ITALIA, 1945-2012: IERI COME OGGI ....
25 APRILE: FESTA DELLA LIBERAZIONE.
PER LA PACE E LA GIUSTIZIA...
L’ITALIA SI E’ LIBERATA DAL NAZIFASCISMO (1945) E DALLA MONARCHIA (Referendum, 1946).
L’ASSEMBLEA COSTITUENTE (CON LA PRESENZA DI 21 DONNE) HA RIPORTATO LA VITA SOTTO IL NUOVO SOLE DELLA BUONA LEGGE, DELLA NUOVA COSTITUZIONE (1948).
Gli italiani e le italiane hanno ripudiato il dio della guerra (Marte): non sono più figli e figlie della Lupa! Hanno conquistato la libertà e sono diventati cittadini-sovrani e cittadine-sovrane!
RIPRENDIAMO IL CAMMINO DEI NOSTRI PADRI E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI,
NON ALLONTANIAMOCI DALLA DIRITTA VIA E NON RICADIAMO NELLA SELVA OSCURA!!!
NON DIVENTIAMO ANCORA E DI NUOVO ANIMALI AL GUINZAGLIO DEI SACERDOTI E DELLE SACERDOTESSE DEL DIO DELLA GUERRA!!!
COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA:
Art. 3.
Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Art. 11.
L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.
SVEGLIAMOCI, SANIAMO LE NOSTRE FERITE!!!
NELLA TEMPESTA CHE CI CIRCONDA SEMPRE PIU’ E RISCHIA DI TRAVOLGERCI DEFINITIVAMENTE
TENIAMO FERMI I PRINCIPI DELLA NOSTRA SANA E ROBUSTA COSTITUZIONE!!!
Federico La Sala (24.04.2012)
Claudio Pavone
Tre conflitti in una Resistenza
È morto lo storico che liberò dalla retorica la narrazione della lotta antifascista
di Aldo Agosti (La Stampa, 30.11.2016)
Se si pensa al grande vuoto che lascia la sua scomparsa e alla ricchezza e alla varietà degli scritti saggistici e autobiografici che ha pubblicato in questi ultimi anni, si fa fatica a ricordare che Claudio Pavone si è imposto all’attenzione dei grandi media e dei lettori non specialisti ed è diventato una voce di riferimento nel discorso pubblico solo a settant’anni compiuti. Fu nel 1991, quando apparve il suo libro Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza.
Eppure la sua biografia non era di quelle ordinarie. Impegnato nella Resistenza clandestina subito dopo l’8 settembre, passò quasi un anno in prigione. Dopo la guerra abbandonò la politica attiva ma non l’impegno intellettuale militante: uomo senza partito ma sempre e coerentemente di sinistra, scrisse assiduamente sulla galassia delle riviste che negli Anni 50 davano voce all’anima inquieta del socialismo italiano. Quando nel 1975 lasciò il ruolo di dirigente dell’Archivio di Stato per l’insegnamento universitario, la sua autorità era già da tempo indiscussa nella comunità degli storici, grazie a un invidiabile curriculum di studioso.
Il postfascismo
I suoi interessi si erano concentrati in due campi: la storia delle istituzioni e dell’amministrazione italiana dopo l’Unità e il tema cruciale della continuità degli apparati dello Stato dal fascismo al postfascismo. Un tema, quest’ultimo, che aveva affrontato, come egli stesso avrebbe riconosciuto, «nel clima della nuova sinistra post-sessantottesca», sentendosi partecipe di un movimento che gli sembrava riaprisse un discorso rimasto sospeso nel 1945 e appena riabbozzato alla fine degli Anni Cinquanta. Su quella continuità Pavone aveva insistito molto, tanto da ammettere anni dopo che nella sua interpretazione era presente «una radicalità non priva di cadute in uno schematismo di tipo classista» e un eccesso di polemica contro quello che si era spinto a chiamare il «bigottismo costituzionale». Ma in realtà quegli scritti toccavano un nervo scoperto nel dibattito culturale e politico, quello della legittimazione che la Repubblica italiana attingeva dalla Resistenza. Una legittimazione che il libro del 1991 tornava sì a ribadire, ma attraverso un percorso ben più complesso e articolato di quello consegnato all’ufficialità delle celebrazioni.
Morale e violenza
Frutto di anni di riflessioni e di ricerche, Una guerra civile toccava - basandosi su un’amplissima gamma di fonti - diversi temi di grande rilievo: dal valore fondante della scelta compiuta l’8 settembre al problema della violenza, al rapporto tra politica e morale. Era una rilettura della storia degli anni 1943-1945 ferma nel sottolineare l’importanza decisiva della lotta di liberazione per la riconquista della dignità nazionale e per una vera rinascita di quella patria di cui era di moda allora, nell’incipiente clima del «revisionismo», far risalire la morte all’8 settembre 1943. Ma era altrettanto attenta a far risaltare differenze e chiaroscuri. Da un lato distingueva fra una «Resistenza in senso forte», la guerra partigiana combattuta soprattutto al Nord da una cospicua minoranza, e una «Resistenza in senso ampio e traslato», che era man mano diventata - anche per chi non vi aveva partecipato o aveva cercato di circoscriverne o manometterne la memoria - l’elemento legittimante del sistema politico repubblicano.
Guerra di indipendenza
Dall’altro interpretava la Resistenza a un tempo come guerra patriottica, combattuta per liberare il paese dall’occupazione tedesca e sentita in sostanza come nuova «guerra d’indipendenza», guerra civile, tra combattenti partigiani ed i fascisti della Repubblica di Salò, e guerra di classe, combattuta, soprattutto dai comunisti al Nord nel nome di una radicale trasformazione sociale.
Queste tre concezioni si intrecciavano spesso anche negli stessi protagonisti individuali o collettivi. Ma il titolo che diede al volume, e che contribuì al suo forte impatto nel dibattito politico e storiografico, finì per portare in primo piano la guerra civile, sdoganando un’interpretazione che era stata fino ad allora monopolio della pubblicistica di destra, anche se era stato ben presente, nel vivo della lotta, sia nella pubblicistica comunista del Nord, sia soprattutto in quella azionista. Franco Venturi aveva parlato addirittura della guerra civile come della sola guerra che per il suo valore etico meritasse di essere combattuta.
Uno standard accettato
Pavone, che avrebbe sempre sottolineato l’importanza anche della seconda parte del titolo del suo libro, ridiede piena dignità al termine proprio nella prospettiva di accentuare la portata morale della scelta antifascista, di sottolinearne l’importanza per il futuro dell’Italia. Ancora nel 1991, quel termine non piacque a tutti, nemmeno all’interno della tradizione azionista: non a Nuto Revelli, per esempio, che pure elogiò il libro come «un lavoro straordinario che ci ha liberati da tutta la retorica che si era depositata sulla resistenza». Con il tempo però il libro di Pavone appare sempre più uno spartiacque storiografico nello studio del biennio 1943-1945 e la sua tesi di fondo - quella della Resistenza come intreccio di tre guerre - non solo non è più seriamente contestata ma è diventata termine di riferimento anche per la comparazione con il movimento di liberazione in altri paesi. Sentiremo la mancanza dei suoi limpidi, mai interrotti ragionamenti sui rapporti tra la moralità, le idee e la cultura da un lato, le istituzioni dall’altro.
“Fu guerra civile”
E destra e sinistra non lo perdonarono
Dimostrò per primo da antifascista che la Liberazione divise il Paese ma non accettò mai il revisionismo
di Simonetta Fiori (la Repubblica, 30.11.2016)
Quando usciva dai dibattiti in cui veniva contestato, Claudio Pavone manteneva uno sguardo sereno, di chi sa di essere nel giusto. Non che fosse sospettabile di sicumera, al contrario: coltivava il dubbio e le sfumature, ma una volta scelta la strada la percorreva fino in fondo, soprattutto se si trattava di sconfinare oltre il mito, di sfidare il senso comune o le immagini “più rassicuranti” e “levigate” della nostra stessa radice democratica. Sfide che non ebbero carattere univoco, tanto da procurargli critiche da fronti opposti. Da parte della sinistra che fece fatica ad accettare il capolavoro con cui sdoganava la nozione di guerra civile. E dalle voci più pungenti della retorica anti-antifascista che, più o meno nella stessa stagione, non gli perdonarono l’impegno pubblico contro il “neorevisionismo” a uso e immagine dei nuovi governanti del centro-destra.
Nel 1991, in un passaggio storico di grandi rivolgimenti in Italia e nel mondo, uscì il suo libro più famoso, Una guerra civile. Il titolo fu fortemente voluto dall’editore Giulio Bollati, consapevole del suo tratto dirompente. Si trattava di un saggio spartiacque, frutto di un lungo lavoro di ricerca, destinato a modificare non solo il giudizio storiografico ma anche il senso comune intorno alla Resistenza e al biennio infuocato tra il settembre del 1943 e l’aprile del 1945.
Secondo Pavone non si trattava solo di guerra di liberazione dai nazifascisti, e di guerra di classe (comunisti contro padroni), ma anche guerra civile tra italiani di segno opposto. Qualcuno nella sinistra intellettuale, e nelle file dei partigiani reduci, gridò allo scandalo. Guerra civile era una categoria impiegata fino a quel momento solo nei libri del neofascista Giorgio Pisanò: l’uso da parte di uno storico antifascista, peraltro ex partigiano, appariva una resa ai repubblichini che per tanti anni l’avevano sbandierata per legittimare la propria parte.
Fiorirono dibattiti, sulle pagine culturali e negli incontri pubblici. In dissenso intervennero le voci critiche di Giulio Einaudi, di Giorgio Bocca, di Nuto Revelli. Pur apprezzando la ricchezza della documentazione, mostravano perplessità per una formula che sembrava sminuente. «Non fu una guerra civile nel senso pieno del termine», obiettò Nuto Revelli, «perché i fascisti per noi erano degli stranieri, come e forse più dei tedeschi». Ma se i fascisti non erano considerati neppure italiani, fu la replica di Pavone, «questo suona come una conferma delle pagine in cui cerco di chiarire come sia tipico della guerra civile l’atto di privare l’avversario della nazionalità ».
In difesa dello studioso si schierano Vittorio Foa e Norberto Bobbio, che avevano partecipato attivamente alla progettazione del lavoro. Pavone sapeva bene che «la memoria collettiva tende a seppellire tutto ciò che la angustia». E la guerra fratricida combattuta in Italia tra il 1943 e il 1945 era un grande peso a rimuovere. Si faceva fatica ad accettare che anche la Repubblica Sociale fosse storia nostra, storia del nostro paese. E che gli odiati fascisti di Salò fossero italiani «e non fantasmi partoriti dall’inferno».
Le vivaci polemiche rischiarono di oscurare la grandezza dell’opera, racchiusa nel sottotitolo Saggio storico sulla moralità della Resistenza. Proprio «per non annullare la memoria della guerra di liberazione nella oleografia rifiutata dalle generazioni più giovani», Pavone spostò la sua lente storiografica sugli uomini e sulle donne della Resistenza, sulle loro “convinzioni morali”, sulle “strutture culturali”, sulle “pulsioni emotive”, sui “dubbi e le passioni” suscitate dalla crisi dell’8 settembre del 1943, quando le istituzioni italiane parvero dileguarsi.
Il terreno scelto da Pavone era quello della “moralità”, ossia il terreno in cui si incontrano e si scontrano politica e morale. «Si trattava di calare in contingenze storiche alcuni grandi problemi morali. E reciprocamente volevo mostrare come le stesse contingenze storiche rinviassero a quei problemi», scrisse lo studioso nella premessa al volume.
Il risultato fu uno straordinario affresco in cui per la prima volta prendeva la parola una moltitudine di giovani uomini travolti dalla Storia. Per loro, per chi aveva scritto «è ben triste vivere senza far sapere», lo studioso aveva lavorato alla sua opera principale.
Moralità è anche la cifra che più rispecchia la personalità intellettuale di Pavone, molto critico verso i disinvolti riscrittori della storia repubblicana che negli anni Novanta si misero al servizio dei nuovi governanti. Comprendere le ragioni dei ragazzi di Salò non significava considerarli sullo stesso piano dei partigiani. E capire la complessità delle nostre origini repubblicane non significava svilire le fondamenta antifasciste.
