nascosta nel ventre del bue, pose le parti migliori; nel secondo più attraente, di «bianco grasso», soltanto le ossa. Sfrontatamente, propose a Zeus la scelta fra i due otri dall’aspetto così ineguale. Che avesse fiutato o no l’inganno, Zeus finì per scegliere le ossa; abbandonò indignato il banchetto, e da allora finirono commensalità e amicizia fra uomini e dèi (Esiodo, Teogonia, 535-560).
Si trattava ora di fornire la potenza necessaria a far fronte alla loro solitudine. Prometeo non poteva che cominciare rubando a Zeus il fuoco, che egli nascondeva presso di sé, e donarlo agli uomini ai quali Zeus lo negava: il fuoco, padre della metallurgia e condizione per qualsiasi tecnica. Vedendo «fra gli uomini il bagliore lungisplendente del fuoco» ( Esiodo, Teogonia , 569), Zeus fu di nuovo preda dell’ira, e questa volta le sue punizioni non si fecero attendere.
Prometeo fu scortato fino al Caucaso dai due fedeli aiutanti di Zeus, Kratos e Bia, Forza e Violenza, e lì Efesto lo incatenò saldamente a una rupe: il suo supplizio consisteva in questo, che ogni giorno un’aquila gli rodeva il fegato, destinato ogni notte a ricrescere per fornire nuovo alimento al rapace. Quanto agli uomini, un beffardo Zeus ordinò a Efesto di forgiare una «bella e amabile figura di vergine», ad Atena di insegnarle l’arte della tessitura, ad Afrodite di effonderle «grazia intorno alla fronte e desiderio tremendo»; finalmente, una volta riccamente adornata da Atena, venne inviata presso gli uomini Pandora, madre di ogni male (Esiodo,Opere e giorni, 60-95): «Di lei infatti è la stirpe nefasta e la razza delle donne,/ che, sciagura grande per i mortali, fra gli uomini hanno dimora» (Esiodo, Teogonia, 591-2).
Ma lasciamo gli uomini intenti per ora a rallegrarsi per il bel dono di Zeus, e torniamo sulle vette del Caucaso. Qui il vecchio Titano incatenato non cessa di rievocare i suoi doni al genere umano, seguiti a quello basilare del fuoco. «Prima, avevano occhi e non vedevano, orecchie e non sentivano, ma come le immagini dei sogni vivevano confusamente una vita lunga, inconsapevole. Non sapevano costruire edifici, case all’aperto, non sapevano lavorare il legno: abitavano sottoterra, come brulicanti formiche, in caverne profonde, senza la luce del sole... Facevano tutto senza coscienza finché insegnai loro a distinguere il sorgere e il tramontare degli astri, e poi il numero, principio di ogni sapere, per loro inventai, e le lettere e la scrittura, memoria di tutto, madre feconda della poesia... Io e nessun altro inventai la nave, il cocchio marino dalle ali di lino... Se uno si ammalava non aveva alcun rimedio, né cibo, né unguento o pozione. Si consumavano così, senza farmaci, finché io non insegnai loro a miscelare medicamenti curativi per scacciare tutte le malattie». Prometeo insegna poi agli uomini l’arte della divinazione, e la scoperta dei metalli nascosti nelle viscere della terra (Eschilo, Prometeo incatenato, 447-506).
Nelle sue parole, nel suo modo di concepire il ruolo delle tecniche, il programma di Prometeo sembra così giunto a compimento: egli ha concesso agli uomini tutta la potenza necessaria a misurarsi con gli dèi. Padrone delle tecniche e dei grandi saperi del numero, della scrittura, degli astri: questa è dunque l’immagine dell’«uomo prometeico» visto con gli occhi del suo creatore.
Più inquietante è lo sguardo «umano», in qualche misura esterno, sullo stesso «uomo prometeico», quale ci viene proposto dal Coro della tragedia Antigone di Sofocle. Una sorta di sforzo di autoconsapevolezza, dunque: che cosa siamo diventati? (qui l’uomo appare ormai autodidatta, benché non sia lontana la lezione di Prometeo).
L’uomo si avverte come «terribile», anzi come la cosa più terribile (deinos: l’aggettivo vale però anche «abile», potente). Infatti è capace di attraversare il mare, di lavorare la terra, di catturare gli animali selvatici e di addomesticare quelli da lavoro. «Capisce, inventa, ha sulle arti dominio oltre l’attesa»: lo sguardo di Prometeo non si sarebbe spinto oltre questa temibile immagine dell’uomo tecnologico. Quello «umano» del coro sofocleo invece ne coglie una linea di frattura, segno di un’incertezza o un cedimento possibili. Aggiunge infatti: «Ora al bene, ora al male serpeggiando volge. Se del Paese le leggi applica e la giustizia degli dèi... in alto sarà nella patria» (Sofocle, Antigone, 331-371). Bene, male, leggi, giustizia: si profila qui una dimensione del tutto estranea all’uomo prometeico, che il vecchio Titano non aveva certamente attrezzato a fronteggiarla.
Una chiara traduzione in termini concettuali di tutto questo è nel cosiddetto «mito di Protagora», che il sofista racconta nel dialogo di Platone a lui intitolato, e che molto probabilmente si ispira a tesi dello stesso sofista. Lo scenario è un poco cambiato rispetto a quello che ci è familiare: Prometeo non è ancora sul Caucaso e resta amico degli uomini, verso i quali del resto lo stesso Zeus ora si dimostra benevolo. Non sono però cambiati i ruoli principali.
Si tratta di distribuire le dotazioni necessarie alla sopravvivenza fra i diversi animali. Lo sbadato Epimeteo, fratello di Prometeo, assegna a ogni animale mezzi di offesa e di difesa, dimenticando però l’uomo, che rimane così nuda vittima delle fiere. Prometeo decide allora di intervenire a difesa del genere umano, e lo fa come gli è consueto: «Ruba a Efesto e Atena la loro sapienza tecnica insieme col fuoco... e la dona all’uomo. In tal modo, l’uomo ebbe la sapienza tecnica necessaria per la vita, ma non ebbe la sapienza politica, perché questa si trovava presso Zeus». -Ma è qui che i doni di Prometeo rivelano tutta la loro insufficienza, che già era emersa in Sofocle - e la manifestano anche in termini di pura potenza. Per far fronte alle fiere, gli uomini cercano di riunirsi fondando città; «ma, allorché si raccoglievano insieme, si recavano ingiustizia a vicenda, perché non possedevano l’arte politica, sicché, disperdendosi, nuovamente perivano» (Platone, Protagora, 321d-322b).
Per evitare la strage, Zeus interviene ordinando a Ermes di distribuire a tutti gli uomini le doti del rispetto reciproco e della giustizia (aidos e dike), «principi ordinatori di città e vincoli produttori di amicizia» (Platone, Protagora, 322c).
L’uomo prometeico, forte solo del controllo delle tecniche, non può vivere in una comunità politica: per questo, occorrono inoltre la condivisione di un orizzonte di valori etico-politici, la giustizia, la legge, l’educazione collettiva. Propriamente parlando, non può neppure combattere, perché «l’arte della guerra è parte di quella politica» (Platone, Protagora, 522b), che egli non possiede, perché essa è inaccessibile a Prometeo. Si è spesso interpretato il mito di Protagora come risposta alle antropologie tecniciste dell’ homo oeconomicus alla maniera di Democrito, dalle quali sembrava risultare che la collaborazione fra le diverse competenze tecniche fosse in grado di formare e guidare la città. Senza dubbio, il mito si oppone inoltre alla pressione crescente di un ceto di technitai che si candidano a governare la città, tendendo a marginalizzare la dimensione politica e i suoi specialisti come i sofisti. Non c’è polis , invece, senza un sistema di norme di giustizia condivise, senza le istanze decisionali proprie della politica, infine senza un’educazione pubblica intesa a consolidare i vincoli comunitari.
Ma torniamo nel Caucaso, dal vecchio Titano, certo inconsapevole dei limiti etico-politici dei doni tecnologici che aveva elargito al genere umano: l’impotenza della forza senza politica, l’incapacità di integrare efficacia e moralità. La sua pena non sarebbe durata indefinitamente (a differenza di quella femminile comminata agli uomini). Prometeo era infatti depositario di un formidabile segreto, da cui dipendeva la sopravvivenza stessa del regno di Zeus - che si vide costretto a liberarlo, nel timore che il Titano lo rivelasse a orecchie ostili, e al contrario nella speranza di venirne a conoscenza.
Noi non possiamo conoscere il segreto di Prometeo, sul quale sono fiorite molte ipotesi. A me piacerebbe pensare che il vero, devastante, segreto di Prometeo fosse quello rivelato da Socrate - il Socrate di Aristofane, beninteso, non quello benpensante di Senofonte e di Platone - nella commedia Le nuvole:
«Strepsiade: ma per voi, in nome della Terra, Zeus olimpio non è dio?
Socrate: quale Zeus? Non dire sciocchezze. Zeus non esiste».
Certo, il «segreto» più efficace per por fine al potere di Zeus.
1937-2018
Morto Mario Vegetti, filosofo studioso di Platone
È scomparso l’11 marzo nella sua casa milanese all’età di 81 anni
Aveva esaltato l’importanza del pensiero scientifico della Grecia antica *
Raffinato studioso e commentatore di Platone, conosceva come pochi altri anche il versante scientifico della cultura classica. E aveva un carattere piuttosto schivo, non cercava la popolarità e non amava i riflettori. Tuttavia Mario Vegetti, scomparso ieri nella sua casa milanese all’età di 81 anni, era ben consapevole della necessità di far conoscere la civiltà antica al grande pubblico. Diversi suoi libri hanno infatti un carattere didascalico - non a caso sono articolati in lezioni - o d’introduzione alle opere dei grandi filosofi. Concepiva l’università come un luogo aperto al confronto con il territorio, gli dispiaceva che, dopo alcuni tentativi, le istituzioni accademiche avessero rinunciato a essere «protagoniste attive del tessuto cittadino».
Nato a Milano il 4 gennaio 1937, Vegetti era stato alunno del prestigioso collegio Ghislieri di Pavia e si era laureato nell’ateneo di quella città con una tesi su Tucidide, nel 1959. Sempre a Pavia era stato professore ordinario di Storia della filosofia antica per trent’anni, dal 1975 al 2005. Poi aveva lasciato, un po’ deluso per lo scarso dinamismo dell’ambiente accademico, che addebitava non solo ai colleghi, ma anche ai giovani: «Un tempo gli studenti - ricordava - ponevano domande di senso. Oggi non più».
Convinzione profondamente radicata di Vegetti era appunto che lo studio del mondo classico fosse fondamentale per aprire le menti. I grandi pensatori greci, sottolineava, avevano sviluppato le proprie riflessioni in un ambiente privo di sacre scritture o di autorità che pretendessero di possedere e imporre dottrine prefissate, quindi avevano potuto avanzare le ipotesi più varie, a volta geniali, a volte strampalate, in completa libertà. Avevano così animato un immenso laboratorio intellettuale non solo in campo filosofico, ma anche scientifico. La medicina, per esempio, aveva compiuto passi enormi attraverso la pratica quotidiana proprio perché non vincolata da regole previste nei libri sacerdotali, come avveniva al contrario nell’Egitto dei faraoni.
A questo rapporto sinergico tra sperimentazione diretta (condotta affondando la lama nella carne di animali e cadaveri) e accumulo del sapere teorico Vegetti aveva dedicato il suo saggio significativamente intitolato Il coltello e lo stilo (il Saggiatore, 1979), prodotto di un’approfondita ricerca sul pensiero scientifico ellenico condotta secondo l’indirizzo di uno dei suoi maestri, il filosofo marxista eretico Ludovico Geymonat, e proseguita poi in diverse altre opere. In seguito Vegetti aveva pubblicato il lavoro altrettanto importante L’etica degli antichi (Laterza, 1989) e si era progressivamente caratterizzato come uno dei più acuti e validi studiosi di Platone a livello internazionale. -Aveva curato una monumentale edizione commentata della Repubblica, opera più nota del filosofo greco, in sette volumi usciti tra il 1998 e il 2007 presso l’editore Bibliopolis. Ma aveva realizzato anche saggi rivolti a un pubblico di non specialisti come Quindici lezioni su Platone (Einaudi, 2003), Guida alla lettura della «Repubblica» di Platone (Laterza, 2007), Un paradigma in cielo (Carocci, 2009).
Su Platone, Vegetti si era confrontato con un altro accademico italiano di notevole prestigio, Giovanni Reale, scomparso nel 2014. Quest’ultimo riteneva che la «dottrina non scritta» del grande filosofo greco, di carattere metafisico, fosse l’autentico contenuto del suo insegnamento, mentre i Dialoghi ne sarebbero stati soltanto l’introduzione. Una lettura che non convinceva affatto Vegetti, secondo il quale andava viceversa riconosciuto il «pieno valore filosofico» dei testi platonici. In particolare il suo interesse era attirato dal problema della politica così come era stato affrontato dall’autore della Repubblica.
Da una parte Vegetti, affascinato dalle infinite sfaccettature dell’eredità di Platone, poneva l’accento sulla sua ineludibile polivalenza e sottolineava che quell’insegnamento trasmesso in forma dialogica, attraverso il confronto fra punti di vista differenti, «non può venire ridotto a un sistema univoco di significati». Dall’altra, apprezzava l’afflato ideale che percorre quelle medesime pagine, nelle quali la politica viene «pensata in grande», assegnandole «una capacità di orientamento della vita sociale nella sua complessità economica, militare, etica».
Uomo di sinistra, impegnato socialmente al fianco della moglie Silvia Vegetti Finzi (psicologa di primo piano e firma del «Corriere della Sera»), era consapevole di quanto spinoso sia il nodo della legittimità del potere, su cui si era soffermato con grande finezza di argomentazioni nel libro Chi comanda nella città (Carocci, 2017). Ma riteneva comunque che la politica avesse bisogno di uno slancio utopistico, dovesse nutrirsi di valori, per non diventare miope e conservatrice. E proprio per questo diffidava di Aristotele e della sua tendenza a «naturalizzare» le istituzioni umane storicamente determinate, che a suo avviso finiva per risolversi in una pericolosa giustificazione integrale dell’esistente. Ma certo non sottovalutava il pensatore di Stagira, al quale aveva dedicato il volume Incontro con Aristotele, firmato con Francesco Ademollo (Einaudi, 2016).
Va comunque aggiunto che Vegetti dissentiva da coloro che, ponendo al centro l’opera dei maestri più illustri, svalutano il successivo periodo ellenistico e la ancor più tarda fase imperiale, con la Greca ormai sottomessa al dominio di Roma. Considerava l’ellenismo «fondamentale per l’etica, per la logica, in fondo anche per la fisica». E guardava con estremo interesse alla dialettica tra il pensiero classico e le nuove religioni di salvezza, in primo luogo il cristianesimo.
Nella vasta Storia della filosofia antica da lui diretta con Franco Trabattoni (Carocci, 2016) Platone e Aristotele occupano solo un volume su quattro. Per presentare quell’opera Vegetti aveva partecipato per «la Lettura» del «Corriere» (numero 228 del 10 aprile 2016) a un incontro con alcuni studenti, nel corso del quale aveva riaffermato la sua fiducia nella funzione civile della filosofia. Lo allarmava un dibattito pubblico ridotto a frastuono e a ingannevoli espedienti di marketing. Considerava più che mai urgente «mettere ordine nel modo di pensare».
* Corriere della Sera, 12.03.2018 (ripresa parziale, senza immagini)
PLATONE, PLATONISMO PER IL POPOLO, E CROLLO DELLA MENTE DELL’UOMO TEORETICO ...
Platone insegna. Il nostro destino è nella caverna
di Umberto Curi ( Corriere della Sera, La Lettura, 11.03.2018)
«Strana immagine - disse - e strani incatenati». È questo il primo commento formulato da Glaucone, interlocutore di Socrate nell’esordio del libro VII della Repubblica, dopo aver ascoltato la descrizione della «dimora sotterranea a forma di caverna» e della condizione di coloro che in essa sono prigionieri.
Tanto l’ immagine (eikón) complessiva che è stata evocata, quanto coloro che in essa sono raffigurati avvinti da catene (desmótas), appaiono strani ( atópous), perché privi di un luogo (tópos) a cui attribuirli, e che li renda perciò riconoscibili. La nostra phýsis, ciò che ciascuno di noi è per «nascita», appare dunque originariamente simile a quella «strana» eikón. Come quei prigionieri, anche noi possiamo vedere e sentire soltanto skiái - solamente «ombre». Inevitabile, quindi, la conclusione. Chiunque si trovi in una situazione come quella ora descritta, crederà che la verità consista nelle «ombre degli oggetti artificiali».
Se vogliamo sapere quale sia la condizione umana originaria, prima che essa venga profondamente modificata attraverso quel processo di formazione in cui consiste la paidéia, dobbiamo avere in mente questa «strana» immagine, riconoscendo che noi siamo in tutto e per tutto simili a quegli incatenati. Come loro, anche noi siamo prigionieri di un mondo di ombre - dei riflessi visivi e dell’eco delle voci.
All’origine, insomma, il genere umano è caratterizzato dall’impossibilità di valorizzare pienamente le potenzialità connesse con il vedere. Le catene impediscono qualsiasi visione panoramica, impongono una fissità nel vedere che si traduce in una vera e propria amputazione sensoriale, e dunque conoscitiva. Ciò implica non solo una visione-conoscenza difettiva del «mondo» esterno a noi, degli altri e di ciò che li circonda, ma anche di noi stessi.
«Supponi ora - racconta Platone - che uno dei prigionieri si sciolga». Questo passaggio della narrazione platonica ha dato origine a innumerevoli equivoci, a vere e proprie rimozioni collettive. Perché il filosofo non dice se il prigioniero si sciolga da sé, o perché aiutato da altri. Perché non precisa che cosa induca l’incatenato a privarsi dei suoi ceppi. Perché il percorso che conduce fuori dalla caverna è descritto per ellissi e allusioni, più che illustrato nei dettagli. Un punto, fra tutti, deve in ogni caso essere chiarito, per fugare le più diffuse distorsioni interpretative. Il mito non si conclude affatto con la fuoriuscita dalla caverna, come si è sostenuto più volte, in contesti diversi.
Ritenere che il tragitto possa essere considerato compiuto nel momento in cui lo sguardo è in grado di sollevarsi verso ciò che «produce le stagioni e gli anni e che domina tutte le cose del mondo visibile ed è causa di tutto ciò che (il prigioniero) vedeva», vorrebbe dire precludersi la possibilità di comprendere in che cosa davvero consista l’essenza della paidéia , alla quale Platone riconosce la capacità di determinare non soltanto una generica «educazione», ma un rivolgimento completo dell’anima.
Affinché l’itinerario avviato con lo scioglimento dalle catene possa giungere a conclusione è infatti necessario che non solo il prigioniero ritorni nella caverna dalla quale era uscito, ma che egli ingaggi una vera e propria lotta con i desmótai , cercando in ogni modo - con la «persuasione» (peithói) e con la «costrizione (anánke)» - di strapparli dalle tenebre della dimora sotterranea. Come ha sottolineato Martin Heidegger nella sua opera L’essenza della verità (Adelphi, 1988), la ridiscesa nella caverna non è un divertimento aggiuntivo che il presunto «libero» possa concedersi così per svago, magari per curiosità, per provare come si presenta l’esistenza della caverna vista dall’alto, ma è, essa soltanto, il «compimento autentico del divenire liberi».
Da tutto ciò consegue che la libertà coincide non con una condizione pacifica, con l’estatica e solitaria contemplazione della verità da parte di un singolo privilegiato che sia riuscito a sciogliersi dalle catene, e dunque goda di questa straordinaria opportunità. Al contrario, come Platone esplicitamente afferma, per potere essere veramente libero, colui che si sia sciolto dalle catene dovrà ritornare nella caverna e dovrà contendere con coloro che in essa sono rimasti, anche a rischio della propria incolumità e della stessa vita. Non si è liberi, se non si agisce come liberatori degli altri.
In quanto ricorda ciò che ciascuno di noi è per nascita, il mito della caverna allude ad una condizione di intrinseca ed ineliminabile duplicità come sigillo specifico e inconfondibile della condizione umana. In quanto raffigura le caratteristiche salienti di colui che ama contemplare lo spettacolo della verità, esso mostra fino a che punto la verità stessa si presenti non come un dato, o un oggetto, o una realtà definita, ma come un lotta incessante e insuperabile, nel quale entrano in conflitto lo svelarsi e il sottrarsi a questo svelamento. In quanto descrive quale debba essere il compito del filosofo all’interno degli Stati, affinché essi conoscano se non altro una «tregua» ai mali che li affliggono, esso indica nella necessità della discesa nella caverna un dovere irrinunciabile per colui che abbia ricevuto la migliore paidéia.
Infine, in quanto illustra la peculiarità dello sguardo, il mito platonico - ripreso anche nel romanzo del Nobel portoghese José Saramago La caverna (Einaudi, 2000) oltre che in varie opere cinematografiche di successo - consente di comprendere che non può esservi visione che non sia accompagnata dall’accecamento. Che mai, in nessun caso, è possibile godere di uno sguardo che non sia in qualche modo offuscato dal persistere delle ombre. Che mai è concesso andare oltre un incerto chiaroscuro, per cogliere compiutamente la luce. Che mai a nessuno di noi può accadere di uscire per sempre dalla caverna da cui proveniamo, e nella quale dobbiamo comunque ritornare, per cercare in essa, nel conflitto originario con gli altri come noi, di rintracciare una strada da percorrere, forse al riparo da irrimediabili cadute, ma anche senza illusioni di compiuta salvezza.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
HANS BLUMENBERG CI SOLLECITA: "USCITE DALLA CAVERNA"!
Nella sua ultima grande opera pubblicata in vita, la più completa storia della ricezione del mito platonico, da Aristotele a Wittgenstein.
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
Federico La Sala
FILOSOFIA E SCIENZA. Cosmologia e Fisica delle particelle....
Fabiola Gianotti, il bosone Higgs è una porta verso il futuro
Particella straordinaria, capaci di portare a una nuova fisica
di Redazione ANSA *
Sono in arrivo risultati interessantissimi per la fisica, grazie alla straordinaria quantità di dati che sta producendo l’acceleratore di particelle più grande del mondo, il Large Hadron Collider (Lhc) del Cern di Ginevra. E’ entusiasta, Fabiola Gianotti, la prima donna che nel gennaio 2016 è salita alla direzione del Cern e "bellissimo" è il termine con cui descrive quanto sta accadendo nella fisica, con i dati che ogni giorno arrivano più numerosi. "E’ una soddisfazione vedere una macchina capace di spingersi al di là dei suoi limiti", ha detto Gianotti all’ANSA riferendosi all’intensità raggiunta dai fasci che scorrono e collidono all’interno dell’acceleratore, "del 50% superiore a quella prevista dal progetto".
In questi giorni il direttore generale del Cern è a Venezia per la conferenza internazionale della Società Europea di Fisica (Eps), organizzata da Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn) e università di Padova. Almeno un migliaio i fisici arrivati da tutto il mondo per conoscere gli ultimi risultati prodotti dall’acceleratore Lhc e i dati che rendono sempre più preciso il ritratto del bosone di Higgs, la particella grazie alla quale esiste la massa e la cui scoperta era stata annunciata nel 2012 come la tessera che confermava la teoria di riferimento della fisica, il Modello Standard. Questa stessa particella potrebbe mostrare qualcosa di radicalmente nuovo.
"Il bosone di Higgs è una particella molto speciale: potrebbe essere una porta verso una nuova fisica", ha detto Gianotti, che all’epoca della scoperta era a capo di uno dei due esperimenti che l’hanno vista, Atlas. Il Modello Standard descrive nei dettagli tutti i possibili modi con cui il bosone di Higgs può accoppiarsi con altre particelle, "e proprio per questo l’osservazione sperimentale di una deviazione, anche piccola, rispetto a quanto prevede la teoria, potrebbe fornire l’evidenza di una nuova fisica".
Continuare a studiare il bosone di Higgs è quindi "un grande capitolo delle ricerche in corso al Cern - ha rilevato - e l’altro grande capitolo sono le domande ancora aperte", sull’asimmetria fra materia e antimateria, la natura della materia oscura, ossia la materia invisibile e misteriosa che costituisce circa il 25% dell’universo, e lo stato della materia primordiale (il cosiddetto plasma di quark e gluoni) prodotto subito dopo il Big Bang.
In questo momento così entusiasmante per la fisica, essere a capo del Cern, spiega, "è un lavoro bellissimo", un nuovo punto di vista da cui si ha "uno sguardo globale" che abbraccia "eccellenza della ricerca, innovazione tecnologica, formazione promozione dei giovani" e una "collaborazione internazionale che comprende ricercatori di tutto il mondo, all’insegna della pace". Una realtà quella del Cern, nella quale l’Italia ha avuto e continua ad avere "un ruolo fondamentale" attraverso l’Infn e le università collegate. Basti pensare che, sui 13.000 ricercatori del Cern gli italiani sono 2.000".
Come direttore generale del Cern, infine, per Fabiola Gianotti il tempo libero è ancora meno che in passato, con poco spazio da dedicare alla sua passione di sempre, la musica, e poi allo sport: correre, nuotare e soprattutto la montagna. "Non c’e’ niente di più gratificante che imparare qualcosa di nuovo, e - ha concluso - grazie al mio lavoro questo mi succede ogni giorno".
"X"- FILOSOFIA. LA FIGURA DEL "CHI": IL NUOVO PARADIGMA
“Così capiamo la forza che lega insieme l’Universo”
di Nicla Pancera (La Stampa, 07.07.2017)
«Non era mai stata osservata sperimentalmente, ma sapevamo che prima o poi l’avremmo trovata, perché la sua esistenza era prevista dalle teorie attuali». È orgoglioso Alessandro Cardini,responsabile dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare dell’esperimento LHCb, uno dei quattro montati sul l Large Hadron Collider del CERN (gli altri sono ATLAS, ALICE e CMS) che ha osservato la nuova particella, chiamata X_cc^(++) (Xicc++) la cui peculiarità è quella di essere composta da due quark charm, pesanti, e da un quark leggero, e di essere quindi molto pesante, quattro volte più del protone. «Protoni e neutroni sono composti da tre quark, di cui solo uno pesante, ma le teorie fisiche prevedevano da tempo la possibilità di ottenere particelle formate da più quark pesanti».
Come è nata la vostra scoperta?
«Dal 2015 a oggi, nel corso del secondo periodo di funzionamento di LHC, il Run2, abbiamo osservato 300 particelle Xicc++ e un altro centinaio sono state riconosciute a posteriori negli esperimenti del Run1».
Finora ci avevano già provato, senza successo, altri esperimenti, come «BaBar» in California e «Belle» in Giappone.
«Anche al CERN, quindici anni fa, sembrò di avere visto qualcosa, ma le conferme non erano mai arrivate».
Come mai era così difficile?
«Capita spesso che fluttuazioni statistiche vengano interpretate come prova dell’esistenza di quanto si sta cercando. Solo dettagliate misurazioni spettroscopiche possono dire con certezza cosa abbiamo davanti».
Quindi, pur non essendo una vera e propria new entry nello zoo delle particelle, Xicc++ è motivo di grande orgoglio per i ricercatori. Vederla è stato possibile solo adesso. Perché?
«Grazie a una grande capacità degli strumenti di identificazione delle particelle e alla potenza dell’acceleratore, di 13 TeV, che ci ha consentito di acquisire dati di una purezza particolare».
«Trovare un barione con due quark pesanti è di grande interesse - aggiunge Giovanni Passaleva, il nuovo coordinatore della collaborazione LHCb - Perché può fornire uno strumento unico per approfondire la cromodinamica quantistica, la teoria che descrive l’interazione forte, una delle quattro forze fondamentali», cioè quella, ancora misteriosa, che tiene unite le particelle al nucleo atomico.
I ricercatori sono già al lavoro per misurare i meccanismi di produzione e di decadimento e la durata di vita della nuova particella. La speranza è che poterla vedere «nascere» e «morire» porti verso una maggior comprensione delle regole che creano la materia dell’Universo.
La “Particella Xi”
Ecco che cosa unisce la materia
Inseguita da anni, l’ha trovata il Cern grazie al Large Hadron Collider Servirà per capire una delle forze fondamentali della natura
di Piero Bianucci (La Stampa, 07.07.2017)
L’anagrafe del mondo subnucleare registra una nuova particella, annunciata ieri a Venezia in apertura del convegno della Società Europea di Fisica. Si chiama Xi ed è esotica rispetto alla materia di cui siamo fatti. Mentre tutto il mondo che conosciamo è costruito con due tipi di quark leggeri, Up e Down, la particella Xi è costituita da due quark più pesanti, chiamati Charm, e da uno «normale», un quark Up. La cosa eccitante per i fisici è che mai finora due quark Charm erano stati osservati insieme. Singolare è anche l’assetto delle tre particelle che formano la Xi: i due quark Charm stanno al centro come un minuscolo sole e il quark Up gira loro intorno come un pianeta.
Nell’insieme, Xi è una particella alquanto massiccia. Pesa 3,6 GeV, cioè quasi 4 volte un protone. Ora i fisici cercheranno di produrre un grande numero di Xi per osservarne il comportamento e comprendere meglio i meccanismi dell’interazione forte, cioè la forza che regola i rapporti tra adroni, nome collettivo che si dà alle particelle pesanti. E poiché l’estremamente piccolo e l’estremamente grande dipendono strettamente l’uno dall’altro, alla fine potrà uscirne una migliore conoscenza dell’evoluzione stessa dell’universo.
La scoperta di Xi è interessante ma non rivoluzionaria. Anzi, l’esistenza di questa particella era prevista dalla teoria del Modello Standard e c’erano già indizi della sua esistenza. Non siamo dunque di fronte a una nuova fisica ma piuttosto a una conferma. L’importanza di Xi sta nelle possibilità di indagine che apre ad una sempre più robusta definizione del Modello.
L’osservazione di Xi è frutto di uno dei grandi esperimenti distribuiti lungo il gigantesco collider LHC del Cern di Ginevra, un anello di magneti superconduttori lungo 27 chilometri nel quale vengono fatti scontrare protoni che corrono in direzioni opposte a una velocità vicina a quella della luce. L’energia delle collisioni è la massima mai raggiunta in un laboratorio: LHC lavora a 14 TeV, cioè 14mila miliardi di elettronvolt. Per farsi un’idea di che cosa significa, l’energia in gioco nella vita quotidiana, per esempio quella dei fotoni della luce solare, è dell’ordine di un elettronvolt. A 14 TeV si ricreano le condizioni di energia che esistevano nell’universo miliardesimi di secondo dopo il big bang, un miscuglio di quark, elettroni, neutrini.
I quark previsti dal Modello Standard sono sei: l’ultimo, il quark Top, è stato trovato al Fermilab di Chicago nel 1995. I sei quark possono combinarsi in vari modi, alcuni consentiti e altri proibiti dalle leggi della fisica. Nel mondo ordinario, i nuclei atomici sono costituiti da protoni e neutroni, i quali a loro volta sono combinazioni di quark Up e Down. Solo in un mondo super-energetico compaiono gli altri quattro tipi di quark, le cui combinazioni sono in parte da esplorare. Xi è un passo in questa direzione. Non cambia niente nella nostra vita, non ci sono applicazioni immaginabili. Quello che è si è ottenuto è tassello di conoscenza pura. Il piacere della scoperta per la scoperta.
L’esperimento che ha rivelato Xi è noto tra i fisici come LHCb ed è pensato per indagare su violazioni della simmetria nelle particelle elementari, in particolare la simmetria di carica elettrica e destra/sinistra. Una terza simmetria è quella rispetto al tempo. Nella maggioranza dei casi le simmetrie sono rispettate. Ma sono le rare violazioni ad essere interessanti: si ritiene che una di queste violazioni abbia prodotto la scomparsa dell’antimateria e quindi l’universo che ora ci ospita.
In edicola con il «Corriere» per tutta la settimana, il volume dedicato all’autore della «Repubblica» e alla sua concezione della vita per cui la realtà non è solo materiale
di MAURO BONAZZI (Corriere della Sera, 07.03.2017)
Dare a qualcuno del «platonico»: non c’è insulto peggiore per i filosofi. Aveva cominciato Nietzsche con Leopardi, che pure stimava, e lo stesso aveva detto Heidegger di lui. Per non parlare di quello che di Heidegger, Nietzsche e Platone pensava Popper. Lo ha detto bene Deleuze: il compito della filosofia contemporanea è «rovesciare il platonismo». Niente di nuovo, in fondo, ci aveva già provato Aristotele. A Platone tutto questo avrebbe fatto immenso piacere.
Abituati ai manuali, riduciamo il suo pensiero in una serie di dottrine a volte fantasiose a volte ripugnanti. Intanto, ben nascoste nel «luogo uperuranio», ci sono le idee, questi enti misteriosi che le anime degli uomini contemplano prima di entrare nel corpo - manco fossero caciocavalli appesi in una salumeria, scriveva Antonio Labriola. E poi ci sono le teorie politiche (abolizione della famiglia, eugenetica, divisione della società in classi) che al massimo possono fare la gioia di qualche fanatico.
Se questa è la filosofia di Platone, il compito di «rovesciarla» non sembra improbo - «ti piace vincere facile» verrebbe da dire ai suoi fieri avversari. Perché, allora, siamo ancora lì?
