ITACA (ΙΘΑΚΗ) *
Quando ti metterai in viaggio per Itaca
devi augurarti che la strada sia lunga,
fertile in avventure e in esperienze.
I Lestrigoni e i Ciclopi
o la furia di Nettuno non temere,
non sara` questo il genere di incontri
se il pensiero resta alto e un sentimento
fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo.
In Ciclopi e Lestrigoni, no certo,
ne’ nell’irato Nettuno incapperai
se non li porti dentro
se l’anima non te li mette contro.
Devi augurarti che la strada sia lunga.
Che i mattini d’estate siano tanti
quando nei porti - finalmente e con che gioia -
toccherai terra tu per la prima volta:
negli empori fenici indugia e acquista
madreperle coralli ebano e ambre
tutta merce fina, anche profumi
penetranti d’ogni sorta; piu’ profumi inebrianti che puoi,
va in molte citta` egizie
impara una quantità di cose dai dotti.
Sempre devi avere in mente Itaca -
raggiungerla sia il pensiero costante.
Soprattutto, non affrettare il viaggio;
fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio
metta piede sull’isola, tu, ricco
dei tesori accumulati per strada
senza aspettarti ricchezze da Itaca.
Itaca ti ha dato il bel viaggio,
senza di lei mai ti saresti messo
sulla strada: che cos’altro ti aspetti?
E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso.
Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso
già` tu avrai capito ciò` che Itaca (ἡ Ιθάκες τì σημαίνουν. - fls) vuole significare.
Konstantinos Kavafis
*
NOTA. Testo dalla versione di "Settantacinque poesie" di Kavafis, a cura di Margherita Dalmati e Nelo Risi (Einaudi (1992).
Konstantinos Kavafis, 1900. |
Fonte: Wikipedia.
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO. CON MARX E FREUD. Una "ipotesi di rilettura della DIVINA COMMEDIA"
FLS
L’ALBA DELLA MERAVIGLIA E LA STORIA DELLA COSMOLOGIA E DELLA FILOSOFIA (#KANT2024): CON #DANTEALIGHIERI E #GALILEO #GALILEI, DALLA LUNA IL SORGERE DELLA TERRA:
INFANZIA, ANTROPOLOGIA, E STORIOGRAFIA: USCIRE DALLA #CAVERNA DEL POLIFEMICO PLATONISMO DI SOCRATE E RICORDARE IL "SEGRETO" DEL VIAGGIO DI "ULISSE" ("#DIVINACOMMEDIA"):
"O superbi cristian, miseri lassi,
che, de la vista de la mente infermi,
fidanza avete ne’ retrosi passi,
non v’accorgete voi che noi siam vermi
nati a formar l’angelica farfalla,
che vola a la giustizia sanza schermi?"
(Dante Alighieri, Purg., 121-126).
ITACA, LE "ITACHE": L’#ODISSEA, LE "ODISSEE". Un piccolo passo del cammino della #coscienza terrestre sulla importanza di #storiciżżare il legame con il proprio #Sé, con la propria #Tradizione, e con il proprio Pianeta, con la propria "#Terra" - con le proprie "Itache", come precisa Konstantinos #Kavafis.
EARTHRISE
NOTA
PENELOPE-IDEA E COMMEDIA: FILOLOGIA E ANTROPOLOGIA. Con lo spirito dell’opera “The Penelopiad” di Margaret Atwood e della "Divina Commedia" di Dante Alighieri, un segnavia di uscita dall’orizzonte della tragedia...
#STORIAELETTERATURA. Data la immersione totale di tutta la cultura occidentale nell’immaginario dell’#Odissea, "étudier, très succinctement, la technique d’« écriture féminine » de Margaret Atwood, à travers son ouvrage «The Penelopiad» et plus précisément, à travers l’ironie dans son rapport aux «métamorphoses» apportées au texte de l’Odyssée d’Homère" (cfr. Rebecca Plewinski, "La technique d’«écriture féminine» de Margaret Atwood: l’exemple de The Penelopiad») che con mente "penelope-idea" sa catturare e aggiogare persone e popoli con il proprio "canto" e l’ esperienza tragica della sua "fenomenologia dello #spirito".
L’ALBA DELLA MERAVIGLIA ("Earthrise"). Per #Dante, con l’aiuto del "padre" #Virgilio ("Eneide") su sollecitazione della "#bella e beata" #madre Beatrice (sollecitata a sua volta da Lucia, inviata da Maria, madre di Gesù "Cristo"), la "folle impresa" di uscire dalla "selva oscura" e ritrovare la "diritta via", con il vecchio "Ulisse" e con la vecchia "Penelope" sulle proprie spalle, è possibile: è l’amore che muove il sole e le altre stelle.
ITACA: PENSARE COME ULISSE ... (Linkedin).
Innanzitutto un bel #grazie 🙏 a luisa maria sguazzi (e, p. c., a Pietro Barbetta) per aver richiamato l’eccezionale testo di #Kavafis e ricordato che la conclusione/traduzione filologicamente corretta della ultima #Itaca della poesia è #Itache ("Ithákes"), come è stato finalmente proposto coraggiosamente da Bianca Sorrentino in "Pensare come Ulisse. Che cosa gli antichi possono insegnarci sulla nostra vita" (Il Saggiatore 2021).
Detto questo, però, io non depotenzerei in "mete parziali" il senso generale della "meta ultima" (che ha permesso e "guidato" il viaggio, fin dall’inizio) e ricorderei (sul filo della memoria della #Scuola di Palo Alto) un momento (da "#odissea" ancora in corso) della cronaca della vita italiana del "lontano" #2003 (cfr. EDIPICHE AVANCES DI "UNA VECCHIA SIRENA" E L’ITALIA DEVASTATA DA "PESTE E COR_NA").
Federico La Sala
ITACA: PENSARE COME ULISSE .... 2.
#Kavafis, con #Itaca, come #Bateson con la sua "Ecologia della mente", come #Dante con la sua navigazione cosmica ("#Commedia"), proseguono per la stessa destinazione, e su una rotta, come quella già indicata da #Omero/Ulisse, oltre Scilla e Cariddi, oltre la #dialettica "infernale" (padrone/servo, forza/debolezza, ecc.): oltre #Hegel, oltre #Heidegger, e oltre #Lacan, sulla strada di un’altra #fenomenologiadellospirito.
L’Interpretazione dei Sogni (1900) ha il suo legame con l’#Eneide (VII, 312: "Flectere si nequeo Superos, #Acherontamovebo") di #Virgilio e "L’uomo Mosè e la religione monoteistica"(1938) con il tema dell’«In exitu Isräel de Aegypto» della #DivinaCommedia (Pg. II, 46-48) di Dante (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5908).
In cammino con Dante/9.
Nella superbia di Ulisse la mortale follia dell’uomo
La lettura dell’eroe fornita dalla Commedia attraversa la storia della poesia: da Foscolo a Pascoli, da Saba a Eliot. È però dall’Ulisse di Kavafis che la contemporaneità dovrebbe trarre insegnamenti
di Carlo Ossola (Avvenire, domenica 16 maggio 202)
L’«orazïon picciola» di Ulisse ai compagni nel canto XXVI dell’Inferno è uno dei monologhi più memorabili di tutte le letterature, un’esortazione all’oltre dello sperimentare e del conoscere: «Non vogliate negar l’esperienza, / di retro al sol, del mondo sanza gente» (vv. 116-117), incitamento che è rimasto simbolo dell’inesauribile quête di senso che anima l’avventura umana. E tuttavia quel viaggio è viaggio di morte: «Infin che ’l mar fu sovra noi richiuso» (verso finale del canto), poiché, dirà Dante in Purgatorio, III, 37, il proprio della condizione umana è la coscienza del limite: «State contenti, umana gente, al quia».
Non c’è contraddizione nella posizione di Dante: egli ereditava, in ciò, dalla tradizione classica sulla vana brama di Alessandro Magno di voler raggiungere i limiti del mondo, le frontiere estreme dell’orbe terrestre, secondo la Suasoria I di Lucio Anneo Seneca, il Retore; di fronte alla sete del conoscere: «Ora bramo sapere ciò che ignoro » sta il fatale limite dell’invarcabile: «Se anche l’Oceano si potesse navigare, non è tuttavia da solcare». È dunque follia infrangere l’interdetto: giudizio che Dante ribadirà al sommo del Paradiso: «Sì ch’io vedea di là da Gade il varco / folle d’Ulisse» (Par XXVII, 8283).
Sebbene Onorio di Autun riporti criticamente la leggenda classica: «Ulisse è detto sapiente, perché poté varcare illeso i limiti», per opporgli la vera sapienza cristiana, Dante rovescia direttamente l’immagine, echeggiando il De planctu naturae di Alano di Lilla, ove compaiono, opposti, Ulisse e Aiace: «...diviene Ulisse / insipiente, Aiace del perder senno è cosciente»; la fonte è preziosa per il parallelo giudizio su Aiace, savio per aver preferito alla vita la dignità (proprio come Catone in Dante: cfr. Purg I, 71-72). La tradizione di questo alto mito ha prodotto nei secoli riscritture inobliabili, d’esilio e di sapienza, ritrovamenti dei patrii affetti e inconsolati addii; basti pensare al Foscolo e alla sua Zacinto, al ritorno per sempre negato: «[...] il diverso esiglio / Per cui bello di fama e di sventura / Baciò la sua petrosa Itaca Ulisse. // Tu non altro che il canto avrai del figlio, / O materna mia terra; a noi prescrisse / Il fato illacrimata sepoltura».
Tuttavia Giovanni Pascoli è il poeta che più intensamente ha meditato sul mito di Ulisse e sull’illusione di conoscere: nei Poemi conviviali, 1904, i XXIV movimenti - come nell’Odissea di Omero - di L’ultimo viaggio, si suggellano con Calypso, un tragico ritorno dell’eroe esanime, là ove fu invano accolto: «Era Odisseo: lo riportava il mare / alla sua dea: lo riportava morto / alla Nasconditrice solitaria, / all’isola deserta che frondeggia / nell’ombelico dell’eterno mare».
In Il ritorno (da Odi e Inni, 1906) Odisseo è portato dai Feaci alla sua Itaca ma, giuntovi, non la riconosce: «Ahimè! / Che terra è questa? di qual gente? Oh forse, / che ignora il bene e che gli dei non teme! / Ad altra terra i così pii Feaci / m’hanno condotto, e sì dicean, gl’ingiusti, / di riportarmi ad Itaca serena».
Più di tutti tragici, i sette quadri di Il sonno di Odisseo (sempre dai Poemi conviviali) rappresentano l’eroe colto dal fatale sonno, in vista ormai di Itaca, allontanarsi da un ormai impossibile approdo: «E la nave radeva ora una punta / d’Itaca scabra. E tra due poggi un campo / era, ben culto; il campo di Laerte; / [...] / era suo padre: ma non già lo vide / notando il cuore d’Odisseo nel sonno. // [...] // Ed i venti portarono la nave / nera più lungi. E subito aprì gli occhi / l’eroe, rapidi aprì gli occhi a vedere / sbalzar dalla sognata Itaca il fumo; / e scoprir forse il fido Eumeo nel chiuso / ben cinto, e forse il padre suo nel campo / ben culto: il padre che sopra la marra / appoggiato guardasse la sua nave; / [...] / la dolce casa ove la fida moglie / già percorreva il garrulo telaio: / guardò: ma vide non sapea che nero / fuggire per il violaceo mare, / nuvola o terra? e dileguar lontano, / emerso il cuore d’Odisseo dal sonno».