Intellettuale rigoroso, fu severo verso quegli opinion maker che usavano la storia come strumento di lotta politica contingente: hanno tutto il diritto di farlo, aggiungeva Pavone, ma nel momento in cui lo fanno non operano da storici. La critica non gli fu perdonata. Qualche anno dopo, in occasione della visita del presidente Ciampi a Cefalonia in ricordo dell’eccidio nazista, Ernesto Galli della Loggia puntò l’indice contro Una guerra civile, lamentando che in 800 pagine non una riga era dedicata alla strage. Un attacco insensato (lo studioso aveva parlato di Cefalonia in altre sedi), lontano dallo stile pacato mostrato da Pavone nella sua vita privata e pubblica.
Pur essendo al centro di diverse polemiche, Pavone cercava sempre di evitare rotture personali. Come se la sua moralità implicasse il rispetto dell’altro, anche nel dissenso.
Claudio Pavone
Lo storico che riscoprì la moralità della Liberazione
di Guido Crainz (la Repubblica, 30.11.2016)
Si definiva “azionista postumo”, Claudio Pavone, morto ieri il giorno prima di compiere 96 anni. Ed era molto vero: non aveva fatto parte del Partito d’Azione (partecipò alla Resistenza prima a Roma, con il Partito socialista, e poi - dopo alcuni mesi di carcere - a Milano, in un piccolo raggruppamento di sinistra) ma ne condivise per tutta la vita il rigore laico e l’impegno civile. Furono gli elementi costitutivi di uno storico, e di un maestro, discreto e insostituibile, lontano dalle grandi ribalte dei media e estraneo alle baronie accademiche. Ricco di sensibilità e ironia, gentilezza e umanità, profondità e leggerezza al tempo stesso, che traspaiono sin dalle “memorie del 1943-45”, La mia Resistenza (Donzelli, 2015).
Prima di scegliere l’insegnamento universitario lavorò a lungo come archivista nell’amministrazione dello Stato e vi lasciò segni non effimeri: a partire dalla Guida generale degli Archivi di Stato italiani, alla cui ideazione e realizzazione diede un contributo decisivo. Mi sono chiesto a lungo, ha scritto, se e come la moralità, le idee e la cultura riescano a lasciare il loro segno nelle istituzioni: la mia «vena di moralismo vagamente anarchico», ha aggiunto, mi spingeva a dubitarne ma proprio il mio lavoro di storico e di archivista mi ha talora convinto che questa possibilità esiste. Vi è qui una chiave per comprendere molti suoi tratti: l’intreccio profondo fra impegno intellettuale e passione civile, ad esempio, o una attenzione alle fonti - non solo a quelle archivistiche - che è rigorosissima ma non ha nulla di erudito. Pavone le viveva, al contrario, come strumento essenziale per indagare anche gli aspetti più insondabili dell’individuo e delle vicende collettive. E poteva farlo proprio perché muoveva da una grandissima apertura e ricchezza culturale: è un vero scrigno la sua Prima lezione di storia contemporanea (Laterza, 2007: e presso lo stesso editore ha pubblicato di recente Aria di Russia, appunti di un viaggio del 1963).
La passione onnivora con cui guardava alle fonti è limpidamente testimoniata dal suo lavoro più importante, uno dei grandi libri del Novecento italiano: Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza (Bollati Boringhieri, 1991). Una tappa fondamentale nel suo percorso di ricerca, che si è allargato di continuo ai grandi nodi della storia contemporanea ma ha avuto costantemente al centro la stagione della Resistenza e il suo rapporto con la nascita della Repubblica.
I suoi contributi più stimolanti su questo terreno sono venuti in coincidenza con tre fasi di rinnovamento culturale del Paese, o di rifondazione dopo il crollo delle certezze. Così fu nel post 1956, in un clima che Pavone visse anche nell’esperienza di Passato e presente, la rivista animata da Antonio Giolitti e Luciano Cafagna, Alessandro Pizzorno e Alberto Caracciolo. In quelle pagine pubblicò nel 1959 Le idee della Resistenza. Antifascisti e fascisti davanti alla tradizione del Risorgimento: una critica puntuale della lettura “ufficiale”, o dello stereotipo, della Resistenza come “Secondo Risorgimento” e al tempo stesso una rivisitazione penetrante di entrambe le fasi, e degli usi politici che ne erano stati fatti.
Ancora un suo denso saggio troviamo poi al centro del dibattito successivo al ‘68, un movimento cui aveva guardato con attenzione partecipe e con speranza (vide allora «riaprirsi il campo del possibile», come scrisse). Fra i temi che quei fermenti avevano messo all’ordine del giorno vi era anche il contrasto fra le speranze di trasformazione del 1943-45 e l’“Italia reale” che ne era poi nata, presto immersa nel clima teso della guerra fredda.
Riflettendo su quel nodo in sintonia con Guido Quazza, Pavone mise a fuoco una questione essenziale: la “continuità dello Stato” nel passaggio dal fascismo alla Repubblica come corposo freno a un rinnovamento reale. Non una continuità assoluta, ma un tenace permanere di apparati, di uomini e di culture da cui sarebbero venuti condizionamenti pesanti. Nei suoi saggi su questi temi - raccolti poi in Alle origini della Repubblica (Bollati Boringhieri, 1995) - trovavano risposte e al tempo stesso ulteriori stimoli le ansie di comprensione della realtà italiana che il ‘68 aveva alimentato, e venivano superate sia le rimozioni che le semplificazioni ideologiche. Era solo la premessa di Una guerra civile, frutto di una riflessione che portò a fondo anche in reazione al più generale disorientamento e “perdita di memoria” degli anni Ottanta: comprendeva bene la necessità e l’urgenza di contrapporre a quel clima risposte di alto profilo.
È impossibile soffermarsi su quel grandissimo libro, capace di scandagliare i differenti modi di “essere italiani” che erano sedimentati in una vicenda lunga. Capace di cogliere nella crisi del 1943-45 non solo il delinearsi di diverse e opposte opzioni ideologiche e politiche ma anche «fratture, risentimenti, concezioni antagonistiche dell’uomo italiano e della nazione italiana di più ampio respiro». Capace di porre al centro una intensa riflessione sul rapporto fra scelte individuali e vicende collettive. E di far comprendere i diversi percorsi attraverso cui prese di nuovo corpo e significato nella Resistenza l’idea di patria.
In quel crocevia Pavone vedeva il coesistere e l’intrecciarsi di “tre guerre”, mosse da differenti motivazioni ed aspirazioni: la guerra di liberazione nazionale contro l’occupazione nazista, certo, ma anche una “guerra di classe” intrisa di aspirazioni ad un radicale rivolgimento sociale, e al tempo stesso una guerra civile fra fascisti e antifascisti, epilogo dello scontro aperto nel 1921-22 dalle violenze squadristiche.
Proprio quest’ultima chiave di lettura suscitò anche reazioni aspre: non solo e non tanto, forse, perché la categoria di “guerra civile” era stata usata strumentalmente dalla pubblicistica neofascista quanto perché in questo modo il libro poneva alle origini della Repubblica non un mito rassicurante ma un irto groviglio di questioni, e impediva al tempo stesso di rimuovere la corposa presenza del fascismo nella storia nazionale. Costringeva a riflettere, anche, sul nesso decisivo fra etica e politica: quel libro è davvero un «saggio storico sulla moralità della Resistenza » ma al tempo stesso, come osservava Nicola Gallerano, «una testimonianza dello spessore morale dello storico che lo ha scritto».
Claudio Pavone (1920 - 2016)
Resistente nella «guerra civile»
Addio allo storico che ha rifondato lo studio della lotta partigiana, grazie a una miscela sapiente di esperienza diretta, scavo d’archivio e sensibilità letteraria
di Sergio Luzzatto (Il Sole-24 Ore, Domenica, 4.12.2016))
Nella cultura italiana, l’opera di Claudio Pavone è maturata come un frutto tanto più succoso quanto più tardivo. Tardivo rispetto all’itinerario biografico dell’autore, se è vero che il suo opus magnum - Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza (Bollati Boringhieri, 1991) - fu pubblicato quando Pavone aveva più di settant’anni. E tardivo rispetto al nocciolo delle cose, se è vero che il contributo essenziale di Pavone - assumere in pieno il valore storico della Resistenza come guerra civile - corrispondeva a qualcosa di originale per la storiografia, non certo per la letteratura. La quale, negli esempi più alti di narrativa resistenziale (da Calvino a Fenoglio, da Questi a Meneghello), per vent’anni dopo il 1945 non aveva detto altro che questo: che la Resistenza italiana era stata anzitutto una guerra civile.
Ma gli storici della Prima Repubblica non leggevano romanzi. O piuttosto, senza ironia: molti storici italiani “di sinistra” si erano dati per compito, dagli anni Sessanta in poi, di ripicchiare sui cliché della mitologia resistenziale. In particolare sul cliché comunista del «popolo alla macchia», secondo cui la Resistenza era stata non già scelta difficile di pochi, ma mobilitazione entusiastica di tutti o di quasi tutti. Sicché di guerra civile, nei libri e nei manuali di storia contemporanea, non bisognava proprio parlare. Il semplice evocarla pareva infatti legittimare l’idea - percepita come mantra neofascista - che si fossero affrontati, dal 1943 al ’45, due soggetti comparabili per natura, seppure contrapposti per valori. Due parti d’Italia: i partigiani (nomen omen) e i saloini. Al limite, niente più che due fazioni.
Rispetto ad altri storici di sinistra, il vantaggio di Pavone era che lui l’aveva combattuta, quella guerra civile. Nato nel 1920 - apparteneva dunque lui stesso alla generazione dei grandi narratori resistenziali - il rampollo della buona borghesia romana era stato colto in divisa, come tutti gli italiani sotto le armi, dall’armistizio dell’8 settembre. Aveva aderito al Partito socialista clandestino, era stato arrestato, si era fatto un anno di galera nelle prigioni della Repubblica di Salò. Liberato, si era rigettato nell’attività clandestina, in Alta Italia, come militante di un Partito italiano del lavoro collocato all’estrema sinistra del fronte resistenziale. E aveva vissuto in prima persona la «rossa primavera» del 1945, quando le bande a lungo sparute dei partigiani della montagna si erano gonfiate di innumerevoli antifascisti della venticinquesima ora. Fino alla macabra scena milanese di piazzale Loreto, che pure Pavone aveva vissuto di persona.
In altre zone della storia novecentesca, spesso i testimoni non fanno bon ménage con gli studiosi. Spesso la soggettività della memoria confligge con la realtà della storia. Nel caso della Resistenza italiana, è successo quasi il contrario. Da Roberto Battaglia a Guido Quazza, da Giorgio Vaccarino a Giorgio Bocca, da Ermanno Gorrieri a Claudio Pavone, gli studiosi più acuti e profondi della nostra vicenda resistenziale sono stati uomini che di tale vicenda - quando avevano vent’anni o giù di lì - erano stati testimoni o addirittura protagonisti. Un segnale, evidentemente, della loro capacità di lavoro e della loro lucidità di giudizio. Ma anche un segnale del ritardo, metodologico e ideologico, accumulato dalla generazione di storici a loro immediatamente successiva.
L’altro grande vantaggio di Pavone, rispetto agli storici più blasonati della Prima Repubblica, è consistito nell’avere trascorso in archivio una larga parte della sua vita professionale. All’insegnamento universitario, Pavone non sarebbe arrivato prima di compiere sessant’anni; e occupando, a Pisa, una posizione accademicamente defilata. Prima, per decenni, il suo ambiente di studio era stato quello romano dell’Archivio centrale dello Stato. Dove il laureato in giurisprudenza si era costruito un profilo di studioso altrimenti solido, in confronto a quello dei contemporaneisti italiani allora più in voga. Anziché contentarsi di lavorare dalla biblioteca, grazie al cotto e mangiato di fonti per lo più giornalistiche, Pavone aveva appreso il mestiere alla scuola severa della paleografia e della diplomatica. Per lui - come per tutti i maggiori medievisti e modernisti - non poteva darsi storia senza documento d’archivio.