Platone ha parlato in prima persona solo una volta, nella «settima lettera», per dire una cosa sola: chi tenta di rinchiudere il suo pensiero in un sistema non ha capito niente. È così ovvio che troppo spesso lo si dimentica: Platone non ha composto trattati per esporre dottrine, ma dialoghi in cui dei personaggi discutono tra di loro, sollevando domande e dubbi. L’obiettivo è sempre lo stesso: chiedere conto di tutte le convinzioni su cui fondiamo le nostre vite. Magari abbiamo ragione, ma siamo in grado di giustificare le nostre opinioni e le nostre scelte?
Il problema, in fondo, è semplice. Siamo sicuri di sapere cosa è la realtà? O meglio: davvero esiste solo quello che vedo e sento? La sedia sui cui siedo, il giornale che leggo: esistono, certo. Ci sono però tante altre cose che non vedo, ma che posso pensare: esistono? Il numero «tre», il «triangolo»: ci sono solo perché li pensiamo noi o esistono di per sé? Domande cervellotiche, si dirà, tipiche di quei perdigiorno che sono i filosofi. E la giustizia? Esiste? Questa non è una domanda da perdigiorno, forse. La sfida di Platone, intanto, si chiarisce: magari la realtà non è solo quella materiale. Non è un’aggiunta di poco conto, cambierebbe tutto, perché queste cose, chiamiamole idee, sarebbero altro: non occuperebbero uno spazio, non sarebbero nel tempo. Se esiste, dov’è il «tre»? Non certo in un improbabile luogo iperuranio. È qui, ma non come un caciocavallo. E la giustizia?
Se pensiamo a noi stessi, i problemi sono identici. Abbiamo un corpo, occupiamo uno spazio, viviamo nel tempo. Siamo liberi? La domanda sembra fuori luogo, e la risposta comunque scontata: certo che lo siamo. La realtà materiale, però, è regolata secondo leggi di causa ed effetto che svuotano il concetto di libertà. Vale anche per noi: desideri e passioni non sono in nostro controllo, nascono dall’interazione tra i corpi e la realtà. Non sono io che decido di avere sete. La nozione di libertà non ha molto senso, in questo contesto. Magari i nostri pensieri rientrano nello stesso schema, servono a realizzare bisogni e passioni. O forse no e si potrebbe tornare a parlare di autonomia e responsabilità umana? Dunque la nostra identità, ciò che noi siamo, non si risolve nel corpo soltanto?
Arriviamo così alla politica. Evidentemente, se tutto dipende dal corpo, contano solo i bisogni e dunque l’appropriazione delle risorse necessarie per soddisfarli. Il che produce una situazione conflittuale da cui è impossibile uscire. Che sia così è difficile negare, e Platone lo sapeva. Ma è solo così? La Repubblica è il tentativo di mostrare che è tutto più ricco: noi siamo anche altro, la giustizia esiste e dunque è possibile costruire un mondo giusto. Un mondo che possiamo costruire solo se capiremo chi siamo veramente.
Si parla sempre dell’utopia (o della distopia) platonica, ma è esattamente il contrario. Quella di Platone è una filosofia realistica: soltanto, la sua idea di realtà non è quella comunemente intesa. Ma chi ha detto che abbiamo ragione noi?
Si racconta di un contadino di Corinto che, dopo aver letto un suo dialogo, mollò tutto per andare a vivere nell’Accademia. È vero, Platone sostiene sempre tesi sconcertanti, difficili da condividere. Era il primo a saperlo e i suoi scritti sono sempre costruiti in modo da esasperarne la paradossalità. È il bello dei dialoghi: a Platone non piace vincere facile e fa di tutto per presentare le idee degli avversari nel modo migliore. Ma se poi vincesse lui, avremo il coraggio di fare come il contadino di Corinto? Il premio non sarebbe di poco conto, perché si tratta di capire come fare per vivere una vita felice. Anche solo per togliersi il dubbio, una lettura a Platone conviene darla.
La verità, vi prego, sull’eros cercatela nel Simposio
Platone interroga le forme mutevoli dell’amore e la risposta gioca con noi: come l’amore, appunto
di Mauro Bonazzi (Corriere della Sera, 14.10.2016)
Era stata una serata memorabile, di cui si sarebbe parlato a lungo, ad Atene. Alcune delle persone più in vista della città - scrittori, medici, filosofi, retori, politici - si erano ritrovati a casa del poeta Agatone; per tutta la notte avevano discusso dell’amore, l’argomento più bello, la fonte della gioia più intensa e del dolore più cupo, una forza insidiosa che può cambiare il corso di una vita. Tutti volevano sapere, e la curiosità era accresciuta dal poco che trapelava. Correvano voci strane. Sembrava che Socrate si fosse lavato e vestito con eleganza. Addirittura si diceva che gli ospiti avessero deciso di rinunciare al vino e alle flautiste, per discutere meglio. Chissà che bei discorsi erano stati fatti da persone così importanti!
Sono le battute iniziali del Simposio, probabilmente il dialogo più bello di Platone, di sicuro il più celebrato: per la potenza delle immagini, per la bellezza delle descrizioni, per la capacità di sublimare un tema potenzialmente sfuggente come eros . Ma Platone è uno scrittore più complicato di quello che si pensa. Non è mai lineare, è ambiguo, ama nascondersi; solo poche volte si concede ai lettori e sempre in modi inattesi. Con piccoli tocchi di perfidia, ad esempio. I nobili ospiti di Agatone erano voluti rimanere sobri; non avevano voluto le flautiste: perché? Perché la notte prima avevano bevuto come spugne. Un piccolo dettaglio, lasciato cadere in modo quasi casuale. Sufficiente, però, ad allertare l’attenzione del lettore, invitandolo a non prendere per oro colato tutto quello che verrà detto. I discorsi, questo è certo, sono bellissimi, pieni come sono di frasi, descrizioni e immagini che entreranno nell’immaginario occidentale (la distinzione tra Amore celeste e volgare, l’immagine dell’amato come metà perduta, per fare due esempi). Ma fino a che punto queste persone, sobrie e composte solo in apparenza, potranno aiutarci a decifrare l’enigma dell’amore? Dopo aver seminato il dubbio, Platone è riscomparso. Gioca a nascondino con il lettore. Per stanarlo occorre accettare la sua sfida e leggere con occhi vigili.
Perché si dica qualcosa di serio - l’amore è una cosa seria - bisognerà però aspettare un poeta comico, Aristofane, con la sua strampalata ricostruzione di cosa sono gli uomini. Crediamo di essere sempre stati come siamo ora, ma non è così: in realtà eravamo delle sfere composte da due persone, con quattro gambe quattro braccia due volti. Troppo belli e perfetti, però, avevamo peccato contro gli dèi, che per punizione ci avevano divisi in due. Ecco perché l’amore e il sesso sono così importanti, spiega Aristofane: sono l’unico modo che ci resta per recuperare l’unità perduta.
I discorsi precedenti erano stati tutti solenni e seri. Aristofane racconta una storia divertente, leggera, facile da seguire. Il lettore abbassa la guardia, pensa che per qualche pagina potrà riposarsi, prima di tornare alle discussioni impegnative: del resto, cosa c’entrano questi esseri bizzarri con noi? E invece c’entrano, e pure tanto: c’è qualcuno che può dire di non aver provato dentro di sé un senso di mancanza? Che può dirsi perfettamente sereno e appagato, senza inquietudini? Sono forse esseri perfetti gli esseri umani? La storia di Aristofane parla di questo, e ci mette davanti a quel che siamo: esseri incompleti, noi siamo desiderio. Parlare di amore è un modo per parlare di noi. Il problema sarà capire cosa cerchiamo.
Tutto si complica: ma complicandosi le cose si chiariscono, e i problemi vengono finalmente affrontati. Si chiarisce ad esempio perché eros può avere una forza distruttiva. Crediamo di poterci liberare delle pene d’amore conquistando e facendo nostro l’amato. Ma questa è l’origine di tutti i mali, perché trasformiamo una persona in una cosa, lo riduciamo a oggetto: e dalla gelosia alla violenza la strada è breve. Per nostra fortuna, però, amore è anche altro.
È la lezione di Diotima, la misteriosa sacerdotessa che aveva introdotto Socrate ai misteri di amore. Eros è l’impulso che ci spinge a cercare le cose belle, ma le cose belle non possono essere possedute, scivolano via come acqua tra le dita. Il vero amore, il vero desiderio, è altro, molto più che il semplice istinto a possedere. Eros è fare e creare nella bellezza; è dare realtà a ciò che è bello: è procreare. Fare figli non è forse un’azione che risulta dall’unione nel bello? Eros è lo stimolo che ci insegna a riconoscere il bello che è intorno a noi; ed è la forza che ci spinge ad agire, a costruire, a lasciare traccia di noi in un mondo in cui tutto scorre senza un senso apparente. È la forza che opponiamo al potere distruttore della morte. Improvvisamente il discorso tocca vertici inattesi: pensavamo di parlare solo dell’amore sensuale e invece abbiamo scoperto la potenza del desiderio: che noi siamo desiderio e che questo desiderio ci può regalare una vita felice. Sempre discreto, Platone non delude il lettore che lo ha seguito.
Le sorprese non sono ancora finite. Di colpo cambia tutto. Ubriaco fradicio, irrompe nella sala del banchetto, con il suo carico di passioni ed emozioni, Alcibiade: il più bello, il più potente, il più desiderato di Atene, che dissiperà tutto in una vita di ambizioni frustrate e tradimenti (è «la sensualità delle vite disperate»: solo Paolo Conte può spiegare cosa è stato il fascino di Alcibiade per gli Ateniesi). Provocato, accetta di tenere un discorso, minacciando rivelazioni incredibili sulla sua storia d’amore con Socrate. Ed ecco l’ultimo, e più paradossale, scherzo di Platone.
Alcibiade non ha partecipato alla serata, non sa nulla di quello che è stato detto. Eppure, senza che lui se ne renda conto, le sue parole riprendono i discorsi precedenti, e ce li mostrano in una prospettiva diversa. Tutto viene rimesso in discussione, niente è più certo. Ma quale è il significato del Simposio, allora, il suo insegnamento? Platone tace, si è nascosto di nuovo.
E al lettore non resta allora che riprendere la lettura da capo, in cerca dei messaggi, che erano già lì anche se non erano stati colti (non potevamo, prima di Alcibiade). Può sembrare frustrante e invece sarà appassionante, perché le cose nuove che troveremo ci permetteranno di capire ancora meglio chi siamo e cosa vogliamo - chi sono gli esseri umani e cosa è il desiderio. Di questo tratta il Simposio. C’è qualcosa di più appassionante? Del resto, molto di quello che aveva detto Diotima ancora attende di essere decifrato: quale è il vero legame tra amore, morte ed eternità? Socrate questo non era riuscito a capirlo... Sembra tutto chiaro nei dialoghi platonici. Quando finalmente si capisce che così non è, si è pronti per leggerli.
Classici antichi, un viaggio infinito
di Franco Manzoni (Corriere della Sera, 14.10.2016)
Nell’era della globalizzazione e della dispersiva simultaneità di internet i classici greco-latini conservano ancora quell’energia di enigmaticità, segretezza, invenzione. Ciò che li alimenta è il continuo sviluppo delle identità nelle molteplici forme di radici, impronte, tracce, teorie, metafore. E nelle diverse forme offrono modelli di pensiero, a cui rifarsi: una pluralità di concezioni differenti come quelle presenti in Aristotele, Platone, Eschilo, Aristofane, Tucidide, Catullo, Virgilio, Plauto, Tacito, Cicerone.
I classici sono dunque testimoni di poliedriche identità in continua metamorfosi, insofferenti a ogni legge precostituita. In fondo si tratta di prodotti di un’elaborazione collettiva, che rappresentano l’universo sotto forma di miti, ovvero di racconti, i quali tendono a spiegare le origini e le relazioni naturali fra l’uomo e le cose. Ciò deriva dalla necessità di rendere comprensibile il mistero contenuto nelle varie ritualità. Già nel gruppo di cantori, che passa alla Storia con il nome di Omero, si assiste alla costituzione di un’universalità concreta e non metafisica. Addirittura un poema scientifico è quello costruito da Esiodo nella sua Teogonia.
I classici greco-latini cantano alle Muse, parlano di ricerca della sapienza, insegnano i principi di tutte le leggi per rendere conto ai cittadini della realtà quotidiana. Consapevoli che le forze naturali sono anteriori a qualsiasi divinità e ogni evento viene regolato dalla sorte o destino. Percepire la musica interna, che anima opere come il De amicitia di Cicerone, la Metafisica di Aristotele, il De bello gallico di Cesare o l’ Elettra di Sofocle, significa essere in grado di penetrare nel territorio più interiore del mistero, che corrisponde all’intuizione del sapere. Dimenticare i classici greco-latini significherebbe per gli italiani e per tutti gli abitanti dei Paesi occidentali non capire più chi siamo.
Il problema non è se i classici sono attuali, semmai se lo siamo noi rispetto a loro. Leggere, invece, gli autori del passato aiuta a recuperare la consapevolezza di un destino comune al genere umano, ad acquisire il senso della continuità, della pluralità e della ricchezza. Importante riflessione sulla pedagogia contemporanea viene offerta dalla commedia Le nuvole di Aristofane, uno dei testi più noti del teatro antico, anche se spesso dimenticato. È la rappresentazione dello scontro generazionale, del conflitto fra padri e figli, fra giovani e vecchi, fra tradizione e innovazione con il personaggio Socrate come bersaglio da ridicolizzare. È naturale che in modo dissacrante Aristofane intenda colpire Socrate, colpevole secondo lui di rovinare i giovani con una pedagogia utopica, trasgressiva, priva degli antichi valori e fuori da ogni realismo quotidiano. Nel De rerum natura Lucrezio ritiene di fare scienza, esponendo la dottrina di Epicuro per un fine di salvezza. Tuttavia riesce a dare corpo a un poema certamente tutto fisico e astrofisico, ma che seduce come una musica, un monumento di bellezza sonora che illumina il buio dell’ignoranza.
La forza del latino e del greco antico sta proprio nel sapere che riescono a trasmettere. Così l’impossibilità di utilizzare l’acquisizione a un uso immediato può creare la passione per lo studio disinteressato, educa e allena a quella ricerca fine a se stessa, origine di ogni grande conquista scientifica. Inoltre la civiltà classica costituisce un modello storico e culturale imprescindibile, una fonte perenne di valori umani insostituibili.
Virgilio, Epicuro, Plauto, Euripide esercitano un’influenza particolare nel lettore quando s’impongono come indimenticabili oppure quando si nascondono nelle pieghe della memoria, mimetizzandosi da inconscio collettivo o individuale. Tant’è vero che ogni rilettura - sia in lingua originale sia in traduzione - corrisponde sempre a una lettura di scoperta, quasi fosse la prima volta, con gli eventuali riverberi sugli autori successivi.
Se affronto l’ Odissea , leggo il testo d’Omero ma non posso dimenticare tutto quello che le avventure d’Ulisse sono venute a significare durante i secoli, da Dante a Pascoli, Gozzano, D’Annunzio, da Joyce a Saba, Pavese, Seferis. Neppure posso non domandarmi se questi significati fossero impliciti nel testo o se siano incrostazioni, deformazioni, dilatazioni, ricreazioni. Lo stesso dicasi per Eschilo e il suo Prometeo incatenato, il titano colpevole di aver donato il fuoco agli uomini.
Nella lettura della tragedia subito viene da pensare alle musiche di Beethoven, Liszt, Scrjabin, Orff, Luigi Nono. Oppure all’interpretazione della sua iconografia delineata da artisti visivi come Piero di Cosimo, Heinrich Friedrich Füger, Nicolas-Sébastien Adam, Jan Cossiers, Arno Breker. E in letteratura al mito di Prometeo trattato da Goethe a Hugo von Hofmannsthal, da Caldéron de la Barca a Carl Spitteler, André Gide, al romanzo Frankenstein, o il Prometeo moderno di Mary Wollstonecraft Shelley.
In sostanza tutte le opere greche o latine hanno influenzato gli artisti successivi. Questo dovrebbe portare a compiere riflessioni sull’importanza di conoscere la letteratura antica. Pensare di farne a meno è sin troppo facile. Rimarrà un vuoto enorme nel nostro sapere, che non potremo mai colmare. La lettura dei lirici greci, di Catullo, Platone, Orazio, è uno degli strumenti più semplici che consente di comprendere ciò che è stato. Di certo il massimo rendimento della lettura dei classici greco-latini sta nel riuscire ad alternarla con sapiente dosaggio con quella dei quotidiani. Si possono affrontare Euripide o Petronio avendo come sottofondo lo sferragliare delle tramvie o il traffico più caotico.
Non si tratta di una contraddizione rispetto al nostro ritmo di vita che, è vero, non conosce più i tempi lunghi, il respiro dell’ otium umanistico. Conoscere il passato oggi è fondamentale per avere un presente e un possibile futuro. Occorre semplicemente un piccolo sforzo di concentrazione, dare sfogo alla lettura con la mente libera e si riuscirà a (ri)scoprire l’etica e il pensiero dei greci e dei latini nel loro contesto storico.
DIALOGHI
Le lettere di Winckelmann, il tedesco padre dei greci
Maria Fancelli ha curato per l’Istituto Italiano di Studi Germanici i tre volumi delle «Lettere» di Winckelmann: la rete di relazioni per il fondatore del mito della classicità
di CLAUDIO MAGRIS (Corriere della Sera, 22.09.2016)
«È grigia qualunque teoria, ma verde è l’albero della vita», dice nel Faust Mefistofele burlandosi di uno studente che vorrebbe spendere la sua vita fra i libri e gli studi eruditi. Questa contrapposizione tra vita e cultura, nata soprattutto nella Germania dello Sturm und Drang e del Romanticismo, è presto divenuta un diffuso luogo comune, sino all’esaltato vitalismo dilagante tra fine Ottocento e primo Novecento. A essere celebrata è la vita nel suo scorrere, morire e rifiorire come una pianta, ma presto sarà la vitalità ad apparire distruttiva e angosciosa, come un’indomabile radice che affiora squarciando il terreno e devastando la rassicurante casa costruita su quel terreno dall’uomo e dalla sua ragione. Nell’ultimo e più affascinante dei suoi libri, il vecchio Croce è sgomento dinanzi alla «vitalità verde» che sconvolge il classico e solido edificio dei concetti e delle categorie filosofiche.
Quella contrapposizione è seducente ma falsa e pochi la smentiscono come Winckelmann, infaticabile e geniale studioso fondatore di quel mito della grecità, indagato con precisione antiquaria e appassionata partecipazione sensuale, che avrebbe rivoluzionato non solo la storia dell’arte ma in generale lo spirito, il gusto, la sensibilità, lo stile della Germania e dell’Europa. La sua Storia dell’Arte nell’Antichità è una monumentale opera storiografica e un canone di bellezza assoluta, non soggetta ai mutamenti della Storia.
Bellezza della classicità greca - conosciuta da lui peraltro non nei capolavori originali, bensì nelle copie romane - che è modello della bellezza universale umana, perfetta sintesi di «nobile semplicità e serena grandezza». Serenità dell’anima e armonia del corpo rispecchiate dall’insondabile serenità del mare, dalla trasparente lievità dell’acqua non increspata e dalla perfezione del marmo pario. Una minuziosa ricerca erudita e un’inesausta passione vitale, permeata di eros omosessuale, porta Winckelmann a formulare il primato assoluto dell’arte e dunque dell’umanità greca - la perfezione dell’Ercole Farnese, l’Apollo del Belvedere «sopra ogni cosa» - e a vedere nella Germania la nuova Ellade dell’Europa moderna.
Filologia e passione, archivi e biblioteche e sogno del mare ellenico, enorme lavoro a tavolino e una rete di relazioni con personalità di tutto il mondo, che esigono e creano un epistolario ricco come un’enciclopedia e affascinante come un romanzo; anzi che è pure un vero romanzo epistolare, come scrive Maria Fancelli che ha pubblicato, insieme a Joselita Raspi Serra, tre fondamentali volumi di Lettere (1742-1768), in un lavoro di anni.
Lavoro filologico, storico e letterario che rappresenta un evento di eccezionale importanza nella cultura italiana. Edita dall’Istituto Italiano di Studi Germanici, l’eccellente traduzione delle lettere in tedesco - molte Winckelmann le scrisse in italiano - è dovuta a Bianca Maria Bornmann, Barbara Di Noi, Paolo Scotini, Francesca Spadini e Delphina Fabbrini, col coordinamento di Fabrizio Cambi.
Per realizzare quest’opera, di una ricchezza culturale e di una chiarezza classica degne del grande autore studiato, è sceso dunque in campo uno Stato maggiore della germanistica italiana. Maria Fancelli, formatasi alla grande scuola fiorentina di Vittorio Santoli da lei originalmente proseguita, è autrice di studi fondamentali (per esempio In nome del classico, 1979; Il secolo d’oro della drammaturgia tedesca; l’edizione italiana del Werther).
I suoi saggi - su Goethe, Kleist, Heine, Stifter o Benn - e la sua ventennale direzione di una notevolissima collana di classici tedeschi per l’editore Marsilio e il suo impegnato e creativo insegnamento le hanno valso una laurea ad honorem presso l’Università di Bonn, che ha premiato una singolare simbiosi di rigore filologico e originale e generosa intelligenza critica, una sanguigna e fresca comprensione delle cose e delle persone e una innovativa attività di scambio culturale che coinvolge Italia, Germania e Francia.
Joselita Raspi Serra, storica dell’arte allieva del grande Cesare Brandi, ha curato tra l’altro l’edizione in quattro volumi Il primo incontro di Winckelmann con le collezioni romane (2002-2005) e ha scritto il saggio La Fortuna di Paestum e la memoria moderna del Dorico 1750-1830, importante per la comprensione di quel mito dorico così presente e talora inquietante nella cultura tedesca.
Come nasce - chiedo a Maria Fancelli - l’idea di questa edizione? Cosa significano queste lettere per un lettore di oggi?
Maria Fancelli - A parte l’occasione del duplice giubileo di Winckelmann, la nascita a Stendal e la tragica morte a Trieste, l’idea nasce anzitutto per rendere accessibile agli italiani un’opera che è insieme un grandioso affresco culturale sovranazionale e un appassionante romanzo di vita vissuta, uno spaccato di grande storia europea e italiana, in cui sfilano protagonisti dell’arte, della cultura e della politica di vari Paesi, vicende di danaro, di passione, di accorta diplomazia, di indomabile entusiasmo, mentre grazie a Winckelmann, alle verità e alle menzogne della sua vita, nasce una nuova storia dell’arte e un nuovo senso dell’arte e nasce una nuova Germania, rinnovatrice ed erede della civiltà e dell’arte greca.
Uno dei grandi libri che hanno indagato questo binomio di Grecità ed Età di Goethe - come dice il titolo, Griechentum und Goethezeit - l’ha scritto non a caso il grande germanista che ha curato la prima edizione di queste Lettere di Winckelmann, Walther Rehm, che del resto tu hai conosciuto e frequentato...
Claudio Magris - Sì, quando studiavo a Freiburg im Breisgau, in quei semestri 1962-63 che sono stati fondanti per il mio percorso germanistico, ho seguito in modo particolare le lezioni di Walther Rehm, anche perché il mio Maestro Lionello Vincenti, che era suo amico, mi aveva per così dire un po’ affidato a lui. E Rehm - credo fosse il suo ultimo anno di insegnamento - parlava proprio di Grecità e Germania goethiana, riprendendo e rinnovando i suoi antichi studi. È stata per me un’esperienza molto importante, in quella piccola vivacissima Freiburg nella Selva Nera, in cui c’erano anche Heidegger e ogni tanto compariva Celan, che però non ho mai visto, nonostante fossi legato a un altro germanista, più giovane, Gerhart Baumann, che era molto vicino a quella cultura così radicalmente diversa da quella classica. Ma è a Freiburg che, per così dire, ho incontrato la classicità tedesca e anche Winckelmann. Ma Winckelmann fonda forse non tanto il Classico, la Classicità tedesca, quanto il Neoclassicismo - che differenza c’è tra i due?
Maria Fancelli - La nozione di Classico è estesa e antica, ha molte variazioni di senso e spesso si definisce per opposizione (classico-romantico), è difficile da definire sinteticamente, e lo stesso vale per Neoclassico. Comunque, classico è ciò che è divenuto esemplare, che è riconosciuto quale modello e che dispiega la sua esemplarità nel corso delle generazioni e della lunga durata. Questo termine raggiunge il suo massimo potenziale a metà Settecento, quando classico diventa idea portante di un progetto, aspirazione a un sapere organico e unitario, mito fondativo del nuovo.
Classico indica l’esemplarità del mondo greco nella sua fase più alta ma anche la potenzialità più autentica e più duratura del moderno. Classico per eccellenza è il prodigioso decennio della collaborazione tra Goethe e Schiller (1795-1805), straordinario cantiere della modernità. Neoclassico indica piuttosto movimenti definibili in senso temporale e spaziale, legati a un’epoca o a un periodo storico nel quale si torna a sentire l’esemplarità dei valori etici, formali ed estetici del Classico, il bisogno del decoro e della misura. Epoche in cui le speranze del rinnovamento politico paiono meno forti e prevale il ritorno a modelli antichi più imitati che ricreati, forme levigate e nobili, Antonio Canova, il Foscolo de Le grazie.
Claudio Magris - Forse Winckelmann è il padre di entrambi, classico e neoclassico... Nei mesi trascorsi a Firenze tra il 1758 e il 1759, si è occupato pure di arte etrusca, come testimonia la mostra in corso (fino al 30 gennaio 2017) al Salone del Nibbio del Museo Archeologico di Firenze, curata da Giovannangelo Camporeale e Stefano Bruni. Quale significato ha questa sua esperienza nella sua vita e nella sua opera?
Maria Fancelli - La mostra lascerà un segno nel campo degli studi winckelmanniani e, quel che più conta, susciterà domande e nuove ricerche: sulla malinconia degli Etruschi, sulla linea che lega gli Etruschi all’arte di Michelangelo. Lo dimostra il prestigioso catalogo uscito in versione italiana e tedesca a cura di Barbara Arbeid, Stefano Bruni e Mario Iozzo per l’Ets di Pisa. Pur affascinato dagli Etruschi, che comunque conosceva solo in parte, Winckelmann scrive che alla loro arte mancava «la grazia», un concetto chiave del Neoclassicismo. Sì, forse Winckelmann è stato il padre del Classico e del Neoclassico, ma è stato soprattutto il fondatore di quell’età che sarà detta classica per eccellenza e che altri renderanno, per sempre, «esemplare», da Goethe a Schiller a Hölderlin. Una classicità non certo levigata ma vitale, inquietante, anche esplosiva.
Evoluzione, concorrenza, amore, migrazioni... Da venerdì a Modena, Carpi e Sassuolo l’agonismo è al centro di lezioni, show, mostre
La natura della competizione
“Nelle cose umane e non umane, il divenire altro non è forse invadere, quindi sopprimere l’altro?”, si chiede Emanuele Severino
“Fin dall’infanzia lottiamo contro noi stessi per vincere l’egoismo e accettare la sofferenza”, dice Remo Bodei
di Laura Montanari (la Repubblica, 11.09.2016)
Diciamo agonismo e pensiamo a un campo di calcio, a una pista di atletica, a una competizione sportiva. In realtà il pensiero della gara ha estensioni più ampie se lo caliamo nel quotidiano e pervade non soltanto la vita delle persone nelle corse sul lavoro o nella carriera, ma il nostro io e la collettività nelle mutazioni che l’etá e i tempi ci impongono. È un tema, l’agonismo, che si presta a molte articolazioni, per questo è stato scelto dal Festival della Filosofia per tessere la oramai tradizionale tre giorni di incontri, lezioni, letture, spettacoli, mostre, percorsi gastronomici che si terranno dal 16 al 18 settembre fra Modena, Carpi e Sassuolo.
Una forma di agonismo è anche il conflitto, la guerra, il pòlemos greco. Emanuele Severino, docente di Filosofia teoretica all’ateneo di Venezia e all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, interverrà al festival rovesciando le parole di Eraclito, “la guerra è la madre di ogni cosa” per spingersi a dire che è la cosa concepita dal pensiero greco classico come oscillante tra essere e nulla, a diventare la madre di tutti i conflitti e le contraddizioni. “È la cosa che produce la guerra», spiega Severino, «è il modo in cui sin dall’inizio l’uomo intende l’esser cosa che produce ogni guerra. E una cosa è l’uomo, il cibo, la casa, l’albero, la stella, il dio... Sarebbe già un passo innanzi notevole se si riuscisse a far venire il sospetto in chi ascolta che quanto si sta dicendo non è un vuoto fantasticare. La cosa è sempre stata intesa su come trasformarsi, come diventare altro da ciò che essa è, e come un esser diventata da altro. Ma nelle cose umane e in quelle non umane, il diventare altro non è forse invadere e quindi sopprimere l’altro? Non è forse la forma più radicale di guerra?».
Il senso dell’essere, spiega Severino, sta alle radici delle guerre del nostro tempo, e allora ecco che il viaggio dei filosofi al Festival offre le chiavi o gli interrogativi per affrontare questioni politiche, come fa per esempio Roberto Esposito, docente alla Scuola Normale di Pisa, che terrà un intervento sulla crisi biopolitica dell’Europa. «La crisi economica degli ultimi anni è diventata biopolitica nel senso che impatta fortemente con la vita delle persone», sostiene l’autore del saggio pubblicato da Einaudi Da fuori. Una filosofia per l’Europa. «Pensiamo soltanto alla questione dei migranti che minaccia di cambiare antropologicamente l’Europa o al terrorismo che provoca lutti e distruzioni con i corpi che si fanno esplodere. Viviamo in un momento di paure e insicurezze ». Come ne possiamo uscire? «Con misure urgenti che trasformino l’Unione Europea in un vero soggetto politico e non soltanto economico», risponde il filosofo, «definendo i confini esterni, lavorando all’integrazione delle norme giuridiche, alla riforma delle polizie, trovando un lessico comune per istituzioni e sistemi giuridici».
Il Festival della Filosofia, finanziato dalla Regione Emilia Romagna, da Confindustria e Camera di Commercio di Modena, dal Gruppo Hera, dall’Ente Cassa di Risparmio di Modena e dal Consorzio di enti e istituzioni creato apposta, compie sedici anni: è diventato il primo evento in Europa dedicato in senso stretto alla filosofia. Studenti e giovani rappresentano oltre il 25% del pubblico la cui età media si attesta intorno ai 44 anni (il 60% sono laureati). Si affronterà il tema dell’agonismo con riflessioni che cercheranno di riformulare la tensione tra competizione e collaborazione indagando tanto le valenze della concorrenza economica quanto «il valore positivo che il conflitto può rivestire nella vita delle democrazie», spiegano gli organizzatori.
Lungo l’elenco dei relatori, selezionati fra i nomi importanti del panorama nazionale e internazionale, da Zygmunt Bauman a Jean-Luc Nancy, da Stefano Zamagni a Umberto Galimberti, Massimo Cacciari, Giacomo Marramao, Michela Marzano, Marc Augé, Peter Sloterdijk, Enzo Bianchi, Mario Vegetti, Stefano Rodotà e altri, compresi giornalisti, attori, scienziati.
«Sì, anche scienziati », spiega Michelina Borsari, direttore della manifestazione, «perché il Festival è una piattaforma sulla quale intervengono le varie voci del presente. Discuteremo del pòlemos calato nel contesto astrofisico delle collisioni cosmiche come la fusione di due buchi neri capaci di ingenerare increspature nello spazio che lasciano come tracce le onde gravitazionali». Ne parleranno Paola Puppo e Fulvio Ricci, l’équipe dell’Istituto di Fisica Nucleare che ha collaborato con la statunitense Ligo proprio sulle onde gravitazionali. «Ma avremo anche spazio per discutere del corpo nello sport con un grande sociologo per la prima volta ospite del Festival, George Vigarello, direttore dell’École des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi; e un altro volto al debutto, Jean Noel Missa, membro del comitato belga di Bioetica, che affronterà il tema del doping. E ancora, c’è l’aspetto biologico legato alla lotta per la vita con l’intervento di Telmo Pievani che parlerà sul carattere casuale e contingente della selezione. E poi ci saranno, fra gli altri, Enrico Alleva e Vittorio Gallese, uno degli scopritori dei neuroni specchio».
Al direttore del Comitato scientifico del Festival Remo Bodei (docente alla Ucla, l’Università della California) è affidata la lectio magistralis sul “Vincere contro se stessi” (venerdì 16, ore 18, in piazza Grande, Modena): «È una lotta che ciascuno di noi conduce fin dall’infanzia per superare ostacoli e difficoltà, per vincere gli impulsi e le tendenze egoistiche, per sottoporsi alla disciplina e saper anche accettare le sofferenze », sintetizza. È l’addio all’etá dell’innocenza, l’elaborazione dei desideri, quel crescere che ci costringe - prima o poi - a misurare la distanza fra aspirazioni e vita quotidiana.
Le due figure sono accomunate da una prospettiva della visione del mondo concessa solo a loro
di Raffaele K. Salinari (il manifesto, 10.09.2016)
Polifemo, figlio di Poseidone, viene sconfitto dall’eroe Odisseo con un gesto cruento: accecando il suo unico occhio. Tre millenni dopo un altro eroe ricorderà il Ciclope osservando la Terra, Gaia, in tutto il suo splendore attraverso l’occhio dell’oblò di una navicella spaziale. Due storie, un solo mitologema: l’essere dell’antichità mitologica ed il rappresentante della mitologia moderna si ritrovano accomunati nella visione del Mondo attraverso una prospettiva che solo a loro era concessa; Polifemo e Gagarin condividono lo stesso sguardo.