Ne avrà memoria Umberto Saba, che di quel non approdo farà l’emblema della propria vita: «Nella mia giovinezza ho navigato / lungo le coste dalmate. [...] / [...] Oggi il mio regno / è quella terra di nessuno. Il porto / accende ad altri i suoi lumi; me al largo sospinge ancora il non domato spirito, / e della vita il doloroso amore» (Ulisse, da Mediterranee, conclusione del Canzoniere, 1948). Confluiva in questa visione la memoria di Dante e quella dei Quattro quartetti di T. S. Eliot, altro erede dell’Ulisse dantesco: «Gli uomini di età hanno da essere esploratori, / il qui e l’ora non importano / noi dobbiamo muovere ancora, e ancora / verso un’altra intensità / per un’unione più completa, una comunione più profonda» (East Coker, V).
Quella «più profonda comunione» aveva legato per un istante, ma eterno, due destini nell’inferno dei campi di sterminio: «Trattengo Pikolo, è assolutamente necessario e urgente che ascolti, che comprenda questo "come altrui piacque", prima che sia troppo tardi, domani lui o io possiamo essere morti, o non vederci mai più, devo dirgli, spiegargli del Medioevo, [...], qualcosa di gigantesco che io stesso ho visto ora soltanto, nell’intuizione di un attimo, forse il perché del nostro destino, del nostro essere oggi qui...» (Primo Levi, "Il canto di Ulisse", da Se questo è un uomo, 1947). Ciò che Levi ha testimoniato, attraverso Dante, non è stata la redenzione dell’inferno umano: Pikolo non viene liberato da Auschwitz dall’ascolto del "canto di Ulisse"; ma in esso l’Inferno, compreso, è trasceso e, in quella comprensione, vinto.
Dobbiamo augurarci che Ulisse non debba più essere memoria di un sacrificio entro le tenebre; che non chieda il nostro tempo altri eroi di derelizione e oblazione. Forse avremmo bisogno, per un avvenire di serenità anonima e placata, dell’Ulisse di Kavafis, di un viaggio modesto, senza giganti e senza smarrimenti, con la nostra fragile barca diretta al piccolo porto della vita:
«Se per Itaca volgi il tuo viaggio, / fa voti che ti sia lunga la via, / e colma di vicende e conoscenze. / Non temere i Lestrigoni e i Ciclopi / o Poseidone incollerito: mai / troverai tali mostri sulla via, / se resta il tuo pensiero alto e squisita / è l’emozione che ci tocca il cuore / e il corpo. Né Lestrigoni o Ciclopi / né Poseidone asprigno incontrerai, / se non li rechi dentro, nel tuo cuore, / se non li drizza il cuore innanzi a te. / [...] / Itaca tieni sempre nella mente. / La tua sorte ti segna a quell’approdo. / Ma non precipitare il tuo viaggio. / Meglio che duri molti anni, che vecchio / tu finalmente attracchi all’isoletta, / ricco di quanto guadagnasti in via, / senza aspettare che ti dia ricchezze. // Itaca t’ha donato il bel viaggio. / Senza di lei non ti mettevi in via. / Nulla ha da darti più» (Itaca).
Nulla, se non quanto è in noi.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO.
FLS
“Ulisse di James Joyce. Guida alla lettura” di John McCourt*
Prof. John McCourt, Lei è autore del libro Ulisse di James Joyce. Guida alla lettura edito da Carocci: quale importanza riveste, nella storia della letteratura del XX secolo, l’opera di James Joyce?
È di un’importanza fondamentale per vari motivi. È il primo significativo romanzo irlandese ambientato proprio nella futura capitale. Esce nel 1922, l’anno in cui Dublino diventa la capitale dello Stato Libero d’Irlanda (the Free State o Eire).
L’Ulisse rende la città una capitale culturale da mettere vicino a quella politica e offre una visione della società ben più aperta di quella della realtà attuale a Dublino o di quella che sarebbe venuta nella Dublino ultra-cattolica e nazionalista nei decenni dopo l’indipendenza.
Contemporaneamente offre un ritratto di Dublino nel 1904 senza paragone, con una fedeltà estrema ai dettagli storici. Allo stesso tempo, si tratta di un romanzo europeo; la Dublino di Joyce diventa la città moderna emblematica, costruita su più strati, distratta nella sua quotidianità ma allo stesso tempo un labirinto in cui l’individuo si perde.
L’Ulisse rappresenta il culmine ma anche il superamento del romanzo realista - utilizzando tutti gli strumenti del genere per poi superarlo e sviluppare una forma ibrida degna dei tempi cambiati dopo la fine del secolo del progresso.
Quali difficoltà pone la sua lettura?
Non per niente, Joyce stesso disse a Max Eastman: “Ciò che chiedo al mio lettore è di dedicarsi per tutta la vita a leggere le mie opere”. L’autore stesso definì l’Ulisse come un “maledettissimo romanzaccione”.
Certo non va letto nel modo convenzionale. C’è sempre il rischio di perdersi nelle infinite allusioni, nelle parole complesse, negli eventi - per lo più insignificanti - narrati. C’è poca trama ma c’è il mondo intero concentrato in meno di 24 ore a Dublino.
Innanzitutto, il romanzo (o meglio, l’epopea per utilizzare il termine che Joyce preferì) inizia due volte (una prima volta con Dedalus e poi, col quarto episodio, con Leopold e Molly Bloom).
Finisce pure due volte: nel penultimo episodio - “Itaca” sembra di arrivare alla conclusione quando Leopold Bloom, dopo la sua lunga e intensa giornata, va a letto e si addormenta vicino a Molly “With? Sinbad the Sailor and Tinbad the Tailor and Jinbad the Jailer ...” (“Con? Sinbad il Marinaio e Tinbad il Tailleuraio e Cinbad il Carcerario ...”) e invece no.
Molly, e il romanzo con lei, si risveglia e offre la sua trionfante conclusione, il famoso monologo con il più elaborato uso del flusso di coscienza mai visto.
Le difficoltà stanno dovunque ma soprattutto nel fatto che ogni episodio ha uno stile proprio e il lettore rischia di trovarsi in uno stato di disorientamento (che dovrebbe assomigliare al senso di smarrimento dell’uomo moderno che conosciamo anche nelle opere di tutti gli altri modernisti).
In quale contesto storico e culturale si inserisce il romanzo?
Si inserisce in vari contesti ma vive anche sopra ogni contesto storico come ogni grande classico. Detto ciò, al nuovo lettore serve una conoscenza della storia irlandese (ed inglese) e della religione cattolica (ed ebraica) e almeno una sintesi dell’Odissea di Omero. Aver letto alcuni importanti romanzi europei del diciottesimo secolo non guasta, neppure aver letto Shakespeare e soprattutto Amleto.
Il lettore italiano (e non solo) farebbe bene a ricordarsi che l’Ulisse di Joyce venne costruito a Trieste, una città che divenne per l’autore una seconda, piccola Irlanda. Trieste, ai suoi tempi, era una città plurilinguistica e un “ponte” tra diverse culture, una città di tensioni, contraddizioni, una città multi-religiosa, ma anche, ad esempio, un centro avanzato per la psicoanalisi.
Joyce trovò a Trieste parecchi elementi - l’ebraismo di Bloom e Molly, l’italianità presente nel testo (nel linguaggio, nelle citazioni dantesche, nelle opere liriche citate), il senso di essere al centro dell’Europa in una fase di forti cambiamenti - che furono centrali per la costruzione del suo testo. Per il lettore italiano che si avvicina oggi ad Ulysses, questo accumulo di materiale può rappresentare un vantaggio e una possibile chiave d’accesso.
Quale chiave d’accesso al romanzo offre la sua guida?
La guida parte dall’idea che ognuno deve trovare la propria chiave d’accesso. Entrare nell’opera di Joyce è come visitare una grande città per la prima volta. Può vedere tante cose ma non potrà mai vedere tutto. Di conseguenza bisogna trovare una mappa per attraversare la città nel modo migliore senza perdersi troppe volte e senza perdere le cose più belle che ci sono da vedere. Il punto è che non è necessario (né possibile) cogliere o comprendere tutto.
Ogni lettore può e deve sfruttare le proprie conoscenze - linguistiche, musicali, religiose, culturali, storiche, e le proprie esperienze personali per trovare la chiave d’accesso personale. Una volta trovatosi un po’ più “a casa” nell’opera, il lettore si rende conto che non finirà mai di leggerla. Come il viaggiatore si rende conto di non poter mai apprezzare tutte le sfumature di una grande metropoli.
In che modo il racconto si richiama ai testi omerici?
In una lettera a sua zia, Mrs. Josephine Murray, Joyce tentò di indirizzarla nella lettura. Scrisse: “Se vuoi leggere Ulysses è meglio che prima ti procuri o prendi in prestito da una biblioteca una traduzione in prosa dell’Odissea di Omero”. Altrove, Joyce ha motivato come segue la sua scelta dell’Odissea come trama base, come modello, come struttura portante del suo Ulysses dicendo che ‘I tratti più belli e più umani sono contenuti nell’Odissea.’
Il consiglio di leggere l’Odissea è ancor oggi validissimo perché il romanzo di Joyce la prende come struttura di base (per poi stravolgerla).
La prima parte contiene tre episodi che corrispondono agli episodi omerici che riguardano Telemaco, Nestore e Proteo.
La seconda parte vede l’ingresso in scena di Leopold Bloom ed è composta da dodici episodi che corrispondono a quelli omerici di Calipso, Lotofagi, Ade, Eolo, Lestrigoni, Scilla e Cariddi, Rocce Erranti, Sirene, Ciclopi, Nausicaa, I buoi del sole, e Circe.
La terza parte è quella del Nostos (il ritorno a casa) ed è in linea con la prima parte, essendo una seconda triade (Eumeo, Itaca, Penelope).
Così come c’è corrispondenza fra i capitoli del libro, c’è anche tra i personaggi: Stephen Dedalus corrisponde alla figura di Telemaco, il figlio di Ulisse; Leopold Bloom, viene associato con Ulisse stesso, e Molly ci riporta alla figura di Penelope. Il lettore viene colpito particolarmente dalla figura di Leopold, che girovaga per la città di Dublino, proprio come il leggendario Ulisse vagava per il Mediterraneo.
Anche se dietro all’ombra di Bloom c’è l’eroe greco antico, lui è un eroe moderno, insicuro, gentile e generoso (anche troppo). È un ottimo esempio dell’homme moyen sensuel (il tipico uomo medio) ma anche della figura baudelairiana del flâneur - l’uomo artistico che cammina nella città cercando di dare senso alla propria vita.
Come vengono caratterizzati i personaggi?
Se pensa di trovare convenzionali descrizioni dei personaggi, il lettore rimarrà deluso. Veniamo a conoscere ogni personaggio pian piano tramite le sue azioni, tramite i dialoghi, ma ancora di più tramite le cose pensate ma non dette. Già nella prima parte del romanzo, viene messa fortemente in discussione la tradizionale figura del narratore onnisciente, ovvero l’affidabile mediatore tra i personaggi e il lettore, figura che fino ad allora era stata considerata necessaria per la comprensione del testo. Sempre di più nell’Ulisse il lettore si trova a contatto diretto con i principali personaggi e può seguire i loro pensieri appena formulati, fuggevoli, spesso caotici, che affiorano e scompaiono nel continuo fluire delle loro coscienze.
Quali caratteristiche presentano lo stile e la tecnica di scrittura del romanzo?