Il gran libro di Pavone, Una guerra civile, poggia su fondamenta archivistiche eccezionalmente ampie e profonde. Al tempo stesso, vive di un equilibrio sapiente tra le fonti d’epoca e le fonti di memoria. Poiché non è vietato allo storico di fare ricorso alla memorialistica, per ricostruire l’una o l’altra vicenda del passato. E tanto più nel caso della storia della Resistenza: la storia cioè di un movimento clandestino, che non aveva alcun interesse - fra soffiate delle spie e retate della Wehrmacht - a disseminare tracce scritte a uso degli storici a venire. L’importante, quando si lavora con le fonti di memoria, è tenerne a mente lo statuto. In modo da non confondere il prima e il dopo, l’oggettivo e il soggettivo, il materiale e l’immaginario.
Nel sottotitolo di Una guerra civile, quello che apparentemente è un dettaglio - una preposizione articolata - dice molto del libro e del suo autore. «Saggio storico sulla moralità nella Resistenza»: nella Resistenza, non della Resistenza. A significare che, secondo l’ex partigiano Claudio Pavone, la Resistenza non era stata morale per definizione. Che durante i venti mesi dell’occupazione tedesca e della guerra civile, la moralità dell’azione partigiana era stata una conquista, piuttosto che una prerogativa. Era risultata da un percorso, piuttosto che da chissà quale garanzia a priori. Gli eroi della Resistenza non erano nati belli e fatti, come la mitologica Minerva dalla testa di Giove. Si erano costruiti nel tempo, attraverso esperienze ed errori. Come tutti i comuni mortali.
Claudio Pavone racconta in un libro la sua Resistenza
Piazzale Loreto davanti al corpo della Petacci
C’erano curiosità e anche fatuità. La folla non aveva saputo fare la rivoluzione e non era degna della tragicità di quello spettacolo
di Claudio Pavone (la Repubblica, 17.04.2015)
ANDAI a piazzale Loreto. Oggi non è facile separare l’impressione avuta allora da quelle indotte poi dal molto che si è scritto e discusso, anche da parte mia, su quel macabro spettacolo. La piazza era colma di gente di ogni ceto, ed era difficile comprendere cosa davvero albergasse in tutti quei petti. C’era nel fondo la soddisfazione della palese fine della guerra e del fascismo, ma su di essa si innestavano sentimenti che andavano dal ricordo dei cadaveri dei partigiani fucilati dai fascisti e lasciati sul selciato proprio in quel piazzale alla soddisfazione di vedere puniti i colpevoli.
Dall’odio e dal disprezzo contro di essi fino a una sorta di festosità, di mera curiosità o addirittura di fatuità. Mi trovai accanto a una signora borghese, al braccio del marito, che diceva: «Però, che belle gambette aveva la Petacci!». Il mio moralismo e il mio estremismo rivoluzionario o presunto tale mi condussero a pensare che quella folla che non aveva saputo fare la rivoluzione non era degna della tragicità di quello spettacolo e che proprio questo gli dava un senso, oltre che macabro, riprovevole.
Non ho di quei giorni molti ricordi precisi, ma mi è rimasta nettissima nella memoria l’atmosfera generale ed esaltante di una città che ritrovava la gioia di vivere e la manifestava in mille modi, dall’andare in bicicletta al fare il bagno all’Idroscalo e al piacere di passare la notte camminando, discutendo e cantando in giro per la città, dove l’efficienza del comune di Milano aveva subito provveduto a riattivare l’illuminazione pubblica. Si ballava nelle piazze e nelle strade con un’allegria che rivelava la soddisfazione di potersi finalmente divertire.
Appariva naturale prendere una bicicletta incustodita e lasciarla incustodita una volta arrivati a destinazione: sembrava una forma di elementare comunismo. Colpiva l’aspetto assai poco marziale con cui i soldati americani giravano per la città. «Non sembrano soldati», diceva la gente, e qualcuno aggiungeva: «Che soddisfazione che abbiano battuto i tedeschi signori della guerra!». Risorgeva l’attività politica alla luce del sole e per quelli della mia generazione era una entusiasmante novità. Andai al comizio di Pertini per il Primo maggio presso l’Arena e, a parte il tono del discorso che mi parve un po’ arcaico, era bello vedere tanta gente venuta di propria volontà. Germogliavano le iniziative culturali, e la sede del Politecnico di Vittorini in viale Tunisia stava diventando un centro di richiamo e di scambio.
Noi del Pil, il Partito italiano del Lavoro, stavamo discutendo dell’atteggiamento da assumere nella nuova situazione quando arrivò la notizia che il Pil di Romagna, la nostra base popolare proveniente prevalentemente dall’Uli (Unione lavoratori italiani), era entrato nel partito socialista per iniziativa di Giusto Tolloy, già di «Popolo e Libertà» e considerato l’intellettuale guida del partito. Rimanemmo sconcertati: tutta la linea di rimanere fuori dal Cln e dai compromessi che lo contraddistinguevano veniva così sconfessata. Alcuni lo ritennero un tradimento. (...)
Eravamo ormai arrivati ad agosto ed io ero riuscito a ristabilire i contatti con mia madre e le mie sorelle ancora a Torchiara ma in procinto di tornare a Roma. Con Delfino Insolera, la cui famiglia era di nuovo a Roma, decidemmo di tornare a nostra volta, anche come messaggeri del nostro verbo politico. Ma il viaggio non era facile, dato lo stato delle comunicazioni ferroviarie. La difficoltà fu risolta dal nostro compagno Leone Krakmalnikov, figlio di aristocratici russi emigrati, che avevano creato in Umbria una fiorente azienda agricola. Leone si impadronì dell’automobile abbandonata da un grosso gerarca fascista datosi alla fuga e la rimise in sesto. Così una mattina lasciammo Milano a bordo di una potente Alfa Romeo.
A Castelfranco Emilia andai a salutare i proprietari di una trattoria dalla quale zio Cesare aveva ottenuto che ogni tanto mi venisse mandato in carcere qualcosa da mangiare. Fui accolto e festeggiato con tutto il grande cuore del- l’Emilia rossa. La sera arrivammo a Cesena dove passammo la notte e avemmo un incontro pacato con gli ex compagni del pil. A Rimini passammo il confine che divideva le province sotto l’Amg e quelle già restituite all’amministrazione italiana.
Entravamo nell’Italia già liberata da un anno e più, ma per noi fu come un balzo indietro nel tempo. Di là c’erano i carabinieri con i gambali e le scalcinate divise che ci controllarono i documenti. A Narni, durante il viaggio da Roma a Castelfranco, la vista dei carabinieri ancora nella loro divisa mi aveva quasi dato la sensazione che il fascismo non avesse riconquistato proprio tutto. Dopo la Resistenza e le esaltanti giornate di Milano, la loro vista mi diede invece l’impressione di entrare in un paese un po’ fermo e alquanto ammuffito. A Perugia fummo ospitati nella signorile casa di campagna dei genitori di Leone, che a noi apparve sontuosa. cenammo in modo così ricco che, disavvezzo da tempo ai pasti abbondanti e succulenti, la notte mi sentii male.
La mattina dopo Delfino ed io ci avviammo verso Roma su una di quelle camionette che erano allora il principale mezzo di trasporto, urbano ed extraurbano. Io guardavo uomini e cose e cercavo di cogliervi i segni della mutazione che speravo si fosse verificata dopo la Liberazione. Arrivammo a Roma a metà del pomeriggio e la camionetta ci lasciò a piazzale Flaminio. Salii come un tempo sulla circolare nera. Nella mia casa di via Flavia, al quinto piano, l’ascensore ancora non funzionava e salii le scale carico dei miei fagotti. In casa c’era solo mia sorella Lidia, ma mia madre arrivò subito dopo. Quando la vidi salire le scale con i capelli tutti bianchi, mi fu chiaro il senso del tempo trascorso.
La memoria contro la retorica
di Guido Crainz (la Repubblica, 17.04.2015)
SI leggono in molti modi queste intense e antiretoriche memorie della Resistenza di Claudio Pavone, lo storico che più ce l’ha fatta comprendere. In primo luogo come memorie, appunto, “racconto” di un giovane poco più che ventenne pienamente immerso nella crisi italiana del 1943-45: dalla vigilia del 25 luglio, segnata da un «desiderio di agire contro il fascismo che non trovava sbocco», alle gioiose e confuse manifestazioni di Roma per la caduta di Mussolini («Qualcuno gridò: “Andiamo a rendere omaggio a Ciceruacchio” (...) tutti si fermarono per un momento davanti alla statua di quel patriota risorgimentale»); dallo sdegno per le responsabilità del re e di Badoglio nello sfascio dell’8 settembre alla scelta della Resistenza; dall’incauto e sfortunatissimo episodio che ne provoca l’arresto sino alla detenzione a Regina Coeli e poi a Castelfranco Emilia, e infine alla attività clandestina a Milano. Qui incrocia Mussolini e il corteo di gerarchi e camicie nere che si dirigono al Lirico per l’ultimo comizio del Duce, nel dileguarsi dei passanti: «Una vera nemesi storica di quando la gente accorreva in massa a Piazza Venezia» (lo rivedrà solo dopo la morte, a Piazzale Loreto: «Quella folla non era degna della tragicità di quello spettacolo»).
È anche una “traversata”, La mia Resistenza: in primo luogo intellettuale, a partire dalle discussioni con gli amici con cui «condividevamo i primi sentimenti antifascisti e le scoperte culturali». Condivisione particolarmente intensa con Giuseppe Lopresti, ucciso poi alle Fosse Ardeatine, e portata sino alla messa in discussione dei fondamenti della propria formazione («ci affaticavamo attorno all’aggrovigliato nodo del rapporto fra religione, socialismo e libertà »): nella borsa con il “materiale sovversivo” che ne provoca l’arresto ha anche Etica e politica di Croce e i Salmi.
È al tempo stesso una traversata politica, questo libro, e Pavone si definisce un «azionista postumo »: non aderì allora al Partito d’Azione perché all’inizio aveva conosciuto solo l’ala moderata, «apparsami molto elitaria, gente troppo simile a me (...) in quella situazione straordinaria volevo cambiare me stesso ». Il socialismo «era più ricco di suggestioni » e al tempo stesso lontano dalla rigidità comunista: aderisce così al partito socialista e diventa aiutante di Eugenio Colorni, della cui formazione europea avverte tutti gli stimoli.
La traversata si popola poi delle molte e differenti persone che conosce o ritrova a Regina Coeli, dal comunista dissidente Nestore Tursi a Ruggero Zangrandi o a Franco Antonicelli. E sino al gruppo degli azionisti, con cui ha ora i maggiori rapporti, da Carlo Muscetta a Manlio Rossi-Doria. O a Leone Ginzburg, prelevato in carcere dai tedeschi: «Qualcuno da una cella cominciò a fischiare l’inno del Piave, era un fischio limpido e sicuro. I tedeschi certo non capirono, gli italiani si commossero, Leone fu portato via».
Vi è poi il carcere di Castelfranco Emilia, con le esecuzioni che intravede e quelle di cui ha notizia, con nuove angosce e nuove conoscenze, sino alla scarcerazione dell’agosto del 1944 connessa all’obbligo di presentarsi all’esercito repubblichino. Obbligo cui si sottrae vivendo a Milano una nuova attività clandestina e aderendo (all’interno di «un percorso contorto e abbastanza atipico») a un piccolo gruppo anomalo, il Partito italiano del lavoro, cui dedica parole appassionate e al tempo stesso critiche. Vengono poi la gioia della Liberazione, il ritorno a Roma e l’incontro con la madre: «Quando la vidi salire le scale con i capelli tutti bianchi mi fu chiaro il senso del tempo trascorso». Iniziava la difficile risalita del dopoguerra.
SE IL 2 GIUGNO
di Peppe Sini *
Se il 2 giugno e’ la festa della Repubblica, la Repubblica democratica, la Repubblica nata dalla Resistenza antifascista, la Repubblica che ha il suo fondamento nella Costituzione, ebbene, allora per poter festeggiare la Repubblica due cose occorre fare, immediatamente.
Primo: che cessi la partecipazione italiana alla guerra afgana: una guerra terrorista e stragista, imperialista e razzista, totalitaria e mafiosa, cui la Costituzione della Repubblica Italiana giustamente proibisce al nostro paese di partecipare. Secondo: che cessi la persecuzione razzista dei migranti, una persecuzione hitleriana che viola tutti i fondamentali diritti umani, una persecuzione che la Costituzione della Repubblica Italiana giustamente proibisce nel modo piu’ assoluto.