Ulisse e la sua Metis
Nessun altro all’infuori del politropos Ulisse, l’uomo della metis umana - l’intelligenza accorta ma anche l’inganno, la cui ipostasi sul piano divino è Atena - poteva concepire ed eseguire un atto così significativo del passaggio tra le vecchie Potenze telluriche femminili, generate dalla Grande Madre Gea, ed i nuovi dei olimpici dominati dal patriarca Zeus. Ciclope significa «dall’occhio circolare», come quello dell’obiettivo di una macchina fotografica, piantato nel bel mezzo della fronte a dargli una visione perspicua. Ciò che Ulisse vuole accecare è dunque proprio lo sguardo arcaico di Polifemo, la pupilla che coglie ancora la luce di un Mondo dominato dalle Potenze legate alla ciclicità dell’esistenza, nate dall’auctoritas di Gaia.
Come ci ricorda M. Detienne nel suo Le astuzie dell’intelligenza nell’antica Grecia, Metis era in origine una oceanina sposata da Zeus in prime nozze come potente alleata nella lotta che lo condusse al trono. Esiodo, nella Teogonia, ci narra a proposito di Metis come: «Zeus re degli dei per prima fece sua sposa Metis, che moltissime cose conosce tra gli dei e gli uomini mortali. Ma quando lei stava la dea Atena occhio azzurro per partorire, allora ingannatone il cuore con un tranello con parole insinuanti la pose giù nel ventre».
Il Cronide ha dunque assimilato la dea, cosi ci dice Esiodo, poiché senza la sua metis non avrebbe potuto vincere la lotta per il potere, né tantomeno mantenerlo. Sul piano umano la metis di Ulisse consentirà all’eroe di vincere la guerra di Troia e di fare infine ritorno ad Itaca, ma al prezzo, tra gli altri, di «incatenare» il suo tuffo verso la verità archetipiche espressa dalle Sirene, Potenze femminili legate ad un tempo anteriore all’ordine olimpico.
Si suol dire, come ci ricorda W. Otto, che il mutare dei bisogni dell’esistenza umana è ciò che si esprime nella formazione dell’immagine di Dio. Nella saga omerica le forme della fede e del loro culto presso i Greci sono già fissate, perché provengono da un’epoca ancora più lontana: quella che ci descrive il cantore cieco è allora l’essenza della grecità come anima dell’Occidente. Ulisse è, in questo quadro, l’eroe omerico per eccellenza, il protagonista di una epopea che descrive attraverso il racconto delle sue avventure la visione del mondo che si va affermando, di quell’agire politico e della filosofia che imprimeranno il loro sigillo sino alle Colonne d’Ercole.
Ben lo descrivono in questa sua funzione Adorno ed Horkheimer ne La dialettica dell’illuminismo in cui Odisseo è il prototipo dell’eroe colonialista e proprietario, un sovrano che deve raggiungere il suo regno e vendicarsi degli altri nobili per ristabilire il comando. Ed a questo scopo, che è poi l’essenza della missione che viene supportata attivamente da Atena - nata dalla testa del padre affinché la madre nulla potesse togliere al suo potere - bisogna non solo conquistare Troia e prendere così il comando sulle sue rotte commerciali ma, soprattutto, imporre una nuova prospettiva, un immaginario che sussuma il precedente.
A questo fine è necessario distruggere il vecchio mondo delle Potenze proteiformi legate agli elementi naturali, governato dalla immutabile legge della ciclicità, della nascita, della vita, della morte e della rinascita: il mondo della Grande Madre.
La nascita dell’Occidente è dunque legato alla Grecia antica, ai suoi dei, alla sua filosofia, alla sua politica, ma anche ad una visione imperialista e conquistatrice che poi Roma porterà a potenza. Ed alla base di questo grande esperimento, che l’uomo contemporaneo paga al duro prezzo del disincanto, del non comprendere più le ragioni del Mondo che lo circonda, troviamo la scissione tra mondo dentro e mondo fuori di noi; l’eroe omerico è un conquistatore che deve azzerare prima di tutto dentro di sé il potere delle antiche voci che lo richiamano all’essere tutt’uno con il Mondo perché, al contrario, lo deve dominare estraniandosene. Ecco che gli antichi poteri legati alla Terra divengono una congenere di mostri da uccidere o di ostacoli da superare, in ogni caso non da comprendere ma da dominare.
E allora, l’Odissea celebra questo passaggio tra le antiche divinità legate agli elementi, tutte innervate col cuore stesso delle realtà che rappresentano, impastate di terra e di sangue, custodi, come le Erinni nei confronti di Oreste di quelle regole inviolabili che sanciscono l’ordine naturale ed immutabile delle cose, e un «ordine nuovo» in cui è l’uomo a comandare su di esse, e gli dei sono distanti e distinti perché comunque immortali. Ed anche se il divino è a fondamento di ogni essere ed accadere, e se nessuna azione umana sarà compiuta senza di essi, gli dei al massimo potranno irritarsi perché gli umani vogliono andare al di là dei loro limiti - il terribile peccato della hybris - dato che è il regno olimpico quello che veramente conta per loro.
Walter Otto nel suo Gli dei dell’antica Grecia descrive benissimo questo passaggio generazionale tra una serie di Potenze ed un‘altra, quando chiarisce prima di tutto la natura degli Olimpici dichiarando che essi «sono ben lontani dal voler redimere il mondo ed attirare a loro gli uomini». L’antica fede, quella preomerica, è terrestre e attaccata all’elemento, come l’antica esistenza medesima. Terra, generazione, sangue e morte sono le grandi realtà che dominano tale fede. Le divinità che rappresentano questa concezione del Cosmo e della Vita sono una pluralità, ma convergono tutte verso la Terra, tutte partecipano della vita e della morte. Ciò, evidentemente, le contraddistingue radicalmente dalle divinità olimpiche che non appartengono alla Terra né tantomeno hanno a che fare con la morte, essendo immortali. Questo non significa che esse scompaiano, ma che vengono mantenute nello sfondo, la loro potenza viene lasciata sussistere «in secondo piano». Sono rispettate per quello che ancora rappresentano, ma vinte, come Prometeo nella tragedia di Eschilo: il coro delle Oceanine piange la sua sorte e poi cala con lui nell’abisso.
Ed è proprio dal limite dei limiti, quello della stessa vita umana condannata alla morte nell’ordine delle cose, che l’Occidente vorrà affrancarsi progressivamente. Nietzsche ci ricorda tutto questo ne La nascita della Tragedia quando descrive il passaggio della più sublime forma d’arte, la Tragedia, dal ciclo di Dioniso - l’archetipo della vita indistruttibile - alle vicende umane.
Ulisse e la prospettiva
E dunque su cosa si gioca il conflitto tra Ulisse ed il Ciclope? Sulla prospettiva. L’eroe omerico ha già una visione prospettica moderna del mondo, possiamo dire, mentre il Ciclope lo guarda ancora da una prospettiva arcaica. Che significa? Anche se la storia della pittura ci dice che la prospettiva è stata «scoperta» nel Rinascimento, sappiamo che anche nei tempi antichi gli artisti la conoscevano bene.
Sarebbero stati possibili i templi egizi o le scene che facevano da sfondo alle tragedie classiche se così non fosse? Avrebbe Tolomeo proiettato su una superfice piana la Terra se non l’avesse conosciuta? Solo che, come ci dice Pavel Florenskij nel suo La prospettiva rovesciata, «non la volevano usare». La spiegazione di Florenskij, alla quale rinviamo per mancanza di spazio e perché la sua chiarezza espositivo-argomentativa è da noi irraggiungibile è, in sintesi estrema e rozza, che la prospettiva rinascimentale è una delle tante modalità di visione del mondo, non certo l’unica e che, al contrario di ciò che si suole far credere, deforma la realtà imponendo un punto di vista falsamente realistico che, invece di chiarire la nostra relazione con la mutabile realtà delle cose, con la loro vera essenza, le cristallizza in una istantanea fasulla che le svuota del loro contenuto essenziale, numinoso.
Florenskij contrappone alla visione rinascimentale quella della pittura medioevale, in particolare delle icone bizantine, in cui l’apparente mancanza di prospettiva, o addirittura il suo rovesciamento - cioè dove le cose più lontane sono più grandi di quelle vicine - rende pienamente, secondo lui, a chi sa vedere, la realtà simbolica del divino, costruisce le porte attraverso le quali il credente può trovare la via per il sacro che emana da tutte le cose. E allora, chiosa l’autore de Le Porte regali, lo sfavillante saggio sull’iconostasi, la falsa prospettiva rinascimentale è uno dei dispositivi della modernità, cioè di quella Weltanschauung che scinde l’uomo da se stesso e lo riduce a falso osservatore di una realtà altrettanto artificiosa quanto lo è la sua relazione col Mondo.
E dunque la prospettiva rinascimentale o, meglio, la sua scelta tra le altre, serve per governare il mondo rendendolo artificialmente omogeneo allo sguardo, ne semplifica la complessità non per comprenderlo ed esserne compresi, ma per dominarlo.
Una vera prospettiva, totale, ci dice giustamente Florenskij, sarebbe possibile solo osservando il Mondo da un occhio solo, posto al centro della fronte, come il Ciclope appunto. Ed è per questo che Ulisse lo acceca, forgiando da una albero di ulivo, perché sacro ad Atena, un palo dritto ed acuminato, strumento tecnico che azzererà la visione di Polifemo dimostrando la superiorità della tecnè umana di fronte alle Potenze antiche, tecnè di cui i nuovi dei olimpici sono garanti.
Ogni verso del Canto IX dell’Odissea è un inno a questo sorpasso. Altre cose sono da notare: l’albero di ulivo è storto, come il «legno storto dell’umanità» di cui dice Isaiah Berlin nell’omonimo saggio. Eppure Ulisse ed i suoi uomini, con l’aiuto di Atena cui quel legno è comunque sacro, lo rendono diritto, affermando una capacità di ingegno che, invece, il Ciclope non ha; basti pensare al fatto che non riesce neanche a palpare le pecore sino al ventre per stanare i suoi aggressori in fuga. Altro particolare degno di nota è che solo in questo caso Ulisse va alla ricerca di un pericolo, mentre negli altri Canti è lui a dover salvare i compagni. Significa che questa avventura ha un significato preciso, il cui simbolismo appare chiaro nell’economia dell’opera.
E così, se leggiamo il presente ripercorrendo i significati simbolici del passato, possiamo ben dire che la nostra modernità non è che la continuazione dell’antichità classica con altri mezzi, ad esempio con la centralità del ruolo del danaro, il nuovo dio unico della nascente borghesia, figlia delle signorie rinascimentali. Non a caso il monumento simbolo della modernità borghese, come ci dice Franco Farinelli nella sua Geografia, è il Portico degli Innocenti, in cui per la prima volta il Brunelleschi costruisce un luogo attraverso il quale la prospettiva, la «falsa prospettiva» direbbe Florenskji, si afferma.
Firenze è la patria delle banche, del denaro che foraggia la guerra, ma soprattutto dell’esportazione di questa nuova prospettiva sul Mondo, di una visione proprietaria del globo che attraverso le «scoperte» di quegli anni, prima tra tutte l’America, diventerà il terreno di conquista per chi non solo ha la forza militare, ma disegnerà le carte che ne sanciranno i confini attraverso la geografia politica. Ma conquistatori non lo erano stati forse anche i Greci? E per dominare il Mondo non avevano dovuto anch’essi ridisegnarlo a loro immagine?
Lo sguardo di Gagarin
Ma nel secolo passato, in piena modernità, anzi forse all’inizio di questa sua ultima fase, c’è stato un uomo che ha visto con i suoi occhi ciò che nessun’altro aveva mai visto prima, che ha potuto fare una esperienza unica, irripetibile: la Terra osservata dallo spazio, finalmente tutta intera. Questo uomo è Jury Gagarin, il primo cosmonauta della storia. Lui ha colto Gaia nel suo insieme, nella sua forma reale, dal vivo, dall’alto, in tutto il suo incanto come solo gli dei avevano potuto fare sino a quel momento.
Anche Polifemo, dal suo punto di vista, è il caso di dirlo, vedeva la Terra dall’alto: Omero, infatti, ci dice che era «alto come una montagna», dunque il suo occhio osservava da un luogo elevato che gli consentiva uno sguardo sull’insieme poiché, a quei tempi, da una montagna si dominava tutto il Mondo raggiungibile.
Omero ci dice che l’occhio di Polifemo era tondo, come il Mondo, ma mai nessuno questo Mondo, questa Grande Madre resa splendente dal mantello del suo sposo Urano, come ci narra Ferecide di Siro, l’aveva guardata negli occhi. Gagarin la guarda dall’oblò della Sojuz, la navicella spaziale poco più grande di un bidone di petrolio, e vede ciò che tutti gli altri avevano solo immaginato, poetato, cantato, sognato.
Ulisse aveva addirittura accecato Polifemo per negargli questo sguardo e ridurre il Mondo alla sua dimensione umana. Astolfo si spinge sino alla Luna per recuperare il senno di Orlando, e da lassù guarda la Terra; prima e dopo di lui generazioni di visionari hanno immaginato ciò che Gagarin ha finalmente ammirato.
Dell’impresa del Sovietico si parla sempre in termini scientifico-politici: la corsa allo spazio, la competizione con gli Usa. Ma esiste un aspetto tutto immaginale, psichico, di quel primo viaggio in orbita che ci dice del suo significato simbolico, di quella Odissea nello spazio che cominciava 55 anni or sono, il 12 Aprile del 1961.
Ed infatti, la domanda più incognita era proprio: riuscirà Gagarin a sopportare la visione della Terra vista dallo spazio? La sua mente resisterà ad una immagine che nessun uomo ha mai visto, che non ha luogo se non nel Mundus Imaginalis dell’umanità ma non nella sue esperienza concreta? Ed il cosmonauta sovietico non tradisce le aspettative: da vero eroe fonda un nuovo mito, quello dell’uomo che riesce a comprendere dentro di sé la vastità del Mondo, la sua bellezza senza confini, il suo splendore senza padroni. Così lo descrive guardandolo dall’oblò della capsula, attraverso una prospettiva vera poiché il suo sguardo non solo era canalizzato da un unico punto di osservazione, ma soprattutto perché era come attirato dall’essenza luminosa di Gaia, focalizzato verso il suo invisibile centro simbolico. Nella visione di Gagarin Gaia riprende la sua podestas sullo sguardo degli uomini, il mondo delle Potenze che generarono Polifemo rinasce per un istante nella visione del cosmonauta. Esattamente il contrario di Ulisse.
La forza di queste suggestioni mitologiche è tanto forte che nei voli spaziali, più che in qualunque altra attività umana, ritroviamo i nomi delle antiche divinità: dai vettori come Atlas-Agena ai programmi come Mercurio e Apollo. Ma, anche qui, preponderanti sono le divinità olimpiche, quelle che abbiamo messo al posto di Gaia. La visione di Gagarin, cosmonauta e non astronauta, non conquistatore degli astri dunque ma vagabondo delle stelle, ha brillato forse per una sola orbita, ma grande quanto quella vastità cosmica che un tempo abbracciava l’occhio di Polifemo.
Sentimenti
Il re degli dei divise i corpi degli androgini. Leopardi ci spiega che cosa vuol dire
Da Zeus la formula del desiderio: l’altra metà non ci apparterrà mai
di Ilaria Gaspari (Corriere della Sera, La Lettura, 28.08.2016)
Prendete un foglio di carta e una matita, e provate a disegnare un essere fatto così: un blocco di un pezzo unico, con dorso e fianchi disposti in tondo; quattro mani e quattro braccia, quattro gambe e quattro piedi. Un collo tondeggiante su cui stanno due facce identiche, ma una testa sola. Quattro orecchie, e genitali doppi.
Molto probabilmente concluderete di essere pessimi disegnatori. Eppure è così, secondo quel che Aristofane racconta nel Simposio di Platone, che apparivano gli androgini, le creature più compiute mai concepite. Questi esseri primordiali partecipavano di nome e di fatto della natura del maschio e di quella della femmina; e quando camminavano di fretta, come acrobati saltellavano su tutte le estremità a disposizione, per un totale di otto fra gambe e braccia. L’immaginazione è costretta ad arrancare, quando tentiamo di dare una forma plausibile alla buffa sagoma sferica dell’androgino.
Ma nella goffaggine di questi scarabocchi potrebbe essere nascosta una chiave per capire come funziona il desiderio. Zeus gli androgini li tagliò in due per punire la loro arroganza, come si tagliano le albicocche per fare le marmellate: voleva indebolirli. È in quella mutilazione che nasce il desiderio - nello struggimento di voler essere una cosa sola con chi si ama, e nel sapere che si tratta di una fantasia irrealizzabile. Proprio l’amputazione imposta agli androgini ci permette di immaginarli e capirli: sappiamo figurarci facilmente la camminata di esseri incompleti che cercano la propria metà su due gambe, mentre non sappiamo fare altrettanto con le strane parabole circolari descritte da quelle coppie di individui fusi insieme, che saltellavano su quattro.
Aveva per l’appunto solo due gambe, e due piedi - di cui uno sollevato quasi verticalmente a sfiorare il terreno nella grazia inconsapevole di un passo disegnato nella pietra - la Gradiva di cui si innamora Norbert Hanold, archeologo, in una celebre novella di Wilhelm Jensen scritta nei primi anni del Novecento, che appassionò Freud. Da una lontananza di secoli, l’incedere della ragazza, colto nel dettaglio di quel piede alzato, scatena in Hanold un desiderio prossimo all’ossessione. E non importa che la Gradiva fosse una figura scolpita in un bassorilievo pompeiano; la storia di questo amore impossibile, di questa fantasia dolorosa, ha molto da dire sugli amori fra esseri in carne e ossa.
Marcel Proust, grande mistagogo dei tormenti del desiderio, ha scritto che le attrattive di una qualsiasi passante sono in genere in rapporto diretto con la rapidità del passaggio, con l’intuizione di una vita che non ci appartiene, di cui cogliamo al massimo un bagliore. Perché nasca il desiderio basta un dettaglio insignificante, spesso spiato, se ci colpisce nell’istante che retrospettivamente sarà chiamato il momento giusto: in genere, quando non ci si sente preparati, quando non si sta attenti, quando non si aveva niente da fare.
Non aveva molto da fare, probabilmente, nella Parigi del Secondo Impero, un certo dandy di nome Swann il pomeriggio in cui - racconta Proust nel primo libro della Recherche - un po’ per curiosità e un po’ anche per noia, va a trovare una piccola cocotte con un nome da gran dama che suona falso come un gioiello d’ottone, Odette de Crécy; la vede piegarsi in un gesto noncurante e imbronciato. E mentre lei si china per guardare da vicino un’incisione, lui - che l’aveva già incontrata, e covava un sottile fastidio per le imperfezioni della sua pelle e la sua aria malaticcia - si sorprende a rivedere in lei una somiglianza con la ninfa Sefora in un affresco di Botticelli.
L’istante del colpo di fulmine rimane fissato come una cesura nella memoria di chi lo vive ed è destinato a essere costruito e ricostruito nel ricordo, con tutte le falsificazioni del caso.
Giacomo Leopardi nello Zibaldone lo associa allo spavento che nasce, nel primo concepimento del desiderio, dalla prefigurazione della sua insaziabilità: «E lo spavento viene da questo, che allo spettatore o spettatrice, in quel momento, pare impossibile di star mai più senza quel tale oggetto, e nel tempo stesso gli pare impossibile di possederlo com’ei vorrebbe; (...) perché neppure il possedimento carnale (...) gli parrebbe poter soddisfare e riempere il desiderio ch’egli concepisce di quel tale oggetto; col quale ei vorrebbe diventare una cosa stessa (...); ora ei non vede che questo possa mai essere». E non sarà per caso se nello stesso brano Leopardi riconosce quanto sia profonda la descrizione «scherzevole» che Aristofane fa degli androgini.
È un destino inevitabile, quello prefigurato nello Zibaldone: perché un desiderio completamente appagato non è già più un desiderio. Chi ha visto molte stelle cadenti e per ognuna ha espresso un desiderio sa bene che, quando questo si realizzerà, sarà già cambiato qualcosa in lui, o in lei, rispetto alla notte d’estate in cui ha visto la scia luminosa nel cielo.
Però, molto probabilmente, a ogni nuovo San Lorenzo se lo dimenticherà, e continuerà a esprimere desideri, e a concepirne molti di più di quelli che poi esprime. Il desiderio non conosce il principio dei vasi comunicanti o altri equilibri meccanici di riempimento e svuotamento; il solo fatto di desiderare cambia la persona che desidera e questo può generare grandi delusioni. Lo scrittore americano Truman Capote scelse di intitolare il suo libro di memorie Answered Prayers, da una frase di Teresa d’Avila: «Niente è più tremendo di una preghiera esaudita». Il libro è rimasto incompiuto.
È sempre con il senno di poi che riviviamo l’istante in cui il desiderio si è acceso, portando a conseguenze allora imprevedibili: per questo abbiamo la tentazione - e l’abitudine - di applicare a quello stesso istante un fatalismo che non gli appartiene, di rileggerlo in maniera quasi superstiziosa. Non c’è niente di fatale, invece: un colpo di fulmine non obbedisce a nessuna predestinazione.
È vero, spesso ci si innamora senza farci caso, in un attimo di disattenzione; questo non significa, però, che in quei momenti si sia meno presenti a se stessi. Lo si è, anzi, di più: Swann era più che mai se stesso quando, facendo visita a Odette con la mezza scusa di mostrarle un’incisione che sapeva non interessarla troppo, ritrovava in sé l’occhio del collezionista innamorato di arte rinascimentale. Quando non ci si sovraccarica di aspettative e non si rincorre niente - neppure l’immagine di sé che si vuole mostrare agli altri - è allora che si è più vicini alla propria essenza.
L’attimo in cui intravvediamo distrattamente una vita che non potrà mai appartenerci del tutto - perché non sarebbe più la vita di un altro ma una proiezione della nostra o, nel migliore (peggiore?) dei casi, un suo prolungamento - non è per forza un segno di vulnerabilità, anche se possiamo raccontarcelo così.
È il momento in cui smettiamo di fissare la ferita inferta dal coltello di Zeus e ci accorgiamo della presenza reale di un altro: e proprio lo slancio verso quell’altro ci fa muovere, sulle due gambe che ci restano.
PLATONE E NOI OGGI: COME IL "BENESSERE" DELLA "BUONA VITA" E’ DIVENUTO IL "BENESSERE" DELLA "NUDA VITA"
La parola presente /4
BENESSERE. Equilibrio, ricchezza e salute, così è cambiata la "buona vita".
Se la religione dei corpi riduce l’uomo a merce
di Marino Niola (la Repubblica, 25.07.2016)
Well be or not to be. Benessere o non essere, questo è il problema. Il dilemma del nostro tempo che ha sciolto il dubbio amletico e lo ha trasformato in imperativo cosmetico. Estetico, dietetico, terapeutico. Dopo averne fatto a lungo un mantra economico. Ma in entrambi i casi, sia che si tratti della salute del nostro corpo, sia che si tratti della salute delle nostre finanze, resta il fatto che la parola benessere ormai riguarda sempre più l’avere e sempre meno l’essere.
Con un avvitamento della lingua che riflette una metamorfosi del senso comune e dei suoi valori di riferimento. Che prendono un’accezione sempre più materiale, legando la soddisfazione, l’autostima, l’equilibrio personale, la realizzazione di sé, il proprio riconoscimento da parte degli altri, a qualcosa che si possiede. Fino a poco tempo fa era un reddito soddisfacente, adesso è un corpo efficiente. Un passaggio che nell’inglese è scritto a chiare lettere nella stretta parentela tra wealth, ricchezza, e health, salute. Mentre l’italiano chiama entrambe benessere. Con uno slittamento interno del significato che però non affiora alla superficie del vocabolario. Ne è la prova il fatto che non si sente il bisogno di creare due termini distinti.
In realtà il termine benessere finisce per riepilogare i valori, le aspettative, le proiezioni che in ogni epoca compongono gli algoritmi della buona vita. Per gli antichi si tratta di parametri spirituali, che hanno a che fare poco con la ricchezza, un po’ più con la salute, e molto con l’equilibrio. Che è alla base di una buona disposizione dell’animo. Platone la chiama eufrosine, cioè letizia, che è anche il nome di una delle tre Grazie, divinità dispensatrici di splendore, di bellezza e di prosperità. Peraltro il termine grazia è molto imparentato con la gratuità, il disinteresse, l’armonia, la giustizia. Lo dice il nome greco delle Grazie che è Cariti, da charis che significa dono, un concetto storicamente legato alla nostra idea di carità.
E dunque il benessere non dipende dalla ricchezza. Ancor più chiaro in questo senso è Aristotele, che esclude categoricamente il possesso e il successo. Perché lo star bene degli uomini non consiste semplicemente in un soddisfacimento dei desideri e dei bisogni materiali, ma nel controllo razionale delle passioni e delle pulsioni. Che è condizione dell’equilibrio individuale e dell’equità sociale. Ma il filosofo della catarsi si spinge ancora oltre e, con un ragionamento che oggi definiremmo antiutilitaristico, arriva addirittura a separare la crematistica, la scienza che riguarda l’acquisto e la gestione della ricchezza, dall’economia.
Quest’ultima, infatti, insegna come soddisfare i bisogni primari e vivere bene in mezzo agli altri, mentre la crematistica, che mira a quella che adesso chiameremmo l’accumulazione del capitale, è artificiale e in un certo senso antisociale. Insomma, per l’autore dell’Etica Nicomachea, il benessere è di natura essenzialmente relazionale, nel senso che il rapporto con gli altri costituisce un bene in sé. È il fine e non il mezzo dell’economia.
Una posizione declinata al presente da una filosofa come Marta Nussbaum, non a caso definita neoaristotelica. L’autrice di Non per profitto ritiene infatti che una delle cause del declino attuale della democrazia sia l’utilitarismo spinto all’estremo che riduce l’uomo a merce, il sapere a tecnica, la bellezza a dogma, la salute a obbligo. E il benessere a Pil. Che, naturalmente, per mantenersi su livelli elevati ha bisogno di lavoratori in piena forma, di macchine corporee senza difetti. Efficienti, performanti, scintillanti. È l’avvento degli “ultimi uomini”, per dirla con lo Zaratustra di Nietzsche, quelli che credono di avere inventato la felicità, che vivono sempre più a lungo, e per i quali ammalarsi è peccato.
Ed è proprio questo scivolamento della persona verso la risorsa umana, del well-being verso il well-ness, della comunità verso l’immunità, alla base della svolta biopolitica che stiamo vivendo. Dove gli uomini diventano energie rinnovabili e quindi anche rimpiazzabili. Del resto proprio questo vuol dire risorsa, dal francese resortir, nel senso di rinascere, rinnovarsi. È l’umano al servizio dello sviluppo e non lo sviluppo al servizio dell’umano.
Una critica in ipsis verbis di questo pensiero unico della crescita si trova in un apparente lapsus degli studenti della South-Pacific University di Suva, nelle isole Figi, che hanno trascritto in pidgin-english (la lingua franca di alcune aree del Pacifico), il termine development, sviluppo, facendolo diventare develop-men, ovvero piena realizzazione dell’umano. Così quello che sembrava un errore di spelling si rivela invece una straordinaria retroilluminazione della parola. Che fa brillare un altro senso possibile, a condizione di pensare altrimenti.
Oggi l’asse del benessere si è ulteriormente e decisamente spostato. Da richness a fitness. Col risultato di trasformare i nostri stili di vita in religioni del corpo, in idolatrie della longevità, in liturgie alimentari. Con il bio al posto del dio. E la dietetica al posto dell’etica. E, quasi inavvertitamente, siamo entrati nell’era di homo dieteticus, il figlio spaventato di homo oeconomicus. Quest’ultimo, spinto in avanti dal vento del progresso e convinto che le cose sarebbero andate sempre meglio, per sé e per i suoi, investiva sul futuro.
Mentre l’homo dieteticus, in preda a mille insicurezze, personali, ambientali, lavorative, sta facendo della salute il bene rifugio su cui scommettere tutto e subito, il capitale immunitario al quale destinare tempo, cure, energie e risorse. Passione e ossessione. Narcisismo ed esorcismo. Ideologia e ipocondria.
Forse perché non ci è rimasto altro da scambiare e da vendere nel mercato della forza lavoro globale, se non la nostra apparenza e la nostra efficienza. Ridotti come siamo a braccianti multitasking, cottimisti del tardo capitalismo, falangi della mano invisibile.
Così il corpo torna ad essere, come diceva Baudelaire, l’arcano della merce, la forma elementare dell’economia. E il benessere diventa l’algoritmo di una condizione umana ridotta a nuda vita.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Origini della filosofia
Talete non fu il primo
di Dorella Cianci (Il Sole-24 Ore, Domenica, 25.10.2015)
Sarebbe bello immaginare sulla scena Philosophia che racconta le sue origini lontane, provando a togliere i veli dei vari errori epistemologici che si sono pian piano radicati lungo i secoli intorno alla sua parola. Con quest’immagine andrebbe letto l’ultimo lavoro di Livio Rossetti, un tentativo di defilosofizzare Talete e alcuni dei cosiddetti “presocratici” o “preplatonici”.
Ma chi ha inventato davvero la parola philosophia e derivati? Non Talete, molto abile come scienziato,ma meno rilevante nelle testimonianze che lo individuano come un filosofo alle prese con l’arché di tutte le cose. In fondo le testimonianze sono poco attendibili e troppo tarde: Aristotele ne parla a distanza di due secoli e mezzo, Simplicio ben undici secoli dopo e ognuno lo fa con mezzi espressivi già molto lontani.
Come afferma l’autore: «le informazioni fornite soffrono di rilevante instabilità semantica». Lo stesso discorso vale per Anassimandro e Anassimene, valenti come proto scienziati di Mileto, ma non come proto filosofi, se per filosofi si intende una branca scientifica dotata di un suo statuto epistemologico e non semplicemente un potenziale filosofico-creativo esistente sin da Talete e presente anche nei poeti e in Omero. I presocratici vissero un momento di incubazione della filosofia, ma nessuno di loro (probabilmente) fu consapevole di fare filosofia!
La filosofia dunque non nasce con Talete e neanche con Parmenide, ma diviene consapevole di se stessa e della sua parola con Platone. In Platone vi sono ben 350 occorrenze della parola filosofia, mentre per il periodo precedente le occorrenze sono di poche decine.
Fu Aristotele a retrodatare la filosofia, attribuendo a Talete il ruolo di inventore. Rossetti chiarisce che si può stabilire una differenza fra una filosofia antica (al quadrato) e una filosofia, sempre antica, ma con accezione “moderna”: nella prima accezione allude a una condizione creativa dell’uomo espressa con la parola, non troppo lontana da quella dei sofisti (e in questa potrebbe rientrare anche il Socrate storico); poi vi è l’accezione “moderna”, nata con Platone e con il suo testimonial Socrate, il quale fonda una disciplina con dei testi canonici (i dialoghi). Socrate dunque non ebbe alcun ruolo nell’invenzione della “vera” filosofia? Rossetti pare dirci questo, poiché quando la filosofia ha cominciato a prendere forma, egli era già morto da una quindicina di anni.
L’errore di Platone
Il pensiero deformato in politica
Secondo la filosofa tedesca la ricerca della «polis» ideale avrebbe tradito l’originaria «meraviglia» socratica
di Hannah Arendt (Il Sole-24 Ore, Domenica, 13.09.2015)
Il thaumazein, la meraviglia di fronte a ciò che è così come è, consiste per Platone in un pathos, in qualcosa che viene subìto e che, in quanto tale, si distingue nettamente dal doxazein,dal formarsi attivamente un’opinione su qualcosa. La meraviglia che l’uomo patisce, o che lo colpisce, non può tradursi in parole perché è troppo smisurata per le parole.
Platone vi si dev’essere imbattuto per la prima volta in occasione di quegli stati traumatici di Socrate, di cui abbiamo frequenti resoconti, durante i quali il filosofo, come preso da un raptus, sarebbe improvvisamente piombato nella più completa immobilità, fissando nel vuoto senza vedere o sentire nulla. Per Platone e Aristotele divenne assiomatico che questa meraviglia muta fosse l’origine della filosofia. Ed è precisamente questo riferimento a un’esperienza concreta e unica a contraddistinguere la scuola socratica rispetto alle filosofie precedenti.
Per Aristotele, non meno che per Platone, la verità ultima è al di là delle parole. Nella terminologia aristotelica il recettore umano della verità è il nous, la mente, il cui contenuto è privo di logos (hon ouk esti logos). Come Platone aveva opposto la doxa alla verità, così Aristotele oppose la phronesis (la saggezza politica) al nous (la mente filosofica). La meraviglia per qualsiasi cosa, per tutto ciò che è così come è, non si riferisce mai a qualcosa di particolare - e per questo Kierkegaard la interpreta come esperienza del niente, della nullità. Il carattere generale che è proprio delle affermazioni filosofiche, e che le distingue da quelle scientifiche, sorge da questa esperienza. Su di essa si basa la filosofia come disciplina speciale - e da questa esperienza dipende il suo restare tale.
Nel momento in cui lo stato non discorsivo della meraviglia si traduce in parole, non è che la filosofia cominci a fare affermazioni, ma comincia a formulare in variazioni infinite quelle che chiamiamo “domande ultime” - che cos’è l’essere? chi è l’uomo? che significato ha la vita? che cos’è la morte? ecc. -, accomunate dal fatto di non poter avere risposte scientifiche.