Dopo uno stile iniziale che è abbastanza abbordabile, nella seconda parte del libro, da “Rocce Erranti” in poi, le cose sono ancora più complicate: il romanzo cambia radicalmente, il cast dei personaggi cresce, e - stilisticamente - il lettore si trova ad affrontare una serie continua di bruschi cambiamenti. Ogni episodio è totalmente diverso dagli altri. La narrazione stessa diventa protagonista e a volte sembra che lavori contro gli stessi personaggi e contro l’ordinaria necessità di portare avanti una trama.
Spiega Joyce a proposito della seconda parte del libro e in particolare “Ciclope” e “Circe”: “mi è impossibile scrivere questi episodi rapidamente. Gli elementi necessari si fondono soltanto dopo una prolungata coesistenza. Riconosco che è un libro estremamente stancante ma è l’unico libro che sono in grado di scrivere attualmente. [...] Ciascun episodio successivo, trattando di un qualche campo della cultura artistica (retorica o musica o dialettica), si lascia dietro una terra bruciata.”
Joyce non intendeva raccontare una storia usando solo le tecniche comuni e consolidate. Al contrario voleva palesare i limiti di quelle tecniche, i limiti della letteratura convenzionale per ritrarre la vita attuale e il pensiero moderno. Per farlo ha dovuto inventare nuovi metodi, nuovi stili e nuove tecniche che stiamo ancor oggi imparando a leggere e capire.
John McCourt è l’autore di James Joyce. Gli anni di Bloom (Mondadori) che ha vinto il Premio Comisso nel 2005. È cofondatore della Trieste Joyce School dell’Università di Trieste, Presidente-eletto dell’International James Joyce Foundation e ordinario di Letteratura inglese all’Università di Macerata.
* Fonte: Letture.org
La Morte sogna la vita
di Nikos Kazantzakis *
La Morte viene a coricarsi al fianco di Ulisse;
ha vagato tutta notte e ha le palpebre pesanti,
vuole stendersi in riva al fiume con il vecchio amico
all’ombra dell’agnocasto, dormire anche lei un poco;
posa lievemente le mani ossute sul petto dell’Arciere,
e così avvinta la valorosa coppia si addormenta.
Dorme la Morte, e sogna che esistano uomini vivi,
che sulla terra s’innalzino case, palazzi e regni,
che sorgano giardini fioriti, e che alla loro ombra
passeggino donne nobili e cantino le schiave.
Sogna che sorga il sole, e che la luna illumini,
che giri la ruota della terra, e che ogni anno porti
erbe e fiori, frutti d’ogni sorta, piogge dolci e neve;
che la ruota giri ancora, e che la terra si rinnovi.
La Morte ride di nascosto, lo sa ch’è solo un sogno,
vento multicolore, fantasia della mente stanca,
e tollera imperturbabile che l’incubo la assilli.
Pian piano la vita si fa sfrontata, la ruota prende slancio;
la terra avida apre le viscere alla pioggia e al sole,
infinite uova si schiudono, il mondo brulica di vermi;
si muovono folti eserciti, uomini, uccelli, fiere,
e pensieri, si avventano per divorare la Morte.
Una coppia di umani si rannicchia nelle sue nari,
accende il fuoco e lo attizza per prepararsi il pranzo,
e sul suo labbro appende la culla del neonato.
Ha un solletico sulle labbra, formicolano le nari,
la Morte si scuote all’improvviso e svanisce il sogno.
Nel sonno fulmineo ha avuto un incubo: la vita.
*
poesia tratta da: Odissea di Nikos Kazantzakis , Crocetti Editore
Il poema.
L’Ulisse di Kazantzakis, esploratore del mistero
Prima traduzione in italiano dell’epopea che impegnò il poeta greco per quasi quindici anni: ricercò in tutta la Grecia le parole impiegate da pescatori e contadini, sopravvivenza della tradizione
di Alessandro Zaccuri (Avvenire, venerdì 4 dicembre 2020)
Il secolo breve delle riscritture novecentesche dell’epica omerica si apre e si chiude in lingua inglese. Si apre in prosa nel 1922, con Ulisse di James Joyce, e si chiude in poesia nel 1990, con Omeros di Derek Walcott. Nel frattempo, sul finire degli anni Trenta, il mito ha ritrovato la sua lingua originaria, il greco, e ha addirittura ritrovato il ritmo di un verso, il decaeptasillabo, che ricalca l’esametro classico. Si potrebbe pensare che la versione che ne consegue sia la più fedele e forse è davvero così, in un certo senso. Ma la storia non può essere la stessa, l’avventura non può ripetersi in modo identico, il viaggio del nuovo Ulisse deve seguire un altro itinerario. Deve, più che altro, avere un approdo diverso.
Itaca non basta più, come aveva intuito Dante, i Proci sono appena stati sterminati ed è già tempo di ripartire. Comincia così, con l’eroe improvvisamente disamorato di Penelope, l’Odissea di Nikos Kazantzakis, poema a sua volta circondato da una fama leggendaria, non fosse altro che per la misura esatta di quei 33.333 versi suddivisi in 24 canti che ne fanno la più imponente tra le opere del genere in ambito occidentale.
Non è soltanto la mole, non è soltanto la complessità delle vicende immaginate da Kazantzakis a rendere impervia l’impresa di tradurre l’Odissea. Il vero nodo è quello della lingua e, in particolare, dei circa duemila athisàvrista, i termini non censiti dai dizionari dei quali il poeta si serve per dare ulteriore concretezza al suo stile.
Con una tenacia che di nuovo ricorda la scelta di Dante a favore del volgare, nei lunghi anni della stesura della sua Odissea (iniziata nel 1924, fu pubblicata nel 1938) Kazantzakis si muove per tutta la Grecia alla ricerca delle parole impiegate da pescatori e contadini, collezionando varianti dialettali e invenzioni lessicali che rappresentano l’estrema sopravvivenza della tradizione orale da cui erano discesi gli stessi poemi omerici.
Di questa vicenda - grandiosa anche solo sul piano formale - il lettore italiano aveva finora notizie indirette oppure parziali. Ora, a conclusione di un lavoro a sua volta protratto nel tempo, Nicola Crocetti firma la prima traduzione dell’epopea di Kazantzakis, accompagnata da un corredo essenziale di note e di apparati (Crocetti, pagine 800, euro 35,00). Anche nella sua veste di editore, Crocetti è la figura che più di ogni altra si è spesa nel nostro Paese per la conoscenza e la diffusione della poesia greca moderna, come dimostra la ripresa di molti importanti titoli del suo catalogo, da Seferis a Ritsos, nella collana realizzata dopo l’accordo con il gruppo Feltrinelli.
L’Odissea occupa un posto a sé, a conferma di un interesse per Kazantzakis che già aveva reso disponibili da Crocetti i libri maggiori dell’autore in versioni affidabili (perché condotte sull’originale e non su traduzioni in altre lingue). Nato nel 1883 a Iraklio, sull’isola di Creta, e morto nel 1957 a Friburgo, Kazatnzakis ha rappresentato e ancora rappresenta un caso irrisolto, e non solo per via del mancato riconoscimento del Nobel, negatogli dopo il clamoroso boicottaggio da parte della stessa comunità intellettuale greca. Tutta la sua esistenza è caratterizzata da un’irrequietezza spirituale che non mancò di provocare incomprensioni e condanne, fino alla scomunica comminata nel 1953 dalla Chiesa ortodossa per il romanzo L’ultima tentazione di Cristo. Anche il suo Ulisse è essenzialmente un esploratore del mistero, che nel poema viene affrontato nella prospettiva di un sincretismo nel quale gioca un ruolo rilevante un’interpretazione molto personale del messaggio evangelico.
In estrema sintesi, l’Odissea descrive un percorso tra il visibile e l’invisibile, che può essere riassunto in una delle numerose invocazioni di preghiera e di sfida che il protagonista rivolge verso il cielo: «Dio, ti chiamano Spirito perché generi la carne; / Dio, ti chiamano Carne perché generi lo Spirito».
Ulisse lascia Itaca, dicevamo, ma non senza aver favorito le nozze tra il figlio Telemaco e Nausicaa. Fa rotta verso Sparta, rapisce un’Elena non meno inquieta di lui, ripara dopo una tempesta a Creta, dove si sta consumando il crepuscolo della civiltà minoica. Allo stesso modo, più tardi farà tappa in Egitto, risalendo il Nilo fino a Tebe.
Nella prima metà del poema Ulisse (che Kazantzakis designa con una ricchissima varietà di epiteti: Arciere, Millenanime, Asceta e molti altri ancora) è un uomo d’azione, ovunque suscita l’amore di schiave e principesse, si unisce a rivolte, ha l’ambizione di cambiare il corso degli eventi. L’apice di questa fase è rappresentato dalla fondazione di una Città ideale che subito viene distrutta da un cataclisma, a riprova dell’antagonismo tra umano e divino che attraversa tutta la riflessione di Kazantzakis. Stremato e nello stesso tempo purificato dalla sconfitta, Ulisse intraprende un pellegrinaggio attraverso l’Africa scandito da una seri di incontri nei quali si rispecchiano i momenti fondamentali dell’esperienza interiore: il Principe della Terra, tormentato dall’idea della morte, allude al Buddha, la cortigiana Margarò è l’emblema dell’eterno femminino (il Faust di Goethe è una delle principali fonti del poema), Capitan Uno rinvia all’idealismo di Don Chisciotte e il Pescatore gentile, infine, è lo stesso Cristo, dal quale il protagonista si congeda a malincuore per intraprendere l’ultimo viaggio, che lo porterà a trovare l’illuminazione e la morte tra i ghiacci del Polo Sud (qui invece è il Gordon Pym di Poe a fare da modello).
È un racconto impetuoso e sovrabbondante, che Crocetti riproduce in versi distesi ed eleganti, riuscendo nell’intento di restituire la commistione tra aulico e popolare. L’ambizione visionaria di Kazantzakis (che all’interno del poema si ritrae nelle vesti di un cantore) può apparire eccessiva e a tratti contraddittoria, ma è difficile negare la bellezza che la sua Odissea riesce a sprigionare, a partire dal magnifico proemio. «Sole, grande astro orientale, berretto d’oro della mente, / che amo portare di traverso, / ho voglia di giocare, / perché gioiscano i cuori finché entrambi siamo vivi».
Scalare ad alta velocità (io sto con Messner)
di Mauro Berruto (Avvenire, mercoledì 30 ottobre 2019)
Ci sono imprese che restano nella storia e ci sono esploratori che grazie alle loro imprese hanno aperto delle strade. Ci sono strade che, grazie agli esploratori che le hanno aperte, sono state capaci di cambiare un paradigma. L’alpinismo, per esempio, grazie alla sua dimensione di conquista verticale, ha sempre rappresentato fascino, mistero, in qualche modo esplorazione introspettiva. Le grandi conquiste che l’uomo ha raggiunto per linee orizzontali hanno molto spesso avuto a che fare con commerci o nuovi territori da colonizzare e dunque, si sono fondate su un fattore decisivo, quello della velocità, mentre le conquiste verticali hanno avuto a che fare con la lentezza, con il gesto misurato, rallentato inevitabilmente dalla rarefazione dell’ossigeno, dalle pareti di roccia, dalle nevi perenni.
Ieri è arrivata una notizia: un alpinista nepalese, il trentaseienne Nirmal Purja, ha raggiunto la cima del Monte Shishapangma, 8.027 metri e ha, di conseguenza, annunciato l’impresa di aver scalato tutti i quattordici ottomila del pianeta in soli sei mesi e sei giorni.