*
Che viva la Repubblica, e quindi che cessi immediatamente la partecipazione italiana alla guerra assassina. Che viva la Repubblica, e quindi che siano immediatamente abrogate tutte le infami misure razziste che governi golpisti hanno imposto nel nostro paese.
Solo la pace salva le vite, solo il disarmo e la smilitarizzazione dei conflitti difendono e promuovono la vita, la dignita’ e i diritti di tutti gli esseri umani.
Il razzismo e’ un crimine contro l’umanita’, tutti gli esseri umani hanno diritto alla solidarieta’ di tutti gli esseri umani. Abolire la guerra e abolire il razzismo, riconoscere l’unita’ del genere umano e recare soccorso a tutte le persone nel dolore e nel bisogno: questa e’ la Repubblica.
Peppe Sini,
responsabile del "Centro di ricerca per la pace e i diritti umani" di Viterbo
Viterbo, 26 maggio 2012
"Centro di ricerca per la pace e i diritti umani" di Viterbo, strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo,
e-mail: nbawac@tin.it ,
web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza/
“Per l’Italia la guerra è solo un ricordo” (M. Monti)
di Renato Sacco (Mosaico di pace, 18 maggio 2012)
Non ha fatto molto clamore questa frase di Mario Monti, pronunciata domenica scorsa, 13 maggio, incontrando alcuni giovani provenienti da vari paesi in guerra, ospiti della Cittadella della Pace, a Rondine (Arezzo).
Che bello! Detta così la cosa sembra quasi commovente: la guerra, un lontano ricordo... ora (noi) siamo in pace! Si perché le guerre non combattute sul patrio suolo non le chiamiamo più guerre, ma ‘missioni di pace’. Basta cambiare la parola e tutto è risolto. Oppure tacere qualche altra parola, come ‘vendita di armi’ a paesi in guerra. E così facciamo la figura di quelli buoni. Ma quante guerre, ancora oggi, noi finanziamo? Quante guerre vengono combattute con il Made in Italy?
È iniziato in questi giorni, presso il Tribunale penale internazionale dell’Aja, il processo a carico dell’ex generale serbo-bosniaco, Ratko Mladic, responsabile del massacro di Srebrenica e dell’assedio a Sarajevo. Per evitare di sentirci buoni e con le mani pulite, sarà il caso di ricordare che ho potuto vedere con i miei occhi e fotografare i contenitori delle granate che venivano lanciate sulla città di Sarajevo dai soldati di Mladic: c’era scritto ’Made in italy’.
E per stare ai nostri giorni: nel 2011 l’Italia ha venduto quasi 127 milioni di armamenti per la “dittatura monopartitica” del Turkmenistan; 99 milioni di euro di armi alla Russia; oltre 30 milioni di armi destinate al “regime autoritario” del Gabon. Una nave d’assalto anfibia da 416 milioni di euro all’Algeria. E, sempre all’Algeria - primo acquirente di sistemi militari italiani nel 2011 - 14 elicotteri A139 in versione militare dotati di supporti per mitragliatrici cal. 7.62.
Sono solo alcuni dati presi da un articolo di Giorgio Beretta su unimondo.org, in cui si ricorda che numerose associazioni “chiedono a Monti un “incontro urgente” per chiedere se il Governo è intenzionato a ripristinare la trasparenza e, soprattutto, se intende operare affinché i vincoli posti dalla legge 185/1990 non siano aggirati troppo facilmente...”.
Sarà anche scontato, ma forse è il caso di ricordare a Monti che l’Italia, oggi, spende miliardi per la guerra. Solo in Afghanistan 2 milioni di € al giorno...(o forse quella non è guerra?). Per nuovi aerei d’attacco, e non di difesa, come gli F35: oltre 10 miliardi! E c’è pure una scuola di guerra a Civitavecchia.
Mica male per essere un paese dove ‘la guerra è solo un ricordo’!
È inquietante quanto ha scritto Tonio Dell’Olio il 14 maggio scorso, nella sua rubrica "Mosaico dei giorni" (http://www.peacelink.it/mosaico/i/3053.html). “Per favore date voce agli abitanti di Niscemi in provincia di Caltanisetta. Da quelle parti hanno cominciato a sbancare e cementificare un pezzo di collina della riserva naturale della “Sugherata” per costruire un pezzo del MUOS (Mobile User Objective System), il nuovo sistema di telecomunicazione satellitare della Marina militare Usa. Costa un mucchio di soldi (all’incirca 6 miliardi di dollari) e costituisce il “modello” delle guerre dei prossimi tempi.”
Accogliamo questo appello, rilanciamolo e diamo voce agli abitanti di Niscemi! E tra pochi giorni, il 2 Giugno, Festa della Repubblica, ci sarà addirittura la parata militare, (sul sito di paxchristi.it si può trovare la lettera da spedire per chiedere di non fare la parata) con l’ostentazione di tutti i mezzi per fare, oggi e non ieri, la guerra.
Alla faccia della guerra che ‘per l’Italia è solo un ricordo’.
Forse è il caso di ricordare, a Monti e a tutti noi, che la nostra Costituzione (se non è un ricordo pure quella...) usa una parola nei confronti della guerra, che inizia allo stesso modo di ‘ricordo’ ma è molto più impegnativa: ‘ripudia’.
2 GIUGNO, RIPUDIAMO LA GUERRA
di Movimento Nonviolento
Il Movimento Nonviolento invita tutti a scrivere una lettera al Presidente Napolitano per chiedere di restituire al 2 Giugno la forza dirompente e smilitarizzata della nostra Repubblica, fondata sul lavoro e sul ripudio della guerra. Inoltre propone di organizzare dove possibile delle sfilate nelle quali i cittadini disarmati innalzino i cartelli con il testo dell’articolo 11 della Costituzione: l’Italia ripudia la guerra.
Al Presidente della Repubblica, On. Giorgio Napolitano
Palazzo del Quirinale - Roma
2 GIUGNO, RIPUDIAMO LA GUERRA
La pace è l’unico valore veramente rivoluzionario perché costringe a ripensare tutte le categorie del vecchio mondo che è stato costruito sulle macerie delle guerre.
Essere costruttori di pace oggi significa obiettare al sistema di guerra e alle spese militari che la guerra rendono possibile.
Noi vogliamo essere cittadini obbedienti alla Costituzione italiana, scritta subito dopo il flagello del secondo conflitto mondiale, e proprio per questo tesa al ripudio della guerra stessa. Lo dice l’articolo 11. E’ la stessa Costituzione che ci indica come la nostra Repubblica sia fondata sulla forza del lavoro. Lo dice l’articolo 1. In mezzo, tra l’articolo 1 e l’articolo 11, ci sono 10 articoli fondamentali della nostra carta costituzionale, su altrettanti valori fondanti: la giustizia, la libertà, la salute, l’educazione, ecc. Questo significa che i lavoratori devono costruire le condizioni per la dignità della vita di tutti coloro che vivono nel nostro paese, e che la guerra (e la sua preparazione) è l’unico vero disvalore da espellere per sempre dal contesto sociale e civile.
Per tutto questo noi non comprendiamo perché la Festa della Repubblica, che ricorre il 2 giugno, venga celebrata con le parate militari, la sfilata della armi, la mostra degli ordigni bellici. E’ una contraddizione divenuta ormai insopportabile. Questo è il ripudio della Costituzione,non della guerra. E’ il rovesciamento della verità.
Il 2 giugno ad avere il diritto di sfilare sono le forze del lavoro, i sindacati, le categorie delle arti e dei mestieri, gli studenti, gli educatori, gli immigrati, i bambini con le madri e i padri, le ragazze e i ragazzi del servizio civile. Queste sono le forze vive della Repubblica; i militari hanno già la loro festa, il 4 novembre, che ricorda “l’inutile strage” della prima guerra mondiale, come disse il papa Benedetto XV.
A lei, Presidente della Repubblica, chiediamo di abolire la parata militare del 2 giugno, anche per rispettare la necessità di risparmio economico (l’anno scorso costò quasi 10 milioni di euro): inviti i giovani disoccupati e i pensionati come rappresentanti del popolo italiano in sofferenza. E’ un vero e proprio scandalo che mentre si impongono pesanti sacrifici a tutti, il Parlamento ed il Governo abbiano confermato l’enorme spesa di oltre 10 miliardi di euro per l’acquisto dei cacciabombardieri F35.
Ci impegniamo ad interpellare le autorità civili delle nostre città, sindaci, prefetti, consiglieri comunali, deputati, affinché sostengano questa nostra proposta, scrivendo anche lettere ai giornali e diffondendole nei luoghi di lavoro. Il 2 giugno con le nostre associazioni vogliamo celebrare l’Italia che “ripudia la guerra”: dove possibile organizzeremo delle sfilate dove i cittadini disarmati innalzeranno i cartelli con l’articolo 11 della Costituzione.
Movimento Nonviolento
www.nonviolenti.org
Puoi riscrivere personalmente questa lettera, con la tua famiglia o il tuo gruppo, e spedirla al Presidente della Repubblica e alle autorità civili della tua città, sindaco, prefetto, consiglieri, deputati, affinchè sostengano questa nostra proposta nelle sedi istituzionali. Diffondi la tua/vostra lettera ai media locali e per raccoglierle e pubblicarle tutte, inviala ad -azionenonviolenta@sis.it
La pace igiene del mondo
intervista a John Gittings
a cura di Ennio Carretto (Corriere della Sera/ La Lettura, 29 aprile 2012)
Non è la guerra, ma la pace, l’autentica molla del progresso tecnologico umano. Lo sostiene lo storico inglese John Gittings, già autore di importanti lavori sulla Cina, in un libro che sta facendo parecchio rumore in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. Editorialista di politica estera del quotidiano britannico «The Guardian» dal 1983 al 2003, oggi alla Oxford International Encydopedia of Peace, Gittings è fautore di un diverso revisionismo storico, propedeutico a un nuovo, pacifico ordine globale. Nel saggio The Glorious Art of Peace. From the Iliad to Iraq («La gloriosa arte della pace. Dall’Iliade all’Iraq», Oxford University Press), Gittings non contesta solo che la matrice della scienza e della tecnologia sia soprattutto bellica. Afferma anche che, rivisitando i millenni della storia, vi si trovano le direttive, più che mai valide ai nostri giorni, per un mondo in pace, prospero e giusto.
Come è giunto a queste conclusioni?
«Ho sempre creduto che la pace sia la condizione umana ultima e la più favorevole al progresso. Da giovane, feci parte del movimento antinucleare e pacifista di Bertrand Russell. Ma con il passare del tempo mi resi conto che in prevalenza gli storici scrivono di guerre. Se visitiamo Foyles a Londra, la più grande libreria al mondo, troviamo 280 scaffali di libri sulle guerre, ma meno di uno sulla pace, sebbene alcuni libri dove si parla anche di pace siano sparsi in altri 40 scaffali».
E in questi libri sulle guerre si sostiene che esse sono all’origine delle maggiori scoperte scientifiche e tecnologiche?
«Di solito sì. È la "teoria del carro", secondo cui l’invenzione del carro da guerra trasformò l’età del bronzo, come la scoperta dell’energia nucleare ha trasformato la nostra. Ma se è vero che le guerre promuovono scoperte, è ancora più vero che la pace ne promuove di più, e sovente di più importanti. E la "teoria del palo", alla quale aderisco, secondo cui la pace è il requisito per la crescita culturale della società».
Perché è chiamata così?
«La dottrina prende il nome dal palo imperniato con contrappeso e secchio, inventato in Mesopotamia per estrarre acqua dai pozzi, più o meno contemporaneamente al carro da guerra. Una scoperta che fu decisiva per l’irrigazione dei campi e lo sviluppo agricolo. Non dimentichiamo che nei millenni la maggior parte dell’umanità non ha conosciuto guerre. Purtroppo in prevalenza gli storici tralasciano di raccontarlo».
Per quali ragioni?