L’affermazione socratica «So di non sapere» esprime in termini di conoscenza l’impossibilità di rispondere in modo scientifico. Eppure, in uno stato di meraviglia questa affermazione perde il suo aspetto seccamente negativo; quello che resta in mente a chi è colpito da un simile pathos può essere espresso solo così: ora so che cosa significa non sapere; ora so di non sapere. Le domande ultime sorgono da questa esperienza vissuta del non sapere, in cui si manifesta un aspetto fondamentale della condizione umana sulla terra. Formulando domande ultime, domande senza risposta, l’uomo si costituisce come essere interrogante. Questa è la ragione per cui la scienza, che pone domande cui si può dare risposta, deve la propria origine alla filosofia e ha bisogno di restarle legata. Se l’uomo dovesse perdere la capacità di formulare domande ultime, perderebbe anche la capacità di formulare domande cui si può dare risposta. Non sarebbe più un essere interrogante, e questa sarebbe la fine non solo della filosofia, ma anche della scienza.
Lo shock filosofico di cui Platone ci parla pervade tutte le grandi filosofie e separa il filosofo che lo subisce da coloro con i quali vive. Diversamente da quel che Platone suggeriva, la differenza tra i filosofi, che sono pochi, e la moltitudine non sta nel fatto che i molti non sanno nulla del pathos della meraviglia, ma sta nel fatto che essi rifiutano di subirlo. Questo rifiuto è espresso nel doxazein, nel farsi delle opinioni su materie in cui non è possibile avere opinioni, perché i criteri normalmente accettati dal senso comune non possono esservi applicati. La doxa, in altre parole, poté divenire l’opposto della verità perché il doxazein è davvero l’opposto del thaumazein. Avere opinioni non va affatto bene quando si tratta di cose che possiamo cogliere solo nella meraviglia muta per ciò che è.
Nel corso di questi sviluppi, la posizione socratica ebbe la peggio non perché Socrate non avesse lasciato niente di scritto, o perché Platone avesse intenzionalmente distorto il suo insegnamento, ma perché ebbero la peggio le intuizioni socratiche, che erano scaturite da una relazione ancora solida tra esperienza politica ed esperienza filosofica. Nella prospettiva aperta da Socrate, quello che vale per la meraviglia con cui ogni filosofia ha inizio non vale per quello che segue, cioè per il dialogo della solitudine: la solitudine, il dialogo pensante del due-in-uno, è infatti parte integrante dell’essere e vivere insieme ad altri, e in questa condizione il filosofo non può evitare di farsi delle opinioni, di giungere a una propria doxa; ciò che lo distingue dai concittadini non è il possesso di una verità speciale, inaccessibile alla moltitudine, ma il fatto che è sempre pronto a esporsi al pathos della meraviglia, e a evitare così il dogmatismo dei puri e semplici possessori di opinioni.
È chiaro che simili sviluppi, legati a una motivazione originariamente politica, avrebbero in seguito assunto un grande rilievo per la filosofia intesa in senso generale; ma quegli sviluppi, naturalmente, sarebbero stati ancora più rilevanti per la filosofia politica propriamente detta. La politica - quando non è stata considerata un dominio indegno - è divenuta per il filosofo il campo in cui ci si occupa delle necessità elementari della vita umana e in cui si applicano i criteri che la filosofia fissa dogmaticamente sul proprio terreno.
Tuttavia, mentre l’inumano stato ideale di Platone non è mai divenuto realtà, e mentre per secoli è stato necessario difendere l’utilità della filosofia, che si è dimostrata totalmente inutile ai fini di una concreta azione politica, la riflessione filosofica ha reso un servizio all’umanità occidentale, offrendole un insieme di riferimenti. Dopo che Platone ebbe in un certo senso deformato la filosofia a scopi politici, la filosofia continuò comunque a fornire all’uomo occidentale criteri e regole, pietre di paragone e misure con cui poter almeno cercare di capire quel che avveniva nella sfera degli affari umani .
Su filosofia e politica Platone tradì Socrate
Il rapporto fra i due pensatori greci, il ruolo dei sapienti nella polis e la tradizione occidentale in un’originale riflessione di Hannah Arendt
di Hannah Arendt (la Repubblica, 02.09.2015)
L’abisso tra filosofia e politica si apre storicamente con il processo e la condanna di Socrate, che nella storia del pensiero politico rappresenta un punto di svolta analogo a quello rappresentato dal processo e dalla condanna di Gesù nella storia della religione. La nostra tradizione di pensiero politico ha inizio quando, con la morte di Socrate, Platone perde ogni speranza nella vita della polis e giunge a mettere in dubbio anche i fondamenti dell’insegnamento socratico.
Il fatto che Socrate non fosse riuscito a persuadere i giudici della propria innocenza e dei propri meriti, che erano così ovvi per i migliori cittadini ateniesi e per i più giovani, aveva indotto Platone a dubitare del valore della persuasione . (...) Per gli Ateniesi la persuasione, peithein , era la forma specificamente politica del discorso. (...) L’argomento centrale di Socrate, nel discorso pronunciato in propria difesa di fronte ai cittadini e ai giudici ateniesi, era l’aver sempre agito nell’interesse della città. Nel Critone , lo vediamo spiegare agli amici che non può fuggire, e che deve anzi accettare la pena di morte, per ragioni politiche e filosofiche. Ma pare che Socrate non sia riuscito a persuadere i suoi giudici, né tantomeno a convincere i suoi amici. Per così dire, la città non sapeva che farsene di un filosofo e gli amici non sapevano che farsene dell’argomentazione politica.
Tutto questo rientra nella tragedia di cui i dialoghi platonici recano testimonianza. Strettamente connessa al dubbio sul valore della persuasione è la furiosa denuncia che Platone fa della doxa , l’opinione. Questa denuncia, oltre a percorrere come un filo rosso le sue opere politiche, diventa una delle pietre angolari del suo concetto di verità. In Platone la verità è sempre intesa, anche quando la doxa non è menzionata, come l’esatto opposto dell’opinione ( doxa).
È lo spettacolo di Socrate che sottopone la propria doxa alle opinioni irresponsabili degli Ateniesi, e che viene infine sconfitto da una maggioranza, a spingere Platone al disprezzo delle opinioni e a fare di lui un ardente fautore di criteri assoluti - cioè di criteri in base ai quali le azioni umane possano essere giudicate e il pensiero umano possa acquisire un certo grado di esattezza. Da quel momento, sarà questo l’impulso primario della sua filosofia politica, e tale impulso influenzerà in modo decisivo anche la dottrina puramente filosofica delle idee.
Personalmente non penso, come spesso si sostiene, che il concetto delle idee fosse in primo luogo un concetto di standard e misure, né penso che la sua origine fosse politica. Ma questo equivoco è tanto più comprensibile e giustificabile dal momento in cui Platone è il primo a usare le idee per scopi politici, cioè per introdurre criteri assoluti nella sfera degli affari umani, dove, senza criteri trascendenti di questo tipo, tutto resta relativo. Come lo stesso Platone era solito far notare, noi non sappiamo che cosa sia la grandezza assoluta, ma abbiamo solo esperienza del fatto che qualcosa è più grande o più piccolo di qualcos’altro.
Sicuramente, la contrapposizione tra verità e opinione è la conclusione più antisocratica che Platone potesse trarre dal processo di Socrate. Ai suoi occhi, fallendo nel tentativo di convincere i cittadini, Socrate aveva mostrato che la città non è un posto sicuro per il filosofo: non solo nel senso che il possesso della verità mette in pericolo la vita del filosofo; ma anche nel senso, assai più rilevante, che non si può fare affidamento sulla città per preservare la memoria del filosofo, la sua presumibile grandezza e la fama immortale che gli è dovuta. Se erano arrivati a uccidere Socrate, gli Ateniesi sarebbero stati fin troppo propensi a dimenticarlo una volta morto. Per salvaguardare la sua immortalità terrena, occorreva incoraggiare i filosofi a una solidarietà tutta loro, contrapposta alla solidarietà con la polis e con i concittadini. Per questo Platone avrebbe infine rivoltato contro la città un vecchio argomento usato contro i sophoi (i sapienti), e ancora presente in Platone e Aristotele: i sapienti non sanno che cosa sia bene per loro (che è il prerequisito della saggezza politica), appaiono ridicoli quando si mostrano nella piazza del mercato, e sono di fatto lo zimbello di tutti (come Talete, che fu deriso da una giovane contadina quando si mise a fissare il cielo e cadde nel pozzo ai suoi piedi).
Per comprendere l’enormità [della replica di Platone, cioè] della pretesa che il filosofo governi la città, dobbiamo tenere ben presenti questi comuni pregiudizi, che la polis nutriva nei confronti dei filosofi ma non nei confronti di artisti e poeti: solo il sophos non sa che cosa sia bene per se stesso, e ancora meno sa che cosa sia bene per la polis . L’ideale platonico del sophos o sapiente che governa la città deve qui essere inteso in contrapposizione all’ideale comune del phronimos , colui che è capace di comprensione, e che in virtù della sua perspicacia negli affari umani è qualificato per la leadership - ma non per regnare. Nella polis la filosofia, l’amore per la sapienza, non era affatto identificata con la saggezza, con la phronesis . Il sapiente, infatti, si occupa di questioni estranee alla vita della polis . E Aristotele concorda pienamente con l’opinione comune quando afferma: «Anassagora e Talete erano sapienti ma non saggi. Non si interessavano di ciò che è bene per gli uomini - gli anthropina agatha».
Ora, Platone non negava che il filosofo si occupasse di argomenti eterni, immutabili, non umani. Ma non era d’accordo sul fatto che ciò lo rendesse inadatto a un ruolo politico. Ossia non era d’accordo con la polis , secondo la quale il filosofo, proprio perché disinteressato a ciò che è bene per gli uomini, corre continuamente il pericolo di diventare un buono a nulla (...). Questa accusa, e cioè che la filosofia possa fiaccare le qualità del cittadino, è implicitamente contenuta nella famosa affermazione di Pericle: «Amiamo il bello senza esagerazione e amiamo la sapienza senza sdolcinature ed effeminatezze». In altri termini, diversamente da noi e dai nostri pregiudizi, che imputano “sdolcinature” ed “effeminatezze” all’amore per il bello, i Greci vedevano pericoli di questo tipo nella filosofia. La filosofia, intesa come interesse per il vero senza riguardo per gli affari umani (e non come amore per il bello, che era rappresentato dappertutto nella polis , nelle statue come nella poesia), spingeva i filosofi fuori dalla polis e li rendeva incapaci di occuparsene.
LA "x" DELLA GRECIA - "X"- FILOSOFIA. LA FIGURA DEL "CHI": IL NUOVO PARADIGMA.
di Eva Cantarella (Corriere della Sera, 06.07.2015)
Pensando alla partecipazione dei greci al referendum viene da pensare che a muoverli sia stata, accanto alla gravità del momento, anche l’eredità di una idea che risale a un’epoca precedente di molti secoli alla nascita delle istituzioni democratiche. Quando Omero nell’Odissea vuole descrivere la barbarie di Polifemo non parla del suo cannibalismo. Parla di qualcosa di peggio: il fatto che i Ciclopi «non hanno assemblee di consiglio, non leggi/fa legge ciascuno/ai figli e alle mogli e l’uno dell’altro non cura» (Od., 9, 112-115).
Il segno dell’inciviltà sta nella mancanza di quel momento di incontro che, pur non avendo ancora poteri istituzionalmente previsti, è il momento più importante della vita pubblica. Quel momento che, dice Omero, è «la gloria degli uomini» (Il., 1, 490). E di lì a qualche secolo Alceo, esiliato dalla patria, scriverà che la sua vita lontano dalle istituzioni civiche è quella di «un solitario lupo».
Come non avere la sensazione che i greci in fila, mentre uno per uno deponevano il loro voto fossero la raffigurazione dei valori che, con la nascita della democrazia, essi ci hanno tramandato? L’isegoria, vale a dire (un voto uguale per tutti) e la parrhesia (totale libertà di parola).
All’epoca di Pericle infatti, con l’affermazione della democrazia radicale, all’assemblea (ekklesia) avevano diritto di partecipare tutti i cittadini maschi che avevano compito i 20 anni, vale a dire raggiunto la maggiore età e compiuto due anni di servizio militare. E poi, su un ordine del giorno comunicato in precedenza, si votavano, sulla collina della Pnice, le proposte fatte dalla Boule, un Consiglio di 400 persone estratte a sorte, di età superiore ai 30 anni: a maggioranza assoluta, di regola per alzata di mano (cheirotonia) e dunque e scrutinio palese. Nei casi, invece, in cui il voto doveva essere segreto si votava introducendo nelle apposite urne una pietruzza (psephos).
Infine una considerazione sulle competenze dell’assemblea, che non si limitavano all’approvazione delle leggi, ma riguardavano la politica interna ed estera, la pace e la guerra, i trattati internazionali e le questioni finanziarie. In altre parole, tutti gli affari di Stato. La divisione dei poteri, ovviamente, era di là da venire, così come , ovviamente, il suffragio universale (donne e schiavi ne erano esclusi). Ma le basi perché ci si potesse arrivare erano state messe.
Nella Germania dell’etica protestante i due concetti coincidono, mentre nella lingua di Omero sono lessicalmente distinti
È l’emblema di uno scarto storico-culturale che arriva fino a oggi
di Silvia Ronchey (la Repubblica, 08.07.2015)
Che cos’è il debito? In tedesco il sostantivo femminile Schuld designa insieme il debito e la colpa. «Il capitalismo è un culto che non consente espiazione, ma produce colpa e debito», scriveva già nel 1921 Walter Benjamin. La vittoria del no al referendum greco ha richiamato l’attenzione del mondo non solo sulla drammaticità della situazione politica ma anche sul conflitto culturale, sull’antinomia profonda connessa alla concezione del debito nell’evolversi della psiche collettiva: ancora una volta, sull’antica polarità tra Grecia e Germania.
Debito e colpa è il titolo di un libro appena uscito (Ediesse, pagg. 240, euro 12) che Elettra Stimilli ha dedicato alla centralità della figura del debito come colpa nell’indebitamento planetario che segna la più recente fase del capitalismo contemporaneo. Le forme di consumo illimitato basate sull’indebitamento privato, partite dall’America, sono diventate, argomenta Stimilli, il motore principale dell’economia. Dal 2009, con l’immediato globalizzarsi della crisi americana, l’aumento esponenziale del debito privato ha coinvolto il debito pubblico dei paesi economicamente avanzati fino ad arrivare ai debiti sovrani. La finanziarizzazione della vita quotidiana, la “democratizzazione del credito”, ha prodotto uno stato di indebitamento generalizzato in cui ognuno, sia come lavoratore sia come consumatore, è diventato per definizione anzitutto debitore.
Nella cultura attuale dell’occidente, la parola debito è eminentemente connessa a quell’etica protestante, che già Max Weber vedeva all’origine ideale e psicologica, prima ancora che materiale e sociale, del sistema capitalista, alla cui indubbia efficienza i teorici, da Karl Marx a Joseph Schumpeter, hanno sempre contrapposto, con diversi gradi di perplessità, la difficoltà etica della giustificazione teorica. Se per Max Weber il capitale nella sua forma moderna nasceva dalla concezione calvinista della grazia e del peccato per poi secolarizzarsi in ideologia profana, secondo Benjamin il capitalismo può considerarsi in sé una religione, il culto di un dio minore, privo di dogmi ma dalla legge implacabile. È proprio la connessione religiosa fra debito economico e colpa morale - attinta peraltro a un’intuizione degli scritti giovanili di Marx - che porta il povero insolvente, scriveva Benjamin, «a fare di sé una moneta falsa, a carpire il credito con inganno, a mentire, così che il rapporto di credito diventi oggetto di abuso reciproco».
Se in tedesco i concetti di debito e colpa si stringono in uno stesso nodo lessicale, la lingua greca, che sta all’origine del nostro pensiero e della nostra sintassi filosofica, distingue nettamente tra l’uno e l’altra. Nel greco antico, come ancora oggi nel greco moderno, debito si dice chreos , un sostantivo che deriva dal verbo chraomai , “usare”, e dalla locuzione chre , “ciò che serve”, che si usa e di cui c’è bisogno; è inoltre connesso con chreia , la “mancanza”. Il termine chreos viene usato ampiamente dagli storici, come Tucidide, dai filosofi, come Platone, e dai giuristi, fino alle Novelle di Giustiniano e ai Basilika : il greco bizantino assicurerà la continuità e trasmetterà la certezza del diritto romano nel suo transito millenario dall’età antica a quella moderna, attraverso i secoli solo in occidente oscuri del cosiddetto medioevo dominato dal diritto barbarico.
Ma la prima attestazione della parola chreos nella letteratura greca è già nell’ottavo canto dell’ Odissea , nel passo in cui Efesto incatena Ares e Afrodite dopo averli colti in adulterio. Tutti gli dèi ridono tranne Poseidone, che gli intima di scioglierli. Efesto rifiuta perché, dice, se lo facesse Ares fuggirebbe eludendo insieme due vincoli, quello materiale della catena e quello morale, il chreos , che lo lega ormai a Efesto. Questo secondo legame non è una servitù, impossibile tra dèi, piuttosto una comunanza di destino, un pegno. Il dio della guerra si è indebitato con il dio del fuoco, dell’ingegneria, dei fabbri, di tutti gli artigiani: cedendo all’amore, condividendo il fascino della dea, si è sottomesso al vincolo di un reciproco scambio.
Anche altrove il significato del chreos greco sfuma spesso in quello di una comunanza ferrea di destino, di una ineludibile necessità: designa “il debito che tutti devono pagare”, ossia, almeno a partire da Teognide, anzitutto e per definizione la morte. Un’accezione metaforica di chreos che si ritrova lungo tutta la letteratura greca, da Platone alla Sapienza di Salomone tradotta nella bibbia dei Settanta. La distinzione tra debito e colpa è evidente nel Nuovo Testamento, anzitutto in uno dei suoi passaggi più noti: la preghiera del discorso della montagna, che diventerà il padre nostro. Qui il greco della koiné usa, anziché chreos , il più materiale e umile sostantivo ophèilema , che si ritrova in Matteo 6, 12: “rimetti a noi i nostri debiti”. La clamorosa discrepanza dal testo di Luca 11, 4, che ha invece la variante “rimetti a noi i nostri peccati” e usa il ben distinto sostantivo amartìa, ha dato luogo a infinite dispute teologiche e fatto sospettare una comune ascendenza dall’ebraico hôb, hôbot, insieme debito e colpa. Ma proprio il fatto che il dettato neotestamentario debba adottare due voci diverse sottolinea l’estraneità dei due concetti nella psiche greca.
Lo squilibrio politico generato da un lungo e inestinguibile debito ha un precedente storico nel mondo greco. A provocare la caduta dell’impero di Bisanzio sei secoli fa è stato il debito con la repubblica di Venezia, incarnazione di quel capitalismo nascente che la percezione teologica e filosofica bizantina, erede di quella classica, non sarebbe mai riuscita ad assimilare né a comprendere. L’indebitamento dello stato bizantino con i banchieri dell’occidente spinse le sue élite verso l’oriente. La civiltà bizantina entrò allora nella sfera geopolitica dell’islam ottomano, da cui solo nel XIX secolo la Grecia è emersa.
di Umberto Curi (Corriere della Sera, 13.07.2015)
Il referendum celebrato in Grecia domenica 5 luglio ha rilanciato uno dei più vieti, e insieme infondati, luoghi comuni, accreditando l’idea che la Grecia sia stata la «patria della democrazia», nell’accezione moderna della parola. In nome di questa paternità, un buon numero di uomini politici italiani, indifferentemente di destra e di sinistra, ha indicato in quella consultazione popolare una luminosa conferma della bontà del sistema democratico, l’unico capace di garantire l’obiettivo politico fra tutti, e per tutti, più desiderabile, vale a dire l’autogoverno del popolo. E la Grecia del Sì o del No all’euro avrebbe confermato di essere stata la culla della forma di governo ancor oggi giudicata nettamente preferibile, rispetto ad altre.
Il termine demokratía comincia a circolare verso la fine del VI secolo avanti Cristo, con una accezione prevalentemente dispregiativa. In entrambe le componenti della parola. Da un lato, infatti, krátos non significa affatto genericamente «potere» (come per lo più si ritiene), ma si riferisce piuttosto a quella forma di potere che scaturisce da, e si fonda su, l’uso della forza.
Analogamente, il termine démos viene adoperato per denominare non la totalità della popolazione, ma quella parte, ancorché maggioritaria, del popolo, che è in possesso di alcuni requisiti. Le occorrenze di démos nel senso di regime popolare, cioè di democrazia, sono pochissime e si trovano concentrate nel celebre dibattito sulle costituzioni, svoltosi verso la metà del V secolo. Le altre attestazioni di démos si presentano sostanzialmente come valutazioni negative della democrazia, quali potevano essere espresse soprattutto dai suoi avversari, i quali contestavano a questa forma di governo il fatto di privilegiare i (molti) cattivi, rispetto ai pochi (buoni), ovvero di pretendere che a governare fosse una moltitudine indistinta, anziché gli áristoi, i «migliori».
Insomma, pur nell’estrema variabilità di significati, da un lato demokratía indica il dominio coercitivo, esercitato con la forza, di quella parte del popolo che è il démos (con la drastica esclusione delle donne), mentre dall’altro lato essa esprime il sopravvento della componente quantitativamente, ma non qualitativamente, più significativa del popolo.
Soltanto alla luce di queste elementari considerazioni di carattere linguistico, si può capire non solo la durissima requisitoria antidemocratica dell’anonimo autore dell’opuscolo La costituzione degli Ateniesi, ma soprattutto l’atteggiamento assunto dai due maggiori filosofi dell’antichità classica nei confronti della demokratía, vale a dire l’invettiva di Platone, secondo il quale più che una definita forma di governo, essa è un «supermercato delle costituzioni», nel quale convivono senza un preciso principio di organizzazione forme politiche diverse. E la più pacata, ma non meno intransigente, condanna di Aristotele, il quale indica in essa la peggiore fra le forme buone di governo.
Tirando le fila del ragionamento, se ne possono ricavare due principali assunzioni. La prima riguarda l’origine storica della democrazia. Si sarà compreso quanto sia antistorico e culturalmente infondato parlare della Grecia come «culla» dell’autogoverno del popolo nella sua totalità. La seconda è più direttamente pertinente ad una valutazione di merito. Ammesso e tutt’altro che concesso, che la democrazia sia nata in Grecia, non solo essa compare in una accezione del tutto incommensurabile, rispetto all’accezione corrente del termine, ma è accompagnata da argomentati giudizi che ne mettono radicalmente in discussione il primato, rispetto ad altre forme di governo.
D’altra parte, come spesso accade, la ricostruzione storico-culturale non corrisponde semplicemente alla pur fondamentale esigenza di fare «pulizia» dal punto di vista concettuale. Essa ci aiuta se non altro a porre un problema, sul quale sarebbe necessario intrattenersi in maniera approfondita. Si potrebbe formularlo nei seguenti termini.
Assumendo come riferimento il referendum recente, siamo proprio sicuri che esso rappresenti - come vorrebbero legioni di apologeti della democrazia diretta - la testimonianza più convincente della «bontà» di questa forma di governo? Davvero si può ritenere che il Sì o il No costituiscano una risposta adeguata alle formidabili questioni oggi in campo? In quali limiti possiamo ritenere che le molte decine di pagine delle proposte intorno alle quali il popolo greco è stato chiamato a pronunciarsi siano state lette e comprese da coloro che hanno votato?
Non è vero piuttosto che l’occasione referendaria ha fatto emergere con forza la sproporzione abissale fra le competenze tecniche necessarie per una presa di posizione razionale, e non meramente emotiva, e la «qualità» delle risposte compendiate nell’alternativa Sì-No? Insomma, se davvero si intende assumere come modello di democrazia quanto è accaduto domenica scorsa in Grecia, si può capire perché quel Paese sia stato non la culla della forma democratica, ma il grembo che ha partorito le critiche più serrate e argomentate all’idea stessa dell’autogoverno del popolo.
* professore ordinario di Storia della filosofia presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Padova
L’analisi. La biforcazione antropologica tra il centronord e il sud del continente inizia nel Settecento. E produce effetti ancora oggi
Quello strappo tra le due Europe nato per troppo amore verso l’antica Grecia
di Marino Niola (la Repubblica, 04.07.2015)
L’Europa è figlia della Grecia. Poi ne è diventata madre. E adesso rischia di diventare la sua crudele matrigna. Che l’Ellade sia il momento aurorale dell’Occidente moderno e delle sue parole chiave non ci sono dubbi. Su questa genealogia sono stati versati fiumi del migliore inchiostro. Le idee dell’essere e dell’avere del vecchio continente sono state fabbricate nell’officina egea.
Ma è tra gli ultimi anni del Settecento e i primi dell’Ottocento che la Grecia, e con lei il Meridione europeo, sono stati ripensati e in un certo senso reinventati dallo sguardo del Nord, quello germanico prima di ogni altro. È allora che si determina la biforcazione antropologica tra le due Europe, che da quel momento smettono di essere una. E cominciano specchiarsi, ciascuna nella differenza dell’altra. Nel senso che le potenze del Settentrione, Germania, Inghilterra e Francia, ovvero gli attuali pilastri dell’Unione, diventano moderne. E, soprattutto cominciano a rappresentare la loro modernità per contrasto con il mondo euromediterraneo, consegnato per sempre alla sua irredimibile antichità. Non a caso è allora che nasce la scienza della mitologia greca. E a inventarla non sono i legittimi abitatori delle contrade del mito, ma filologi, filosofi, storici e archeologi tedeschi. Come Wilamowitz e Winckelmann. La cui devozione estetica per l’Ellade è indiscutibile. Ma è altrettanto indiscutibile che idealizzandola di fatto l’hanno reinventata.
L’amico Marcel Detienne, il più grande grecista vivente, diceva poco tempo fa che in realtà la Grecia che noi conosciamo, quella che abbiamo studiato a scuola, è stata letteralmente creata da questi studiosi. Perché la mitologia antica diventasse un archetipo, un antecedente logico e archeologico, destinato a lasciare il posto alla razionalità moderna. Che i miti non li vive ma li spiega. Ed è un grande errore, aggiungeva Detienne, perché pensiero mitologico e filosofia, cioè poesia e pensiero razionale non succedono l’uno all’altro sulla scena della storia. Ma nascono insieme. È per questo che la filosofia di Platone, anche quella politica, parla sempre attraverso il mito.
Nella cultura nord-europea, a dominanza protestante, il Sud del continente e il mondo classico in generale diventano così la metafora culturale di un passato che non passa. Che non riuscirebbe a trasformarsi in presente, perché incapace di sincronizzarsi sul cambio di marcia della storia. E perciò resta fissato per sempre, come il fotogramma nobile di uno sviluppo mancato. Di una condizione submoderna. Che è alla radice della nostra nozione di sottosviluppo. «Questa è la patria delle divinità della mitologia greca. Terra degli dèi e degli eroi», diceva Tocqueville, uno dei padri del liberalismo, sottintendendo così che non è la terra degli uomini di oggi.
E in quegli stessi anni, le scoperte archeologiche compiute per lo più da tedeschi, inglesi e francesi, fanno affiorare un passato glorioso di cui i popoli mediterranei appaiono gli indegni continuatori. Portatori sani dell’antico, una sorta di archeologia vivente. E spesso i grandi archeologi come Schliemann, che nel 1871 scopre le rovine di Troia e nel 1874 quelle di Micene, la città di Agamennone, parlano con accenti liricamente solenni delle rovine di pietra. E con disprezzo di coloro che abitano senza merito quelle terre. Parlandone, come fa qualche volta anche Voltaire, come di selvaggi di casa nostra. Con un cortocircuito tra antichi e primitivi. Tra popoli lontani nella geografia e popoli lontani nella cronologia. È quella che Giacomo Leopardi chiamava una meridionalità nel tempo, un Sud della storia.
E così la Grecia emigra verso eredi che si ritengono più degni del lascito. L’altare di Pergamo va a Berlino, il frontone del Partenone a Londra e la Nike di Samotracia a Parigi.
E perfino coloro che hanno amato alla follia l’altra Europa, come Goethe, Madame de Staël, Hölderlin, fino a Nietzsche e a D.H. Lawrence, l’hanno di fatto minorizzata sul piano sociale e antropologico, arretrando il suo presente in una antichità spesso di maniera. Più mitologica che storica. Più neoclassica che classica. Contrapponendo, per esempio, la fredda ragione calcolante del Nord, così ben rappresentata oggi a Bruxelles, al calore antico ma improduttivo del Mezzogiorno. «Risorgi Omero! Se nel Nord di porta in porta, ti scacciarono freddi, qui troveresti un popolo ancora greco, e greco il firmamento». Questo idillio di August Von Platen fa il paio con Goethe il quale arriva a dire che «più di ogni altro popolo i Greci hanno sognato il sogno della vita nella maniera migliore ». E non è da meno Henry James, che parla di quella «interminabile luna di miele paganeggiante » da cui i popoli del Mare Nostrum non riuscirebbero a ridestarsi. Il problema resta sempre quello di un risveglio mancato. Di un asincrono dello sviluppo che riproduce la faglia tra popoli che fanno la storia e popoli portatori inerti della tradizione. Fissati nel fermo immagine di una non-storia prigioniera del passato. Una faglia antica che pesa sul futuro dell’Europa.
Le due idee di “demos”
Tutto per il popolo così l’antica Grecia creò il paradosso della “democratìa”
Nella dialettica tra demos e kratos, tra cittadini e potere, il mondo ellenico ha sempre privilegiato un esercizio diretto, assai poco moderato, della sovranità
Una visione da cui deriva il referendum di domenica
di Silvia Ronchey (la Repubblica, 02.07.2015)
Il popolo: una parola cruciale per il mondo greco, dove il termine democrazia si è creato a partire da due vocaboli: demos, “popolo” appunto, e kratos, che normalmente traduciamo “potere”. Ma il greco kratos ha una sfumatura precisa che ha poco a che fare con quell’idea di potere legittimo e moderato che normalmente associamo alla forma di governo chiamata dai moderni democrazia - la peggiore, secondo Churchill, ad eccezione di tutte le altre via via sperimentate. In greco kratos indica la forza nel suo esplicarsi violento.
Nelle antiche fonti greche, in Tucidide o anche in Isocrate per non parlare della Repubblica di Platone o perfino di Aristotele, la parola democrazia non è attestata in senso positivo: è un bersaglio polemico, una «parola dello scontro», come l’ha definita Luciano Canfora, usata in primo luogo dagli avversari di un governo popolare con l’intento di mettere in luce il carattere prevaricatorio, asimmetrico e minaccioso di ciò che esprime: il potere dei “non possidenti”. La torsione semantica che questo nesso della lingua greca ha subito lungo i secoli, la sua trasformazione in bene assoluto della nostra percezione collettiva, è uno dei grandi prodigi della storia.
Sull’accezione greca di demokratìa si è interrogata e divisa da sempre la filosofia politica - da Hobbes a Rousseau, da Constant a Tocqueville, da Dewey a Popper - nell’interpretare e studiare una forma di governo dalla natura e dalle implicazioni molto diverse, storicamente connessa a un’altra Europa rispetto a quella che i greci hanno conosciuto e dispiegato nella loro mitologia e nella loro geografia. Se il nesso storico-culturale tra i concetti astratti di Grecia, Europa e libertà resiste ai secoli e ai sussulti del globo, la genesi delle forme moderne di democrazia è successiva allo scindersi, con la conquista araba, di due Europe: l’una legata al papa di Roma e poi al cosiddetto sacro romano impero di Carlo Magno, un’Europa occidentale e via via sempre più nordica, più feudale, più lontana dal modello classico; l’altra esplicata in quella dislocazione e continuazione orientale del legittimo impero romano che fu Bisanzio, patria dello statalismo, dell’egualitarismo, della continuità nell’applicazione del diritto, la cui formula geografica, dopo l’islamizzazione del Nordafrica, si fece sempre più europea, ferma restando però la vocazione geopolitica di apertura, ibridazione e assimilazione in un’unica civiltà dei popoli e delle culture del sud e dell’oriente del mondo.
«Il mondo potrà salvarsi solo tornando a te», scriveva Ernest Renan nella sua Preghiera sull’acropoli, rivolgendosi alla città di Atene, al suo nume eponimo, la dea Atena, l’archegèta, «l’ideale che si incarna nei capolavori del genio umano». Il ritorno che Renan prospettava non era solo quello, ancora oggi atteso, dei marmi del Partenone, che immaginava riportati al suono del flauto in una lunga processione sacra dalle città del nord - Parigi, Londra, Copenhagen - fino alla soglia sudorientale di quella casa comune che già gli antichi chiamavano Europa. «Preferisco essere ultimo nella tua casa», scriveva, «piuttosto che primo altrove». Non si trattava solo della restituzione di spoglie archeologiche tanto simboliche quanto materiali. Renan auspicava anche il ritorno, da parte degli europei del nord, a un principio ideale, non necessariamente economico o razionale, ma essenziale: «Mi aggrapperò alla gradinata del tuo tempio, dimenticherò ogni disciplina che non sia la tua. Cosa più difficile: per te diventerò, quanto potrò, parziale».
Il ritorno all’ideale dell’antica esperienza greca passava per l’accettazione della Grecia contemporanea, del suo linguaggio, delle sue debolezze, dei suoi difetti: «Amerò solo te. Imparerò la tua lingua, disimparerò il resto». Anche a costo della rinuncia a una razionalità moderna: «Tutti coloro che fin qui hanno creduto di avere ragione si sono sbagliati, lo vediamo chiaramente. Possiamo davvero senza folle tracotanza credere che il futuro non ci giudicherà come noi giudichiamo il passato?».