Giusto per dare un parametro, il precedente record apparteneva al sudcoreano Kim Chang-ho: ci aveva messo sette anni. -Il primo alpinista capace di scalare tutte le vette più alte del pianeta, il nostro Reinhold Messner, aveva impiegato sedici anni e tre mesi per raggiungere quello stesso obiettivo. Insomma, senza entrare nel merito della prestazione, quella del nepalese Purja è un’impresa ai limiti dell’umano, ritenuta dai più impossibile, anzi, una specie di condanna a morte già scritta per chi avesse voluto provarci. Se usciamo dal giudizio e leggiamo questa impresa nel contesto dei nostri tempi potremmo riflettere su come l’alpinismo e quella sua dimensione di scoperta verticale (salire verso il cielo per scendere nel proprio profondo) che ha rappresentato a lungo una sorta di sfida spirituale, abbiano a che fare oggi con un contesto che è certamente cambiato. La dimensione spaziale ha ceduto il passo a quella temporale, il parametro è diventato la rapidità.
Non è tutto coerente? Non è il segno dei tempi che viviamo dove la velocità (di trasmissione delle informazioni, per esempio) è diventata perfino più importante del contenuto? Quel muoversi in modo così veloce, non ci fa perdere di vista un bel po’ di dettagli?
Una splendida poesia, scritta nel 1911 da Kostantinos Kavafis e che si intitola "Itaca" richiama, in maniera struggente, all’importanza, alla bellezza, alla necessaria lunghezza del viaggio. Il viaggio di ritorno di Odisseo verso la sua Patria diventa una bellissima metafora: «Devi augurarti che la strada sia lunga, che i mattini d’estate siano tanti quando nei porti - e con che gioia - toccherai terra tu, per la prima volta».
I nostri viaggi sono sempre più brevi, l’alta velocità non è solo la caratteristica di un treno. È uno stato mentale, è ciò che desideriamo. Prima arriviamo, prima facciamo, prima ahimè, dimentichiamo. E se Reinhold Messner è ancora capace, oggi, di raccontarci la sua visione di futuro, chissà cosa resterà fra qualche anno di Nirmal Purja, oltre a una traccia digitale: quella di aver annunciato, guarda un po’, il risultato della sua impresa pochi minuti dopo la conquista dell’ultima vetta, usando un telefono satellitare e i suoi account social.
L’uomo che scrisse il sequel dell’Odissea
Ci voleva coraggio per seguire le orme di Omero. Ma al greco Nikos Kazantzakis non mancava. Ora Nicola Crocetti sta completando la traduzione in italiano del suo poema "monstre". Un’altra impresa epica
di Matteo Nucci *
Nikos Kazantzakis è stato un genio indiscutibile. Ma è cosa poco nota. In Italia, pochissimi ne conoscono anche solo il nome. E tra quei pochissimi, la maggior parte non ha mai letto una sua opera e prevale semmai il vago ricordo dei titoli di coda di un film stratosferico interpretato da Anthony Quinn, Zorba il greco. All’estero forse qualcosa cambia. Ma il problema è che nella sua stessa terra natale, Kazantzakis è stato osteggiato e continua a esserlo da uno schieramento di forze composite, a partire dalla potentissima chiesa ortodossa, passando per la destra, fino agli stessi intellettuali, giornalisti e scrittori, rosi dal livore dell’invidia nei confronti del genio. E tuttavia i suoi lavori restano per sempre a testimonianza di questa grottesca sorte di cui la storia farà giustizia. Qui da noi, in Italia, presto una delle opere più eccezionali di questo intellettuale dalla versatilità mostruosa sarà disponibile in libreria. La rivalutazione deve finalmente cominciare.
Nicola Crocetti usa parole di fuoco. Scrittore, editore, traduttore, Crocetti è oggi il più attivo a diffondere la poesia e in generale la letteratura neogreca in Italia. Ha tradotto i principali poeti greci del Novecento (su tutti Kavafis, Elitis, Ritsos e Seferis), sua è la splendida versione di Zorba il greco che ci ha permesso finalmente di leggere l’opera tradotta dall’originale, e sta ora portando a termine un lavoro immane: la traduzione dell’Odissea di Kazantzakis. Un poema di 33.333 versi di 17 sillabe, per ricreare l’effetto dell’esametro antico. Bellezza e potenza difficili da definire, almeno come inquantificabili sono i problemi che il poema pone al traduttore. Se ne potrà avere un assaggio da stasera, 15 dicembre, a domenica, al Teatro Due di Parma (letture di Tommaso Ragno, musiche di Orazio Sciortino, regia di Walter Le Moli).
«Kazantzakis innanzitutto aveva una capacità lavorativa immensa. Conosceva perfettamente sei lingue. Tradusse Odissea e Iliade, la Commedia di Dante, i poeti spagnoli della Generazione del ‘27. Portò in Grecia Nietzsche, il Faust di Goethe, Bergson, Machiavelli. Tradusse addirittura 12 volumi del vocabolario Larousse in dispense. Si guadagnava da vivere traducendo. E intanto creava. Diede alle stampe dieci romanzi, cinquanta opere teatrali, quattro biografie, diversi libri e racconti di viaggio (primo fra gli europei a raccontare Giappone e Cina del Novecento), centinaia e centinaia di articoli e, ciliegina sulla torta, quest’opera immensa che nel 1938 suscitò sconcerto pari solo all’Ulisse di Joyce. In essa, Kazantzakis fa sua la raccomandazione di Dante “fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza” e mette in scena un Ulisse che non ha più nulla dell’eroe omerico, ma in cui transustanzia se stesso e il suo ideale di uomo».
Difficile definire quest’ideale senza mettere accanto alla sete di conoscenza dell’Ulisse dantesco il vitalismo che Kazantzakis sviluppò soprattutto leggendo Nietzsche. Un vitalismo che si unisce allo spiritualismo ascetico messo alla prova dall’autore durante tutta una vita di viaggi e nomadismo (nacque a Creta nel 1883, visse fra Parigi, Berlino, Mosca, Italia, Spagna, Egina, Cipro, Egitto, Cecoslovacchia, Antibes). «Per definire l’eroe, Kazantzakis usa quasi centocinquanta epiteti. Il più frequente è l’Asceta». Crocetti inizia a snocciolare a memoria e non si ferma più. «Mente di volpe. L’Amareggiato. Lo Spietato. Occhi di stella. L’Orgoglioso. L’Assediato dalle ombre. Il Volitivo. Il Subdolo. Il Combatti dèi. Il Paziente. L’Ambiguo. Il Solitario. Mente di Fiamma. Il Ladro di anime. Il Conosci Cuori. L’Eclettico... Ulisse è tutte queste cose assieme. Un Superuomo con virtù e difetti dell’uomo normale, con quella tensione ascetica tutta propria di Kazantzakis stesso, che possiamo ben ritrovare nella sua biografia di san Francesco, in effetti quasi un’autobiografia».
La storia che racconta questo poema debordante parte dalla fine dell’Odissea omerica. Ulisse è costretto a ripartire quando scopre un complotto delle donne di Itaca che assieme a Penelope e allo stesso Telemaco si preparano a ucciderlo. Mette assieme una ciurma di cinque uomini, costruisce una nave e la prima meta è Sparta dove Menelao, vecchio e imbolsito, lo delude. Elena invece è ancora bellissima e Ulisse la porta via con sé. A Creta però Ulisse cede Elena a un biondo giardiniere e si lancia in Egitto, dove prende a risalire il Nilo in cerca delle sue sorgenti (tema che all’epoca tormentava molti esploratori). Combatte, rovescia governi, incontra la Morte e passa una giornata in sua compagnia (si addormentano assieme, in un brano fenomenale, e la Morte sogna, e l’incubo da cui desidera risvegliarsi al più presto è il contraltare degli incubi umani: essa infatti sogna la vita). Incontra filosofi, Gesù Cristo, personaggi mitologici. Il viaggio si trasforma in un viaggio nel tempo in cui Ulisse e i suoi compagni si disfano delle enormi ricchezze accumulate a Eliopoli. Arrivano in Sudafrica. Di qui Ulisse s’imbarca su una specie di kayak, da solo. Naviga verso l’Antartide e l’aurora australe, infine muore schiacciato da un iceberg mentre la sua anima si fa fiamma, luce, spirito.
«Oltre alla ricchezza dei temi, è la lingua che Kazantzakis usa a sconcertare. Più di 8000 sono i lemmi introvabili su qualsiasi dizionario greco che rendono la lettura difficile per i greci stessi. Parte sono conii dell’autore. Parte sono termini dialettali che Kazantzakis raccolse in un’opera infaticabile dal lessico di pescatori, contadini, mestieranti cretesi. Si era accorto che una lingua intera sarebbe morta. Pensò di salvarla in un vocabolario. Poi creò l’Arca di Noè del suo poema. Un mondo intero salvato dalla distruzione». Al tempo stesso una fatica immane per i traduttori. «L’ottima versione inglese di Kimon Friar ha venduto oltre 200 mila copie. La versione tedesca ne ha vendute 80 mila. I lettori sono entusiasti. Non potevo sottrarmi. Avevo cominciato fin da ragazzo, ma mi accorsi in fretta di essere del tutto impreparato. Mi sono rimesso all’opera tre anni fa, dopo aver finito il lavoro su Zorba. In un anno conto di finire e in massimo due anni il libro sarà disponibile».
Si potrà cominciare anche da noi a restituire a Kazantzakis quel che non ebbe mai? Lui che perse il Nobel per un voto quando fu Camus a vincere. Lui che terminò il poema chiudendosi in una solitudine estrema sull’isola di Egina dopo dodici anni di riscritture. «Difficile dire quel che accadrà. I meriti sono indiscutibili. A me l’unica certezza l’ha data il traduttore svedese: non conosceva neppure il neogreco quando andò in pensione lasciando l’insegnamento in un liceo e cominciò a studiare solo per tradurre quest’opera unica. Oggi ha superato abbondantemente i cent’anni e sta lavorando a una revisione. È in forma perfetta. Quando gli ho chiesto qualche consiglio si è limitato a dirmi: “Bravo. Traduci l’Odissea. È un lavoro immane. Ma allunga la vita”».
Verità nascoste.
Il Telemaco, il messia e la Costituzione
di Sarantis Thanopulos (il manifesto, 19.11.2016)
Massimo Recalcati nell’elogiare, alla Leopolda, Matteo Renzi, ha accusato la sinistra del No di essere masochista, paternalista e di odiare la giovinezza. Accuse fondate su luoghi comuni.
Un discorso aforistico, privo di argomenti, teso a screditare l’avversario piuttosto che ad esprimere una propria opinione sui quesiti referendari.
L’andazzo è proprio questo: la grande maggioranza degli italiani nel referendum prossimo voterà pro o contro Renzi, a prescindere dalla valutazione di una riforma che modificherà in modo sostanziale la costituzione italiana.
La personalizzazione del conflitto politico ha finito per espropriarci della cura nei confronti delle regole fondamentali della nostra convivenza democratica. Si è fatta strada una corrente di «eccezione dalla costituzione», che mentre aspira formalmente a riformarla, di fatto crea il clima di una sua sospensione sul piano emotivo.
Questo tipo di sospensione dell’ordinamento costituzionale è il più pericoloso. La restrizione diretta e apertamente autoritaria delle garanzie costitutive dei nostri diritti, crea opposizione e ribellione.
La loro sostituzione con l’affidamento regressivo all’«uomo della provvidenza», da una parte sposta l’attenzione su un quesito fuorviante - se costui è quello «vero» o quello «falso» - e dall’altra favorisce la deresponsabilizzazione.