«Sostanzialmente per due motivi. Le guerre appaiono più affascinanti della pace alla maggioranza degli storici: per alcuni di loro anzi, la pace è soltanto una parentesi tra le guerre. Inoltre la lettura che essi danno di eventi o movimenti cruciali è almeno in parte errata, rispecchia una sorte di pregiudizio. Si prenda Charles Darwin. Lo si considera il teorico della sopravvivenza dei più forti, il cosiddetto darvinismo sociale. Ma Darwin disse che, progredendo, l’umanità passerà dalla competizione alla cooperazione».
Lei ritiene errata anche la lettura di Omero, Shakespeare e Tolstoj come cantori della guerra, per citare qualcuno dei grandi su cui si è soffermato?
«È una lettura unilaterale. Prendiamo lo storico greco Tucidide. È giudicato favorevole alla guerra. Ma in lui non mancano gli auspici di pace. Anche Omero lascia intravedere alternative alla guerra. A un certo punto i soldati greci abbandonano l’assedio di Troia, equivocando sul discorso di Agamennone, e soltanto gli dei riescono a fermarli. Sullo scudo di Achille sono raffigurate scene agresti e di danza. Lo stesso si può dire di Shakespeare. In Russia la censura vietò la pubblicazione dei racconti di guerra di Tolstoj in quanto il romanziere si chiedeva perché i soldati si uccidano l’un l’altro».
Il pacifismo non è un fenomeno recente?
«No. All’epoca delle guerre in Cina, Confucio sedeva nella casa del tè, vicino all’ingresso nella città, dando consigli ai governanti su come ottenere o preservare la pace. Sono molte e autorevoli le voci levatesi contro la guerra nel corso dei millenni, ma vennero spesso soffocate. Si dice che la storia sia scritta dai vincitori. Io penso che sia scritta anche dai belligeranti».
Lei dà particolare rilievo all’insegnamento di Erasmo da Rotterdam, l’apostolo dell’umanesimo cristiano.
«Nel libro contrappongo Erasmo a Machiavelli. Tutti conoscono Il Principe e Dell’arte della guerra di Machiavelli: per generali e governanti furono quasi dei manuali, per qualcuno lo sono ancora. Ma pochi conoscono L’educazione del principe cristiano di Erasmo, che è quasi un trattato pacifista. Tornando a Foyles: espone più edizioni di Machiavelli e nessuna copia del libro di Erasmo, che denuncia i costi delle guerre, proponendo negoziati e mediazioni di pace. Per fortuna Erasmo influì sull’Illuminismo e sui filosofi a lui successivi».
Lei è convinto che il passato ci fornisca direttive di pace?
«Sì. L’insegnamento di Erasmo è utile. Se approfondissimo i pro e i contro a lungo termine delle guerre, ne eviteremmo molte. Tipico è il caso della guerra in Iraq: chi l’avrebbe cominciata, se ne avesse saputo in anticipo il costo? Idem per i negoziati di pace: va accettato il principio che per raggiungerla bisogna rinunciare a qualcosa. Un fattore importante è anche la pubblica opinione, che un tempo non aveva il peso di oggi. In retrospettiva, il merito della riduzione degli armamenti nucleari è anche suo».
Questo insegnamento non ci ha però risparmiato due guerre mondiali né la Guerra Fredda.
«Abbiamo perso grandi occasioni di pace perché siamo stati incapaci di assorbire la lezione della storia. Ci chiediamo ancora perché scoppiò la Prima guerra mondiale, di cui ricorrerà presto il centenario. Equivochiamo sugli anni Trenta, che inizialmente furono costruttivi, non distruttivi. Non ammettiamo che la Guerra Fredda fosse prevenibile. Ci chiediamo perché non siamo riusciti a creare un nuovo ordine mondiale negli anni Novanta, dopo il crollo del Muro di Berlino e dell’Urss. Dobbiamo cambiare».
Non pecca di ottimismo suggerendo nel suo libro che il secolo attuale può essere contraddistinto dalla pace?
«Il XX secolo è stato un secolo di sangue, circa 8o anni di guerre su 100. Abbiamo i mezzi per evitare che lo sia anche il XXI. Non m’illudo che si risolvano tutti i problemi. Siamo nell’età della globalizzazione e la situazione è complessa. Le soluzioni devono essere globali. Non si tratta soltanto di impedire che scoppino guerre, ma anche di ridurre la povertà e le disuguaglianze, di proteggere l’ambiente. Scienza e tecnologia non bastano».
Ci vuole una rivoluzione culturale?
«In un certo senso sì, anche se non uso questa espressione. Ci vogliono meno strumentalizzazioni da parte del potere, meno machismo intellettuale da parte degli storici, più collaborazione internazionale, più enfasi nelle scuole e sui media sui dividendi della pace, che ultimamente ci siamo lasciati sfuggire. Alle tv, quando si discute di Afghanistan, si invitano solo esperti di guerre, non esperti di pace. È un errore».
La mossa di Napolitano contro le liti sul 25 Aprile
La Polverini e l’Anpi invitati al Quirinale
di Ernesto Menicucci (Corriere della Sera, 24.04.2012)
ROMA - Divisi sul 25 Aprile, riuniti dal Quirinale. Sulla festa della Liberazione, che a Roma è diventata un caso, scende in campo Giorgio Napolitano. Oggi, al Colle, iniziano le cerimonie per il 67esimo anniversario della data che celebra la fine del nazifascismo, con le Associazioni combattentistiche e d’arma. E, insieme all’Associazione partigiani, ci saranno anche il Comune di Roma, la Regione Lazio e la Provincia di Roma: le tre istituzioni non invitate dall’Anpi romano al corteo di domani che si concluderà a Porta San Paolo, luogo simbolo della Resistenza capitolina. Una decisione, quella dell’Associazione partigiani, che aveva creato molte polemiche.
Ufficialmente, il motivo del mancato invito è «per evitare possibili contestazioni», come capitò nel 2010, quando contro la governatrice Renata Polverini ci furono cori e lanci di oggetti, col presidente della Provincia Nicola Zingaretti (Pd) che per difenderla si beccò un limone in fronte. Ma, dietro la scelta dell’Anpi, ci sono anche altre motivazioni: l’opposizione al sindaco Gianni Alemanno e alla stessa Polverini perché di centrodestra, malumore per come il Pdl ha commentato la morte del partigiano Rosario Bentivegna, liti interne all’associazione, spaccata tra gli esponenti di Comunisti italiani e Rifondazione e quelli legati al Pd e alla Cgil.
Scoppiata la bagarre, la Polverini si è rivolta a Napolitano: «Spero che il capo dello Stato - ha detto - voglia spendere una parola. Bisogna smettere di pensare che chi milita da una parte abbia l’esclusiva della storia. Il sangue è stato versato da tutti, anche da miei familiari e da chi mi ha votato». Più remissivo Alemanno: «Mi dispiace, ma ne prendo atto. L’Anpi è un’associazione privata, decide lei come organizzare le sue manifestazioni. Peccato, però, che il 25 Aprile anziché unire divida». Zingaretti al corteo ci sarebbe andato comunque: «Ma - dice - in forma privata. La decisione dell’Anpi, presa per evitare incidenti, è saggia».
Pian piano, però, sono aumentate le voci critiche. Prima il Pdl, con Fabrizio Cicchitto: «L’Anpi, a Roma, non farà una manifestazione unitaria ma solo quella di una parte precisa». Poi Pierferdinando Casini: «Il 25 Aprile è ricorrenza importante, non può dividere gli italiani. Rattrista l’esclusione di Alemanno e Polverini dalle celebrazioni. Grande errore!», scrive su Twitter il leader udc. Sulla stessa lunghezza d’onda anche Rosetta Stame, presidente dell’Associazione vittime delle Fosse Ardeatine («Alemanno va rispettato come sindaco, no alle separazioni di carattere personale») e Lucio D’Ubaldo, senatore pd («l’Anpi di Roma ha ceduto all’estremismo»).
I sindacati si schierano, in polemica con l’Anpi: «Il 25 Aprile è la festa di tutti gli italiani che si sono riconosciuti nei valori di libertà e di democrazia. Quei valori sono il vessillo delle istituzioni democratiche. Chiediamo all’Anpi di rivolgere a tutte le istituzioni, come da noi suggerito, l’invito a partecipare», la nota firmata da Claudio Di Berardino, Mario Bertone e Luigi Scardaone, segretari regionali di Cgil, Cisl e Uil. Le ultime due sigle, senza presenza istituzionale, non parteciperanno al corteo.
La mossa di Napolitano, ora, riapre gli scenari. Tanto che l’Anpi, adesso, sta valutando il da farsi. Soddisfatta la Polverini: «C’ero rimasta molto male. Il capo dello Stato ha prontamente dato una risposta, ma ne eravamo certi. Ora potremo celebrare tutti assieme la festa della Liberazione». Anche Zingaretti plaude a Napolitano: «Ringrazio il Quirinale per l’ottima e tempestiva iniziativa. È il modo migliore per superare polemiche e incomprensioni». Caso chiuso? Oggi la risposta.
Il loro 25 aprile
di Furio Colombo (il Fatto, 24.04.2012)
Da ieri nelle strade e nelle piazze della Capitale italiana, si vedono grandi manifesti che celebrano la Repubblica di Salò. Avete capito bene. Celebrano la repubblica di Salò sotto la data del 25 aprile. La scritta è stampata in alto sopra la foto di un reparto di Brigate nere passate in rivista dall’ultimo segretario del Partito fascista, Pavolini. Non confondete. Non erano soldati per combattere. Erano soldati da rastrellamento. Rastrellamento vuol dire (nel linguaggio della mia infanzia, quando ho visto ciò che accadeva con lo stesso orrore che provo oggi) catturare antifascisti e partigiani destinati a morire. Sono i “soldati” impegnati a tempo pieno a trovare e catturare cittadini italiani ebrei, bambini e malati inclusi, da consegnare ai camerati tedeschi per lo sterminio nei campi. Quei campi hanno continuato a uccidere fino all’ultimo giorno e all’ultimo fascista in condizione di “combattere” quella guerra ignobile e spaventosa.
Fa impressione che quei manifesti siano affissi negli spazi con la scritta “Comune di Roma”. Fa impressione e orrore che lo slogan del manifesto sia la scritta: “Tutti gli eroi sono giovani e belli”. Sono gli eroi che hanno mandato a morte ogni ebreo, ogni partigiano, ogni antifascista su cui sono riusciti a mettere le mani. Mani non di combattenti ma di carnefici. Sono gli eroi che hanno dato una mano alla razzia romana del 16 ottobre (tutte le famiglie trovate nel ghetto, mille persone con tutti i bambini, quasi nessuno è tornato). Sono i complici delle stragi compiute dai camerati tedeschi nei villaggi e paesi dove anche il parroco è stato ucciso, Sono coloro che pagavano lire 5.000 a quelli che indicavano il nascondiglio di un italiano ebreo da mandare a morire. Sono i “ragazzi” che si sono preoccupati di far arrivare ad Auschwitz Primo Levi, catturato mentre combatteva da partigiano. Il macabro manifesto reca in basso la scritta “ai ragazzi di Salò”. Nei giorni scorsi l’ambasciatrice svedese a Roma mi ha espresso il desiderio di celebrare insieme, a Roma, l’anniversario della nascita di Raul Wallenberg, il giovane diplomatico svedese che, assiemeall’italianoGiorgioPerlasca, ha salvato migliaia di ebrei ungheresi. Le ho detto sì. Non nella Roma di Alemanno. A Roma hanno fatto bene le associazioni della Resistenza a non invitare le istituzioni di questa città e di questo manifesto alla celebrazione del 25 aprile.
UN 25 APRILE AUTENTICAMENTE ANTIFASCISTA: PER LA PACE E CONTRO IL RAZZISMO
DI PEPPE SINI *
Celebrare la liberazione del nostro paese dalla barbarie fascista, onorare i martiri della Resistenza, rievocare la nascita della Repubblica democratica dalla lotta antifascista, costituisce un atto di memoria e una dichiarazione di fedelta’, l’assunzione di un legato, la conferma di un impegno.
Il 25 aprile convoca alla prosecuzione della lotta contro la barbarie nazifascista. E quindi qui ed ora innanzitutto convoca all’opposizione alla guerra assassina; convoca all’opposizione al razzismo di stato.
Convoca al rispetto della Costituzione della Repubblica Italiana e della Dichiarazione universale dei diritti umani.
Convoca all’impegno in difesa della vita, della dignita’ e dei diritti di tutti gli esseri umani.