L’omaggio all’Acropoli che Renan nel 1876 auspicava nei Souvenirs d’enfance et de jeunesse non sarebbe stato facile per i nordici colonizzatori «di un mondo più grande», che avevano visto «le nevi del polo e i misteri del cielo australe». Quante difficoltà prevedeva già allora Renan; quante inerzie mentali da superare. E però, pregava, rivolto al tempio sull’Acropoli: «Fermo in te, resisterò ai miei consiglieri fatali, allo scetticismo che mi fa dubitare del popolo».
Un terzo modello di Europa, che recuperasse questa tradizione come sola forma di pacificazione possibile tra le due anime europee sempre più distanti tra loro era stato già preconizzato, prima che da Renan e dai suoi contemporanei, dalle avanguardie colte il cui simbolo è Byron, che per la libertà della Grecia diede la vita; già Gibbon, lo storico inglese della decadenza e caduta dell’impero romano, scriveva: «Sia concesso al filosofo di ampliare la visione e di considerare l’Europa come una grande repubblica, i vari abitanti della quale sono giunti quasi allo stesso livello di civiltà e di cultura». Per questi intellettuali la Grecia non era solo la bandiera dell’occidente ma lo spalto estremo di un modello europeo alternativo a quello nordico, capace di coniugare l’ideale classico a quello bizantino: come esplicita anche Renan, alla fine della sua Preghiera sull’acropoli , includendo nell’invocazione la cupola cosmica di Santa Sofia a Costantinopoli, ulteriore simbolo di una larghezza di civiltà «abbastanza vasta da contenere una folla» incessante di popoli.
Con la caduta, all’inizio e alla fine del Novecento, degli imperi - quello ottomano a sudest, quello zarista, poi sovietico, a nordest - , questo terzo modello di Europa è approdato al suo collaudo politico. Il referendum cui i cittadini greci sono chiamati nella giornata di domenica può conside-rarsi, da un lato, una grande e plateale messa in scena di due diverse filologie della democrazia; d’altro lato, un’eco dell’appello di Renan ai governanti dell’Europa nordica: resistere allo scetticismo, ai calcoli e alle abitudini oligarchiche; non dubitare del popolo, dei non possidenti, non paventare il potere che abdica alla delega a favore di quell’antica e temibile espressione del kratos popolare che è lo strumento referendario.
La radice e la memoria
Siamo tutti figli del logos
Ecco perché la Grecia resterà sempre la miglior patria d’Europa
di Massimo Cacciari (la Repubblica, 01.07.2015)
Può l’Europa fare a meno della Grecia? Se la domanda fosse stata rivolta a uno qualsiasi dei protagonisti della cultura europea almeno dal Petrarca in poi, questi neppure ne avrebbe compreso il significato. La patria di Europa è l’Ellade, la “migliore patria”, avrebbe risposto, come verrà chiamata da Wilhelm von Humboldt, fondatore dell’Università di Berlino. Filologia e filosofia si accompagnano, magari confliggendo tra loro, nel dar ragione di questa spirituale figliolanza. Non si tratta affatto di vaghe nostalgie per perdute bellezze, né di sedentaria erudizione per un presunto glorioso passato, coltivate da letterati in vacua polemica con il primato di Scienza e Tecnica.
Oltre le differenze di tradizione, costumi, lingue e confessioni religiose che costituiscono l’arcipelago d’Europa, oltre l’appartenenza di ciascuno a una o all’altra delle sue “isole”, si comprende che il logos greco ne è portante radice, che non si intende il proprio parlare, che si sarà parlati soltanto, se non restiamo in colloquio con esso. Quel logos ci raccoglie insieme e ha informato di sé la storia, il destino di Europa. Ciò vale per pensatori e movimenti culturali opposti, per Hegel come per Nietzsche. Vale per scienziati come Schroedinger, Heisenberg, Pauli. Vale anche per coloro che si sforzano di pensare ciò che nella civiltà europea resterebbe non-pensato o in-audito: anche costoro non possono costruire la propria visione che nel confronto con quella greca classica.
Per la cultura europea, dall’Umanesimo alle catastrofi del Novecento, la memoria della “migliore patria” è tutta attiva e immaginativa: non si dà formazione, non può essere pensata costruzione-educazione della persona umana nella integrità e complessità delle sue dimensioni senza l’interiorizzazione dei valori che in essa avrebbero trovato la più perfetta espressione. Un grande filosofo, Edmund Husserl, li ha riassunti in una potente prospettiva: nulla accogliere come quieto presupposto, tutto interrogare, procedere per pure evidenze razionali, regolare la propria stessa vita secondo norme razionali, volere che il mondo si trasfiguri teleologicamente in un prodotto della vita di questo stesso sapere. Una follia? Forse - ma una follia che ha veramente finito col dominare il mondo. Eurocentrismo? Certamente - ma autore dell’occidentalizzazione dell’intero pianeta.
La Grecia non assume più per noi alcun rilievo culturale e simbolico? Possiamo ormai contemplarla come l’Iperione di Hölderlin dalle cime dell’istmo di Coritno: «lontani e morti sono coloro che ho amato, nessuna voce mi porta più notizie di loro»? Come è spiegabile un simile sradicamento? L’anima bella “progressista” risponde con estrema facilità: quell’idea di formazione che aveva la Grecia al suo centro era manifestamente elitaria, anti-democratica; la sua fine coincide con l’affermazione dei movimenti di massa sulla scena politica europea. Io credo che la risposta sia ancora più semplice, ma estremamente più dolorosa. Tra l’ora attuale( noi, i “moderni”!) e la “patria migliore” c’è il suicidio d’Europa attraverso due guerre mondiali.
L’oblio dell’Ellade è il segno evidente della fine d’Europa come grande potenza. Si badi: grande potenza è anche lo Stato o la confederazione di Stati che intendano diventarlo. Essi dovranno, infatti, dotarsi tanto di armi politiche ed economiche quanto di una strategia volta alla formazione di classe dirigente e di una cultura egemonica. Sempre così è stato e sempre così avverrà. Quando vent’anni fa scrivevo Geofilosofia dell’Europa e L’Arcipelago ancora speravo che questo arduo cammino si potesse intraprendere. E ci si risparmi la fatica di ripetere che non è affatto necessario che ciò si realizzi nel senso di una volontà di potenza sopraffattrice.
L’Europa può ora pensare di dimenticare la Grecia, perché rinuncia a svolgere una grande politica, la quale può fondarsi soltanto sulla coscienza di costituire un’unità di distinti, aventi comune provenienza e comune destino. Se questa coscienza vi fosse stata, avremmo avuto una politica mediterranea, piani strategici di sostegno economico per i Paesi dell’altra sponda, un ruolo attivo in tutte le crisi mediorientali. E avremmo avuto grandi interventi comunitari per la formazione, gli investimenti in ricerca, l’occupazione giovanile. Tutto si tiene. Una comunità di popoli capace di svolgere un ruolo politico globale non può non avere memoria viva di sé, memoria di ciò che essa è nella sua storia, e non di un morto passato.
Tutti miti - diranno gli incantati disincantati dell’economicismo imperante. So bene - l’Europa attuale è quella costruita sulla base delle necessità economico- finanziarie. Gli staterelli europei usciti dalla seconda Guerra non avrebbero potuto sopravvivere senza l’unità del denaro. Oggi la Grecia grida al mondo che una tale unità non produce di per sé alcuna comunità politica. Se pensiamo all’Europa come a un colossale Gruppo finanziario, allora è “giusto” che una delle sue società di minore peso( magari mal gestita, da un management inadeguato) possa tranquillamente essere lasciata fallire.
L’importante è solo che non contagi le altre. Ma se l’Europa vuole ancora esistere in quanto tale,e non disfarsi in egoismi, nazionalismi e populismi, deve sapere che la Grecia appartiene al suo mito fondativo, e che nessuna credenza è più superstiziosa di quella, apparentemente così ragionevole e “laica”, che ritiene il puro calcolemus senso,valore e fine di una comunità.
Platonismi
Il cigno sfuggente di Platone
Non un blocco dottrinale chiuso ma pensiero vitale e creativo. Mauro Bonazzi ricostruisce le vicende dell’Accademia dalla nascita nel 380 a.C. fino alla chiusura ordinata da Giustiniano
di Gianluca Briguglia (Il Sole-24 Ore, Domenica, 03.05.2015)
Una leggenda dell’antichità ci riferisce che Platone, ormai vicino alla morte, sognò se stesso nella forma di un cigno sfuggente, inseguito da cacciatori in affanno che non riuscivano ad afferrarlo. Secondo la leggenda, è il filosofo Simmia a spiegare il sogno: con grandi sforzi e affanno gli interpreti di Platone cercheranno di afferrarne il pensiero, ma lo faranno solo in parte, senza mai poter giungere a un’interpretazione univoca e fissata una volta per tutte.
L’aneddoto si attaglia perfettamente alle vicende dell’Academia platonica e alle avventure filosofiche di cui essa fu protagonista. Lo mostra un libro utile e importante (Il platonismo), di Mauro Bonazzi, professore di filosofia antica alla Statale di Milano e noto anche oltre i confini nazionali.
Dall’acquisto da parte di Platone (o dal dono a lui fatto da uno dei suoi allievi) nel 380 a. C. del campo su cui sorgerà la sua scuola, alla distruzione degli edifici dell’Academia tra l’86 e l’89 a.C. nell’assedio romano, fino alla chiusura definitiva dell’Academia per ordine di Giustiniano addirittura nel VI secolo d. C. (negli anni in cui in Italia Benedetto da Norcia scriveva la sua Regola), Mauro Bonazzi scrive di fatto una breve storia dei platonismi accademici. Uno dei punti di interesse del libro risiede nella rinuncia metodologica a considerare il platonismo come un blocco dottrinale chiuso - già a partire da Platone - e nel seguirne la vitalità e la creatività seguendo le vicende secolari dell’Academia. Fin da subito infatti l’attività filosofica dei seguaci di Platone non si esaurisce nella difesa o nella ripetizione di nozioni e dottrine del maestro, ma si articola piuttosto come condivisione di alcuni assunti di base e come focalizzazione su alcuni problemi specifici, sottoposti alla tensione della ricerca e della critica.
Il caso di Aristotele è eloquente: il suo progetto nasce nel contesto platonico e in esso gioca un ruolo importante anche fino dopo l’elezione di Speusippo come scolarca dell’Academia, cioè come successore di Platone. Aristotele sviluppò, discusse, criticò liberamente molte teorie platoniche fin dall’inizio, avendo anche una funzione di stimolo per Platone stesso e per tutta la prima generazione dei suoi allievi. Le critiche aristoteliche al Timeo sono in questo senso un caso emblematico. In quest’opera, l’origine del cosmo è fatta risalire all’azione di un Demiurgo divino che costruisce il mondo.
Per Aristotele, Platone avrebbe così introdotto la nozione, difficilmente accettabile, di una creazione del mondo nel tempo. Gli accademici reagiscono invitando a leggere Platone metaforicamente: il Demiurgo è un mito che vuole solo indicare il passaggio logico dal disordine degli elementi eterni all’ordine del mondo. Non c’è dunque alcuna creazione nel tempo. È una tesi cardine del platonismo successivo, ma potrebbe essere in realtà la risposta alle critiche aristoteliche e paradossalmente una platonizzazione delle sue tesi. L’esempio è significativo, perché potrebbe forse mostrare il modo normale di discussione e critica dell’ambiente platonico. Certo con la fase scettica dell’Academia - che comincia con l’elezione nel 268 di Arcesilao a scolarca - la situazione si complica.
L’accostamento della scuola platonica allo scetticismo ha disorientato non poco i moderni, ma è un fatto che fino al I secolo a. C. gli scolarchi dell’Academia sono di forte matrice scettica. È forse anche il segno del predominio di tendenze filosofiche nate fuori dall’Academia, come il pirronismo, ma Bonazzi mostra come si tratti anche da un lato dello sviluppo di certi elementi aporetici insiti nei dialoghi platonici e da essi autorizzati e dall’altro lato della reazione accademica contro un certo dogmatismo epistemologico delle correnti stoiche.
Il Platone scettico è un Platone antidogmatico. È con la fase successiva alla conquista romana che la filosofia si decentra, si trasforma, ripensa le proprie fonti e le proprie finalità. Fare filosofia vuol dire ora riflettere sulle verità scoperte dai fondatori, come Aristotele e appunto Platone, vuol dire interpretare e commentare le opere.
Ma non c’è un unico Platone, ma tanti quante sono le tendenze filosofiche del tempo. La figura di Platone è lo snodo di una rete di filosofie che si implicano a vicenda, di sistemi porosi, tanto che le varie famiglie platoniche possono essere avvicinate solo da due assunti comuni piuttosto generali, cioè il fatto che Platone sia stato il primo filosofo ad avere scoperto la verità e che la missione di un buon platonico sia quella di meditare e approfondire il sistema dei dialoghi. Nel tempo il platonismo entra in contatto con le tradizioni orientali, che ormai irrompono nello spazio del dominio romano. Antichi saperi, come quelli degli Egizi, dei Persiani, degli Ebrei e diverse tradizioni religiose, come il mitraismo e il manicheismo, e da ultimo il cristianesimo, interagiscono con i platonismi, assorbendone idee, sembianze e forme.
Le filosofie stesse assumono spesso i caratteri della teurgia, dell’aspirazione a un contatto diretto con il divino. Tuttavia la classica opposizione storiografica tra questa fase del platonismo, caratterizzata da sincretismo e libertà interpretativa (se non addirittura confusione e indistinzione), e il «neoplatonismo», come ritorno di una rigida sistematizzazione, tornata chiusa e monolitica, è per Bonazzi da rivedere e superare.
Non solo perché la creatività del medioplatonismo non è confusione di piani e dottrine, ma anche perché il neoplatonismo non è quel blocco dottrinario, tetragono e pietrificato, che una lunga storiografia otto-novecentesca ha voluto presentare. Basterebbe pensare alla teoria dell’«anima non discesa» di Plotino, rifiutata e combattuta da platonici contemporanei e successivi.
La nostra anima, principio di vita e di razionalità, non è immersa completamente nel sensibile, non è tutta presente a noi stessi, ma una sua parte, non discesa in questo mondo mutevole e percettibile, è rimasta a contatto con l’intelligibile puro. La dottrina non è platonica, ma rende conto della nostra duplicità: siamo dominati dal sensibile e dalle sue pulsioni, ma possiamo risvegliarci e rivolgerci al nostro vero destino, che è di stare con la divinità dell’intelligibile.
La teoria di Plotino crea più problemi di quanti ne risolva, come notano in molti suoi contemporanei, ma è comunque il tentativo innovativo di saldare in un nucleo platonico modificato le acquisizioni della filosofia ellenistica e l’ideale del saggio felice e autosufficiente. Il cigno di Platone è ancora una volta sfuggente, ma ha generato un nuovo platonismo.
I miti di Platone per ridare senso al mondo
di Giorgio Fontana (La Stampa, TuttoLibri, 01.05.2015)
Esce finalmente per il Melangolo a cura di Susanna Mati una chicca di Karl Reinhardt: I miti di Platone. Smessi per un solo libro i panni del rigoroso filologo novecentesco, Reinhardt si lascia andare a una forma espositiva più libera e ricca di pathos, non priva di punte liriche. La tesi di fondo del saggio è semplice: i miti presenti nei dialoghi sono «il linguaggio dell’anima», a sua volta l’elemento fondante della filosofia platonica: qualcosa che «cresce e si estende fino a diventare Stato e cosmo, sacerdozio e divinazione, contemplazione delle Idee e mondo dei miti». Tale crescita è il ritmo di una riconquista: davanti a un mondo in crisi quale l’Atene a cavallo fra V e IV secolo, Platone accetta la sfida della sofistica rilanciandola a un livello ben più alto - il risveglio dell’antica anima ellenica sotto nuove spoglie, individuali come sociali.
Lo smarrimento che Platone deve affrontare porta così al primo grande rivolgimento verso l’interiorità, che Socrate aveva soltanto intravisto. Il dialogo invita a calarsi dentro di sé per interpretare e ridare senso a ciò che sta fuori: e il mezzo principe di questa straordinaria operazione filosofica e politica è proprio il mito. Il quale tuttavia non entra in contraddizione con l’altro pilastro del sistema platonico: la dialettica.
Certo, è solo ora che logos e mythos si separano in due forme differenti; ma al contempo si attraggono in una tensione tutta nuova: strade diverse per giungere a una più alta conoscenza dell’anima. Come il metodo dialettico si raffina di dialogo in dialogo, così gli sparsi elementi del mito si collegano in affreschi sempre più vasti - in veri e propri cosmi. «Contemplazione e produzione si equilibrano», scrive l’autore: la dialettica si rovescia in mitografia, e viceversa.
Scegliendo un andamento cronologico, Reinhardt traccia un sentiero molto simile al «romanzo della coscienza» della Fenomenologia dello spirito. La storia dei dialoghi platonici diviene così la storia della nuova anima greca: dalla sua dolorosa nascita nei primi lavori aporetici o dall’andamento erratico (il Gorgia su tutti), passando per l’affascinante duello del Simposio (dove Socrate stesso comincia a diventare sempre più una figura mitizzata), fino ai grandi racconti della maturità: la biga alata del Fedone, l’aldilà orfico del Fedro, la perfetta organizzazione della Repubblica. Per trovare compimento nella straordinaria summa del Timeo, dove «il mito si dispiega in una chiarificazione metaforica, cioè imitativa, del mondo, o più esattamente in una produzione del mondo»: non più spiegazione o esempio, ma vera e propria «dottrina sacra» - l’antico mistero cosmogonico sotto nuove vesti.
Di qui la lettura reinhardtiana della teoria delle idee: chi contempla le forme eterne diviene in automatico esperto della misura (dunque dialettico e geometra) e sfrenato creatore di immagini (da cui i miti). Un’interpretazione sulla quale si può discordare, ma che in ogni caso non inquina il valore del percorso, così suggestivo, indicato dall’autore. Un percorso dove l’elaborazione mitica è insieme lo sforzo immenso di creare un nuovo mondo e la reminiscenza dell’universo perduto da dove proveniamo. La lotta esposta nel Crizia fra l’Atene arcaica degli eroi e l’Atlantide delle leggi perfette, e la necessità di trovare una sintesi «impossibile» fra questi due modelli. Nostalgia non consolatoria, e dunque rivoluzione.
L’insegnamento di Platone, il politico sia senza famiglia
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 25.03.2015)
IL PIÙ radicale degli utopisti, Platone, decise che la repubblica doveva impedire che la classe politica avesse famiglia e proprietà, le due condizioni che compromettevano la selezione dei guardiani in base al merito richiesto per il governo della città (coraggio e conoscenza) perché inevitabile ragione di parzialità: prima vengono i figli e la famiglia (allargata ai clientes che valgono a renderla più rispettabile) e prima viene la cura dei propri averi (che si somma a quella per la famiglia). L’utopia platonica della società armonica governata da un’avanguardia di virtuosi ha ispirato fanatici della giustizia e tribunali speciali. Ma la sua diagnosi delle ragioni dell’ingiustizia è diventata un monito per chi fa le leggi: i padri tendono a riprodursi nei figli, i possidenti negli eredi.
Gaetano Mosca cercò di fare di questa generalizzazione una regola: in ogni società, gli individui lottano per la preminenza e la conservazione dello status che li posiziona in alto, e quindi per il controllo dei mezzi che li agevolano in questo compito. Nelle società politiche basate sulla selezione elettorale, questi mezzi sono quelli che consentono la creazione della reputazione e della fama: circa la reputazione è la costruzione di un cerchio di amici o accoliti che più conta; circa la fama presso gli elettori che dovranno convalidare la selezione è il controllo dei mezzi di propaganda e informazione.
Ma il primo stadio della scalata della classe politica è la conquista di un gradino di preminenza per la famiglia, perché da qui si può con più facilità procedere alla conservazione dello status. In una ricerca sul nepotismo nella società americana, Seth Stephens-Davidowitz ha calcolato la probabilità statistica con la quale i figli dei politici entreranno in politica stimando che un “figlio di” (il caso esemplare è quello dei Bush, poiché Jeb potrebbe essere il futuro presidente) ha 1.4 milioni di possibilità in più di fare carriera politica di un ordinario cittadino. La distribuzione ineguale dell’opportunità di emergere è più alta quando il criterio di selezione è l’opinione - quindi politici e uomini e donne dello spettacolo sono particolarmente agevolati. A queste categorie se ne aggiunge un’altra che è la più arbitraria: quella dei ricchi, dei super-ricchi, dei miliardari, i quali si riproducono con regolarità e faciltà, potendo fare affidamento solo sulla loro libera scelta. Se ai politici viene richiesto comunque un poco di appealing presso il pubblico, nel caso dei ricchi lo status è semplicemente ereditato senza sforzo alcuno.
Ma è la riproduzione di potere politico quel che più interessa, se non altro perché viviamo, nominalmente almeno, in una democrazia. In un sistema oligarchico non avrebbe senso spendere parola. Né ha senso nel nostro sistema perché il nepotismo, il familismo, il favore che riproduce reputazione e fama, sono insopportabili a tutti. E il sistema di giustizia, per principio fondato sull’imparzialità e il governo della legge, è lì a dimostrare che non ci deve essere giustificazione né tanto meno tolleranza per l’uso del potere anche solo per dare una mano ai propri famigliari.
Per questo Platone pensava che fosse stato desiderabile che la funzione politica venisse ricoperta da chi non aveva famiglia e proprietà. La Chiesa, che ha seguito alla lettera Platone, non ha per questo brillato di giustizia e rigore, è vero. Tuttavia, la società moderna, che riconosce la famiglia e la proprietà come fondamentali e che nello stesso tempo si impegna ad applicare la “legge uguale” per tutti, è naturalmente più esposta dei chierici al procacciamento del privilegio privato via mezzi politici.
Proprio per questa propensione allo status vantaggioso per sé e la propria famiglia, non ci si deve stancare di denunciare, condannare e rimuovere le forme anche blande o “innocenti” (?) di aiuto ai figli, mariti, nipoti, e amici loro. La ragione di questa severità non è moralistica, ma di prudenza politica: poiché il sostegno dell’opinione è qualcosa di cui i sistemi rappresentativi non possono fare a meno, e poiché il centro dell’opinione è il sentimento di fiducia, ne deriva che l’uso preferenziale del potere, non importa quanto ampio o grave, farà crescere nei cittadini il tarlo del dubbio e della diffidenza vero tutti, con gravissimo danno al sistema. Attendere che la giustizia faccia il suo corso non è per questo prudente nel campo politico, dove è il dubbio, o l’opinione prima delle prove, ad alimentare la sfiducia.
Democrazia greca e crisi dei modelli
di Carlo Franco (il manifesto/Alias, Domenica, 12.10.2014)
No, non è rassicurante la Grecia ripensata nel libro di Davide Susanetti Atene post-occidentale Spettri antichi per la democrazia contemporanea (Carocci, pp. 299, euro 20,00). Niente serenità olimpica, né ordinate simmetrie, e nemmeno primitive grandezze. Le storie antiche non sono lette qui come un pacato repositorio di modelli utili ad abbellire il discorso sull’oggi, ma piuttosto come l’espressione di conflitti radicali e distruttivi, esito di una patologia complessa, indagata con lucidità fermissima.
Una patologia che investe la comunità della polis a ogni suo livello, dal governo al rapporto con il divino, dalla famiglia all’educazione. Ognuno di questi ambiti è indagato a partire dalle narrazioni antiche: talora è data la parola ai testi, più spesso la voce dell’autore interviene per analizzare, con una prosa incalzante e inquieta che dipana le complesse sfaccettature dei problemi. La mediazione dell’interprete moderno nell’incontro con gli antichi è necessaria: le storie di Omero, dei tragici, dei comici, di Platone, sono raggiungibili ormai solo attraverso una evocazione. Giacché i loro protagonisti sono degli spettri, spettri inquietanti e portatori di messaggi. Fin dalle prime pagine è dichiarata la difficoltà di questo, e di qualsiasi discorso sull’antico. Fermo è il rifiuto di ogni attualizzazione accattivante: a essa, ma anche ai modelli di studio propri della tradizione, viene contrapposto uno sguardo più sofferto e critico, vòlto a formare una «officina di canoni provvisori che divengono oggetti di una continua negoziazione di frontiera». Una lettura che presuppone la consapevolezza della soggettività, giacché interroga i testi «a partire da domande che sono evidentemente nostre», domande davvero «post-occidentali», giacché scaturite dalla crisi generale di senso della nostra civiltà, che dai greci discende. Ma ai classici non spetta di fornire le risposte, sì di dare espressione radicale alle nostre inquietudini.
Il libro si apre con l’incontro tra Odisseo e le anime dei morti: una scena che appare «il modello di un rapporto con il passato», quasi l’immagine del lavoro del filologo: così Nietzsche in una pagina degli Appunti per Noi filologi (3.51), da Susanetti valorizzata anche in polemica con la casta presente degli antichisti. Di qui si apre la via di una «politica della memoria e dell’eredità culturale» che cerchi ancora di dialogare con i fantasmi, attraverso una «dispendiosa» ma necessaria «pratica sacrificale»: solo così l’antichità si rivela «singolarmente contemporanea e anacronisticamente famigliare».
Il libro affronta una serie di nodi tematici, estratti da pagine spesso famose della letteratura greca, rivelate nella loro forza dirompente. Basterà qualche esempio. Nella parola seducente e abilissima di Pericle, riscritta da Tucidide, si coglie il segno di una politica trasformata in «esperienza erotica collettiva», nella quale il controllo esercitato dal leader può facilmente scivolare nell’inganno della lusinga demagogica, anticamera della sottomissione tirannica: ciò mostra che la democrazia può finire nelle mani di malfattori senza scrupoli, o di individui paradossali come Alcibiade. Il discorso bello dell’eguaglianza, dell’equilibrio, della redistribuzione, il discorso insomma della «democrazia» ateniese, rivela la propria fragilità strutturale, cela una natura conflittuale: sotto la superficie di pacificazione, sotto l’unanimità del «noi», si celano la minaccia della violenza, e la debolezza degli strumenti di difesa.
Il disvelamento di queste faglie è affidato soprattutto alla parola scenica: le vicende delle tragedie, inscenate dalla città e per la città, mostrano una comunità soccombere ai propri inguaribili mali a cicli ricorrenti. Là si trova espressa in forma consapevole e rassegnata l’idea, già tematizzata dalla cultura arcaica, che il dolore è presenza ricorrente, se non costante, dell’esistenza umana: ma la cultura dei greci ha anche sempre mantenuto vivo «il desiderio della vita buona e la tensione all’eccellenza».
Incoerente, certo, è stata la convivenza di queste visioni: ulteriormente complicata dal senso della precarietà umana, e quindi dall’ansia di conoscere il destino, nel tentativo, sempre frustrato, di prevenirlo. Tuttavia le storie dei «grandi», narrate dai poeti e dagli storici, sembrano ineluttabilmente confermare che «nessun sapere, nessuna saggezza, nessuna esperienza possono proteggere l’uomo dalla sventura, ed ogni tentativo di usare la storia - propria o altrui - come istruttivo paradigma è solo un ulteriore passo verso l’inevitabile catastrofe».
Non si salva nemmeno l’ambito della famiglia: nell’universo della tragedia, «che fa da specchio problematico alla città storica della sedicente democrazia e dell’uguaglianza», anche il rapporto tra padri e figli degenera in un «grumo problematico», nel quale né essere simili ai padri (non sempre saggi come ci si aspetterebbe), né percorrere rispetto a loro strade alternative (che talvolta appaiono vere pazzie) è garanzia di una scelta saggia e sicura.
Lo scontro tra generazioni diviene una sfida che interpella la comunità dei cittadini, nella sua dialettica fra trasmissione dei valori tradizionali ed esperimenti di novità. Giacché se il passato può risultare inadeguato ad affrontare il presente, tra le «novità» c’è anche la rivoluzione, la guerra civile, il conflitto che lacera il corpo della città, che pure il discorso pubblico democratico celebra come unito negli intenti e pacificato dalle tensioni. E basterebbero le storie di Edipo o di Antigone a mostrare come la stirpe possa essere distruttiva anche per la città che l’ospita.
Perfino la commedia, con le sue burle strampalate, riflette largamente su questi temi, dipingendo con tono scherzoso un mondo nel quale «vecchi e giovani non hanno più nessun bene da trasmettersi». Lontano da ogni consolatorio «umanesimo», il teatro sembra dunque trasmettere l’immagine di un mondo moribondo e mefitico.
Di qui la domanda, che già alcuni antichi più consapevoli si posero: come uscirne? La risposta di alcuni ambienti filosofici, e di Platone, sembra indicare come rimedio, non perfetto, la soggezione alla legge. Concetto non poco problematico anch’esso, viste le contraddizioni del rapporto tra legge e giustizia dimostrate dalla stessa vicenda di Socrate. Se non qui, la soluzione allora sta altrove: nell’utopia si potrà disegnare uno Stato nel quale i governanti saranno «schiavi delle leggi», a salvezza dalla rovina altrimenti certa dell’intera comunità. Tanto più che la crisi non è solo nei valori, ma chiaramente anche nelle condizioni materiali dei cittadini: nella Repubblica platonica la dispari distribuzione della ricchezza e l’insaziabile accumulo sono già chiaramente individuati come «una minaccia costante alla stabilità e alla giusta concordia».
E ancora una volta, la democrazia appare inetta a trovare soluzioni adeguate. Lo mostrano, con il consueto grottesco rovesciamento, le utopie della commedia di Aristofane: né i folli progetti comunistici, né i sogni di ricchezza generale, una volta messa sotto controllo la potenza del denaro, hanno successo. In questi tentativi «ogni volta parziali e insoddisfacenti» sta peraltro un contributo di analisi: è «la dinamica economica il punto di partenza di un rinnovamento», oppure è «eliminando la tensione alla ricchezza che si pongono le premesse di una nuova convivenza»?
Nemmeno dagli intellettuali, e dal mondo che oggi si chiamerebbe della «formazione», sembra poter venire una risposta sufficiente. Basta ripensare alle Nuvole di Aristofane: la commedia mette in scena dei (presunti) «cattivi maestri», e celebra la voglia di liberarsene per le vie spicce. Si crede così di rimediare alla malattia: ma il vero problema sono soprattutto gli adulti, incapaci di decidere dell’educazione dei figli e di assolvere il proprio ruolo.
Si comprende sempre meglio la spinta a cercare vie completamente diverse, anche dure, per tentare di risolvere il problema. In attesa della «città bella» di Platone, la città reale continua intanto a confrontarsi con i suoi problemi: «dalla tragedia alla commedia, si rinnova il panorama di un presente disforico». Che risalta ancor meglio nell’incontro provocatorio con l’alterità.
La barbara Medea o l’inquietante Dioniso, figure seduttive, inducono la comunità a sfide autodistruttive, e si rivelano alla fine «liquidatori di un’élite oscena», a Tebe e a Corinto. È questa apocalisse, estrema e scioccante, l’unica catarsi? E intorno a quale «nuovo patto» la città potrà ricomporsi? La proposta platonica per sottrarre la città al regno ammorbante della morte è che qualcuno sia forzato a uscire dalla caverna dell’inconsapevolezza, compiendo il cammino verso la verità e la bellezza, e poi ritorni a impegnarsi nella fatica della politica. Anche contro il desiderio dei suoi precedenti compagni di prigionia, ancora servi del proprio asservimento, egli dovrà tentare di svolgere la propria missione.
Questa sfida, positiva seppure largamente destinata alla sconfitta, è ciò che, secondo il ripensamento di Davide Susanetti, Atene può proporre oggi alla nostra democrazia, certo non meno malata di quella antica. Interpellato dalle storie degli antichi, rilette in questo denso e pensoso libro, il lettore viene indotto a riflettere: a chiedersi a quali scelte egli sia personalmente chiamato.
Filosofia minima
Aristofane e le donne libere di Platone
di Armando Massarenti (Il Sole Domenica, 13.07.2014)
«Se tutti i beni saranno in comune, come potrò far doni a una ragazza per conquistarla?». È la domanda di Blepiro, personaggio della commedia di Aristofane Ekklesiazùse (Donne in assemblea), che si prende gioco della proposta di legge emessa dalla protagonista Prassagora; costei, insieme ad altre donne travestite da uomini, è riuscita a far approvare nel parlamento ateniese una sorta di proto-comunismo. Prassagora risponde in modo rassicurante: «Potrai far l’amore gratuitamente. Infatti stabilisco che anche le donne siano in comune a tutti gli uomini e facciano figli con chi vogliono». La sagacia di Aristofane, che con il suo teatro comico riesce a toccare la coscienza politica degli spettatori ateniesi, viene indagata da Luciano Canfora nel suo La crisi dell’utopia. Aristofane contro Platone (Laterza).
Con un’argomentazione stringente, e contraddicendo gran parte della tradizione filologica a partire da Stephen Halliwell, Canfora dimostra come uno dei bersagli polemici della commedia sia soprattutto il filosofo Platone, autore di una delle più celebri utopie politiche della storia. Quando un personaggio delle Ekklesiazùse chiede: «Ma come si farà, nel momento in cui tutte le donne saranno in comune, a capire di chi sono i figli?», leggiamo quasi le identiche parole critiche rivolte da un interlocutore a Socrate nel dialogo della Repubblica: infatti l’utopia comunistica platonica presume la condivisione anche di donne e figli. In un altro luogo della commedia, poi, si fa riferimento a un personaggio piuttosto lascivo, tal Aristillo, che è un riferimento a Platone: il suo vero nome infatti era Aristocle, il cui diminutivo, per distinguerlo dal nonno omonimo, era proprio Aristillo.