La nota identificazione del premier con Telemaco, nella versione ideata da Recalcati come riparazione (impropria) dell’assenza del padre, è espressione di un vissuto di delegittimazione collettiva. Di questa delegittimazione, della cui origine non è responsabile, Renzi si è costituito come l’interprete più importante.
L’ha fatto per negazione, cioè oscurandola: più incerta sente la propria legittimità, più insiste sulla delegittimazione degli altri.
La rottamazione pura e semplice di una classe politica inadeguata non produce di per sé legittimazione. Se resta come unica opzione perpetua il senso di delegittimazione. Infatti, Renzi, il rottamatore, si identifica con Telemaco: un figlio reso illegittimo dall’assenza del padre e dalla solitudine, vedovanza «bianca», della madre (le due condizioni sono inscindibili).
Dimentica che il ritorno della legge nel regno di Itaca, non è opera di Telemaco. Deriva dal ritorno di Ulisse nel letto coniugale, dal suo riconoscimento e legittimazione come uomo e come padre dall’amore di Penelope.
Le regole «costituzionali» che garantiscono la buona gestione delle relazioni familiari, sono fondate sulla capacità dei genitori di essere soggetti paritari nel loro legame di desiderio. I figli che rottamano il padre, cercando di sostituirlo nell’amore della madre, finiscono per assumere un ruolo messianico.
In modo analogo al governo familiare, il governo della Polis non può essere affidato a un Telemaco capovolto nel suo significato, che non sa attendere il suo tempo. Aspettare il momento giusto per sentirsi adulti - l’accesso alla piena comprensione della congiunzione erotica dei genitori e della sua problematicità - è il senso vero dell’attesa del padre in Odissea.
Un leader capace di identificarsi con Penelope e Ulisse, cioè con il senso di corresponsabilità che costituisce le relazioni cittadine in termini di condivisione e di scambio, è molto più affidabile di un figlio che si sostituisce ai genitori. Costui si imprigiona nel destino del redentore e, diversamente da Telemaco di Omero, si considera il frutto di una unione spirituale tra un padre ideale e una madre/figlia vergine. Promuove la deresponsabilizzazione che gli ha assegnato la sua funzione immaginaria e si/ci illude di poter farcela.
La civiltà è una macchina che si è alimentata di esplorazioni e scoperte
Non accetta, non può accettare, chiusure e preclusioni
La curiosità salverà il mondo
Quando ti metterai in viaggio verso Itaca, dice Kavafis, devi augurarti una lunga strada Il desiderio di conoscere l’ignoto e il diverso muove la storia e favorisce il dialogo
di Edoardo Boncinelli (Corriere della Sera, La Lettura, 03.01.2015)
Si sente spesso dire «Questo ci salverà», «Solo quello ci può salvare» (anche se non ho mai capito bene da che); ma se c’è una cosa che certamente ci può salvare - non importa da cosa - questa è la curiosità, cioè il desiderio di conoscere realtà nuove e diverse. Tutti gli animali superiori sono curiosi, ma limitatamente alla loro età giovanile; poi la curiosità a poco a poco svanisce. Poiché noi uomini rimaniamo «cuccioli» per una quantità di tempo inusitata, ci comportiamo come gli esseri più curiosi del globo.
Le neuroscienze ci dicono che la curiosità ha la stessa natura di un bisogno o di uno stato di astinenza e il suo soddisfacimento ci procura la gioia di un autentico attingimento, portando dopamina alla corteccia cerebrale, come se avessimo mangiato, bevuto o fatto sesso. Le espressioni pratiche più tangibili di tale curiosità sono rappresentate dalle esplorazioni geografiche e dalla scienza. Dopo aver faticosamente raggiunto la sua Itaca - «Quando ti metterai in viaggio per Itaca/ devi augurarti che la strada sia lunga,/ fertile in avventure e in esperienze», dice il poeta greco Costantino Kavafis - Ulisse si rimette in mare con i suoi vecchi compagni alla volta delle colonne d’Ercole e a sentire Dante dice a quelli: «Non vogliate negar l’esperienza,/ di retro al sol, del mondo sanza gente».
Per quanto riguarda la scienza di oggi, si sogliono distinguere due tipi principali di ricerca, quella applicata e quella di base, che in inglese viene definita curiosity driven , cioè guidata dalla curiosità, per sottolinearne il carattere di esplorazione non guidata da niente altro che dal desiderio di soddisfare appunto la nostra curiosità. Senza curiosità lo scienziato non si può proprio fare, o verrebbe fatto in maniera fiacca e senza entusiasmo. L’entusiasmo è in effetti spesso il compagno effervescente della curiosità. La curiosità è un istinto esplorativo che ci spinge a cercare cose nuove nei più diversi campi e ambiti, fino al punto di esplorare le profondità del cosmo o i recessi più reconditi della materia, nonché i segreti della nostra mente o le segrete del nostro cuore.
Dalle particelle subatomiche alle galassie più anziane, o alle stelle ancora in formazione, niente è sfuggito alla nostra curiosità. E facciamo di tutto anche per sapere se nell’universo ci sono altre forme di vita, intelligente o vegetativa. Senza pensare che abbiamo certamente vita intelligente su questo pianeta, e che può valere la pena conoscerla. Come succedeva in passato, quando le navi solcavano in lungo e in largo le acque del Mediterraneo e con i loro continui scambi di cose e d’idee, coraggiosi viaggiatori gettavano le fondamenta della nostra stessa civiltà.
Quando partirai alla volta di Itaca, dice sempre Kavafis, «devi augurarti che la strada sia lunga./ Che i mattini d’estate siano tanti/ quando nei porti - finalmente e con che gioia -/ toccherai terra tu per la prima volta:/ negli empori fenici indugia e acquista/ madreperle coralli ebano e ambre/ tutta merce fina, anche profumi/ penetranti d’ogni sorta;/ più profumi inebrianti che puoi,/ va in molte città egizie/ impara una quantità di cose dai dotti».
Tale spirito ha accompagnato per anni il cammino dell’uomo e il suo continuo andare e venire per le vie delle spezie o della seta per terra e anche, avventurosamente, per mare. La parola Cina, o China, e le favolose Indie suscitavano negli europei curiosità e incanto, e fino all’inizio del Novecento il desiderio di conoscere costumi e usanze esotiche di altri popoli, da parte di viaggiatori che già si sentivano un po’ annoiati del loro mondo e del loro modo di vedere le cose. Per non parlare dei viaggi d’istruzione e d’iniziazione, come quello famoso che portò Goethe in Italia o quelli di Henry Miller e Ernest Hemingway in Francia e in Spagna.
Il mondo nel frattempo si è fatto piccolo e sovraffollato. Non c’è più, si direbbe, il piacere di incontrare, dopo un lungo solitario cammino, un altro essere umano. Si cerca anzi spesso di fuggire i nostri simili, andando a cercare rotte meno battute e paesaggi quasi incontaminati. Di veramente incontaminato non è rimasto ormai quasi niente, perché gli sciami delle «formichine» umane sono arrivati dappertutto.
Ecco che a poco a poco la curiosità e l’entusiasmo si sono come rovesciati nel loro contrario, la diffidenza e il timore. Il desiderio di conoscere altri popoli e altre culture ha lasciato il campo alle aspirazioni alla chiusura e all’isolamento, e a tentazioni di misoneismo che rasentano la misantropia.
Il poeta siriano Adonis ha il coraggio di affermare che «l’islam è fondato su tre punti essenziali. Primo, il profeta Maometto è il sigillo di tutti i profeti. Secondo, le verità tramandate sono di conseguenza le verità ultime. Terzo, l’individuo, o credente, non può aggiungere né modificare nulla. Deve limitarsi a obbedire ai precetti». Ma anche senza squilli di tromba o toni guasconi, per quante altre confessioni si può escludere che si sia visceralmente convinti di qualcosa di simile?
Il problema è che la civiltà è una macchina che si alimenta di esplorazioni e novità. Non accetta, non può accettare, chiusure e preclusioni, altrimenti si smarrisce e si perde. E se ci dovessimo smarrire in viaggio, meglio sarebbe stato non essere mai partiti. Perché nell’universo siamo soli, o quasi. Alla ricerca di un fondamento unico e di un senso.
Forse il viaggio può ripartire dall’arte e nell’arte. Mai come oggi possiamo vedere e apprezzare le opere d’arte di tutto il mondo, e leggere poesie e racconti di scrittori di tutte le nazioni, cosa che una volta non era facile, per un difetto di comunicazione e perché i cittadini di molti Stati del mondo non accedevano al grande circo della letteratura, cioè dell’immanente trascendimento dell’umano. E a parte l’apprezzamento letterario, anche così si può soddisfare la nostra curiosità di vicende umane diverse che ci portino a farci «del mondo esperti e de li vizi umani e del valore».
Nella grande diversità delle sue espressioni, l’arte declina comunque un paradigma comune, profondamente e autenticamente umano, per esempio nelle architetture delle parti più diverse del mondo, e nel cinema, la decima musa che ha oscurato e allo stesso tempo riassunto tutte le altre, e che è divenuta una pratica moneta di scambio culturale ed esistenziale tra le genti dei quattro angoli del mondo. Cioè tra esseri umani così vicini e a volte così lontani.
Qualcuno parla di un futuro d’innesti, di piccole protesi o di dispositivi tecnologici, sul corpo umano e sulla psiche a quello associata. Forse l’innesto più promettente è quello di uomini con altri uomini, alla ricerca di un qualcosa di sempre più propriamente umano. Questa, e non altra, deve essere la nostra ricerca delle «radici», per non parlare dell’incontro con l’altra metà del cielo, quel femminile che ci deve ancora mostrare la sua autenticità. Antiquam exquìrite matrem, aveva detto l’oracolo di Delo a Enea, prima che quello si mettesse per mare con tutti i suoi alla ricerca di un nuovo ubi consistam. Cercate l’antica madre. Io, alla mia età, da qualche tempo le mie esplorazioni le conduco sui social network, cogliendo al volo immagini di quadri, di sculture, di palazzi e di chiese, scintillanti versi di poesie e brani di musica. E «m’illumino d’immenso».
Bibliografia
Per approfondire i temi affrontati in queste pagine si possono consultare i seguenti volumi: il saggio di Alberto Manguel, Una storia naturale della curiosità (traduzione di Stefano Valenti, Feltrinelli, pagine 416, e 30); Dopo la lirica (Einaudi, 2005)in cui Enrico Testa ha raccolto i testi di più di quaranta tra poeti e poetesse italiani del secondo Novecento; Adonis, Violenza e islam. Conversazioni con Houria Abdelouahed (Guanda, 2015); Giulio Carlo Argan, Achille Bonito Oliva, L’arte moderna 1770-1970/ L’arte oltre il Duemila (Sansoni, 2002); Martin Heidegger, Ormai solo un dio ci può salvare (Guanda, 2011); Costantino Kavafis, Settantacinque poesie (Einaudi, 1992); Joseph LeDoux, Il cervello emotivo. Alle origini delle emozioni (Baldini & Castoldi, 2014)
Le nuove sfide
La Terra è una testa: ripartiamo dalla lezione di Tolomeo
di Franco Farinelli (Corriere della Sera, La Lettura, 03.01.2015)
«La Terra è una testa», spiegava al tempo dell’impero romano Tolomeo, egiziano ma l’ultimo dei sapienti greci. Fin d’allora la Terra era, con le parole di Ferecide di Siro, un insieme di forme (di fiumi, di monti, di castelli, di città) ricamate su un mantello addossato sul sottostante corpo della Terra stessa, di fatto inconoscibile appunto perché nascosto in tal modo allo sguardo.