Affermare la fedelta’ alla Resistenza, alla Liberazione dal nazifascismo, alla Repubblica democratica, implica un esplicito impegno contro la guerra e contro le uccisioni: quindi un esplicito impegno affinche’ cessi immediatamente l’illegale partecipazione italiana alla guerra in Afghanistan.
Affermare la fedelta’ alla Resistenza, alla Liberazione dal nazifascismo, alla Repubblica democratica, implica un esplicito impegno contro il razzismo e le persecuzioni: quindi un esplicito impegno affinche’ siano immediatamente abrogate tutte le misure razziste imposte nel nostro paese da governi golpisti.
Torni lo stato italiano al rispetto della Costituzione della Repubblica Italiana che si oppone alla guerra e al razzismo.
Torni lo stato italiano al rispetto dei diritti umani di tutti gli esseri umani.
*
COI PIEDI PER TERRA.
Supplemento de "La nonviolenza e’ in cammino"
Numero 544 del 24 aprile 2012
Lettere dai partigiani
di Paola Soriga (la Repubblica, 23.04.2012)
Le loro storie sono la nostra memoria. Le storie dei nostri nonni, che ci hanno raccontato quando magari non avevamo voglia di ascoltare, e che adesso non sappiamo dire quanto ci dispiace non potere più ascoltare. Le storie dei nostri nonni o dei nonni che ci siamo scelti, arrivate con una parola, con un libro, con una canzone. Come quella di Mario Bottazzi, partigiano romano, che sabato scorso, al liceo Avogadro di Roma, è stato contestato da un gruppo di studenti neofascisti, e per questo, proprio perché il tempo non è passato, dopodomani 25 aprile, dopo due anni di manifestazione a Porta San Paolo, i partigiani hanno deciso di tornare a sfilare. Per le strade.
La suggestione di un mondo che non conosco se non attraverso le parole a me l’hanno data, a diciassette anni, i CSI. La scoperta di Beppe Fenoglio nei testi di La terra, la guerra, una questione privata. Della guerra, del fascismo, della Resistenza, sapevo quello che avevo studiato e letto e guardato a scuola e quello che avevo sentito in casa.
Alle elementari le maestre ci mandavano in giro per il paese a intervistare gli anziani che avevano vissuto quegli anni. Erano storie di guerra e di fame, di prepotenza in divisa, libertà e dignità calpestate. Di ragazzi di vent’anni che cercavano di tornare a casa, in Sardegna, e si unirono alle bande partigiane, sui monti e nelle città, con la speranza in tasca. Di ragazze che facevano chilometri sulle loro biciclette, nelle valli in nord Italia, con ordini e messaggi nascosti fra i vestiti, con coraggio e incoscienza e lo spazio per un pensiero d’amore. Di donne che nascondevano uomini nelle cantine o nelle soffitte, cucivano vestiti e cucinavano minestre, nelle periferie di Roma o di Milano.
La storia di Giuseppe Serreli, ascoltata e trascritta da alcuni bambini: «Giuseppe Serreli è un uomo di 55 anni, basso e magro. Vive ad Uta e fa l’ortolano». Raccontò che si fece partigiano nell’Appennino Ligure, chissà se incontrò Italo Calvino, aveva ventun anni, e scelse Uta come nome di battaglia. Che poi anziane non erano, quelle persone, quando io ero alle elementari, avranno avuto sessant’anni o poco più.
Adesso, adesso sono anziani, molti sono morti. Sono i nostri nonni, e lentamente muoiono. Da raccontare, adesso, quelle storie, ai ragazzi delle medie che non sanno cosa sia, il 25 aprile, a cosa serva. Non sanno che è per tutti, per tutti noi ogni giorno ancora. Non sanno che hanno lottato, quelle persone, che non era in vacanza che andavano gli oppositori di Mussolini, chi si opponeva alle sue idee di oppressione e di violenza, come hanno provato a raccontarci in questi anni. Non sanno le carceri e il sangue sui muri. Non lavate questo sangue, hanno scritto su un foglio le prime persone che sono entrate alla scuola Diaz, dopo la notte in cui accadde quello che accadde. Il sangue non si lava via perché serve a ricordare, a non dimenticare. Quando vengono sospesi i diritti della democrazia, la libertà e la dignità calpestate, non va lavato via il sangue. Perché «tutto quel che è successo è perduto, ma tutto quel che è successo può tornare a succedere», scrive Rossana Rossanda.
La libertà per cui hanno lottato è anche la nostra e la libertà è faticosa. Il 25 aprile deve sopravvivere alla retorica e anche a anni di rilettura, di discorsi in cui non sembra più tanto chiaro che la democrazia, la Costituzione, sono figlie delle donne e degli uomini che hanno combattuto contro l’occupazione nazista e contro il fascismo che la appoggiava. La libertà è faticosa e non vuol dire fare quello che ti pare, mi ha detto una signora di ottantasette anni che ha fatto la partigiana.
«Un’elementare spinta di riscatto umano» era, secondo Calvino, a spingere i nostri nonni nell’urgenza di quei giorni, e ancora preme nei nostri, di giorni, lontanissimi e diversi ma riconducibili allo stesso «quid elementare, chiave della storia presente e futura». Come un impegno preso, essere sempre contro ogni forma di oppressione e di fascismo, di discriminazione e di violenza, comprendere e accogliere. Hanno saputo guardare oltre le macerie, i nostri nonni, hanno saputo immaginare mentre agivano e ridare un senso alle cose. Per questo anni fa, a Barcellona, in un locale pieno di stranieri, io e il mio amico Mattia, di San Remo, il 25 aprile abbiamo brindato all’Italia: se aveva un significato il nostro essere italiani, a vent’anni, in una città europea, il significato era questo.
© Paola Soriga 2012 , Roberto Santachiara Literary Agency
Ferdinando De Leoni
«Il Duce decideva le parole e mi ribellai»
Sono nato durante il fascismo. Ho frequentato scuole fasciste - il liceo Tasso, dove andavano i figli del Duce. In un’epoca in cui la televisione non esisteva e la radio era la radio del Regime e i giornali erano giornali del sistema, era proibito leggere libri di autori stranieri e persino parlarne la lingua. Un’epoca in cui era proibito dire ho fatto goal alla partita e al cinema si andava a vedere i film di Renato Rascel (sempre che quel cretino di Starace non fosse riuscito a farlo chiudere, il cinema Eden, perché Eden era il nome del capo dei laburisti inglesi): un’epoca in cui chi decideva le nostre parole non conosceva neppure il significato della parola Paradiso. Di fronte a tutto questo, come abbiamo fatto, alcuni di noi, a diventare antifascisti? Le strade sono molteplici. Molto differenti. Per me, si leggeva. Clandestinamente. Si studiavano i libri che giravano sottobanco.
Anita Malavasi
«Il mio uomo non voleva che facessi la staffetta»
Marcello Marini
«E’ difficile spiegare perchè ci è successo»
Domandano tutti: - Ma perché lo avete fatto? - E fanno anche la domanda che non dovrebbero fare. - Avete ammazzato? I ragazzi vogliono sapere il periodo. E chiarire il perché. È necessario spiegare il periodo, prima di chiarire il perché. È quasi impossibile spiegarsi, tra noi e i ragazzi ma è l’impegno che ci mettono nel cercare di capire, l’importante. L’interesse calò intorno agli anni Novanta. Quando calò un po’ tutto. Ma non posso dire che si estinse. E infatti è covato. Adesso la ripresa c’è stata. I giovani sono tanti e sono tornati. Quando uno vede che alle manifestazioni ci sono giovani e vecchi che cantano Bella ciao è una cosa che fa riflettere. Parliamo di questo. Negli ultimi tempi dico loro: - Guardate, sono rimasto solo io. Allora diventano più interessati ancora. Io sono l’ultimo.
Giovanna Maturano
«La prima rivolta fu contro nostro padre»
Eravamo due sorelle e due fratelli con due anni di differenza l’un l’altro. Tutti finimmo arrestati. Anche mia madre. Mio padre no. Mio padre non era fascista. Ma non faceva niente. Non era un vigliacco. Era la sua forma mentale da ispettore capo della dogana. Mio padre metteva i soldi da parte per la pensione. Era autoritario in maniera terribile. E noi facevamo la fame. Bisognava chiedere i soldi prima che li mettesse in banca, se no, era finita. Cosí abbiamo dovuto fare una rivolta in famiglia. Da lí, abbiamo fatto esperienza. E l’abbiamo fatta diventare una cosa piú grande. La nostra vita è stata talvolta dura e difficile, ma io non rimpiango nulla, se non forse che avrei potuto fare di piú e meglio. Ma con tutte le delusioni, le amarezze, i dolori e le gioie, questa è stata la mia vita e io l’ho vissuta intensamente e con entusiasmo, soffrendo, amando e lottando.
Vanda Bianchi
«Non mi è mai scappata la voglia di lottare»
Nella Resistenza posso dire di esserci nata. Io sono figlia di un sovversivo. All’epoca non sapevo neanche che cosa volesse dire quella parola, e ne avevo paura. Quando mi è toccato lasciare gli studi, da bambina, mi sono messa a piangere. Perché volevo capire, già allora, come girava il mondo. Non c’è bisogno di avere un granché di istruzione, comunque, in certi frangenti. Il mondo gira in un verso che è chiaro per tutti. Io ho sempre fatto i conti, prima e dopo la guerra. Non sono stata soltanto una partigiana: le nostre lotte le ho fatte ogni giorno, fino ad adesso. Non ci è mai scappata la voglia. Era un onore portare le armi e distribuire la stampa clandestina; era un onore partecipare nelle sezioni dopo la guerra o agli scioperi di mio marito metalmeccanico. I mesi passati a combattere sono stati lunghi e brutti. L’importante è che non tornino piú.
Ferruccio Mazza
«Pensate le cose impensabili»
Ai ragazzi dico questo. Pensate le cose impensabili. Si può sopravvivere a una guerra. Si può saltare un cancello alto alto con delle lance acuminate sulla cima e resistere a un tempo che vuole scambiare la giovinezza con la fame e la morte. Si può ritornare dai campi di concentramento in Germania con gli amici fraterni che vi hanno accompagnato fin sulla soglia della disperazione e poi della libertà, trascinandosi fuori l’un l’altro. Si può ritornare a casa, quando tutto sembra distrutto e perduto, e ricominciare da capo. E sapere, sul treno di ritorno, con le immagini delle macerie che ti passano dai finestrini, che a casa ti stanno aspettando tua moglie, e tua figlia.
Giorgio Vecchiani
«Lascio una rosa sopra ogni targa»
Prima ancora di prendere le armi la nostra guerra era scrivere «Viva la pace» sui muri. Ora si fanno dei corsi in carcere, sulla Costituzione. Leggerò ai detenuti la lezione di Calamandrei. E poi ho messo insieme tanti ragazzi. In bicicletta si farà un giro di Pisa lasciando una rosa sopra ogni targa. È sempre difficile trovare gente per le commemorazioni, perché da noi gli eccidi più grandi sono avvenuti d’estate. Ma io credo che qualcuno verrà.
Liliana Mattei
«Avevamo il veleno per non parlare»
Talvolta mi ritorna l’immagine della città vuota. Stato d’emergenza assoluto. Ponti tutti distrutti. Ho un ricordo di questo silenzio più del rumore dei combattimenti. Il mio nome di battaglia era "Angela". È stata un’esperienza, quella partigiana, dura e tragica, che ha richiesto immensi sacrifici e tanto coraggio. Eravamo consapevoli che, una volta catturati, prima di ricevere la morte saremmo passati attraverso la tortura e le sofferenze più atroci. I compagni ci chiedevano se si volesse il veleno da portare appresso. Ma io non l’ho mai preso: non lo volevo il veleno sul corpo. Però ho una soglia del dolore piuttosto bassa. Mi chiedo ancora come avrei fatto. Tuttavia penso che rifarei la stessa scelta che feci allora.