L’utopia platonica viene dunque capovolta comicamente con un’altra utopia, quella delle donne al potere che mettono in scena l’assurdità della proposta astratta di un filosofo che non solo era imparentato con i Trenta Tiranni, ma che aveva perseverato - con il tiranno Dionisio I di Siracusa - nel fallimentare tentativo di realizzazione pratica delle sue idee politiche. Una fin troppo lunga tradizione culturale occidentale ha operato una "santificazione" filosofica di Platone, omettendo di criticarne adeguatamente le idee politiche e non solo.
Canfora, complice Aristofane, indica la strada per una lettura nuova e più onesta del filosofo greco e per una rilettura della sua utopia. Facendoci consapevoli dell’enorme impatto che deve aver avuto in una società maschiocentrica come Atene la Repubblica di Platone (soprattutto per la proposta della parità in pubblico uomo/donna e parità in funzioni cruciali) e l’eco di essa in una città in cui le donne "libere", cioè in grado di esplicare le proprie capacità, sono esplicitamente quelle considerate "di malaffare". Lo scandalo è che Platone propugna la fuoriuscita di casa delle donne "perbene", il loro libero commercio con gli uomini e soprattutto la loro funzione primaria nella difesa della città.
«Critico il Platone di Reale il marxismo non c’entra»
Vegetti: è essenziale l’autonomia dei dialoghi
di Antonio Carioti (Corriere della Sera, 04.01.2014)
Mario Vegetti non è soltanto autore di importanti studi sul pensiero classico, tra cui L’etica degli antichi (Laterza, 1989) e Quindici lezioni su Platone (Einaudi, 2003). Ha pubblicato anche nel 2004, per la collana «Autentici falsi d’autore» dell’editore Guida, un libretto in cui immaginava l’ipotetico dialogo tra Socrate e uno straniero giunto da Treviri (leggi Karl Marx), contenuto in un inesistente XI libro della Repubblica di Platone. Se a ciò si aggiunge che è stato anche curatore del volume Marxismo e società antica (Feltrinelli, 1977), Vegetti rientra perfettamente nella categoria dei cattedratici orientati ideologicamente a sinistra che Giovanni Reale, nell’intervista apparsa ieri sul «Corriere», ha accusato di aver avversato in ogni modo il suo nuovo paradigma interpretativo del pensiero platonico.
Che cosa pensa della denuncia di Reale?
«È normale che la comunità scientifica sia divisa su temi di estrema complessità. Reale ha elaborato una sua particolare interpretazione di Platone, del tutto rispettabile, che ha sostenuto con vigore e con vasti lavori di ricerca, ma non è condivisa dalla maggioranza degli studiosi, né in Italia né all’estero. Il fatto che abbia trovato ostacoli e difficoltà non ha nulla a che fare con il presunto boicottaggio di professori marxisti intolleranti verso i colleghi cattolici come Reale, ma dipende dall’esistenza di forti dissensi riguardo alle sue teorie».
Però fa specie che un programma di ricerca presentato da uno studioso di spicco come Reale non abbia a suo tempo ottenuto i finanziamenti pubblici che chiedeva.
«È capitato anche a me che alcuni miei progetti fossero bocciati da commissioni esaminatrici, ma non per questo ho pensato di bandire crociate contro gli autori cattolici o heideggeriani. Ho preso atto che i colleghi addetti alla valutazione non la pensavano come me».
Perché sono così controverse le tesi di Reale sulla «dottrina non scritta» di Platone?
«Esistono alcune testimonianze di Aristotele secondo cui Platone avrebbe insegnato una dottrina che non è contenuta nei suoi dialoghi giunti fino a noi in forma scritta. Tale dottrina ha un carattere fortemente metafisico: in sostanza consiste nel far derivare l’intera realtà da due princìpi supremi, l’Uno e il Molteplice, che poi, per dirla in modo schematico, corrispondono rispettivamente al bene e al male. Secondo me è plausibile che Platone si sia espresso in questo senso discutendo con i suoi allievi. Ma dire che i dialoghi nel loro complesso sono semplicemente un preambolo rispetto alla dottrina metafisica è assolutamente riduttivo. E impoverisce in modo inaccettabile la comprensione del pensiero platonico».
Quindi l’oggetto del contendere è il rilievo da attribuire ai dialoghi.
«Il problema di fondo è la loro autonomia, il loro pieno valore filosofico. Essi contengono a mio avviso una ricchezza enorme di pensiero, che merita di essere studiata di per se stessa: non possono essere concepiti come una sorta d’introduzione alla dottrina non scritta».
Reale però, nell’intervista al «Corriere», ha sostenuto che «tenendo fermo il principio dell’autonomia dei dialoghi, si può dimostrare tutto e il contrario di tutto».
«Mi sembra francamente un modo di esprimersi un po’ rozzo. I dialoghi sono messe in scena di discussioni su temi filosofici. Quindi rappresentano per loro natura una pluralità di prospettive. Ma il punto è che non è necessario attribuire a Platone (e del resto a nessun altro pensatore) un sistema metafisico chiuso e compatto. Il suo è un insegnamento molto articolato. Colgo invece nell’atteggiamento di Reale un’ansia di riduzione metafisica del pensiero platonico a un’ultima verità che non si può più discutere. Ma, come lei vede, in tutto questo il marxismo non c’entra niente».
I principali studiosi italiani di Platone non seguivano un tempo quell’indirizzo?
«Non è vero, ce n’erano parecchi di matrice idealista. Margherita Isnardi Parente (scomparsa nel 2008) si opponeva tenacemente a Reale, ma era di formazione crociana e aborriva il marxismo. Oggi d’altronde è dall’estero, specie dall’area anglosassone, che giungono le maggiori critiche all’opera di Reale: da studiosi come l’inglese Christopher Rowe, il francese Luc Brisson, il tedesco Michael Erler. Tutti autori completamente estranei al marxismo».
di Giovanni Reale (Corriere della Sera, 06.01.2014)
Caro direttore, dopo l’intervista che ho dato ad Armando Torno (Corriere della sera del 3 gennaio) e la replica, firmata da Antonio Carioti che registrava le tesi di Mario Vegetti (4 gennaio), desidero aggiungere alcune precisazioni. I marxisti, nel secondo dopoguerra, anche se non hanno mai vinto le elezioni, si sono imposti ad alto livello, instaurando una sorta di dittatura culturale. La Democrazia cristiana, inoltre, ha commesso molti errori proprio in campo culturale, al punto che il ministro della Pubblica istruzione Riccardo Misasi ha proposto il «sei politico», una promozione garantita a tutti. Con ironia gli antichi dicevano: nel caso in cui vengano a mancare cavalli e restino solo asini, si stabilisca per legge che tutti gli asini siano detti e considerati cavalli. E così siamo giunti alla situazione della scuola di oggi.
Io sono stato avversato dall’Accademia non solo di recente per la mia interpretazione di Platone, ma da sempre, a cominciare dai lavori su Aristotele degli anni Sessanta del secolo scorso, in cui denunciavo gli errori di ermeneutica del grande filologo Werner Jaeger, oggi da tutti riconosciuti. Ma allora sono stato accusato (da marxisti e da altri) di sostenere quelle tesi in quanto cattolico, e addirittura tomista (non lo sono mai stato). Inoltre, quando stavo per pubblicare la traduzione con commento della Metafisica di Aristotele, un potentissimo accademico di allora minacciò di rovinarmi la carriera se l’avessi data alle stampe.
Alla pubblicazione della mia Storia della filosofia antica in 5 volumi (allora da «Vita e pensiero»; oggi, in 10, da Bompiani), un giornalista disse al direttore di «Vita e Pensiero» che nessun quotidiano l’avrebbe recensita, perché scritta da un cattolico e per una casa cattolica. E da alcuni colleghi è stata proibita, in quanto giudicata «non scientifica».
Anche i miei allievi sono stati avversati. Maurizio Migliori si è in certo senso salvato, in quanto legato al gruppo vicino al «manifesto». Ma è stato più volte invitato a lasciarmi, in quanto cattolico. Ma Migliori credeva nel mio metodo, e giudicava le ricerche scientifiche come meta-politiche. Roberto Radice è stato addirittura bocciato al primo concorso (non ammesso neppure agli orali). E, in risposta, ha tradotto tutti gli Stoici antichi e poi le Enneadi di Plotino. E vinta la cattedra, ha creato la collana dei Lessici, con programma elettronico, dei filosofi antichi.
Le più forti opposizioni dei marxisti si sono verificate in occasione della pubblicazione dell’opera Il pensiero occidentale , che ho scritto con Dario Antiseri, per l’Editrice La Scuola. Ma inaspettatamente proprio dalla Russia è venuta la smentita dei detrattori nostrani. La traduzione russa ha avuto grande successo. Raissa Gorbaciova, professoressa di filosofia, ne ha fatto grandi elogi, e l’Università Statale di Mosca ha premiato Antiseri e me con il titolo di «Professor honoris causa». Nella giornata del premio, un professore ci ha elogiati, dicendo che, con la nostra opera, abbiamo insegnato «che cos’è la democrazia in filosofia», facendo capire che cosa dice ogni filosofo e perché lo dice, di qualsiasi tendenza sia.
L’opera ha avuto varie traduzioni, l’ultima delle quali è venuta dal Kazakistan, promossa dal ministero della Pubblica istruzione, ed è in corso la trattativa per la traduzione in cinese. Il Corriere della Sera ha di recente promosso un’edizione dell’opera in 14 volumi, con un imponente apparato iconografico ideato da Mario Andreose, con cui ho collaborato con entusiasmo (da giovane amavo dipingere, e tuttora scrivo libri sull’arte con Elisabetta Sgarbi, convinto che l’arte sia una delle vie attraverso le quali l’uomo ricerca la verità).
Al marxismo si è oggi sostituito un laicismo estremista, che è una forma di Illuminismo integralista, anticattolico e antireligioso, non meno pericoloso, in quanto dimentica una sacrosanta verità, espressa in modo perfetto da Edgar Morin: i lumi della ragione non vedono le ombre all’interno della loro chiaroveggenza; essi «per non accecare, hanno bisogno d’ombra; dobbiamo riconoscere il mistero della realtà, della vita, dell’essere umano».
Ai giovani, per concludere, vogliamo inviare un messaggio di fiducia. Dalle situazioni, anche le più difficili, come abbiamo più volte verificato di persona, è sempre possibile uscire, se si crede in ciò che si fa, e se ci si impegna a fondo, cercando di evitare ogni compromesso. E ricordiamo la splendida massima di Eraclito, il più profondo filosofo presocratico, che ci ha molto aiutato: «Se uno non spera, non potrà mai trovare l’insperabile, perché esso è difficile da trovare e impervio».
Platone e la green-economy. Se gli antichi ci insegnano l’ecologia (e la finanza)
di Alberto Magnani (Il Sole-24 Ore, 27 giugno 2013)
L’aneddoto non è notissimo. La Regina Elisabetta, a colloquio con i baroni della British Academy, chiede: come è possibile che la crema dell’accademia anglosassone non sia riuscita ad anticipare la crisi finanziaria? Come è possibile che chi pronosticava l’implosione della bolla dei mutui subprime venisse scaricato come un «visionario», quando i contraccolpi del leverage erano in agguato da anni? Il mea culpa dei professori recita così: «In summary, your majesty, the failure to foresee the crisis was a failure of the collective imagination to understand the riks of the system as whole». In sostanza, vostra altezza, il fallimento nella previsione della crisi era il fallimento della nostra immaginazione. Troppi numeri, poca filosofia. Certo, un passo della Repubblica di Platone non rimpiazzerà le analisi macroeconomiche. Ma pulisce gli occhi dall’ovvio. Con uno sguardo un po’ più in là, che è la prima risposta alle crisi di domani, dai mercati finanziari al cambiamento climatico.
Melissa Lane, politologa e classicista in cattedra alla Princeton University rispolvera l’immaginazione degli antichi per far volare la "scienza triste" nella direzione della sostenibilità. Lane parte dal fondatore dell’Accademia, e lo supera allargando la potenza d’urto dei suoi dialoghi dall’élite degli aristocratici della cultura alla società di massa. In «Eco-Republic - What the Ancients Can Teach Us about Ethics, Virtue, and Sustainable Living» (Princeton University Press, 2012), Lane ragiona sui concetti di inerzia, immaginazione e iniziativa, per la sfida a scatto immediato del cambiamento climatico.
L’inerzia come blocco mentale, pigrizia - ad esempio - degli imprenditori edili che ignorano le tecniche di costruzione a impatto zero perché «non credono sia possibile». Immaginazione come idealità imprenditoriale, coraggio metafisico (nel vero senso del termine: oltre la fisica, oltre quello che c’è) contro i tecnicismi dei modelli di rischio che per anni hanno escluso dai propri calcoli le urgenze dell’economia reale. Iniziativa come slancio nella realizzazione, riannonando le file tra i risparmiatori, i cittadini e un sistema che sta esaurendo le pile. Con la crisi delle risorse, dal petrolio all’acqua, che incalza e chiederà spiegazioni più tempestive di quelle della British Academy.
La "Repubblica verde" è la Repubblica del dialogo di Platone, con il filtro di più di 2000 mila anni di cambiamenti. E un realismo di base che azzera i rischi di "castelli in aria", alla peggior maniera della filosofia politica che istituisce modelli senza considerare i fatti. Sono i provvedimenti normativi a dover fare il primo passo: briglie alla finanza sregolata (la Tobin tax?), tasse sul carbonio per limitare e quantificare le emissioni, sgravi sulle tecnologie go-green.
Ma l’immaginazione psico-sociale resta il migliore e il primo dei complementi. Come nel caso dell’emergenza rifiuti a Nuova Delhi, quella che l’Economist ha ribattezzato la «pestilenza dei sacchetti di plastica»: un’epidemia di «plastic bag» che intasano le fognature e avvelenano il bestiame.
Basterebbe una rivoluzione minima per invertire la rotta. Ma l’inerzia mentale è così rigida che solo i salassi delle multe hanno sortito un - parziale - miglioramento: tra il pagare una multa e cambiare le proprie abitudini, in tanti preferiscono salvaguardare le proprie abitudini. La sostenibilità, dice la Lane, sta a metà tra scienza ed etica: non insegue il "bene" universale, ma impronta il comportamento in base a quello che è bene nelle necessità reali. Costruendo castelli reali, e impatto zero, sulla scia di Platone.
Perché oggi abbiamo bisogno di Platone
di Marco Rovelli (l’Unità, 15.06.2013)
«LA REPUBBLICA DI PLATONE» RISCRITTA DA ALAIN BADIOU (EDITA DA PONTE ALLE GRAZIE) CREDO SIA UNO DEI LIBRI PIÙ BELLI CHE HO LETTO QUEST’ANNO: si legge come un testo teatrale, c’è il medesimo tono brillante e la messa in scena propria di un drammaturgo (quale Badiou è, del resto). Peraltro Badiou si appropria di Platone a tal punto che gli stessi concetti fondamentali cambiano nome: «Idea del Bene» diventa «Verità», «anima» diventa «Soggetto» (e la sua tripartizione diventa «le tre istanze del Soggetto»: Desiderio, Affetto, Pensiero), e, lacanianamente, Dio diventa il «grande Altro».
Una riscrittura vera e propria, anacronismi compresi (da Mao al mito della caverna calato in una sala cinematografica). Perché abbiamo bisogno di Platone, oggi? Perché, come scrive Badiou nella prefazione, «ha aperto la strada alla convinzione che governare noi stessi nel mondo presupponga che una qualche via d’accesso all’assoluto ci sia dischiusa».
Non si tratta dell’Assoluto di un Dio, o dell’Assoluto idealistico, ma di questo: che «il sensibile di cui siamo intessuti, al di là della corporeità individuale e della retorica collettiva, partecipa della costruzione di verità eterne» una verità vuota, che accoglie gli eventi che producono senso, e molteplice.
In una intervista che si trova sul blog Superdupont di Stefano Montefiori, Badiou afferma: «Platone è il maestro dell’idea di universalità, senza la quale l’umanità non riuscirà a uscire dal caos. Se Platone attribuisce molta importanza alla matematica è solo per questo, perché vede nella matematica un esempio astratto di universale. Se conosci le regole del gioco, tutti possono giocare. Platone non pensava certo che fosse una ricetta facile o immediata, questa universalità bisogna cercarla e costruirla».
Il comunismo prefigurato nella Repubblica è, per Badiou, il momento più alto di questa universalità: e solo sulla base di questa idea si può uscire dall’unica altra universalità, quella che sta devastando il genere umano, ovvero quella del denaro.
Quando Platone parla proprio di noi
Badiou ha riscritto la “Repubblica”. Con un occhio all’oggi
di Roberto Esposito (la Repubblica, 18.03.2013)
Come cambia la politica - i suoi soggetti, i suoi strumenti, i suoi contesti? È questa la domanda che in maniera martellante ci insegue dagli schermi televisivi, dalle pagine dei quotidiani, dalla produzione saggistica. Fine dei partiti, crisi della rappresentanza, populismo telematico sono alcune delle categorie attraverso le quali sociologia e politologia cercano di stare al passo col mutamento in una rincorsa ossessiva del nuovo. Ma non è la domanda della filosofia. Ad essa non interessa ciò che cambia, ma ciò che non cambia.
O, forse meglio, ciò che, in una temporalità sempre più schiacciata sulla dimensione del futuro, permane stabile e si ripete. Se si prendono i tre maggiori pensatori novecenteschi della politica, Carl Schmitt, Hannah Arendt e Michel Foucault, questo è l’interrogativo che muove la loro ricerca: quale è l’essenza della politica? - si chiede il primo nel suo celebre saggio degli anni Venti. Che cosa è la politica?, incalza la Arendt negli anni Cinquanta. Come funziona il potere? si domanda Foucault negli anni Settanta. Nessuno di loro, naturalmente, trascura le trasformazioni storico-concettuali che differenziano radicalmente la scena della polisgreca da quella dello Stato moderno, e questo dall’attuale regime biopolitico. Ma con lo sguardo puntato al rapporto genealogico tra origine ed attualità.
È a partire da questa prospettiva che va colto il rilievo del lavoro filosofico di Alain Badiou - uno dei maggiori pensatori francesi e non solo, già allievo di Althusser e Lacan - e, in particolare, della sua ritrascrizione della Repubblica di Platone (tradotta adesso dal Ponte alle Grazie, per la cura di Ilaria Bussoni e con una limpida introduzione di Livio Boni).
In essa - alla fine di un lungo itinerario che ha trovato ne L’Essere e l’evento (Il Melangolo) l’apice teoretico e ne L’ipotesi comunista (Cronopio) la punta più acuminata - Badiou riconosce nel grande dialogo platonico qualcosa che oltrepassa il suo contesto storico, per parlarci in maniera, appunto, essenziale.
Si tratta del rapporto metafisico tra politica, verità e pensiero. Dove, però, il termine “metafisica” non allude a un piano trascendente e superiore a quello dell’esperienza, ma a un nucleo universale che lo attraversa e lo mobilita dall’interno. Contro l’interpretazione teologica, ma anche contro quella razionalistica di Platone, Badiou difende una lettura dialettica, intenta a coniugare il carattere materialistico della conoscenza sensibile con quello, universale, della verità.
Naturalmente l’autore conosce perfettamente il carattere aristocratico e dunque esplicitamente antidemocratico della concezione platonica. Ma è proprio tale critica della democrazia, inevitabilmente legata al proprio tempo, a mettere il dialogo di Platone in risonanza con la contemporaneità. Nella sua polemica contro gli eccessi “populistici” del demos, non troviamo qualcosa che continua a interpellarci da vicino? E il rifiuto della proprietà privata, aspramente stigmatizzato da una diffusa tradizione antiplatonica, non contiene un riferimento, certo problematico, alla nostra idea di “bene comune”?
Ovviamente per collegare, traversando le epoche, un testo originario come quello platonico alle dinamiche del nostro tempo, occorre operare una sorta di sottrazione del pensiero alla storia in cui si genera e anche a quella cui sembra dar luogo. Ciò spiega come il comunismo, di cui Badiou individua la radice genealogica proprio nel dialogo platonico, possa essere valutato più che in riferimento ai suoi effetti storici, in relazione a una verità metastorica. E cioè a quella intenzione emancipativa, fondata sull’idea universale di giustizia, poi rovesciata e mortificata in tutte le sue espressioni storiche.
Come l’idea di uguaglianza, anche la tendenza totalitaria - che autori come Popper e perfino Arendt hanno voluto leggere nella concezione platonica - è una modalità metafisica che tende a risorgere come uno spettro non solo all’esterno, ma anche all’interno della democrazia, tutte le volte che il rapporto tra politica e verità si cristallizza in una forma bloccata e univoca. Ciò, secondo Badiou, vale per il fascismo, per il comunismo, ma anche, certo in forma diversa, per l’attuale capitalismo finanziario, che esclude di per sé tutto ciò che non rientra all’interno dei propri presupposti.
Cercare un rapporto con la verità nell’orizzonte della politica non significa oggettivarla in un particolare contenuto, così da cancellare, come errore, tutti gli altri. Il filosofo deve confutare il sofista che è in lui, ma senza mai pensare di poterlo eliminare. In questo senso, secondo l’insegnamento di Lacan, Badiou può sostenere che non soltanto la verità è vuota, libera di accogliere gli eventi che scuotono la nostra esistenza, ma anche molteplice, come lo stesso essere delle cose, mai univoco e sempre plurale. È così che, pur assegnando all’universale tutti i diritti che il relativismo contemporaneo vorrebbe negargli, l’autore può salvare la logica del singolare, facendo ricorso anche alla teoria matematica degli insiemi di Cantor.
Nella sua godibilissima riscrittura della Repubblica Badiou non si limita a dar voce al suo lessico lacaniano - trasfor-mando ad esempio la caverna platonica in una sala cinematografica o chiamando Dio il Grande Altro -, ma vivacizza il dialogo con una serie di trovate sceniche che egli attinge dal proprio repertorio di drammaturgo. Riproporre oggi, riattualizzandolo, il gesto platonico vuol dire anche ripristinare la potenza creativa di un linguaggio filosofico sempre più appiattito sul lessico incolore della logica formale.
IL LIBRO La Repubblica di Platone di Alain Badiou (Ponte alle Grazie, pagg. 422, euro 28)
Macché antipolitica, è iperpolitica
di Umberto Curi (Corriere La Lettura, 13.1.2013)
Dietro le polemiche più furibonde rivolte contro i partiti e le istituzioni rappresentative c’è la pretesa assolutamente irrealistica che lo Stato possa risolvere qualsiasi problema P iaccia o meno, è destinata ad essere una protagonista - se non la dominatrice assoluta - dell’imminente campagna elettorale, come già lo è stata nel recente scorcio della vita nazionale.
Detestata o invocata, criticata o esaltata, per riconoscimento unanime l’antipolitica è il nuovo soggetto che sta rubando la scena alle altre maschere della rappresentazione che celebra il suo rito supremo con le elezioni. Ma alla indiscussa centralità del fenomeno non corrisponde affatto una comprensione adeguata di quale ne sia la vera «natura», né di ciò che di essa è a fondamento, dal punto di vista storico e concettuale.
L’equivoco principale scaturisce da quella preposizione, «anti», che suggerisce un’idea totalmente fuorviante, tale per cui essa tenderebbe a negare frontalmente la politica. Mentre un’analisi meno superficiale può far emergere un dato sorprendente, e cioè che ciò con cui abbiamo a che fare non è la negazione, ma al contrario una variante iperpolitica della politica.
Nel libro IX dell’Odissea Omero riferisce un episodio singolare. La nave di Ulisse ha raggiunto un’isola solitaria e sconosciuta. Come è consuetudine, viene inviata a terra una piccola delegazione di uomini, per ottenere informazioni sugli abitanti dell’isola. Passano le ore, ma dei compagni mandati in ricognizione non si ha notizia. Verranno ritrovati - illesi - qualche ora più tardi. A differenza di ciò che si temeva, gli abitanti dell’isola non li avevano accolti in maniera ostile. Al contrario, avevano condiviso il loro alimento abituale, i frutti del loto. «Ed essi - racconta Omero - non volevano più ritornare, e volevano invece restare là, insieme ai Lotofagi, a mangiare loto, dimenticando il ritorno».
Nóstou lathéstai, «dimenticare il ritorno»: questo il pericolo più insidioso, fra le molte avversità affrontate da Ulisse e dai suoi compagni. Lo stesso pericolo, citando precisamente questo passo omerico, è indicato da Platone quale principio di degenerazione dell’individuo, nel passaggio dall’uomo oligarchico all’uomo democratico.
All’origine del processo di degrado, il cui esito più compiuto sarà l’instaurazione della tirannide, vi è una «dimenticanza», non meno esiziale di quella che ha minacciato i compagni di Ulisse. Come costoro, scampati miracolosamente a mille disavventure, rischiano di vedere vanificato il progetto del ritorno in patria per una semplice «dimenticanza», allo stesso modo da una «dimenticanza» trae origine la degenerazione degli individui, e dunque anche degli Stati.
In un altro contesto, Platone spiegherà più chiaramente quale sia il contenuto di un oblio così decisivo. Ciò che siamo irresistibilmente portati a di-menticare (letteralmente: a far «cadere dalla mente»), è quale sia la fonte da cui scaturisce la politica, e quindi anche quale ne sia il fondamento. La politica è un phármakon, e cioè - per rispettare rigorosamente l’irresolubile ambivalenza del termine greco - una medicina che intossica, un veleno che guarisce. Non è dunque, per restare non occasionalmente nel lessico farmacologico, una panacea, un toccasana capace di sanare ogni malattia, senza dar luogo ad alcun fenomeno collaterale. Si tratta, invece, di un rimedio limitato e imperfetto, necessario per fronteggiare la malattia dello Stato, ma al tempo stesso del tutto incapace di garantire una compiuta guarigione.
Ciò che troppo spesso siamo portati a dimenticare - scrive Platone nel dialogo intitolato Politico - è che il mondo in cui attualmente viviamo è un mondo che gira alla rovescia, nel quale tutti i processi fisici, cosmologici e biologici si muovono in senso contrario, rispetto alla direzione originaria. Un mondo, soprattutto, che è caratterizzato dal fatto che Dio ha abbandonato la barra del timone, e perciò non ci conduce più al pascolo, orientando la vita dell’intera comunità. Non siamo dunque più «gregge divino», ma dobbiamo piuttosto «badare a noi stessi», senza più poterci affidare alla guida della divinità.
Nella situazione di abbandono, e dunque di massima incertezza, nella quale attualmente ci siamo venuti a trovare, ci sono stati elargiti alcuni doni - primi fra tutti la tecnica e la politica - mediante i quali cercare di guadagnarci la nostra sopravvivenza. Pur essendo, fra tutte le technai, quella regia, fin dalla sua genesi la politica è solo questo: una medicina che intossica, un rimedio inevitabilmente parziale, un tentativo per compensare l’abbandono da parte di Dio.
Tutto ciò è altresì confermato dall’analisi platonica dello Stato. Illusorio sarebbe immaginare che uno Stato possa dirsi «sano» dopo la «grande catastrofe» che ha invertito il senso di tutti processi biologici e astronomici. Quale che ne sia la forma di governo, è inevitabile che quello in cui viviamo sia uno Stato «rigonfio» e dunque «ammalato». Ed è altresì inevitabile che, assecondando l’impulso che è all’origine dello Stato, compaia nell’orizzonte storico qualcosa che in precedenza era sconosciuto, e che invece da quella fase in poi accompagnerà il genere umano.
Nel passaggio dalla condizione di originaria «salute» dello Stato alla situazione attuale, sulla spinta di una «sconfinata brama di ricchezza», diventerà necessario «fare la guerra». Ancora una volta, il «realista» Platone, intercetta il meccanismo che è storicamente e concettualmente alla base della guerra, senza alcun affidamento esigenziale: «facciamo pure a meno di dire se la guerra sia fonte di male o di bene. Contentiamoci di dire che ne abbiamo scoperto la genesi» (Repubblica, II, 373, d-e).
Da tutto ciò dovrebbe risultare con evidenza che utopistica non è affatto la rappresentazione platonica dello Stato, come per negligenza o conformismo si continua acriticamente a ripetere. Utopistico sarebbe, al contrario, credere che l’uomo possa da sé procurarsi uno Stato nel quale dominino la «pace» (eiréne), il «rispetto reciproco» (aidós), una «buona legislazione» (eunomía) e la «giustizia non invidiosa» (aphtonía díkes), vale a dire ciò che solo la guida del «pastore del mondo» poteva assicurarci. Per la stessa ragione per la quale sarebbe stolto affidare alle capre il governo delle capre, «nessuna natura d’uomo è capace di governare tutte le cose umane con potere assoluto senza riempirsi di tracotanza e di ingiustizia» (Leggi, IV, 713 c-d).
In un contesto e con motivazioni differenti, Thomas Hobbes ribadirà a suo modo l’assunto platonico. Non vi è proprio nulla di «naturale», né ancor meno di «divino», nella politica. Ad essa ricorriamo solo perché ne siamo costretti dalla paura, perché tramite essa vogliamo sottrarci al rischio incombente di subire violenza, preservando la nostra incolumità. Il contratto fra lo Stato e i cittadini non scaturisce da una opzione positiva e non corrisponde ad alcuna prospettiva salvifica. È fondato piuttosto sul realistico riconoscimento che l’unica alternativa alla politica è la guerra, anzi: il bellum omnium contra omnes.
Ecco, dunque, ciò che non si deve «dimenticare», se si vuole evitare di fare la fine degli incauti compagni di Ulisse. Che siamo così lontani dal vivere in un mondo «bene ordinato», da poter perfino affermare di trovarci piuttosto in un mondo in cui tutto gira alla rovescia. Che quella creazione interamente artificiale che è lo Stato riproduce - né potrebbe essere diversamente - tutti i limiti degli uomini che di esso sono artefici, al punto da non poter essere concepito se non come organismo affetto da malattie mai definitivamente estirpabili. Che nella genesi stessa dello Stato è materialmente scritto lo sbocco bellico, come necessità insita nella sua stessa «natura». Che la politica, soprattutto, può agire soltanto come phármakon, come un rimedio imperfetto, come un beneficio che arreca nuove sofferenze.
La radice vera dell’antipolitica, nelle sue formulazioni meno becere, sta tutta in questa «dimenticanza». Consiste nel pretendere che la politica funzioni come rimedio «assoluto», come farmaco senza effetti tossici. L’antipolitico vive ancora nell’«incantamento» dell’età di Crono, si illude che i cittadini possano ancora essere «gregge divino». Esige che la politica sia ciò che non può essere, una panacea, anziché un phármakon. Si sente tradito perché la politica non è accompagnata dalla «buona legislazione» e dal «rispetto reciproco», e ancor meno dalla «pace» e dalla «giustizia». Appassionato amante deluso dal suo amato, l’antipolitico rimprovera alla politica di non corrispondere all’immagine che aveva ingenuamente vagheggiato. E vorrebbe starsene là, su quell’isola, con i Lotofagi, a mangiare loto, dimenticando il ritorno.
Il filosofo che volle educare il tiranno
Platone cercò interlocutori a Siracusa per realizzare il suo ideale autoritario
di Luciano Canfora (Corriere delal Sera, 29.11.2012)
Discendente dalla più antica e illustre nobiltà ateniese, Platone ha sentito sin dal principio l’attrazione della politica. Ha avuto la ventura di vivere una serie di esperienze straordinarie e traumatiche: i Trenta Tiranni - il cui capo era un suo congiunto -, la restaurazione democratica, la dispersione dei socratici, la grandezza e la miseria della tirannide siciliana, l’irretimento nelle beghe della corte siracusana, la delusione, il ritiro nella scuola.
Ha idoleggiato una società comunistica e profondamente «interventista» nella vita di ogni singolo come unica via per la realizzazione non individualistica, ma collettiva del «sommo bene»; ma una tale società non ha saputo concepirla che come rigidamente castale e autoritaria; attratto, come già Crizia, da un modello che, per quanto gli appaia col tempo sempre più insoddisfacente, deludente e caduco, è pur sempre presente alla sua coscienza: quello della Sparta egualitaria, povera, virtuosa, delle leggi di Licurgo.
Assumendo i «tiranni» di Siracusa come interlocutori del suo esperimento di «monarchi-filosofi», Platone adotta un punto di vista che potremmo definire «hobbesiano»: quello della indistinguibilità tra monarca e tiranno (se non in ragione delle azioni compiute), e il rifiuto, per converso, della usuale loro distinzione basata sul giudizio soggettivo di sostenitori e avversari. (Non è inutile ricordare che proprio dalla considerazione della tirannide greca - e ateniese in particolare - Hobbes era per la prima volta approdato, nell’introduzione a Tucidide, 1629, a quella formulazione dell’inconsistenza del concetto di per sé negativo di «tirannide» che affiderà più tardi al De Cive).
Questo atteggiamento dovette essere comune anche ad altri socratici, e discende, forse, dall’atteggiamento radicalmente critico dello stesso Socrate - il quale non a caso restò in Atene durante il governo dei Trenta - nei confronti di tutte le forme politiche tradizionali.
Un socratico non trascurabile, quale Senofonte, svilupperà nello Ierone il tema della «infelicità» del tiranno. Ma Platone andrà oltre. Col suo esperimento siracusano, egli si è aperto, nella prassi, ad una empirica intesa con i tiranni. È stata una scelta di realismo politico che di solito resta in ombra, quando si parla di Platone, collocato, di norma, agli antipodi del realismo o addirittura della Realpolitik.