La modernità è finita, circa mezzo secolo fa, quando la velocità del cambiamento delle forme terrestri ha messo in crisi la plausibilità stessa del loro statico disegno, della loro inerte rappresentazione. I ghiacciai che, sciogliendosi per la mutazione del clima, fanno aumentare oggi il livello del mare alterando le linee di costa, mettono allo stesso tempo a nudo terre mai viste: al punto che l’intera geografia dell’Artico è da rifare, perché nuove isole e penisole affiorano, nuove rotte diventano praticabili, nuovi possibili Mediterranei si configurano.
I lineamenti della faccia della Terra cambiano, e una prima curiosità si riferisce ancora all’inventario del loro assetto, alla ricognizione delle loro inedite fattezze. Questo riguarda però la geografia, che non è la descrizione della Terra, ma è la descrizione per cui il mondo viene ridotto alla Terra e la Terra appunto alla sua superficie, sotto la quale si cela tutto il resto. -A quest’ultimo la frase di Tolomeo si riferisce, e da essa oggi bisogna ripartire perché, qualsiasi cosa sia la globalizzazione, essa significa prima d’altro il recupero del tridimensionale corpo terrestre: il globo appunto. Ed è in tale senso che la lezione tolemaica va ripresa, nel senso della curiosità circa la natura dei nostri modelli cognitivi, ovvero dei nuovi modelli da approntare con urgenza per tentare di afferrare il nuovo funzionamento del mondo.
Come avvertiva Kant: per capire non bisogna fare la geografia di ciò che si vede, bensì «la geografia dello spazio buio della nostra mente». Dove mente sta appunto per testa e insieme, tolemaicamente, per il globulare, complessivo apparato del nostro pianeta, finalmente riconosciuto per quello che esso è.
L’uomo in cerca di se stesso
Eravamo tre Ulisse al pub
Omero, James Joyce, Ezra Pound: dialogo con l’eroe dell’ignoto
di Giulio Giorello (Corriere-La Lettura, 16.12.2012)
Con queste parole, nel 1922, Ezra Pound salutava la costellazione di «vortici» incarnata nei personaggi dell’Ulisse appena pubblicato: «Joyce parla, se non con la voce degli uomini e degli angeli, almeno in un linguaggio multiplo e plurilingue, un linguaggio di ragazzini, di predicatori ambulanti, di uomini "gentili" o volgari, di ubriaconi e di imprenditori di pompe funebri». Altro che libro illeggibile, come lo aveva bollato buona parte della critica, insistendo sull’artificioso esperimento di rifare l’Odissea nella Dublino del 16 giugno 1904. «Joyce ha rappresentato l’Irlanda sotto la dominazione inglese»; eppure, «i dettagli della carta topografica sono locali», mentre Leopold Bloom - il novello Ulisse ebreo irlandese - «è di tutti i luoghi». Tutto è fugace nella riscrittura joyceana dell’Odissea. Ma proprio per questo Dedalus, Bloom e gli altri personaggi sono antichi e sempre presenti - asseriva Pound - «come la Venere di Milo».
D’altra parte, che cosa si dovrebbe tributare all’eroe della saga joyceana? Come dice la voce narrante del romanzo, «doni di stranieri, gli amici di Ognuno», ma anche «una ninfa immortale, la bellezza sposa di Nessuno». I ricordi scolastici del IX Libro dell’Odissea rimandano allo stratagemma con cui l’astuto Ulisse salva sé e i propri compagni dall’appetito e dall’ira del cannibale Polifemo: nel presentarsi al «ciclope gagliardo», aveva declinato le proprie generalità come Nessuno; e Polifemo, privato infine del suo unico occhio (mentre Ulisse e i suoi si stanno mettendo in salvo), chiama invano in aiuto i confratelli che vivono «nelle spelonche e sulle cime ventose». L’accecato si lamenta, infatti, che un certo signor Nessuno «m’uccide d’inganno e non con la forza», solo per sentirsi rispondere dagli altri che «se nessuno ti fa violenza e sei solo», devi semplicemente accettare il male che la divinità ha decretato per te.
Joyce traduce e stravolge genialmente l’intuizione di Omero: Bloom è tutti quanti noi, ciascuno esule e straniero anche a casa propria, persino coi propri cari, sempre in cerca di un completamento a cui nessuno può davvero pervenire. Questa idea di un sentiero ininterrotto, di un viaggio senza termine alla ricerca di una perfetta fioritura umana, magari in direzioni contrastanti, è stata troppo spesso associata a un vago ideale romantico tipico della giovinezza. Qui si rivela, invece, l’altra faccia della maturità (se non della vecchiaia) dell’eroe dal multiforme ingegno che Joyce ha fatto diventare «papà Prudenza», come lo chiama per scherno la teppaglia di Dublino. Da qualche parte lo attende la sua ninfa immortale, ma forse gli sarà impossibile possederla pienamente.
Del resto, già nel 1914, parlando delle varie «maschere» che aveva via via indossato nel suo lavoro letterario, Pound aveva annotato: «Nella ricerca di se stesso si brancica, si trova qualche verità apparente. Si dice: Io sono questo, quello o quell’altro, e appena pronunciate le parole si cessa di essere quella cosa». Ogni maschera costituisce appunto un «vortice», cioè «un nodo o groviglio di radiazione» che lega l’Io al mondo, senza pretendere di costituire qualcosa di definitivo. Anzi, il viaggio verso la conoscenza di sé è un’esplorazione senza fine di questo universo di maschere; non diversamente dalla ricerca scientifica, in cui conta di più la tensione inquieta verso la verità che il possesso sicuro di essa, come dichiareranno alcuni degli spiriti anticonformisti del Novecento: fisici come Albert Einstein, matematici come Bruno de Finetti, filosofi come Karl Popper.
Dalla parte di Joyce, la prosa di Ulisse è poesia della bellezza. «In questo super-romanzo», diceva ancora Pound, Joyce «si è accinto a creare un Inferno e ha creato un Inferno... Con un semplice rovesciamento, egli ha riportato nella realtà le Furie, le sue flagellanti signore del Castello. Telemaco, Circe, il resto della compagnia ulissica gradualmente s’impongono nella coscienza del lettore, con maggiore o minore rapidità a seconda che egli conosca bene o male Omero». Questa è solo «un’impalcatura, un mezzo per costruire che è giustificato dal risultato: un vero e proprio trionfo di forma, un saldo schema fondamentale con continue intessiture e arabeschi», dove persino ogni dettaglio del male sparso nel mondo si trasfigura in «tenebra che splende nella luce».
Anche Pound aveva fatto di Ulisse il punto di partenza per il viaggio della mente descritto nei suoi Cantos. Ma non aveva perdonato all’eroe di Omero la disinvoltura con cui aveva sacrificato i propri compagni nella conquista di provvisori traguardi, anche se il poema omerico iniziava rammentando il dolore e la delusione di Ulisse per non essere riuscito a salvarli. Pound, invece, nel Canto XX quasi rinfaccia all’eroe greco (e al suo cantore) che costoro, diversamente dal capo, non hanno avuto per compagna di letto Circe, né hanno potuto ascoltare la melodia delle Sirene, né sono stati nutriti con i cibi sopraffini di Calipso, né sono tornati a vedere Itaca: «Dato! Cosa gli fu dato? Cera per gli orecchi», e pure il sepolcro nel profondo mare «color del vino»!
Alla condanna di Pound si contrappone l’assoluzione di Ulisse da parte di «Joyce il commediante» (come è definito anch’egli nei Cantos): Bloom non cerca bagni di sangue, ma comprensione. Supponiamo allora che, non visti, per una sorta di magia i «tre poeti» - Omero, Pound e Joyce - compaiano insieme in uno di quei pub di Dublino che talvolta possono ricordare la spelonca oscura del Ciclope. Per esempio il locale di Bernard Kiernan, ove Bloom, nel corso del suo peregrinare, tiene testa ai ciclopi irlandesi, tra scommesse ippiche, pinte di birra e bicchieri di whiskey. Quando viene schernito per la sua ascendenza, trova il coraggio di ribattere che grandi musicisti come Mendelssohn, così ammirati dagli irlandesi colti, o uno dei maggiori filosofi come Spinoza erano ebrei, «e pure il Salvatore era ebreo, suo padre era ebreo. Il vostro Dio». Scamperà a stento alle botte di chi vuole cambiargli i connotati e, rifugiatosi rapidamente in un calesse, riuscirà a evitare di stretta misura di essere colpito da una scatola di latta che rimbalza rumorosamente per la via, con la plebaglia lì a gridare e a ridere. Ma nella parodia joyceana pare quasi l’ascensione del profeta Elia al cielo, «verso la gloria dello splendore, a un angolo di quarantacinque gradi sopra il Donohoe’s di Little Green Street, veloce come uno schiocco di frusta».
Buon lettore di Spinoza (tiene sulla mensola di casa anche una raccolta di Pensieri del filosofo), Bloom ha smesso gli omerici panni «di alieno vendicatore, giustiziere di malfattori, crociato nero», in cambio dell’orgoglio di chi ha saputo dimostrare che è bene restar saldi contro ogni forma di oppressione, pur sotto un cielo in cui si dispiegano non più l’antica divinità bensì solo «l’apatia delle stelle». Benché i fantasmi dei morti tornino qualche volta nella memoria a visitarlo, Leopold è degno della battuta del filosofo che più ama. Etica, Parte IV, Proposizione 67: «L’uomo libero a nessuna cosa pensa meno che alla morte; e la sua sapienza è una meditazione non della morte, ma della vita».
"Itaca"
di Lucio Dalla
capitano che hai negli occhi
il tuo nobile destino
pensi mai al marinaio
a cui manca pane e vino
capitano che hai trovato
principesse in ogni porto
pensi mai al rematore
che sua moglie crede morto
itaca, itaca, itaca
la mia casa ce l’ho solo la’
itaca, itaca, itaca
ed a casa io voglio tornare
dal mare, dal mare, dal mare
capitano le tue colpe
pago anch’io coi giorni miei
mentre il mio piu’ gran peccato
fa sorridere gli dei
e se muori e’ un re che muore
la tua casa avra’ un erede
quando io non torno a casa
entran dentro fame e sete
itaca, itaca, itaca
la mia casa ce l’ho solo la’
itaca, itaca, itaca
ed a casa io voglio tornare
dal mare, dal mare, dal mare
capitano che risolvi
con l’astuzia ogni avventura
ti ricordi di un soldato
che ogni volta ha piu’ paura
ma anche la paura in fondo
mi da’ sempre un gusto strano
se ci fosse ancora mondo
sono pronto dove andiamo
itaca, itaca, itaca
la mia casa ce l’ho solo la’
itaca, itaca, itaca
ed a casa io voglio tornare
dal mare, dal mare, dal mare
itaca itaca itaca
la mia casa ce l’ho solo la’
itaca, itaca, itaca
ed a casa io voglio tornare...
Kavafis: tutta la vita in 10.800 secondi
È il tempo necessario per leggere tutte le sue opere
Un «mago» che sa fondere suoni e sentimenti
di Ezio Savino (Corriere della Sera, 03.01.2012)
Diecimilaottocento secondi, tre ore. A tanto ammonta, in tempo crudo di lettura, il patrimonio poetico di Costantino Kavafis: 154 composizioni da lui «riconosciute», come prole legittima, per una somma di circa 2.700 versi. Ho regolato il cronometro sulla voce recitante di Giorgio Savvidis, editore ed esegeta del poeta alessandrino: la si ascolta sul website dell’Archivio Kavafis, è pura musica ellenica. Savvidis modula una riga in quattro, pastosi secondi, cesellando le pause, le rime, i contrappunti, gli sconfinamenti di un verso nel successivo, il gran campionario armonico di Kavafis, mago del suono. Il poeta s’ingegna sulle parole come il gioielliere, con il suo monocolo, lavora sulle gemme e sulle perle. Scarta le più opache. Riposiziona le altre, perché ne sprizzino barbagli di luce nuova. Incastona il frammento nell’ambra dorata di quel suo greco ipnotico, forgiato ad hoc. Si va dai 70 versi di «Miris: Alessandria, 340 d.C.», ai 4 di «Piacere»: ma il suo respiro aureo è di una ventina.