Aldo Sodero
«Era bello dividere il pane bianco»
Cosa vi devo dire. Le storie sono quelle. C’era la miseria. Si andava a scavare le patate che crescevano selvatiche nei prati, la notte. Si riusciva a trovare un pezzo di pane bianco. Era un sogno per noi. Si portava in famiglia e si divideva fra tutti, nove persone per una pagnotta. Si facevano i chilometri in bicicletta per trovare qualcosa da mangiare, lo si metteva nei barattoli di vetro, si cascava dalla bicicletta e si doveva dividere con le mani il cibo dal vetro. Il momento era quello. L’ho raccontato a mia figlia. Ai miei nipotini di sei e sette anni, appena hanno avuto le orecchie per sentire una voce che non fosse quella della loro mamma. Lo racconto a voi, pur sapendo che certe cose non si possono capire. Erano tempi di scelte. Io ho scelto la parte giusta.
Nello Quartieri
«Niente celebrazioni ma solo amore»
L’importante è stato vivere per qualcosa, non come un’anima spenta. «Cercate di non fuggire dalla libertà», diceva qualcuno. Noi non siamo fuggiti. Non sono fuggiti i colti e gli ignoranti. E penso con intensità sempre maggiore, intanto che vedo arrivare la fine, a come i nostri contadini potessero combattere una battaglia senza aspettare ritorni fruttuosi, con la sola ambizione di ritornare a essere padroni a casa loro. E ritrovo con commozione i compagni persi nelle boscaglie, nei greti dei fiumi, nei nostri alti pascoli, nati poveri prima della Resistenza e morti poveri prima di poterne apprezzare i frutti. Se potessero parlare, direbbero: «Non vogliamo essere celebrati, ma amati». Guai a far naufragare la Resistenza nelle parole encomiastiche. Basterà dire, che un tempo lontano, c’erano dei giovani. E poi iniziare a raccontarla da quel punto. La Storia.
Un giorno di libertà tra memoria e voglia di cambiare
Chi ha combattutto nella Resistenza lo ha fatto per liberare l’Italia ma anche per inseguire il sogno di un futuro migliore Sta a ciascuno di noi riprendere quelle speranze. E realizzarle
di Carlo Smuraglia, Presidente nazionale ANPI (l’Unità, 25.04.2012)
Prima di tutto la memoria, perché un Paese che non ricordasse i suoi morti per la libertà e dimenticasse le pagine più gloriose della sua storia sarebbe condannato all’ignominia e al decadimento. Il ricordo, dunque, dei partigiani e dei soldati che combatterono in armi, dei militari che non si arresero ai tedeschi, dei contadini che aiutarono i combattenti, delle donne che fecero irruzione nella vita politica nazionale per battersi in favore della libertà, dei sacerdoti che aiutarono i partigiani e i militari, di tutti coloro insomma che hanno composto il grande quadro della Resistenza; tutto questo è prioritario, rispetto ad ogni altra cosa, perché è dovuto al loro sacrificio ma anche all’esempio che ci hanno dato di fierezza e di speranza. Quei combattenti che non anelavano soltanto alla libertà, ma volevano anche avviare la ricostruzione di un Paese distrutto, sui sentieri della democrazia. Ed è proprio alle loro speranze e ai loro sogni che oggi va dato il massimo tributo perché la memoria non sia formale e retorica, ma sia utile per capire e affrontare il presente e il futuro.
Viviamo in una fase difficile, di fronte a una crisi che non è temporanea ma strutturale, alle difficoltà di tante famiglie senza lavoro e senza un’adeguata sicurezza sociale, al lavoro “dimenticato”, alla dignità sepolta nei meandri del precariato, alle tante modestissime pensioni di vecchiaia, alla ricerca affannosa di accompagnare al necessario rigore quell’altrettanto necessaria equità senza la quale i sacrifici non possono essere accettati.
Una fase difficile, aggravata dal distacco dei cittadini dalla politica (che rischia sempre di trasformarsi in una pericolosissima “antipolitica”), dalla corruzione dilagante, dall’assalto della criminalità organizzata al nostro stesso sistema economico, dalle nostalgie di un passato che non può più tornare, dal degrado anche culturale che sta avviando, da tempo, il Paese su una china estremamente rischiosa. Una fase difficile anche perché alla rassegnazione e alla indifferenza si uniscono talora una protesta e un’indignazione, altrettanto pericolose se fini a se stesse, perché la storia ci insegna che certe derive portano facilmente a soluzioni populistiche e autoritarie, come ci dimostra in questi giorni, anche l’incredibile affermazione elettorale di un movimento di destra estrema in Francia.
In una fase come questa, ci si può affidare allo scoramento, alla caduta di ogni speranza, e perfino alla rassegnazione? Io credo che sarebbe cadere in un baratro senza ritorno. Non sta a me indicare le soluzioni e le alternative; perché non è questo il compito dell’Anpi, mentre lo è l’indicare la strada per “resistere” e avviare il Paese verso il riscatto, con un cambiamento deciso di rotta sul piano economico, politico e sociale.
Il fondamento di questo impegno si può trovare soltanto nel ricorso ai princìpi e ai valori della Costituzione che affondano le radici nella Resistenza che oggi ricordiamo. A quel rilancio di valori dobbiamo contribuire tutti, perché questa, solo questa, è la via della salvezza del Paese.
Per questo, oggi la Festa è e deve essere di tutti, perché al ricordo aggiungiamo il richiamo ai valori fondamentali che si riassumono in parole semplici (lavoro, dignità, uguaglianza, solidarietà) ma estremamente significative. Una festa di tutti. E sarebbe ora che tutti lo capissero, abbandonando i negazionismi e i revisionismi di sempre e mettendo finalmente da parte i troppi rigurgiti neofascisti (sono di ieri i manifesti che inneggiano alla Repubblica di Salò!), per riconoscersi finalmente in ciò che di grande è avvenuto nel nostro Paese, attraverso la ricostruzione dell’Unità nazionale, nella libertà, e l’apertura delle porte alla democrazia.
Rivolgo dunque, un invito fraterno e amichevole a tutti, cittadine e cittadini, donne e uomini di altri Paesi che si trovano in Italia, a raccogliersi, oggi, nelle piazze attorno alla Resistenza, alla Costituzione, ai valori di fondo che fanno del nostro Paese una vera Nazione. Un giorno di libertà e di festa, nel commosso ricordo dei caduti, volgendosi indietro con la memoria, ma con lo sguardo rivolto in avanti, proteso con la volontà e l’azione verso un futuro migliore.
Oggi come ieri i giovani devono vincere la sfida
Non abbiamo a che fare con una guerra perduta né con una dittatura fascista eppure il passaggio a cui siamo giunti è cruciale per l’avvenire della democrazia È necessario un grande rinnovamento, bisogna rialzare la testa come allora
di Alfredo Reichlin (l’Unità, 25.04.2012)
Sono passati quasi 70 anni una intera epoca storica dalla liberazione dell’Italia dalla dittatura fascista. Io ricordo bene quella giornata che segnò l’avvento di una nuova Italia. Un mondo soprattutto di giovani prendeva in mano il destino di un Paese coperto di macerie, ferito da migliaia di morti, umiliato dalla sconfitta in una guerra ingiusta e sciagurata, occupato da eserciti stranieri. È in queste condizioni che i grandi partiti popolari, i rappresentanti delle masse contadine ed operaie che fino allora erano state escluse dalla vita pubblica dello Stato post-risorgimentale, presero la guida dell’Italia e la portarono alla riscossa. In meno di dieci anni il Paese intero fu ricostruito, uscì dall’arretratezza del vecchio mondo contadino, diventò la quarta o la quinta potenza industriale del mondo, mandò i suoi ragazzi a scuola.
La spiegazione di questo autentico miracolo si fa presto a dirla. Fu la capacità di mobilitare le energie profonde del popolo italiano facendo appello a quella straordinaria risorsa che è la sua antica civiltà. Il popolo si sentì protagonista e i suoi diretti rappresentanti (non i sovrani o le classi dominanti, come era sempre avvenuto nel passato) scrissero un nuovo patto di cittadinanza, la Costituzione repubblicana, fondata sul lavoro e garante di nuovi diritti. Non solo l’uguaglianza di fronte alla legge ma nuovi diritti sociali. Insomma, costruirono uno Stato democratico avanzato, che è tale non solo perché consente la libertà di voto e di opinioni ma perché garantisce anche agli ultimi, alle classi subalterne, di organizzarsi e di pesare sulle decisioni pubbliche attraverso i propri strumenti di potere: i partiti politici, i sindacati, le associazioni volontarie.
Da allora è passato un secolo, un’epoca intera. Perciò appare davvero singolare che rievocando quell’antica vicenda, noi in realtà abbiamo netta la sensazione che stiamo parlando, sia pure in modi molto diversi, dei problemi di oggi. Perché? È evidente, per fortuna, che non abbiamo a che fare con una guerra perduta, né con una dittatura di tipo fascista. Eppure il passaggio a cui siamo giunti è molto aspro ed è cruciale per l’avvenire della democrazia repubblicana e per il futuro dei nostri figli. Si sta creando una miscela esplosiva tra una gravissima crisi economica che getta nella disperazione milioni di persone al punto che si moltiplicano i casi di suicidio e il fango gettato ossessivamente, ogni giorno e ogni ora sul Parlamento e sui partiti politici dipinti come tutti ladri e tutti uguali.
È sacrosanta l’indignazione per i fatti di corruzione. Ma è solo di questo che si tratta? Io vedo anche il tentativo di creare una grande confusione. Il Gattopardo. Quel libro famoso in cui si narra che di fronte alla caduta rovinosa del regno borbonico e all’arrivo di Garibaldi in Sicilia il vecchio principe spinge il nipote a sposare una popolana. Così faremo credere che tutto cambi affinché tutto resti come prima. È caduto Bossi? Avanti allora un altro: Beppe Grillo. Tanto sono tutti uguali. Il che non è vero affatto. L’Italia prima di Berlusconi è stata governata da ministri come Ciampi, Prodi, Andreatta, Amato, Giorgio Napolitano, tra i migliori e i più onesti della Repubblica. Dopo, per quasi dieci anni hanno governato Bossi, Berlusconi, Rosi Mauro e certe signore.
Io penso che da qui, da un lungo malgoverno che ha fatto del denaro e dell’egoismo sociale la misura di tutte le cose, viene la crisi anche morale dell’Italia. Come ne possiamo uscire? È evidente che senza una riforma profonda anche intellettuale e morale, l’Italia decadrà e non sarà più quella cosa meravigliosa che è stata nei secoli. Quale strada vogliamo imboccare? Vogliamo affidare ancora una volta il destino del Paese a un comico, a un altro avventuriero, a un altro miliardario che ha chiamato partito la sua azienda personale e si è comprato anche i deputati?
È necessario un grande e profondo rinnovamento. Ma senza i partiti veri con quali strutture di partecipazione democratica possiamo dare una risposta alla potenza inaudita della finanza speculativa e ridare il potere alla democrazia e al Parlamento invece che alle banche? Non dimentichiamo che il fenomeno più impressionante a cui stiamo assistendo è l’aumento della povertà, ma al tempo stesso della concentrazione della ricchezza in poche mani. Dobbiamo contrastare il predominio di un’aristocrazia planetaria del sapere, del potere e della ricchezza, a fronte di una massa di semplici consumatori, e più in basso ancora di esclusi, sia dal potere che dai consumi.
È con questi pensieri che io mi rivolgo ai giovani e li esorto a rialzare la testa, come fecero i giovani di allora dopo il fascismo per ritrovare l’orgoglio delle ragioni storiche dell’Italia nell’aspro scenario di lotte e di contraddizioni che sempre più segnano questo nostro mondo. Le elezioni francesi possono essere anche per noi una opportunità di cambiamento. Abbiamo tutti bisogno di un nuovo pensiero critico. Una critica, la cui radicalità non sta nella violenza e nel rifiuto di assumere responsabilità di governo, ma nel mettere in discussione i poteri reali che governano da sempre questo Paese.
Italia e giustizia sociale. Questa è la nostra bandiera, che dovremmo tenere più in alto e con più orgoglio. La loro era fino a ieri il patto tra Berlusconi e Bossi. Adesso è Grillo per l’Italia e la signora Le Pen per la Francia. Mi rattrista molto. Ciò che mi consola è che io, tanti anni fa, l’ho vista scappare molto impaurita questa classe dirigente inetta e trasformista. Aveva però di fronte un progetto di ricostruzione della nazione, che coinvolgeva anche forze non di sinistra.