Non sarà forse mai del tutto esaustivo lo sforzo volto a scandagliare le molte facce di questo genere di scelte: il misto di fascinazione del potere (e della persona che eventualmente lo incarni); di illusione o ragionevole convinzione di riuscire ad incidere in dinamiche e meccanismi che, lasciati a se stessi, sarebbero, forse, di gran lunga peggiori; di certezza che una testimonianza resa fino alle estreme conseguenze può rendere frutti a distanza di tempo (a futura memoria); di fatalismo per non saper più «uscirne»; di effettiva commistione di comportamenti tra il politico e il filosofo, che si produce comunque, anche nel loro confliggere. E siamo certi che questa casistica è del tutto incompleta: non rende appieno la ricchezza di possibilità che il difficile intreccio comporta o suscita.
Il moderno fautore del Principe, che teorizzò la necessità di affidare l’educazione ad un ideal-tipico Chirone perché mezzo uomo e mezzo bestia, fu, al tempo stesso, uomo di azione che dalla diretta esperienza della politica uscì schiacciato. E tuttavia egli è riuscito a ripensare quell’esperienza con un distacco tale da finire coll’apparire ai lettori - specie a quelli non benevoli, ma non per questo impertinenti - addirittura come il «cantore» dei metodi di governo del Duca Valentino. Né risolse l’evidente aporia la gramsciana intuizione di spostare su di un soggetto collettivo, la forza, il ruolo e le prerogative del «moderno principe».
È probabilmente illusorio il proposito di conciliazione o di ricomposizione tra morale individuale e morale politica. Ed è difficile sostenere che le esperienze risolutive non siano state ancora fatte, che il ritrovato risolutivo non sia stato ancora escogitato. Al contrario, la vastità e la ripetitività delle esperienze che abbiamo alle spalle, e che la superstite Historia rerum gestarum ci documenta, è tale da indurre piuttosto a ritenere che quel ritrovato non esista. Al punto che la medesima persona, ove per avventura trapassi da intellettuale a politico - raro ma non impossibile scambio di ruoli - cambia anche morale.
Libero resta, invece, il tipo di fuoruscita individuale, quando si sia approdati ad una situazione che appare ormai insostenibile. Seneca ha lasciato alle età successive, oltre che l’esempio della grandezza e miseria di un esperimento fallito, anche la ricetta, tipica dell’aristocrazia stoicheggiante romana, per chiudere sul piano individuale la partita: «Chiedi quale sia la strada per la libertà? Una qualsiasi vena del tuo corpo» (De Ira, III, 15, 4).
La politica è arte troppo grande e troppo rischiosa, già per il fatto che grazie ad essa alcuni divengono arbitri del destino di tutti gli altri, per non comportare, per chi vi si cimenta da protagonista, prezzi altissimi. Come ben sapeva il Socrate platonico, è l’unica arte che non dispone di canoni «insegnabili», e che tuttavia qualcuno, necessariamente, deve praticare. Anche il tiranno è dunque vittima, e talora vittima sacrificale.
A ben vedere, è talmente «ovvio» che la morale da lui praticata sia diversa da quella individuale (e non per sua libera scelta malefica), che, a distanza di tempo, sorge talora, tra i molti, pungente nostalgia di lui: consapevoli tutti, è da pensare, che egli fosse, per così dire, costretto ad una morale diversa. Donde il sorgere, ad esempio, dopo la morte di Nerone, di «falsi Neroni» ritornanti nel tempo nella fantasia collettiva, pur dopo la fine fisica di quel determinato principe che portò quel nome e che morì esecrato. Fenomeno destinato a coesistere con l’altro, complementare e indissolubile dal primo, dell’alta stima, anche da parte dei critici più acerbi, nei confronti della «via alla libertà» che Seneca, quando lo ritenne doveroso, seppe praticare.
L’imperativo di Patone è la rlicerca della verità
Così confutava la retorica vuota dei sofisti
di Corrado Ocone (Corriere della Sera, 05.07.2012)
Quello fra Socrate e il giovane Fedro è uno dei più importanti dialoghi platonici, uno dei principali «luoghi» del pensiero occidentale. La questione ontologica (la natura dell’anima umana) è trattata insieme a quella logica (il corretto procedimento del pensiero) e a quella metodologica (valore e limite della scrittura rispetto all’oralità). È nel Fedro, in particolare, che, nel riprendere e sviluppare il discorso sull’anima iniziato nella Repubblica, Platone fa l’esempio famoso della biga alata, che vaga nei cieli e a volte si approssima al regno degli dei e delle idee (l’iperuranio) e altre volte se ne allontana. La biga è composta da un cavallo bianco, che rappresenta la parte irascibile o emotiva dell’anima, facilmente assoggettabile, e un cavallo nero, simbolo della parte concupiscibile o istintuale, indomito e sfrenato. È sul cavallo bianco che deve soprattutto lavorare l’auriga, simbolo della ragione che conduce la biga.
In effetti, mentre l’emotività serve a sostenere la ragione, a darle il tono e l’energia passionale che possono sorreggerla, l’istinto, lasciato libero a se stesso, rende gli uomini simili alle bestie. È proprio per aver voluto sopprimere l’istinto, per aver sottovalutato le «ragioni del corpo» allontanando dagli uomini gli elementi di «telluricità» che pur li costituiscono, che l’Occidente, secondo Nietzsche, il più strenuo avversario di Socrate/Platone, ha costruito se stesso come «malattia». Anche se per lui la soluzione non è affatto nella creazione di una nuova gerarchia, cioè nel lasciare andare a briglie sciolte il cavallo nero, bensì in un rapporto più dialettico fra le parti di luce e di tenebra che ci costituiscono. Una luce assoluta finisce per accecare, e quindi ci rende ciechi come se stessimo al buio. Che la praticabile soluzione sia proprio in un nuovo rapporto fra cosmos e caos, dove l’uno elemento non pretende di sopprimere l’altro, e non in una prospettiva di nichilismo assoluto, viene in evidenza anche riflettendo sulla logica platonica.
Nel Fedro Socrate introduce l’importante distinzione fra dialettica e retorica. Quest’ultima era appannaggio dei sofisti e degli oratori che pullulavano ad Atene nel periodo in cui fu scritto il dialogo (370-360 a.C.), primo fra tutti quel Lisia di cui il protagonista del dialogo riassume a Socrate le idee espresse in un entusiasmante discorso. Socrate dimostra al suo giovane allievo che una cosa è la ricerca della persuasione, un’altra quella della verità: compiacere e soggiogare gli animi, avere l’adesione della maggioranza delle persone, non è garanzia di un corretto procedimento nel ragionamento. Anche se per Platone, al contrario di Hegel, la dialettica è un metodo del pensiero e non della realtà, anche per lui essa procede per successive unificazioni e separazioni, per tesi che si confrontano con le antitesi, con un’attenzione costante alla complessità del reale. Essa aborre le semplificazioni ammantate di parole efficaci dei demagoghi, i quali, forti ieri come oggi, sono nichilisti assoluti. Non che si debba fare a meno delle arti retoriche, ma esse devono essere subordinate alla dialettica: devono essere nulla più che uno strumento utile per la trasmissione del vero.
In questo caso la risposta platonica, riformulata alla luce delle acquisizioni più recenti della filosofia, ha un’indubbia potenza. Circola infatti nella nostra cultura, anche e soprattutto in quella liberale, un malinteso elogio del relativismo. Tuttavia, se viene meno il criterio che ci fa distinguere il vero dal falso (così come il bene dal male o il bello dal brutto), checché se ne argomenti, la conclusione non può che essere il nulla. Da questa situazione si esce riaffermando che la verità esiste, sebbene non ferma e stabile nel mondo dell’iperuranio, come voleva Platone, bensì come attinente alle specifiche situazioni storiche. Al platonismo, detto altrimenti, fa difetto la storicità.
Molto interesse ha poi suscitato nel nostro secolo anche la critica platonica della scrittura, Essa, così come è posta nel Fedro, va vista soprattutto in funzione dell’affermazione di un rapporto interiore e non estrinseco con la verità. Se non sappiamo in che mani mai capiterà e da chi sarà letto uno scritto, il dialogo presuppone al contrario un rapporto paritetico con l’interlocutore, insieme al quale, con procedere dia-logico o dialettico, si è impegnati nella ricerca del vero. Il dialogo permette, come dice Platone in modo molto efficace, che i discorsi fatti siano «scritti nell’anima».
SOCRATE INCONTRA MARX LO STRANIERO DI TREVIRI
All’interno del progetto editoriale degli “autentici falsi d’autore” Mario Vegetti analizza un testo, il cui ritrovamento ad opera dello studioso sovietico Josiph Vissarionovich risale al 1937, identificabile come l’XI libro della Repubblica platonica. Un testo condannato all’oblìo, e la cui autenticità è ancora oggi contestata dagli studiosi di scuola anglosassone, perché presumibilmente sottoposto a censura dall’indirizzo conservatore dell’Accademia post-platonica, o forse costituente forse l’autentico libro X, in seguito sostituito dall’attuale, che offre una lettura mitica e religiosa al posto di quella politica presente nel testo qui ritrovato.
Il libro XI si apre con l’arrivo dello Straniero di Treviri, forse un dotto di origine germanica acculturatosi negli ambienti greci di Marsiglia o un commerciante al servizio del ricco Federikos Anghelos, che dà vita a un dialogo con Socrate incentrato sul rapporto fra educazione e rivoluzione e sulla questione del potere. Lo Straniero sostiene la necessità che il popolo non abbia bisogno di speranze o paure per essere ben governato, bensì di verità. Socrate replica allo Straniero sostenendo che le disuguaglianze di carattere e intelligenza, che permettono a pochi straordinari di capire che la felicità dell’insieme è superiore a quella delle parti, sono all’origine della sua convinzione che il comunismo e il governo della città debbano cominciare dai pochi migliori. Che gli uomini non siano eguali per natura è comunque posizione condivisa anche dallo Straniero che rifiuta le tesi, da lui definite sciocchezze, sostenute in Palestina e da Rossone d’Elvezia che gli uomini siano tutti belli e buoni.
Secondo lo Straniero di Treviri è dalla base che si deve partire, dall’elemento che rende eguali falegnami, fabbri, muratori, che non è il loro sapere o la loro natura, bensì il loro lavoro che aggiunge valore alla materia e dal quale dipende la ricchezza della città nel suo insieme; è questo che li unifica e li rende, con un termine barbarico non presente nel pensiero politico greco, una Klasse. Di fronte alle obiezioni di Socrate e Trasimaco, il Trevirita deve comunque ammettere la necessità di una guida di pochi ottimi capaci di interpretare i bisogni e le aspirazioni dei lavoratori, di renderli coscienti e di guidarli verso la liberazione loro e della città tutta. Questa tesi dell’oligon meros, di un Partei in barbarico, potrebbe risalire all’influenza dello scita Vladimiros Leninos.
Lo Straniero non nasconde comunque le sue simpatie per l’ispirazione comunista di fondo di Socrate (enunciata nel libro V) e, di fronte alle obiezioni del giovane Aristotele al comunismo, lo Straniero replica che, ben lungi dal sostenere che ogni tipo di proprietà sia un furto, come vuole Prudone di Lutezia, lo sia invece la proprietà privata della terra, fonte del sostentamento comune, e l’appropriazione del frutto del lavoro altrui. In conclusione, sia Socrate che lo Straniero concordano sulla necessità di una mutazione straordinaria del mondo in un momento in cui la barbarie avanza sempre più e Socrate non esclude neppure che un giorno anche Trasimaco, nel momento in cui la sua ossessione per il potere si trasformi in uno strumento per cambiare l’inerzia dei tempi, si allei con lui e lo Straniero in quest’opera di trasformazione.
Vegetti nell’edizione del testo e nell’introduzione offre un ricco apparato di note con continui richiami a studiosi importanti come Giuseppe Mucca, D. Lomuto, M. Vecchietti e riviste prestigiose come i Quinterni di storia, Quaderni histerici e la Revue phantastique de Philosophie.
Di questo prezioso manoscritto, andato perso durante la seconda guerra mondiale, pare che esista un esemplare identico in un convento del monte Athos che i monaci non consentono però di trascrivere o fotografare. Ci pare assolutamente condivisibile l’invito volto da Vegetti a un intervento, anche militare, da parte della comunità internazionale per recuperare questo patrimonio culturale.
La lettera XIV, presumibilmente l’ultimo scritto di Platone, prende spunto da un episodio della storia italiana pre-romana: la tirannide esercitata da un politico dalle origini incerte, noto col nomignolo spregiativo di Bereskhetos - indicante in Aristofane, secondo la dotta ricostruzione di S. Funghi-Porcini, le forze della stoltezza e della follia - che governa utilizzando come mercenari tribù di barbari cispadani e pretoriani tiburtini.
Prendendo spunto dalla magia del piccolo tiranno che è capace di trasformare i giudici in accusati e i malfattori nei loro giudici, Platone riformula in modo radicale alcune posizioni fondamentali esposte nella Repubblica. Prima di tutto riconosce l’eccessivo formalismo socratico a proposito della giustizia identificata col rispetto delle leggi e dei poteri costituiti. Platone riconosce la giustezza delle tesi di Trasimaco: come si possono cambiare le leggi ingiuste di un tiranno o di una maggioranza maneggiata da abili impostori? La questione della giustizia si risolve in quella del potere giusto.
Platone afferma di aver riflettuto sulle parole del barbaro di Treviri che sosteneva come la giustizia legale e politica potesse essere solo la conseguenza, e non già la premessa, di una giustizia più radicale riguardante i rapporti sociali fra gli uomini. È per questo che secondo Platone risulta fallace sia il tentativo socratico di garantire la giustizia tramite l’ossequio a leggi e tribunali già ingiusti, sia quello di Platone stesso di sostituire un governo ingiusto con uno giusto mantenendo intatto l’ordine sociale e rischiando ogni volta di dar vita solamente a nuove tirannidi.
Bisogna quindi partire non più da un numero ristretto di individui, ma dalle moltitudini degli sfruttati e Platone invita gli amici d’Italia a chiamare alla lotta contro il tiranno proprio questi oppressi e in questo modo la vittoria sarà vicina: “Sappiate però che essa costerà anche a voi un prezzo pesante, perché nulla sarà come prima nel mondo che ne verrà, e spariranno anche i privilegi di cui voi stessi comunque godete” (p. 52).
Indice
La Repubblica, libro XI: Introduzione (La storia del testo; Gli interlocutori: lo Straniero, il giovane Aristotele; Lo sviluppo argomentativo). Libro XI
Lettera XIV: Introduzione (La tradizione manoscritta; Il contesto storico; Il senso dell’epistola)
Lettera XIV - Agli amici d’Italia (Sulla giustizia)
L’autore
Mario Vegetti (Milano, 1937), ordinario dal 1975 di storia della filosofia antica presso l’Università di Pavia, ha dedicato i suoi studi alla storia del pensiero scientifico greco, grazie anche agli insegnamenti di Ludovico Geymonat, e alla sfera etico-politica della filosofia antica. Tra le sue opere recenti ricordiamo: Biologia. La medicina in Platone (Il Cardo, Venezia 1995), Guida alla lettura della Repubblica di Platone (Laterza, Roma-Bari 1999), Quindici lezioni su Platone (Einaudi, Torino 2003).
* http://www.recensionifilosofiche.it/crono/2005-9-10/vegetti.htm
Platone: spetta ai saggi il compito di governare
Una concezione perfezionista e autoritaria
di Corrado Ocone (Corriere della Sera, 11.04.2012)
È un Platone che genera molti problemi da un punto di vista contemporaneo, diciamo pure liberale, quello del V libro della Repubblica. La stessa «rivoluzionaria» apertura ai diritti delle donne si inserisce in un discorso teso a «regolare» e «normalizzare», secondo un astratto ideale di bene e perfezione, i rapporti umani, la famiglia, la procreazione, l’allevamento e l’educazione dei figli, il governo della comunità.
Non c’è dubbio che sulle donne Platone rompa con la tradizione misogina della società greca. Ed è particolarmente rilevante che lo faccia contestando ogni forma di naturalismo o biologismo: le donne non vanno considerate come un insieme unico, predeterminato, immodificabile. Anche in una concezione funzionalistica, come è quella prospettataci nella Repubblica, in cui cioè ognuno deve svolgere nella società il ruolo che gli riesce meglio, i compiti vanno stabiliti in base alle capacità individuali, non per genere. A tutti, uomini e donne, va data la stessa educazione, vanno offerte le stesse possibilità. Tanto che anche i lavori più pesanti o tradizionalmente maschili possono essere in linea di principio appannaggio di donne, se mostrano di esserne all’altezza. È vero che Platone scrive che le donne sono più deboli degli uomini, ma si tratta chiaramente di una affermazione empirica e non teorica.
Tuttavia, per quanto audace sia la presa di posizione «femminista» di Platone, un primo centro del suo discorso è più avanti: allorquando cioè, sempre in questo libro, egli afferma che nello Stato ideale non deve esistere la famiglia, deve anzi esserci comunione di donne e figli, e l’educazione deve essere affidata alla collettività. Ad essa va anche affidata la regolamentazione dell’attività riproduttiva, attraverso un programma biopolitico o eugenetico che porti all’accoppiamento dei migliori. Ancora una volta il bios è sottomesso a superiori ed esclusive esigenze spirituali. Compito della società è infatti selezionare e coltivare l’eccellenza spirituale.
L’abolizione della famiglia è motivata in virtù del suo essere portatrice di interessi particolari e, quindi, tendenzialmente conflittuali con quelli della polis. Fra l’individuo singolo e la comunità non deve esserci mediazione alcuna: i genitori non devono sapere chi fra i pargoli allevati discende da loro geneticamente, né viceversa ai figli deve interessare il nome dei loro genitori. L’antinaturalismo porta così a enfatizzare il ruolo dell’educazione nella creazione di un’aristocrazia spirituale che governi la città. Tutte le parti di essa, così come gli organi di un corpo sano e funzionante, devono muoversi armonicamente in vista del vero bene, che per Platone è conoscenza o «amore del sapere» (filosofia). Il razionalismo etico (virtù è conoscenza) è l’ideale che sottende tutta la sua costruzione.
Si arriva così al vero centro dell’argomentazione: il potere deve essere affidato ai filosofi, o i governanti devono farsi tali, perché solo chi esercita questa disciplina sottomette gli istinti e le passioni - ciò che è legato alla corporeità - alla ragione. Solo il filosofo ha poi una visione del tutto, non possiede cioè un sapere solo specialistico o settoriale che tende per sua natura a farsi unilaterale. Solo il filosofo sa qual è il vero bene. Ed egli, fattosi governante, può anche mentire e ingannare per il bene o l’utilità di tutti. Sono qui presenti, sembrerebbe in modo paradigmatico, i due elementi politici più antiliberali che sia dato concepire: il perfezionismo e il paternalismo.
Non stupisce perciò che Popper abbia dedicato il primo corposo tomo della sua opera La società aperta e i suoi nemici (1945) alla giustificazione della tesi che fa di Platone il progenitore dello Stato totalitario. Bisogna tuttavia non tanto invitare, come si è fatto, a storicizzare le tesi esposte dall’autore, quanto piuttosto a tener presente che la Repubblica è concepita come una sorta di esperimento mentale. Platone afferma esplicitamente, ad un certo punto del V libro, di non essere ben sicuro di quanto sta dicendo in quanto procede per tentativi (con un metodo, potremmo azzardare, non dissimile da quello del trial and error dell’epistemologia popperiana). C’è poi sotteso a tutto il suo discorso un filo di ironia che, come ha sottolineato Gadamer, non sempre il lettore moderno coglie. E che, mostrando l’ampia gamma dei mondi possibili, svolge comunque una funzione critica rispetto all’esistente.
Il capostipite degli utopisti
Corriere della Sera 11.4.12
Testo fondamentale in cui si trattano problemi centrali sull’ordinamento politico ideale, sulla libertà dell’uomo, sulla condizione femminile, sulla pedagogia e sull’organizzazione dello Stato, La Repubblica di Platone (libro V) è in edicola il 12 aprile con la prefazione inedita di Pierluigi Battista. «Non avremmo Thomas More, Campanella, Morelly, Fourier senza la lezione di Platone», spiega appunto Battista, mettendo in risalto uno degli aspetti più interessanti del testo platonico, che fonda sostanzialmente «il fascino dell’utopia politica» per tutti i pensatori successivi. Ma «la radicalità con cui viene proposto un modello di Stato ideale storicamente inaudito prima della stesura della Repubblica», continua Battista, ne fa un testo interpretato di volta in volta nei secoli fino ai nostri giorni come ispiratore filosofico di una quantità di ideologie diverse, dai totalitarismi di destra al collettivismo burocratico. Anche applicando, come ricorda il prefatore, «al mondo greco classico categorie che invece sono figlie della nostra epoca». (i.b.)
I luoghi comuni platonici
Dall’amore al mito della caverna, così si banalizza il filosofo
Le idee del più studiato pensatore antico sono entrate, fraintese e semplificate, nel lessico di tutti.
Ma oggi nuove traduzioni delle sue opere recuperano, riportandolo alle origini, il loro significato
Nel "Simposio" non ha affatto predicato un rapporto solo spirituale senza trasporto fisico
C’è però anche chi sostiene che volgarizzazioni e distorsioni sono segni di vitalità
di Matteo Nucci (la Repubblica, 11.07.2011)
L’unico filosofo che non fece riferimento a lui fu Socrate. Ma il motivo è semplice: ne fu il maestro e morì prima che il discepolo cominciasse a dire la sua. Bastarono pochi anni dal suo primo scritto e Platone divenne semplicemente "il divino" e chi, in seguito, tra i filosofi, non lo abbia citato esplicitamente lo ha fatto comunque fra le righe, anche solo per negare di sentirsi un epigono.
Nel 1929, Alfred North Whitehead, matematico e filosofo inglese, lo scrisse in una frase semplicissima: «La storia della filosofia occidentale non è che una serie di note a margine a Platone». Ma non poteva immaginare che all’alba del successivo millennio, l’aggettivo derivato dal nome del pensatore ateniese potesse essere utilizzato durante la telecronaca di una partita di calcio, per definire il lancio di un difensore in difficoltà, tentato da una sorta di utopia disperata: sognare un attaccante che raccoglie il pallone e va in gol: "un passaggio platonico" appunto.
Il fatto è che di nessun filosofo come di Platone, la storia ha banalizzato il pensiero, finendo per produrre luoghi comuni che sono ormai parte dell’immaginario collettivo, tanto che è difficile estirparli per chi si dedichi allo studio e all’insegnamento. L’amore platonico, le idee, la caverna. Temi, concetti, immagini che la storia del nostro pensiero ha via via reso fruibili, in una semplificazione sempre più impoverita dell’originaria potenza.
«Basta rileggere i dialoghi», dicono concordi i maggiori platonisti italiani uniti adesso nel progetto portato avanti da Einaudi di ritradurre l’opera di Platone. «In fondo è tutto cominciato molto presto», spiega Franco Trabattoni, professore di Filosofia Antica all’Università di Milano, «Già i primi interpreti di Platone hanno cercato di offrire l’immagine di un filosofo sognatore, segnato da un eccessivo oltremondismo. Come se Platone disprezzasse il mondo alla stregua loro. È "l’assimilazione a dio" tipicamente neoplatonica. Una fuga dal mondo che non ha niente a che vedere con quel che scrive Platone».
Il caso più significativo è l’amore. Nei dialoghi consacrati all’eros - soprattutto il Simposio e il Fedro - nulla racconta di un disprezzo del corpo e di una relazione spiritualizzata in cui il contatto sessuale non ha luogo, come vuole la vulgata che nasce in sostanza con Marsilio Ficino. «L’entusiasmo erotico non viene mortificato in senso ascetico da Platone», spiega Bruno Centrone, antichista docente all’Università di Pisa. «Semmai lo scopo è riorientarlo: quell’entusiasmo si dovrebbe provare oltre che per i corpi belli, anche per la bellezza morale, dunque per la virtù, la giustizia e, su tutto, per il sapere. Allora eros diventa una forza potentissima». «Il sesso non è negato, per farla breve», aggiunge Trabattoni. «L’idea di liberarsi dal corpo non è affatto di Platone, ma di Plotino, più di sei secoli dopo. Per Platone, il corpo ce l’hai e lo devi usare. Il rischio sta nell’affidarsi unicamente alla realtà sensibile e nel rivolgere eros solo e soltanto verso i corpi».
Si tratta insomma del grande pregiudizio idealista in base a cui esiste una separazione netta fra sensibile e intellegibile e Platone sarebbe tutto dedito a ciò che sensibile non è. In sostanza, quindi, le famose Idee e il mondo dell’iperuranio, una dimensione al di là del cielo, in cui queste Idee sarebbero confinate, lontanissime e per sempre separate dal nostro mondo. «In questo caso però sono le parole di Platone ad aver favorito interpretazioni del genere», dice Centrone. «Nel senso che è lui stesso a parlare di un luogo oltre il cielo, anche se lo fa in senso mitico. Il problema, come sempre, sta nel prendere un solo aspetto della questione. Perché Platone è un pensatore complesso e ambiguo. È vero, per esempio, che l’Idea è separata dalle cose che prendono il suo nome, ma al tempo stesso in qualche modo deve essere presente in esse».
Secondo Trabattoni, però, il punto è altrove: nella tendenza a leggere le Idee come un modo di proiettare fuori dal mondo la risposta, ammettendo dunque il luogo comune in base a cui Platone esalterebbe un filosofo sognatore, dedito alla costruzione di un mondo ideale, un uomo in fuga dalla realtà. «L’Idea non è nient’altro se non un modello che serve a far funzionare il reale. Il calzolaio quando fa una scarpa guarda al modello ideale di scarpa e cerca di fare la sua approssimandosi al modello. L’azione virtuosa si approssima all’Idea di virtù, la cosa bella si approssima all’Idea di Bellezza e così via. L’errore è leggere Platone spostandolo tutto verso la trascendenza. È chiaro che qui parliamo dei secoli in cui neoplatonismo e cristianesimo vanno a intrecciarsi. Ma cosa diceva Nietzsche? Il cristianesimo è il platonismo degli ignoranti».
Interpretazione trascendentista e semplificazione delle complessità sarebbero dunque alle origini della progressiva, inarrestabile banalizzazione del pensiero di Platone. Quello che esemplarmente mostra un’immagine famosa: la caverna, le ombre riflesse sul muro, i prigionieri costretti a credere che quella sia la realtà e incapaci di liberarsi per ascendere alla contemplazione delle vere realtà. Una metafora chiamata erroneamente mito e interpretata semplicisticamente e in senso ascetico, mentre la sua complessità dovrebbe semmai spingere a ben altri sforzi di esegesi e rilettura anche quando l’intento è solo divulgativo. Gli sforzi che per esempio fece Orson Welles, dando voce alle parole di Platone su immagini animate che ora circolano su YouTube e raccontano la metafora nei minimi dettagli (http://www.youtube.com/watch?v=UQfRdl3GTw4).
C’è però chi non è completamente d’accordo. Riccardo Chiaradonna, professore di Filosofia Antica a Roma Tre, sostiene che banalizzazione e distorsione sono segni di vitalità, segni della capacità del pensiero platonico di riplasmarsi e rivivere. «Platone è stato letto e venerato più di ogni altro filosofo. Sia come pensatore altissimo che come modello di stile, come scrittore insomma. Il fatto che la sua filosofia si sia trasformata così tanto nei secoli è un segno della sua forza. Le versioni del platonismo peraltro sono state innumerevoli e non dimentichiamoci che neoplatonici come Porfirio e Proclo erano accaniti avversari del cristianesimo, tuttavia il loro pensiero venne adattato, ripreso e integrato dai Cristiani. Questo dimostra la vitalità del platonismo, non la sua debolezza. Del resto Platone fu un pensatore talmente complesso ed enigmatico che quanto insegnò si poteva interpretare sia in senso antimetafisico e aporetico, sia in senso metafisico e dogmatico. È dalla sua ricchezza che deriva la sua eternità, il moltiplicarsi di interpretazioni, di riletture complesse e anche di semplificazioni e banalizzazioni. Però resta il fatto che oggi, ad esempio, non diciamo di nulla che è "crisippeo", nonostante Crisippo sia stato un importantissimo pensatore antico. Diciamo "platonico". Se lo diciamo a sproposito è nelle cose. È il risultato di un pensiero che da duemilaquattrocento anni non finisce di trasformarsi e ispirare chi vi si avvicina».
Platone pone l’Amore alla base della sapienza
Senza la passione non esiste vera cultura
di Nuccio Ordine (Corriere della Sera, 21.03.2012)
«Sarebbe bello se la sapienza fosse qualcosa che può scorrere, al semplice contatto, dal più pieno al più vuoto di noi, come attraverso un filo di lana l’acqua scorre dalla tazza più colma a quella più vuota»: l’ironica battuta di Socrate, indirizzata al tragediografo greco Agatone, tocca uno dei nodi cruciali del Simposio di Platone. Il sapere non è un dono (come ci vorrebbe far credere una certa pedagogia edonistica che ha sfasciato, negli ultimi decenni, la scuola e l’università), né si può comprare (anche in una società dove tutto si può acquistare, compresi i parlamentari): la conoscenza e la scelta di una vita retta presuppongono uno sforzo interiore, una partecipazione attiva, una ricerca continua.
Non a caso il protagonista assoluto di questo famoso dialogo platonico è Eros. Di lui discutono i sette personaggi (otto se includiamo anche la sacerdotessa Diotima, che interviene indirettamente nel dibattito attraverso le parole riportate da Socrate), offrendone diverse definizioni. Sospeso tra corpo e anima, tra pura voluttà e bellezza morale, tra umano e divino, tra sofferenza e felicità, tra separazione e unità, tra particolare e universale, Amore si caratterizza soprattutto per essere espressione di una mancanza, di una privazione.
Spetta ad Aristofane, infatti, introdurre una delle immagini più poetiche evocate nei miti platonici. Gli esseri umani delle origini erano caratterizzati da una forma sferica: un doppio corpo composto da una doppia faccia, da quattro mani e da quattro piedi. Distinti in tre sessi (uomo-uomo, donna-donna e uomo-donna), furono separati da Giove, che li tagliò in due come punizione per aver attaccato gli dei. Così Eros non è altro che la ricerca della propria metà: una ricerca che spinge gli amanti a ritrovare l’unità perduta.
Diotima, subito dopo, colloca in una dimensione diversa e più alta il tema della privazione attraverso il mito del concepimento di Eros. Durante la festa per la nascita di Afrodite, Poros (dio dell’ingegno) si concede, ubriaco di nettare, a Penia (dea della povertà): dalla loro unione viene alla luce Eros, destinato, a causa delle opposte qualità dei suoi genitori, a perdere e ad acquistare ogni cosa. Né mortale né immortale, né ricco né povero, Amore, nel suo ruolo di «mediatore», riesce a rappresentare simbolicamente la condizione del filosofo, sempre sospesa tra ignoranza e sapienza. Infatti tra gli dei, che non cercano la sapienza perché la posseggono, e gli ignoranti, che non la cercano perché credono di possederla, il vero filosofo, amante della sapienza, cercherà di avvicinarsi a essa, rincorrendola tutta la vita.
Eros, attraverso la generazione, può rendere immortale l’essere mortale. Ma Amore non genera solo figli. Oltre a fecondare i corpi, feconda anche le anime che partoriscono, a loro volta, le virtù. Un’anima gravida passa dalla bellezza dei corpi alla bellezza interiore di un’altra anima. E dall’unione tra anime belle si può dar vita a quei filosofi, «amici del Bene», in grado di reggere lo Stato, la città ideale più volte evocata da Platone.
Non bisogna, però, lasciarsi ingannare dalle apparenze. Un corpo non bello può contenere al suo interno un’anima di straordinaria bellezza. È l’esempio di Socrate stesso, che Alcibiade, nelle appassionate e commoventi pagine finali, paragona a un Sileno: si tratta di una statuetta che nell’antica Grecia rappresentava all’esterno un’immagine comica (un satiro) e all’interno raffigurava una divinità. Qui Platone ci invita a esplorare il Sileno, a penetrare al suo interno, a diffidare sempre e comunque di ciò che vediamo in superficie. Il tesoro di Socrate è custodito «dentro» di lui. Il Simposio ci propone, insomma, un’ermeneutica che investe anche i generi letterari. Il comico - al contrario di quanto sosterrà più tardi Aristotele - non può essere separato dal tragico: «Socrate li costringeva ad ammettere che lo stesso autore deve saper comporre commedie e tragedie, e chi con la sua arte è tragediografo deve essere anche commediografo». Nei testi e nella vita l’alto e il basso, la tragedia e la commedia interagiscono continuamente tra loro. Non a caso l’immagine del Sileno sarà rilanciata con grande successo nel Rinascimento da autori come Erasmo, Rabelais, Bruno. Così come, indipendentemente da un’adesione alla metafisica platonica, il mito di Amore-filosofo ritornerà più volte in tante riflessioni dedicate alla natura della filosofia. Senza Eros, infatti, senza quella travolgente passione che scuote il corpo e l’anima, sarebbe difficile immaginare l’avventura della conoscenza.
L’Eros visto dagli antichi
Corriere della Sera, 21.03.12
Tra le opere più note di Platone, il Simposio esce sabato, come ottavo volume della collana, con la prefazione inedita di Eva Cantarella. La studiosa conduce il lettore a scoprire dapprima le caratteristiche del «simposio» in sé, cioè dell’incontro conviviale degli antichi greci («Quello che noi traduciamo spesso impropriamente con banchetto era infatti un rito»), per poi entrare nel merito del tema del dialogo platonico, l’Eros, di cui gli ospiti esaminano e confrontano tutte le forme, dalla più volgare alla più elevata. Si tratta di un documento imprescindibile «per conoscere - scrive Eva Cantarella - la concezione e la valutazione culturale dell’amore» presso i greci; è infatti «il trattato sull’amore più esteso pervenutoci dall’antichità», nonché «un’opera di importanza fondamentale non solo dal punto di vista filosofico, ma anche da quello storico». La settimana prossima, in edicola giovedì 29 marzo i Consigli politici di Plutarco (prefazione di Luciano Canfora), e sabato 31 marzo Le Nuvole di Aristofane, con prefazione di Franco Cordelli. (i.b.)