Concisione, trasparenza cristallina, leggibilità da incanto. Nessun bisogno di note esplicative a inciampo del godimento. È il primo segreto della fortuna planetaria di Kavafis. Tre ore di poesia. Un po’ di più, se aggiungiamo i carmi da lui ripudiati, o lasciati a mezzo. Può sembrare un lasso esiguo. Invece è immenso, vale una vita. Ce lo garantisce Kavafis, in «Dalle nove». È solo, nella casa di Alessandria. Alle nove accende il lume (non ci sono lampadine elettriche nel suo salotto-bazar di Rue Lepsius, una rinuncia che il futurista Tommaso Marinetti, alessandrino come Kavafis e suo ammiratore, biasimava). E si presenta l’effigie del suo giovane corpo. Gli rammenta i piaceri, le stanze chiuse e odorose degli amori clandestini di un momento, le strade, i caffè, i teatri dei giorni andati. Poi sgrana il rosario delle memorie tristi, dei lutti, delle lacerazioni. Alle dodici e mezzo, il congedo. Com’è volato il tempo. Sono volati gli anni di un’esistenza intera.
Kavafis è il signore del tempo. «Quando diciamo "Tempo" intendiamo noi stessi - scrive annotando Gioia Eterna di Ruskin -. La maggior parte delle astrazioni sono solo nostri pseudonimi. È superfluo dire "Il Tempo non ha falce né denti". Lo sappiamo. Il tempo siamo noi».
Poesia e vita. Poeta: così è scritto nell’ultimo passaporto di Costantino Kavafis, alla dicitura «professione». Una qualifica fantasiosa per un documento burocratico, ma che gli si pennella addosso come un abito di sartoria. L’altra, invece, quella reale (impostagli dalla decadenza economica della famiglia greca d’origine, un tempo florida) gli andava stretta. Era impiegato presso il Terzo Ciclo delle Irrigazioni, a Ramleh, quartiere di Alessandria d’Egitto, la sua città, dove era nato nel 1863, e dove sarebbe morto, cancro alla gola, nel giorno del settantesimo compleanno.
Esordì come copista calligrafo. Si pensionò da vicedirettore di una sezione in cui, poliglotta, correggeva la corrispondenza estera, tiranneggiando un paio di dattilografi. Maniaco del dettaglio, spediva i sottoposti nelle stanze accanto per togliere o aggiungere una virgola. «Mr Kavafis, Lei penelopizza il mio lavoro!» sbottò una volta un suo travet. L’intrusione della mitologica tela nella routine da scrivania avrà forse strappato un sorriso a quel volto che le foto ritraggono compassato, un cerone di mestizia e depressione. Ma la poesia irrompeva anche in ufficio. Si ricordano certe sue estasi istantanee, le braccia che scattano in alto, i pugni che frustano l’aria: il trionfo del poeta predatore, che agguanta l’attacco giusto, la chiusa impeccabile, la formula ispirata. Salvo poi sudarci sopra per un’eternità, variando a tratti di penna anche le parole già stampate, nella nevrosi spietata di chissà quale perfetta utopia.
Quando una poesia di Kavafis era finita? Quando lui usciva dalla «legatoria», stanza assolata sul retro del suo appartamento, s’infilava il soprabito sgualcito e bussava al libraio-tipografo. Consegnava il foglietto con le rime tornite esclamando: «Lo prenda, mi brucia la mano come un carbone acceso!». Ma era fuoco provvisorio. Rovistava nelle ceneri fredde, a distanza di anni, cercando la sua fenice, il verso ideale. Distribuiva a mano copie singole e fascicoli delle sue poesie ai più fidati, a qualche rivista. Di venderle, neppure a parlarne. Era un alibi: spesso richiedeva la pagina a chi l’aveva spedita. Intanto, raccontava storie. Un altro suo fascino che strega chi lo legge. Non sappiamo se, come fa Stephen King, pregasse ogni mattina il suo dio: «Dammi oggi una buona storia».
Certo è che il cielo, in quest’arte, ha baciato Kavafis. Ambienta le sue poesie «storiche» nell’ellenismo, lo strascico favoloso di secoli che seguì imprese e morte di Alessandro, con i regni fieri, possenti o fantocci dei suoi diadochi, in Macedonia, in Siria, nell’Alessandria caput mundi dei tempi, finché il trono passò a Roma. Di quest’epoca, e della seguente bizantina, Kavafis si sentiva sopravvissuto e profeta. Sradicato, però, come i suoi Posidionati. Li celebra nella poesia omonima: ex greci che avevano colonizzato il golfo tirrenico, imbarbarendo lingua e costumi. Per riattizzare le memorie ancestrali e non sentirsi più stranieri in patria, i Posidionati celebravano un’annuale festa ellenica, con cetre e flauti, corone di fiori e giochi. Una finzione nostalgica. Noi ascoltiamo di quegli uomini antichi, ma sentiamo che sotto chitoni e tuniche c’è Costantino, con la sua passione tenera e tragica di ricostruirsi un’identità, anche a costo di inventare una lingua fittizia.
Nei suoi testi, date e particolari storici sono impeccabili. Gli accademici gli bollavano presunti sgarri, ma lui rintuzzava con note piccate. In «Re alessandrini», lo splendido ragazzo Cesarione sfavilla in un manto di seta rosata. Un anacronismo? No, la Cina era lontana, ma la greca Chio produceva il tessuto secoli prima che i monaci importassero il baco. Nella splendida «Artefice di crateri», un artigiano dell’argento scolpisce sul vaso le fattezze del ragazzo amato, il suo piede che gioca nell’acqua. Era caduto in battaglia, l’efebo, molti anni prima. Lo scultore invoca la Memoria, che gli ridia l’immagine del viso, delle carni adorate. La magia si compie. I secoli si annientano. Nel petto dell’artista antico è murato il cuore di Kavafis.
Aspettando i barbari
di Konstantinos (Costantinos) Kavafis
Che cosa aspettiamo cosi’ riuniti sulla piazza?
Stanno per arrivare i Barbari oggi.
Perche’ un tale marasma al Senato?
Perche’ i Senatori restano senza legiferare?
E’ che i barbari arrivano oggi.
Che leggi voterebbero i Senatori?
Quando verranno, i Barbari faranno la legge.
Perche’ il nostro Imperatore, levatosi sin dall’aurora,
siede su un baldacchino alle porte della citta’,
solenne e con la corona in testa?
E’ che i Barbari arrivano oggi.
L’Imperatore si appresta a ricevere il loro capo.
Egli ha perfino fatto preparare una pergamena
che gli concede appellazioni onorifiche e titoli.
Perche’ i nostri due consoli e i nostri pretori
sfoggiano la loro rossa toga ricamata?
Perche’ si adornano di braccialetti d’ametista
e di anelli scintillanti di brillanti?
Perche’ portano i loro bastoni
preziosi e finemente cesellati?
E’ che i Barbari arrivano oggi
e questi oggetti costosi abbagliano i Barbari.
Perche’ i nostri abili retori non perorano
con la loro consueta eloquenza?
E’ che i Barbari arrivano oggi.
Loro non apprezzano le belle frasi ne’ i lunghi discorsi.
E perche’, all’improvviso, questa inquietudine
e questo sconvolgimento? Come sono divenuti gravi i volti!
Perche’ le strade e le piazze si svuotano cosi’ in fretta
e perche’ rientrano tutti a casa con un’aria cosi’ triste?
E’ che e’ scesa la notte e i Barbari non arrivano.
E della gente e’ venuta dalle frontiere
dicendo che non ci sono affatto Barbari...
E ora, che sara’ di noi senza Barbari?
Loro erano comunque una soluzione.
Konstantinos Kavafis(1908)
LA PAROLA DI KAVAFIS
di GIULIO VITTORANGELI *
Nel nostro pensare affannoso, consideriamo le parole cosa seria da utilizzare con liberta’ senza inutili sprechi. Le parole sono forme del linguaggio, forme d’espressione; significano, indicano, commuovono, diventano idee, frecce conficcate nella ruvida pelle della realta’. Per tutto questo non dovrebbero mai essere usate per non farsi capire, per non dire niente, o peggio, per stravolgere la realta’ raccontando bugie.
"Durante gli anni del potere berlusconiamo eravamo in tanti a ritenere che il massacro della verita’ fosse una sua prerogativa. Assistevamo a spudorate violazioni del diritto e alla contestuale lamentazione di presunte offese subite. E pensavamo che ’noi’ non avremmo fatto lo stesso: ’noi’, una volta alla guida del paese, non avremmo fatto strame della verita’. Ci sbagliavamo. Stiamo affogando in un mare di bugie. Anche questo fatto costringe a chiederci che cosa sia nato prima, se Berlusconi o lo spirito di questi tempi. Non si tratta soltanto di deformazioni, di omissioni, di travisamenti ed edulcorazioni. Questo sarebbe semplicemente ’ideologia’, gemella della politica. Siamo al rovesciamento delle cose e alla creazione di un’altra realta’" (Alberto Burgio, sul "Manifesto" del 26 luglio 2007).
Anche Annamaria Rivera, alcuni mesi fa, aveva espresso un concetto molto simile, sottolineando la progressiva perversione del linguaggio e della comunicazione che accompagna il governo Prodi, e che lascia allibiti.
Se lo stile berlusconiano era all’insegna della menzogna aperta, trasparente e fanfarona, quello dell’attuale governo e dei suoi partiti ha qualcosa di orwelliano e contorto, al tempo stesso grottesco. Quando le parole sono usate a stravolgere l’esperienza e la realta’ fanno piu’ danni perfino dei contenuti delle politiche. Non solo perche’ ingannano i cittadini, considerandoli incapaci di farsi un’idea della realta’, ma soprattutto perche’ minano profondamente il rapporto fra i cittadini e le istituzioni, e alimentano sfiducia.
Occultare la dura realta’ delle concessioni - obbligate, ci dicono, e forse talvolta in parte e’ vero - ai poteri forti e agli orientamenti "moderati" (un altro termine da abolire) con il ricorso a formule autoconsolatorie ed ingannevoli - quale la litania della "discontinuita’" - e’ una forma di perversione della comunicazione a lungo andare autolesionista.
Salutare con entusiasmo la furbesca relazione del ministro degli esteri sulla politica internazionale come una scelta limpida e avanzata in favore del "multilateralismo" (un’altra parola magica: una guerra puo’ essere multilaterale e nondimeno resta illegittima, ingiusta, sanguinosa) e’ far torto alla propria storia politica e all’intelligenza degli elettori. Risultato: la "bonta’" della guerra; diventata "democratica", "umanitaria", "operazione di polizia", ecc. Cosi’, anche il conflitto fra capitale e il lavoro ha subito uno scivolamento semantico, sparendo il capitale e restando il lavoro come problema di solidarieta’ con i meno fortunati, salariati a vari livelli e, salvo i dirigenti, tutti retribuiti meno d’una volta e sempre piu’ precari.
La verita’ e’ che nel liberismo spinto in cui siamo, con permanenti delocalizzazioni e in preda alla speculazione finanziaria, ne’ l’occupazione ne’ il potere d’acquisto dei salariati possono essere protetti; mentre la pace e’ un disvalore non essendo funzionale allo "sviluppo" ed alla "ripresa economica".
Noi restiamo profondamente convinti che le parole non sono fatte "di carta", ma di vita; della carne viva di uomini e donne. Per questo continuiamo a cercare quelle parole che interpretano e capiscono i fatti e provano a cambiarli; quelle parole che diventano azione e, una volta gettate sulla platea della storia, si traducono in movimento; quelle parole che portano con se un’idea di politica che si oppone alle miserie retoriche e alle menzogne travestite da strategie del bushismo contemporaneo, anche di casa nostra.
"Spesso osservo quanto poco interesse affidano gli uomini alle parole. Mi spiego meglio. Un uomo semplice (e con "semplice" non intendo sciocco) ha un suo modo di vedere, ma sa che la grande maggioranza ragiona in modo antitetico, e tace, credendo che non giovi parlare, credendo che - con le sue parole - non cambiera’ niente. E’ un grande errore. Io agisco diversamente. "Condanno, ad esempio, la pena di morte. Appena mi si presenta l’occasione lo dico apertamente, non perche’ sia convinto che, esprimendo la mia opinione, gli Stati subito, domani, l’aboliranno, ma perche’ credo che dicendo il mio parere possa contribuire al trionfo della mia idea. Il mio discorso non va perduto. Forse qualcuno lo ripetera’ e cosi’ potra’ raggiungere le orecchie di alcuni che lo ascolteranno e lo sosteranno. Puo’ darsi che, tra quelli che adesso non sono d’accordo, qualcuno se ne ricordera’ - in un momento opportuno - nel futuro, e in occasione di altre situazioni, e che sia poi convinto con il supporto di altre circostanze, e che sia scossa la sua precedente convinzione contraria.
"Cosi’ avviene anche in diverse altre questioni sociali, in alcune nelle quali e’ indispensabile l’azione. So di essere codardo e di non poter agire. Per questo soltanto. Ma non credo che le mie parole siano superflue. Agira’ un altro. Ma le mie molte parole - le parole di un vile - serviranno per l’azione. Spianano il terreno". (Costantino Kavafis, 19 ottobre 1902).
* NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 167 del 31 luglio 2007
INTERVISTA
Il poeta caraibico premio Nobel si scaglia contro coloro che parlano sempre di crisi. «I Paesi che più di tutti amano i versi? La Russia, il Brasile e la Colombia»
La profezia di Walcott: la poesia non è morta
Il poeta caraibico premio Nobel si scaglia contro coloro che parlano sempre di crisi. «I Paesi che più di tutti amano i versi? La Russia, il Brasile e la Colombia»
di Paola Springhetti (Avvenire, 09.06.2007)
Ti accoglie con una battuta, ride, e intanto osserva come reagisci. Se pensa che non stai al gioco puntualizza: scherzavo. Derek Walcott è un poeta di 77 anni con uno sguardo da ragazzino e ancora molta voglia di divertirsi. È a Roma perché ieri ha ricevuto il Premio Mario Luzi per Odissea. Una versione teatrale (traduzione di Matteo Campagnoli). In questo testo Walcott - premio Nobel per la Letteratura nel ’92, considerato uno dei più grandi poeti di lingua inglese viventi - riprende il tema delle peregrinazioni, in cerca di un’Itaca, di un Ulisse incarnato dal vecchio cantore cieco Billy Blue. L’Odissea di Walcott è stata presentata in prima mondiale in Sicilia nel 2005, nell’ambito dell’Ortigia Festival, con il lavoro di attori caraibici, italiani e spagnoli. Tre lingue, come ben si addice ad un poeta che è veramente internazionale, non soltanto perché è nato nelle Antille e scrive in inglese, insegna negli Stati Uniti ma torna appena può nei suoi Carabi, e gira continuamente il mondo per tenere lezioni e conferenze, partecipare a eventi e presentare le traduzioni dei suoi libri. Ma anche perché è uno che ha radici identitarie profonde e nello stesso tempo uno sguardo largo.
Anche per questo ha un moto di insofferenza quando si fa notare - a lui che viene premiato per un testo teatrale in versi - che nel nostro paese non è che la poesia sia molto popolare, e anche il teatro ha le proprie difficoltà. «È sempre stato così», fa notare, «i lettori di poesia non sono mai stati tantissimi, anche se ci sono paesi dove invece si legge molto, come per esempio la Colombia e la Russia, ai due estremi del mondo. Quando qualcuno dice che la poesia è morta, dice che la sua cultura, il suo Paese sono morti. Io scrivo poesie, io non sono morto».
D’altra parte, secondo Walcott, non è così facile misurare la «vitalità poetica» di un paese: «può darsi che non ci siano in questo momento grandi poeti in Italia, o che non ci siano in Inghilterra. Molto spesso la morte della poesia è dichiarata proprio nei paesi che hanno dominato a lungo con la loro cultura, e c’è in questo una certa arroganza. La poesia non è morta in Brasile, non è morta in paesi che hanno forse meno tradizione. E poi, la poesia non è misurabile sulla concezione del tempo che si applica agli uomini: non puoi misurarla sui 25 anni, e neanche sui cento. L’Italia ha un grande numero di poeti eccellenti: Montale, Bertolucci, Ungaretti e tanti altri. Ma la poesia non è un malato a cui ogni mattina tasti il polso».
Ma insomma l’Italia, l’Inghilterra, l’Europa in generale sono davvero paesi vecchi? Troppa tradizione, troppa prosopopea fanno male alla creatività? «Io insegno negli Stati Uniti», risponde il poeta, «ma mi è capitato anche di insegnare poesia angloamericana in Italia. Ho trovato giovani di talento, pieni di energia e di freschezza. Insomma, arriva sempre il momento in cui qualcuno dice che il teatro è morto, la poesia è morta, la musica o la pittura sono morte, ma allora dovrebbe essere morto tutto».
Invece nulla è morto, ma forse molto ha bisogno di rivitalizzarsi. E allora lui, con due antenati bianchi e due antenate nere, figlio dunque di colonizzati e colonizzatori, vero Ulisse del nostro tempo, forse è questo che ci sta dicendo: che bisogna prendere la vita là dove c’è e si esprime, si tratti del Brasile, della Colombia o della Russia. Lui che ha l’oceano un po’ in tutta la sua opera, conosce poco il Mediterraneo, il mare che oggi, accanto ai resti delle antiche civiltà di cui è stato culla, custodisce i cadaveri dei migranti in cerca di una vita nuova. Ma conosce bene la paura di mescolarsi che ancora esiste negli Stati Uniti, «che respingono haitiani e cubani che arrivano, anche loro, dal mare e andrebbero accolti in quanto rifugiati politici. E sono soprattutto i neri ad essere rifiutati: quelli che hanno la pelle bianca hanno molte più possibilità di farcela. Gli Americani hanno ancora paura di mescolarsi».
Non è un inno alla rinuncia alla propria identi tà, tant’è vero che il problema non è la lingua, anzi, Walcott ne è assolutamente convinto: «anche se ci sono bravi poeti bilingue, credo che ognuno debba scrivere nella propria lingua, anche perché ci sono buoni traduttori, a volte poeti loro stessi, come Matteo Campagnoli». Lui dei traduttori si fida, e intanto continua a scrivere. Sta lavorando a un nuovo libro di poesie, anche se specifica che «ci vorrà ancora almeno un anno prima che sia pronto».
Derek Walcott
Odissea
Una versione teatrale
Crocetti. Pagine 388. Euro 24
Premio Internazionale Mario Luzi: un Premio di poesia che guarda al futuro. Anche una sezione per la poesia inedita
Dopo il grande successo delle scorse edizioni torna nuovamente il “Premio Internazionale Mario Luzi” (www.marioluzi.it) che apre ufficialmente il suo nuovo bando pubblico (IV edizione 2008/2009) articolato in sei sezioni: Poesia edita, Saggio edito, Poesia internazionale, Benemeriti della Repubblica, Poesia inedita e Poesia per le scuole.
Un Premio che si impegna fortemente per la promozione della lettura e la maggiore diffusione del libro. Grande l’apprezzamento da parte delle massime cariche dello stato e del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
Il Presidente del Senato Renato Schifani ha cosi commentato a proposito del Premio: “La creazione di un Premio dedicato a Mario Luzi rende omaggio a un uomo dell’elevatissimo profilo culturale, che seppe esprimere nelle sue liriche le inquietudini e le speranze dell’uomo contemporaneo. La nomina a Senatore a vita da parte del Presidente Carlo Azeglio Ciampi nell’ottobre del 2004 premiò anche il suo grande impegno civile e il Senato oggi si onora di aver potuto annoverare Mario Luzi tra i suoi membri più illustri”.
Il Premio -fondato e diretto da Mattia Leombruno- è ormai divenuto un appuntamento annuale di assoluto riferimento per la poesia italiana e internazionale, una occasione di confronto per gli scrittori ed il mondo culturale tutto. Si tratta infatti dell’evento più prestigioso realizzato in memoria del sommo Poeta e Senatore che fu padre dell’ermetismo. Nell’albo d’oro del Premio figurano illustri nomi della cultura mondiale fra i quali il Premio Nobel Dereck Walcott. Un Premio che si rivolge soprattutto ai giovani e agli esordienti grazie ad un progetto per la valorizzazione delle eccellenze scolastiche che è stato appositamente studiato d’intesa con il Ministero dell’Istruzione.
“Pensiamo soprattutto ai giovani - ha detto Leombruno- che hanno bisogno di ispirarsi a modelli migliori e più solidi. Certamente un Premio letterario, se mosso da questa responsabilità di fondo, da questa preoccupazione sostanziale, può essere un valido strumento di comunicazione e sensibilizzazione, di dialogo credibile e propositivo con i giovani e con il mondo culturale in genere. Diversamente inteso, un premio letterario può poco e nulla”. Ha poi proseguito il Direttore del Premio: “E’ per questa ragione che il Premio Luzi non abbandona i suoi scrittori ma cerca -se possibile- di coinvolgerli nella creazione di una grande “comunità civile” che abbia a cuore la promozione della cultura e della lingua italiana, la formazione e crescita dei nostri giovani. Direi in definitiva che si tratta di un Premio che guarda al futuro, fuori dalle logiche -talora diffuse- di “premiopoli”.
Il valore complessivo dei premi è stimato in 30.000,00 euro e prevede -fra gli altri- il conferimento di “Al fuoco della controversia”, la prestigiosa scultura realizzata dal Maestro Arnaldo Pomodoro, considerato il più grande scultore italiano vivente. Moltissime e tutte di alto profilo sono le istituzioni che sostengono il Premio Luzi e numerose le eminenti personalità che vi hanno dato la loro personale adesione, a partire dai tre Presidenti emeriti della Repubblica: Ciampi, Cossiga e Scalfaro.
Per scaricare il bando o per informazioni: http://www.marioluzi.it Promozione e realizzazione EventoFestival: http://www.eventofestival.it
Caro Professore, spinto dalla curiosità, ho cercato di conoscere meglio il "nostro" Konstantin e, approdato su Wikipedia, per poco non mi veniva un colpo !!Il poeta greco, nel 1900, era la "copia sputata" del nostro attuale sindaco di San Giovanni in Fiore : ANTONIO NICOLETTI !!
Vorrei pareri autorevoli a riguardo da chi il nostro sindaco lo conosce personalmente (Emiliano, Vincenzo, ho ragione ?)
Cordialmente e spudoratamente La saluto !Biasi