“Ma Platone aveva previsto questa Italia”
intervista a Giovanni Reale, a cura di Alain Elkann
La Stampa, 5 settembre 2010
Giovanni Reale, lei si definisce filosofo cattolico. È così?
«Credente, cristiano, cattolico in senso agostiniano, ma molto liberale».
Cosa vuol dire?
«Essere cristiano significa aver incontrato una persona, Cristo, che il credente pensa sia Dio fattosi uomo nella storia. La sua presenza, inoltre, per chi crede in lui non è limitata al tempo in cui è vissuto, ma è eterna. La fede dura sulla Terra finché qualcuno continua a credere alla presenza eterna di Cristo nella storia. Quando si dirà “Cristo è stato e non è più” la fede sparirà».
In che senso si sente vicino ad Agostino?
«Agostino non dogmatizza il pensiero, ma lo trasforma in vita spirituale vissuta».
Oggi per il pensiero cristiano è un’epoca felice o infelice?
«È infelice per il pensiero filosofico. Uno dei più intelligenti filosofi contemporanei, Jürgen Habermas, scrive: "La filosofia non è più autorizzata a intervenire in modo diretto nei problemi morali. Proprio nelle questioni per noi più rilevanti la filosofia si limita a indagare le caratteristiche formali dei processi di autocomprensione, facendo astrazione dai loro contenuti. È la massima infelicità».
E la politica?
«Anche quella non interviene più direttamente. È per questo che si pubblica un libro al giorno o su Agostino o di Agostino. Platone, da parte sua, è molto più venduto di qualsiasi altro filosofo di qualunque tempo».
E questo come mai?
«Perché è arrivato alla radice dei problemi ed è un grande scrittore». Ma San Tommaso e Aristotele? «Hanno straordinarie doti speculative. Però parlano solo a chi è interessato, al pensatore astratto, e meno all’uomo».
Lei parla di queste e altre cose nel film «Se hai una montagna di neve tienila all’ombra».
«È un lungo documentario di Elisabetta Sgarbi sulla cultura e la lettura che è stato appena presentato al Festival di Venezia nella sezione Controcampo Italiano. Tenga presente che si è diffuso in televisione e nei giornali un concetto di cultura assolutamente sbagliato. Per esempio, si dice che lo sport, quello che viene trasmesso in televisionee, è cultura al più alto livello. Io ho detto, invece, che in realtà è “controcultura”. Sbagliano quelli che fanno cultura non a 360 gradi. Io pubblico nelle mie collane da Marx ai mistici. La cultura è cibo spirituale di cui l’uomo ha un bisogno assoluto. L’uomo ricerca la verità e secondo Hegel lo fa seguendo tre strade: l’arte, la filosofia e la religione. Il primo grande manifesto che lo teorizza attraverso l’arte è la Stanza della Segnatura di Raffaello, in Vaticano».
A settembre usciranno tre suoi volumi in cofanetto e un film di Elisabetta Sgarbi che ha avuto il permesso da Antonio Paolucci, dopo 40 anni di proibizione, di filmare quel luogo altamente simbolico. Ma che cos’è la Stanza della Segnatura?
«Era la biblioteca privata del Papa: la rappresentazione del concetto rinascimentale di cultura che si amplia notevolmente rispetto al Medioevo e la prova mostrata in modo stupendo di come l’uomo cerca la verità attraverso l’arte, la filosofia e la religione. Del resto alcune volte nel verso profondo di un grande poeta si dicono molte cose in più che in un trattato di filosofia».
L’Italia di oggi vista da un filosofo va avanti o va indietro?
«Da un punto di vista generale succede che i nostri giovani risultino, rispetto a tutti gli altri giovani del mondo, i più preparati in filosofia. E c’è una ragione. Il merito è di Croce e Gentile. Abbiamo tuttora il beneficio di quelle grandi riforme. Sono invece atterrito dall’attuale situazione politica che corrisponde a quello che Platone descrive come “il momento in cui per eccesso di libertà e di licenza, ed essendo l’unico interesse quello per la ricchezza, si rischia di cadere in una forma di tirannide”. Per esempio, i tre mali supremi che colpiscono la gioventù indicati da Platone sono identici a quelli di oggi: lui parlava di forme di ebbrezza, di eccesso dell’amore sessuale e di melancolia: che corrisponde alla depressione, il male oggi più diffuso».
Secondo lei Papa Benedetto XVI è un filosofo?
«Di grande levatura e non a caso ama la cultura, l’arte e la musica. Sono molto d’accordo su tante delle sue affermazioni e divido con lui l’ambito culturale tedesco in cui si è formato».
Quello che accade oggi nella Chiesa le sembra positivo?
«La Chiesa deve essere sempre più in questo mondo, ma non con la logica di questo mondo. Cristo ha detto a Pilato: “Il mio regno non è di questo mondo”. Da agostiniano, credo che la Chiesa debba distinguersi dai palazzi vaticani. Ogni filosofia che si sposi con il messaggio cristiano fa parte della Chiesa: il messaggio cristiano non è limitabile da alcuna cultura e non è vincolabile. Come è detto nell’enciclica “Fides et ratio” di Giovanni Paolo II, ispirata dalle idee dell’allora cardinale Ratzinger».
"Io, la religione e la lettura biblica"
di Marco Vannini (la Repubblica, 26 gennaio 2010)
Repubblica del 19 gennaio, ha pubblicato un articolo di Vito Mancuso sul mio Prego Dio che mi liberi da Dio, in cui mi si accusa, tra l’altro, di antigiudaismo. È un’accusa che respingo fermamente, chiamando a testimonianza la mia intera vita di studioso, che ha passato anni a tradurre commentarii biblici: in Israele, nella foresta Giovanni XXIII-Jules Isaac, ci sono cinque alberi piantati in mio onore dall’Amicizia Ebraico-Cristiana di Roma (Keren Kayemeth Leisrael). Tale accusa si fonda infatti sul metodo di citare frasi mutile, avulse dal contesto, o addirittura di attribuire a me quelle che sono invece citazioni di ben più alte autorità. Quest’ultimo è, ad esempio, il caso della teologia definita come "animalesca": non da me, ma da Meister Eckhart (da cui il libro stesso prende il titolo), e il contesto spiega bene in che senso: bestialità in quanto ignoranza, giacché la teologia è presuntuoso discorso su Dio, che è invece al di là di ogni possibile discorso. È anche il caso del «cristianesimo purificato dall’eredità di Israele»: citazione, questa, di Simone Weil, altro punto di riferimento fondamentale del libro - e meraviglia che Mancuso lo taccia, visto che le ha dedicato un suo libro: forse teme l’accusa di "sinistro antigiudaismo"?
Mi viene soprattutto rimproverato, a proposito della condanna di Gesù, l’errore di parlare di "ebrei", senza specificare che si trattava dei soli sadducei collaborazionisti, mentre invece proprio nella riga precedente a quella incriminata si dice che Gesù fu condannato dal «potere sacerdotale ebraico, alleato di quello politico dei romani», ovvero lo stessa tesi che sostiene Mancuso. È comunque evidente da tutto il contesto che non intendo affatto attribuire assurde responsabilità storiche collettive, ma solo sottolineare che il cristianesimo si è costituito sull’affermazione della identità tra Gesù e il Padre - bestemmia, questa, per l’ebraismo, che marcava in modo netto l’opposizione tra le due religioni. Che la storia biblica sia costruita su falsità - invenzione i Patriarchi, invenzione l’Esodo, invenzione il Tempio, invenzione la Legge, ecc. - e che ciò sia stato fatto per fini politici, è un dato acquisito dalla più moderna ricerca storico-critica (nel mio libro si cita tra gli altri Mario Liverani, Oltre la Bibbia. Storia antica di Israele, Laterza), e che si sia così costruita «una comunità chiusa non solo per religione ma anche per razza» (ibid. p. 391), lo è altrettanto.
Perché non si tratta infatti di criticare un libro biblico piuttosto che un altro, accettando ciò che piace e rifiutando quel che dispiace, ma di riconoscere che «la vera suprema bestemmia è chiamare sacro ciò che proviene da mano umana», come diceva l’umanista Cornelio Agrippa. Nel momento in cui il maggiore editore cattolico italiano presenta la Bibbia come «via, verità, vita» attribuendo a un libro ciò che Cristo dice di se stesso, credo sia legittimo parlare di religione come menzogna, accanto a religione come verità. Di questo, e non d’altro, tratta il mio libro, che perciò rivendica l’importanza della fonte greca, e del platonismo in particolare, nella formazione del cristianesimo.
Platonismo significa il primato dell’interiorità contro l’esteriorità; significa non costruire teologie/mitologie, ma cercare di "farsi simili a Dio" nella giustizia. Significa conoscenza della malizia insita nell’io, nel suo quasi insopprimibile egoismo, e dunque della necessità di una conversione, di una "morte dell’anima", ossia di un radicale distacco dall’egoità. Significa, in conclusione, l’esperienza tanto della natura quanto della grazia, e del primato di quest’ultima - ed è su questo che il cristianesimo si è fondato - e che la mistica - unica vera erede della filosofia greca- ha mantenuto nei secoli.
Non si tratta quindi di me o di Agostino, col suo "gelido pessimismo", come vuole Mancuso, quanto e soprattutto di Cristo stesso: odiare la propria anima/vita, rinunciare a se stessi, morire a se stessi come muore il chicco di grano e esperimentare la rinascita e la nuova vita nello spirito, sono infatti i passi e i tratti essenziali del messaggio evangelico e le condizioni della sequela Christi. Se si cancellano questi, Gesù, ormai solo uomo, viene ridotto a un maestro new-age, e il cristianesimo (ma ha senso chiamarlo così?) a una melassa insulsa e insignificante.
Cristiani sull’orlo dell’ateismo
di Giovanni Reale (Corriere della Sera, 14 febbraio 2010)
Molti credono di sapere che cosa significhi essere «credenti» e essere «atei», ma in realtà i più in materia hanno idee tutt’altro che chiare e distinte. Un famoso giornalista si presentò a un uomo di grande statura spirituale per fargli una intervista su Dio dicendogli che, però, lui si considerava ateo. E si sentì subito rispondere: «Guardi che chi sia veramente credente e chi sia veramente ateo lo sa solo Dio». Dostoevskij pensava che, in un certo senso, l’ateo si trova al primo gradino della strada che porta a Dio, in quanto sente il problema.
La situazione è oggi assai più complessa e forse solo oggi si manifesta l’ateo nel senso pieno della parola. Hanno iniziato i Neopositivisti viennesi con l’affermazione che la parola «Dio» andrebbe eliminata dal lessico scientifico, in quanto sarebbe totalmente priva di senso. Ma questo modo di pensare è condiviso anche da alcuni giovani, da cui mi sono sentito dire che per loro quello di Dio è uno pseudoproblema, anzi un «non problema». La figura dell’ateo più ambigua è però quella del sedicente credente, che si nasconde sotto la maschera della fede, e che contrae la dimensione del religioso in quello che- sotto molti aspetti - è il suo contrario.
Il libro di Marco Vannini, Prego Dio che mi liberi da Dio - La religione come verità e come menzogna (Bompiani, pp. 159, € 16) affronta il problema in modo provocatorio (e in certi punti con paradossi e iperboli), ma assai efficace. La religione viene spesso trasformata in una teologia sociale, mondana, progressista, anticristiana. In effetti, «nel suo connubio col sociale, col politico, la religione genera vincoli di unione parziale, di gruppo e di conseguente separatezza dall’universale».
Perciò, dice Vannini: «Il regno di Dio non è di questo mondo; non adeguarsi al mondo, è il vero modo di amarlo». Agostino precisava che il regno di Dio è già entrato con Cristo «in» questo mondo, ma non è «di» questo mondo, in quanto opera non amando ciò che ama il mondo e in questo senso aiuta il mondo stesso.
I due assi portanti del libro sono, a mio avviso, i seguenti. In primo luogo, Vannini rivendica l’importanza del pensiero platonico nella formazione del pensiero cristiano, con l’affermazione del primato dell’interiorità, mediante la conversione spirituale e l’imitazione di Dio. E trae le seguenti conclusioni: «Privato dell’eredità platonica, il cristianesimo è tutto accomodato al sociale, ovvero al "grosso animale", all’io e soprattutto al noi, con la correlata immagine idolatrica di Dio. Rivolto ai beni terreni - la pace, la giustizia sociale, la salvezza ( salus) diviene salute, politicamente corretto, liberale, democratico ecc. - è ormai una banalità accettabile da tutti, in quanto autoaffermativa, senza conversione, senza distacco, senza spirito: di fatto, un sostanziale ateismo».
Si tenga presente che è stato proprio Platone a introdurre, oltre che il termine di «teologia», anche l’immagine di «conversione», ossia il «voltarsi» per intero dalle tenebre della caverna alla luce del sole, ossia del Bene. I primi cristiani l’hanno fatta propria e consacrata, in quanto esprime in modo metaforico il concetto del «metanoein», del cambiare modo di pensare con l’aiuto della grazia.
In secondo luogo, Vannini punta sul concetto di «spirito», come rapporto dialettico fra uomo e Dio, con al centro la divinità di Cristo, più che sul concetto di anima. Va ricordato che il concetto di anima (psyché) è una creazione dei greci. Si pensi che Platone usa il termine 1.143 volte, Plotino 1.509, Aristotele 785. Nei Vangeli il termine psyché è usato poche volte, ma con il prevalente significato di «vita» ed è un errore ermeneutico caricarlo dei significati metafisici ed escatologici ellenici. Il concetto cardine del Cristianesimo è quello della incarnazione di Cristo e della risurrezione della carne, che è in distonia con la concezione greca dell’anima (Plotino diceva che non si deve parlare di risurrezione della carne, ma di risurrezione dalla carne, ossia della liberazione dell’anima dal carcere del corpo).
Il richiamo del concetto di spirito che fa Vannini «capace di tenere insieme, senza confusione, finito e infinito, umano e divino», al di sopra di quello di psyché, è assai stimolante. L’essere o la sostanza dell’anima, in effetti, non è riducibile al puro elemento psicologico, ma consiste proprio in quel nesso strutturale dinamico-relazionale fra uomo e Dio e viceversa. E, ispirandosi a Meister Eckhart (da cui è tratto anche il titolo dell’opera), Vannini precisa: «Il fondo dell’anima non è un facoltà, una "potenza" dell’anima, ma in esso opera la grazia increata, Dio stesso che "opera con l’anima tanto da liberarla da se stessa, in quanto creatura, in modo che non resti niente, se non Dio e l’anima stessa, senza mediazione"».
L’intervento del filosofo domani ai "Classici" di Bologna
La logica del Denaro e l’esistenza di Dio
di Massimo Cacciari (la Repubblica, 06.05.2009
L’impossibilità di stabilire il confine tra i consumi superflui e quelli necessari Con questo testo di si inaugura domani a Bologna nell’Aula Magna di Santa Lucia l’ottava edizione della manifestazione "I Classici", dedicata quest’anno al tema del denaro col titolo "Regina pecunia"
Regina pecunia... ma di quale "pecunia" parliamo? Di quella nel cui stesso nome risuona la relazione alla sostanzialità della cosa, al possesso del "pecus", del capo di bestiame, dell’animale domestico, che il "pastore" custodisce gelosamente? Questa "pecunia" è stata detronizzata da tempo. Tutte le proprietà della cosa in quanto valore di scambio si presentano nel denaro scisse dalla loro forma naturale. Il denaro rende ora omogeneo in quanto merce tutto ciò che per natura è differente. "La comune bagascia del genere umano" rende-uno il cuore di Antonio e i cani, gli asini, gli schiavi e i palazzi dei suoi zelanti amici. Shakespeare docet, Marx discit.
Ma il denaro si distingue radicalmente dall’antica pecunia non solo perché de-sostanzializza il mondo, ma anche perché esclude ogni avarizia. Se lo tieni fermo "evapora". L’avaro vorrebbe che il suo denaro non si "solidificasse" mai, lo vorrebbe "liquido" sempre, e che proprio in tale forma potesse moltiplicarsi. Ma ciò è impossibile. Il denaro, per riprodursi, ha bisogno di "sparire" di nuovo nel valore d’uso, trasformandosi in merce. Il denaro deve "morire" per "rinascere". La "mistica" di questo denaro è stata spiegata da Marx una volta per sempre.
Ma ciò che forse non è stato bene appreso dalla lezione marxiana è l’immanente e insuperabile contraddizione di tale dialettica. Se il denaro deve "gettare" sempre nuove merci fuori di sé "come combustibile nel fuoco" (Marx), e dunque creare e ri-creare bisogni, nulla assicura che tali merci possano di nuovo traformarsi in valori. Il soggetto che consumando la merce fa "rinascere" il denaro non è lo stesso che lo "arrischia" nella produzione. Da qui la tendenza o la "tentazione" insuperabile a non "solidificarlo", a tentare di moltiplicarlo senza farlo uscire dalla sua "astrazione". Ma non esiste alcuna "miniera" dove il denaro possa custodirsi senza annullarsi. Così come non vi è alcun "mercato" che garantisca il suo ritorno "a casa", più forte e più pronto a nuove avventure.
Il denaro è segno di crisi. Anche per l’individuo. Gli enti-merce di cui è l’universale equivalente sono tutti perituri. Lui solo appare come l’indistruttibile. E dunque il desiderio per lui non può placarsi nel possesso. Il denaro produce un illimitato desiderio, che nessuno dei prodotti in cui si incarna potrà mai soddisfare. Il pastore poteva "restar-contento" del suo pecus. Mai lo potrà chi possiede denaro ed è costretto a "gettarlo" nella circolazione, a "perderlo " per cercare di ritrovarlo, né lo potrà chi, grazie alla infinita potenza del denaro, non acquista che la "miseria" di queste effimere merci.
Tuttavia è necessario parlare dell’essenza metafisica del denaro senza alcun moralismo e lontani da ogni reazionario disprezzo. È vero che il processo di circolazione che il denaro genera produce la perenne insoddisfazione del consumo, ma è vero anche che in ciò si rappresenta la mia autonomia, la "libertà" della persona rispetto a ogni misura o legge universali di felicità o benessere. Soltanto io posso sapere quanto esso mi sia costato e soltanto io posso sapere quale grado di benessere mi dia l’acquisto e il consumo che esso consente. Non esistono misure obiettive di felicità, né esiste la possibilità di determinare in assoluto dove corra il discrimine tra bisogni necessari e superflui.
Certo, nulla di essenziale può esprimersi nel desiderio individuale, e perciò nulla di essenziale può essere perseguito attraverso la potenza universale del denaro. Ma lungi dal portare alla conclusione vetero-moralista: "il denaro non conta", "non può renderci felici", etc., ciò non rappresenta che quella "legge individuale", che Georg Simmel ha illustrato nel suo magnum opus La filosofia del denaro, pubblicato nel 1900, pietra miliare del contemporaneo: nulla può imporci la "misura" del nostro essere felici. Il denaro è universale proprio nel suo esprimere l’impossibilità di una tale "misura" e l’inessenzialità del nostro desiderio, "liberandoci" così dalla "superbia" di ergerlo in qualche modo a norma o modello. Sullo specchio del denaro si rivela soltanto l’infinità del desiderio. E questo soltanto ci è comune. Ma come il denaro, per divenire, deve "morire" nella individualità determinata della merce, così l’infinità del desiderio per vivere deve incarnarsi nella inessenzialità del mio essere felice o in-felice.
Questa paradossale onnipotenza del denaro mai risolvibile in atto, sempre incompiuta, può essere intesa come "mondanizzazione" del dio giudaico-cristiano? Ancora Simmel lo riteneva certo. Dovremmo oggi essere diventati tutti più cauti nell’applicare ovunque come passe-partout l’idea di secolarizzazione. L’onnipotenza infinita dell’immagine del denaro è quella di un poter tutto comprare. Ma questo è appunto actu irrealizzabile. E tutto ciò che è comprabile è inessenziale.
L’onnipotenza divina, invece, si "svuota" di sé per poter tutto qui-e-ora amare. Anche l’amare non è mai alla meta, mai "contento", ma non perché trapassi da consumo a consumo; all’opposto: perché il suo "amato" è oltre ogni logica del possesso e del consumo. Il suo scambio è puro dono, mentre il denaro "funziona" soltanto in quella relazione dove nulla di "gratuito" intervenga. "Ciò è qualcosa di gratuito", così parla il denaro - e intende: "ciò è qualcosa di insensato, di illogico, di inutile". Tuttavia la sua potenza deve alla fine riconoscere quella "legge individuale" che afferma l’inessenzialità del desiderio e del consumo che essa consente. E così, paradossalmente, per negativo, il denaro stesso fa cenno a quell’"inutile" della gratuità del dono dove si custodisce l’inconsumabile e indistruttibile, che continuiamo malgrado tutto ad avvertire in noi, "al cuore" stesso della nostra perenne ricerca e del suo continuo fallire.
LIBRI
filosofia
Moderni intorno a Platone
DI MAURIZIO SCHOEPFLIN (Avvenire, 07.11.2009)
Maestro indiscusso e insuperato del dialogo filosofico, da ventiquattro secoli Platone continua a proporsi come un interlocutore privilegiato e ineludibile per chiunque desideri andare alle radici del pensiero occidentale. Ecco perché il grande ateniese è sempre stato e continua a essere attuale. La testimonianza più evidente di tale sua attualità è offerta dal fatto che si può sostenere che non vi è stato pensatore che non abbia sentito l’esigenza di confrontarsi con lui.
Franco Trabattoni, ordinario di Storia della filosofia antica presso l’Università di Milano, ci offre una convincente riprova di ciò e analizza i rapporti che alcuni pensatori contemporanei hanno stabilito con le dottrine platoniche. Raccogliendo contributi già editi e lavori in corso di pubblicazione, l’autore ha scritto un volume che tende a far luce sulle conseguenze speculative che l’incontro con Platone ha avuto sulla maturazione delle riflessioni di Richard Rorty, Martin Heidegger, Hans Georg Gadamer, Jacques Derrida, Ernst Cassirer, Leo Strauss, Martha Nussbaum ed Enzo Paci.
Trabattoni parla di un platonismo minimo e di uno massimo: il primo è quello ’di chi ritiene che pensiero e linguaggio non possano mai evadere dalla dialettica universale-particolare’, e da esso ’la filosofia occidentale non è in realtà mai evasa’; il secondo, ’quello della teoria dei due mondi, della sostanzialità dell’anima, della superiorità dello spirito sulla materia, della bontà e provvidenza di Dio’, appare a Trabattoni difficilmente giustificabile sul piano razionale.
’C’è infine - aggiunge l’autore l’idea di una metafisica della presenza, perentoria e violenta: di una gnoseologia dogmatica e coercitiva fondata sull’ammissione di uno sguardo privilegiato sul mondo, indiscutibile, inquestionabile, assoluto’: queste tesi, però afferma con forza Trabattoni , non sono autenticamente platoniche, anche se molti le hanno combattute, credendo, più o meno in buona fede, di combattere il vero platonismo.
Un dato resta comunque indiscutibile: Platone rimane un punto fermo con il quale è necessario fare i conti e bene fa Trabattoni a precisare quanto segue: ’Il citatissimo dettto di A. N. Whiteehead, secondo cui tutta la storia del pensiero occidentale non sarebbe altro che una serie di note a piè di pagina al testo di Platone, in realtà non vuol dire (espungendo l’iperbole) altro che questo: è ben difficile che un pensatore contemporaneo possa esporre tesi filosoficamente rilevanti senza che esse prevedano un confronto, implicito o esplicito, con qualcosa come «la filosofia di Platone» o «il platonismo»’.
Franco Trabattoni
ATTUALITÀ DI PLATONE
Vita e Pensiero.
Pagine 240. Euro 18
COSMO (di Alberto Giovanni Biuso)
Ancora una volta Nietzsche sembra avere ragione: per comprendere la distanza e la differenza rispetto a noi degli antichi miti la filologia non basta e anzi diventa a volte un fattore di grave misconoscimento. La complessità, la stranezza, la strabordante ricchezza dei racconti diffusi negli angoli e nelle epoche più diverse del pianeta formano una complessità circolare, un vero e proprio labirinto (altra immagine mitica, non a caso). E tuttavia i miti più lontani e più diversi narrano tutti gli stessi eventi, pur coprendoli con una varietà intricatissima di nomi.
Sembra che tutto ebbe origine nel Vicino Oriente, «da quella zecca “protopitagorica” situata nella “mezzaluna fertile” che un tempo coniò il linguaggio tecnico e lo consegnò ai pitagorici» (p. 360). Fu per tale discendenza orfica e pitagorica che Platone - una sorta di vivente “stele di Rosetta” - «sapeva ancora parlare la lingua del mito arcaico» (25), poiché egli non inventò i suoi miti ma li raccolse ponendoli in un contesto teoretico che preserva il loro enigma ma che nello stesso tempo ne rafforza la potenza. Il Timeo è una delle testimonianze più evidenti di questo compito che Platone diede a se stesso, poiché è il luogo in cui convergono e si dipartono i fiumi del pensiero cosmologico.
E sta qui la chiave di volta di questo straordinario libro, pullulante di varchi aperti verso una comprensione meno banale del mondo di ieri e di quello di sempre: «ciò che è veramente mito non ha basi storiche, per allettante che sia questa riduzione [...] Il mito è essenzialmente cosmologico» (75). Il pensiero arcaico è cosmologico dall’inizio alla fine e le forze profonde della storia affondano ancora e sempre nel mito. Ecco spiegato perché dal Valhöll nordico ai templi di Angkor, dalle tribù amerindie alla Polinesia, dalla Mesopotamia agli Aztechi, dall’Islanda alla Cina, ricorrono gli stessi racconti, i medesimi personaggi sotto nomi diversi, gli stessi numeri. Non per una improbabile diffusione o per una sorta di inconscio collettivo ma più semplicemente perché i racconti fanno tutti riferimento al cielo e a ciò che gli esseri umani delle antiche ere vedevano in esso.
E che cosa vedevano? Pur rifiutando facili scorciatoie che trovano «semplici denominatori comuni a cui ricondurre tutti questi elementi» (558), gli Autori sono convinti e dimostrano che l’origine della mitologia umana stia in un fenomeno astronomico preciso e sconcertante rispetto a ogni esigenza di ordine, costanza, permanenza: la precessione degli equinozi, lo spostamento del perno intorno al quale il cielo sembra girare; dislocazione dovuta alla inclinazione dell’asse terrestre e alla differenza quindi fra l’equatore celeste e l’eclittica, la fascia dentro la quale si muovono il Sole, i pianeti, le costellazioni dello Zodiaco.
La terra, insomma, si comporta come una trottola, un immenso giroscopio che compie un’intera rivoluzione ogni 25.920 anni. Quando gli esseri umani si accorsero di questo movimento, e se ne accorsero assai presto, sembrò loro che fosse precisamente tale scardinamento la causa prima di ogni distruzione e di ogni male.
La definizione platonica del Tempo come «immagine in movimento di ciò che è stabile ed eterno » sarebbe quindi un riferimento assai rigoroso a tale spostamento dell’asse del mondo, al movimento a Χ (l’iniziale di Χρόνος), prodotto dalla precessione, un movimento che per Platone e per i miti ai quali egli attinge «descrive le Generazioni del Tempo stesso, il simbolo ciclico dell’eternità: ciclo dopo ciclo, giù giù fino agli spostamenti più piccoli, appena percettibili» (176).
Uno degli espliciti presupposti del libro è che le menti preistoriche e arcaiche furono in grado di comprendere tutto questo, che le conoscenze astronomiche delle antiche civiltà furono assai avanzate, tenendo naturalmente conto dei mezzi a loro disposizione, che quindi si debba «spostare molto più indietro nel passato gli inizi del pensiero scientifico e dell’osservazione dei fenomeni naturali» (417) e che l’umanità sia il risultato di processi di lunghissima durata, di conoscenze stratificate e trasmesse con i mezzi più diversi, in un alternarsi di scoperte, dimenticanze e rinascenze. Il mito, pertanto, non sarebbe «né fantasia irresponsabile né materiale per grevi studi psicologici né altre cose simili. Il mito è qualcosa di “totalmente altro” e vuole essere esaminato con occhi ben aperti» (383). Solo a queste condizioni quel mondo perduto, l’eredità «che ci viene dai tempi più antichi e più lontani» potrà essere ancora trasmessa ai «figli dei nostri figli» (30).
La polemica verso ciò che viene definito “evoluzionismo volgare” è diretta e frontale. Una semplicistica e dogmatica fede nel “Progresso” si è unita all’adozione acritica di un principio biologico qual è l’evoluzione in un ambito che non gli appartiene, quello delle idee. Il risultato -paralizzante - è che gli studiosi «con magnifico zelo hanno estirpato da tutta la mitologia la dimensione temporale» (334), che invece costituisce per l’umanità arcaica l’unica dimensione dell’esistenza cosmica. Per i Cinesi bisogna essere signori del tempo per aspirare a diventare sovrani dello spazio, quel tempo che vive e si incarna - elemento totalmente fisico - nel movimento dei cieli, «è il Tempo, solo il Tempo, che trasforma i Titani, già sovrani dell’Età dell’Oro, in “operatori di iniquità”. Sarà l’idea di misura, dichiarata o implicita, a mostrare il delitto fondamentale di questi “peccatori”: l’aver oltrepassato o “trans-gredito” il grado preordinato, e ciò viene inteso alla lettera» (185) perché Μοίρα è uno dei 360 gradi della circonferenza, quello oltre il quale non bisogna mai andare.
Il Tempo cosmico è Necessità, Χρόνος è paredro di Ἀνάγκη ed entrambi cingono l’intero universo. Il Tempo cosmico - definito da Platone la «danza delle stelle» - è musica, è legge, è numero, il cui ordine totale conserva ogni cosa e al quale tutti gli enti - divini, umani, animali, vegetali, minerali - obbediscono. Il tempo platonico è ancora questo Tempo arcaico che coincide con l’universo e «come l’universo esso è circolare e definito [...] e tale continua a essere per tutta l’antichità classica, che credeva non nel progresso bensì negli eterni ritorni» (395). Ma anche prima e dopo Platone la filosofia greca seppe che l’essenziale accade nei cieli.
Prima di Platone, Anassimandro - secondo quanto ci riferisce Cicerone - pensava che «nativos esse deos longis intervallis orientis occidentisque eosque innumerabiles esse mundos» (De natura deorum, I, 25; qui a p. 497), che gli dèi nascano in lunghi intervalli di nascita e di tramonto e che essi siano mondi innumerevoli. Dopo Platone, Aristotele - il sobrio maestro - «era fiero di affermare come fatto noto che gli dèi erano originariamente astri, anche se successivamente la fantasia popolare aveva offuscato tale verità» (23), che altre divinità non si diano, che le forze risiedano «nel cielo stellato e tutte le storie, i personaggi, le avventure di cui narra la mitologia si concentrano su coloro che, fra gli astri, sono le potenze attive, i pianeti» (212).
L’enigmatico annuncio riferito da Plutarco della morte del grande Pan può essere letto, in questa chiave, come il coinvolgimento della stella Sirio, fino ad allora risparmiata, nel grande moto di precessione degli equinozi. Un altro cardine del mondo veniva, infatti, in questo modo afferrato dalle spire del Tempo che tutto stritola, che tutto macina nel mulino cosmico che il tempo appunto è, «seppure non già come un mulino moderno a rotazione continua, bensì come un mulino a movimento alternato, paragonabile a un trapano» (16), a qualcosa che va su e giù muovendosi di moto vorticoso; una figura, questa, atta a descrivere esattamente il moto precessionale degli equinozi.
Nel Timeo si dice che il Demiurgo non ha generato tutte le anime destinate a nascere ma ha posto il seme dell’umanità «che si moltiplica ed è macinato in farina impalpabile nel Mulino del Tempo» (357). A chi appartiene questo immenso Mulino cosmico? A un personaggio che si chiama Amlódi, che assume i nomi più diversi nelle mitologie dei differenti popoli ed ere ma che sempre rimane legato alla radice greca -aòmulon, amido, fecola-, all’attività del macinare attimi, giorni, anni, intere epoche. Il Demiurgo platonico è ancora un altro nome dell’Amlódi islandese, che diventa Amleto, principe del mare del Nord e «dei suoi immani frangenti che macinano in eterno gli scogli di granito» (45).
Il Mulino di Amleto è l’intero cosmo il quale dopo l’Età dell’Oro in cui il piano dell’equatore e quello dell’eclittica coincidevano nella stessa circonferenza, ha cominciato a separarsi macinando dentro la propria macchina inarrestabile ogni cosa che in esso, nell’essere, transiti. Anche per questo «Principio degli enti è l’infinito (l’energia/campo il suo divenire...). Da dove gli enti hanno origine, là hanno anche la dissoluzione in modo necessario: le cose sono tutte transeunti e subiscono l’una dall’altra la pena della fine, al sorgere dell’una l’altra deve infatti tramontare. E questo accade per la struttura stessa del Tempo» (Anassimandro, in Simplicio, Commentario alla Fisica di Aristotele, 24, 13 ]DK, B 1])
Del Tempo cosmico nel quale il tempo umano acquista senso, vita, distruzione, rinascita.