25 Aprile scaccia populismo
di Bruno Gravagnuolo (l’Unità, 25.04.2012)
Ancora un 25 aprile, per fortuna. Dopo che in tutto questo dopoguerra la destra, con contorno di moderati terzisti, ha tentato di svilirlo. O di ridurne la portata. Ecco una sintesi di ciò che è stato in gioco. Di quel che è stato conquistato e che nei tempi mutati dobbiamo rilanciare. Primo: il 25 aprile segna la vittoria della Resistenza. Guerra di liberazione civile. Con l’accento su liberazione dal nazifascismo. Nonché dalla sua «guerra ai civili» terroristica che non riuscì a trascinare l’Italia in una vera guerra civile a fianco di Hitler e Mussolini.
Dunque vi fu anche guerra civile, ma fu «secondaria», a fronte della liberazione: civile, partigiana e coobelligerante con gli Angloamericani. E non vi furono due «patrie». Perché la stragrande maggioranza degli italiani in retrovia, in prima linea o in «zona grigia» voleva quella Liberazione. Questo con tutto il rispetto per i ragazzi di Salò e quant’altro: roba rifritta e scontata. Con la quale già Togliatti seppe fare i conti. Senza bisogno di Pansa, Mazzantini o De Felice.
Seconda conquista: dal 25 aprile vengono Costituzione e discontinuità antifascista iscritta nella prima. In guisa di Grund-Norm fondativa. Spartiacque simbolico non negoziabile, da cui tutto deriva. Dunque: frattura inaugurale e Repubblica democratica fondata sul lavoro. Una e indivisibile. Con requiem finale per le pagliacciate della Lega, assunte con fin troppa tolleranza culturale o sociologica (federalismo, «barbarie novatrice», costola della sinistra, etc., etc.). Infine, terza conquista: che «tipo» di Repubblica? Parlamentare, bicamerale, riformabile col 138 senza rimettere in questione i fondamenti. Tra cui, oltre al lavoro, i partiti, cuore della democrazia. Che il fascismo liquidò inneggiando a: «giovinezza», élites, tecnica, movimento vitale dal basso e legame capo-masse. Guarda caso...
di Paolo Flores d’Arcais (il Fatto, 25.04.2012)
L’antifascismo non è un optional. La convivenza civile si basa sulle leggi, le leggi sulla Costituzione, la Costituzione solo su un fatto storico che la legittima e che regge dunque l’intero ordinamento. Per l’Italia democratica questo fatto si chiama Resistenza antifascista. Se viene meno il riconoscimento della Resistenza crolla l’intero castello di legittimità. Per questo il 25 aprile è festa nazionale: perché l’identità del-l’Italia democratica, della nostra Patria, ha il suo ultimo fondamento nella vittoria della Resistenza antifascista, nella frase “Aldo dice 26x1”, con cui il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia dà l’ordine dell’insurrezione generale e i partigiani liberano le grandi città del nord da nazisti e fascisti prima dell’arrivo delle truppe alleate.
Patriottismo costituzionale a antifascismo fanno dunque tutt’uno. I funzionari pubblici che giurano sulla Costituzione compiono spergiuro ogni volta che non sono coerenti con i valori della Resistenza. E anche il semplice a-fascismo segnala drastica indigenza di patriottismo. Chi non è antifascista non è un autentico italiano. Chi poi è anti-antifascista è semplicemente un nemico della Patria.
Oggi purtroppo l’antifascismo è in minoranza, maggioritaria è la morta gora dell’indifferenza. I giovani nulla sanno dell’epopea della Resistenza a cui devono la libertà di cui godono. Colpa delle generazioni che avrebbero dovuto educarli, di un establishment che ha seppellito l’antifascismo nella retorica di celebrazioni bolse ed ipocrite, o peggio. I governi democristiani, da perfetti sepolcri imbiancati, commemoravano il 25 aprile mentre trescavano con ogni risma di neofascisti e rottami repubblichini. Il regime berlusconiano ha voluto azzerare ogni memoria antifascista, portando “risma e rottami” al governo, in un progetto coerente di sovversione della Costituzione. La nostra convivenza civile poggia oggi sul vuoto. Ricostruire quel supremo “bene comune” che è l’identità della Patria repubblicana è perciò un compito morale, culturale e politico prioritario e di lunga lena. Che deve bandire la retorica, restituire ai giovani l’epos di rivolta che è stata la Resistenza e sopratutto la sua attualità in ogni lotta odierna per “giustizia e libertà”.
Le mille bandiere dei partigiani. Il valore dell’unità nella Resistenza
di Aldo Cazzullo (Corriere, 25.04.2012)
Colpisce, nelle rituali e ormai stucchevoli polemiche sul 25 Aprile, il riproporsi dell’antico riflesso ideologico: destra contro sinistra, difensori dei ragazzi di Salò contro fazzoletti rossi e Bella Ciao. Ma la Resistenza non è una cosa di sinistra. Non è patrimonio di una fazione, neppure di quella che talora se n’è impossessata nel dopoguerra; è patrimonio della nazione.
La Resistenza non è solo Bella Ciao (che peraltro un capo partigiano come Giorgio Bocca non aveva mai sentito cantare in tutta la guerra di liberazione). Non fu fatta solo dalle Brigate Garibaldi. La Resistenza fu fatta dai militari, come i fucilati di Cefalonia, che per primi presero le armi contro i nazisti. Fu fatta dai carabinieri come Salvo D’Acquisto, che si fece uccidere con un gesto nobilissimo per evitare la rappresaglia per un attentato che non aveva commesso. Fu fatta dai monarchici come il colonnello Montezemolo, cui a via Tasso vennero strappati i denti, le unghie, ma non un solo nome dei compagni, prima della morte alle Ardeatine. Fu fatta dai sacerdoti come don Ferrante Bagiardi, che quando vide i nazisti fucilare 82 suoi parrocchiani scelse di morire con loro dicendo: «Vi accompagno io davanti al Signore». Fu fatta dagli alpini come Maggiorino Marcellin, che restituiva i corpi degli Alpenjäger con un biglietto «da un alpino italiano a un alpino tedesco». Fu fatta dalle donne e dai civili. Dai valdesi come Willy Jervis, dagli ebrei come Leone Ginzburg, dai cattolici come Ignazio Vian, il primo a salire sulle montagne sopra Boves: non un bolscevico, un tenente delle guardie di frontiera e militante della Federazione universitari cattolici, un amico di Moro e Andreotti; i nazifascisti lo impiccarono a un ippocastano davanti alla caserma di Torino.
E la Resistenza fu fatta anche dai comunisti. Che - si sente ripetere - non volevano la libertà ma un’altra dittatura. Argomento perfetto per la polemica politica attuale. Privo di senso quando c’era da decidere da che parte stare, con o contro i nazisti, con o contro coloro che portavano gli ebrei italiani ad Auschwitz. La pietà dovuta a tutte le vittime, e l’umana comprensione per i giovani che andarono a Salò credendo in buona fede di servire l’Italia, non possono cancellare quella che in tutti i Paesi occupati dai nazisti è un’ovvietà, tranne che nel nostro: in quella guerra c’erano una parte giusta e una parte sbagliata.
Certo, la Resistenza fu fatta da uomini. E gli uomini commettono errori, talvolta crimini. La Resistenza ha avuto le sue pagine nere, e per troppo tempo se n’è parlato troppo poco. Generazioni di italiani sono cresciute senza aver sentito parlare del triangolo della morte, di Porzûs, di Basovizza. Ma il rischio è che oggi i giovani non abbiano mai sentito parlare neppure di Marzabotto, di Sant’Anna di Stazzema, della Benedicta, dei fucilati del Martinetto, dove fu eliminato il comitato di liberazione del Piemonte, sorpreso mentre era riunito non in una sezione del Pci, ma nella sacrestia del Duomo. Tra loro c’era un solo comunista, un operaio amico di Gramsci, Eusebio Giambone. Gli altri erano avvocati e militari: il tenente Geuna, il capitano Balbis, il colonnello Braccini, il generale Perotti, che era di Carrù, il paese dov’è nato Luigi Einaudi. Se in tutte le scuole si leggesse la lettera in cui Perotti dice addio alla moglie, raccomandandole di risposarsi per crescere i tre figli e pregandola di ricordare loro il suo sacrificio per la patria e per la libertà, di polemiche sul 25 Aprile tra qualche anno non ce ne sarebbero più.
Miriam Mafai
Così "Pane nero" racconta la resistenza delle donne
Quando gli uomini sono partiti per il fronte molte ragazze hanno scoperto la libertà
di Franco Marcoaldi (la Repubblica, 25.04.2012)
Sono trascorse appena due settimane dalla morte di Miriam Mafai e oggi i tanti, tantissimi lettori che per decenni l’hanno seguita dalle colonne di questo giornale, avranno modo di riaccostare la sua indimenticabile figura leggendo Pane nero, che esce allegato al quotidiano. In una data nient’affatto casuale: giusto quel 25 aprile, ricorrenza della liberazione dal nazi-fascismo, su cui il libro chiude il suo racconto di guerra. Anche se poi la guerra Miriam la racconta a modo suo, ed è un modo davvero speciale. Le protagoniste di questo lungo viaggio dal ’40 al ’45, assieme tragico e avventuroso, si chiamano Bianca, Marisa, Zita, Lela, Adriana, Carla, Silvia, Lucia... E l’autrice del libro ne raccoglie le voci intessendole tra loro per dare forma a un coro tutto femminile, dove finalmente assume la parola chi, sotto la pressione di quella terribile contingenza storica, si trovò a prendere in mano, per la prima volta, il proprio destino.
L’intento del libro è chiarito da subito, nelle pagine introduttive. Tra le diverse "coreute" c’è chi, una volta scoppiato il conflitto, finisce col guidare il tram e chi per fare la postina, chi organizza scioperi in fabbrica e chi assalta i forni, chi crede fino in fondo nella vittoria di Hitler e Mussolini e chi fa la staffetta partigiana. Eppure, annota la scrittrice, nelle differenti testimonianze una frase continua a riecheggiare: «...Però, è stato bello». Come spiegarsi un’affermazione tanto insolita, stridente? «Forse perché ognuna di noi divenne, nel pericolo e nella miseria, più padrona di se stessa».
Se la guerra scardina ogni ordine, nello smottamento va compresa anche la rigida fissità dei ruoli sessuali. È da questa particolare prospettiva che prende le mosse il racconto di Pane nero: incalzante, turbinoso, drammatico. Ma non privo, a tratti, di annotazioni più leggere. Perché la guerra, oltre ad essere bestiale, è anche sommamente ingiusta. E accanto a fame, freddo e morte, lascia spazio per le feste, il lusso, il gioco d’azzardo - almeno per alcuni. L’occhio di Miriam è troppo curioso e smagato per non darne conto. Il quadro deve essere quanto più possibile completo, veritiero. E così è, grazie a una scrittura che combina al meglio l’immediatezza del reportage giornalistico, la puntualità del saggio storico e il respiro del "romanzo" collettivo. Pagina dopo pagina, il lettore rimane inchiodato a una vicenda che lo coinvolge con i suoi orrori e le sue efferatezze, ma anche con i mille slanci di coraggio, riscatto civile, solidarietà umana, nuova consapevolezza politica. Refrattaria a qualunque retorica e sentimentalismo, proprio per questo Miriam Mafai riesce a restituire appieno il pathos individuale e collettivo che anima quel cruciale passaggio storico. Senza dimenticare mai il suo peculiare punto di osservazione.
Quando, all’inizio del conflitto, sono partiti per il fronte padri, mariti e fratelli, le donne hanno scoperto con sgomento il senso di una nuova libertà. Costrette dagli eventi ad abbandonare il vecchio ruolo di madri e mogli esemplari, si sono trovate per la prima volta in mare aperto. E si sono inventate nuovi lavori, hanno combattuto con le unghie e con i denti per rimediare un po’ di cibo, hanno offerto ospitalità agli sbandati e ricoperto pericolosi incarichi nella guerra partigiana. Ma ora che le ostilità sono cessate, tutti, da destra e da sinistra, raccomandano di tornare all’ordine: «siate miti, siate dolci, siate sottomesse». La «trasgressione» legittimata dalla guerra viene negata, a favore del restauro di un’immagine convenzionale. Ma le donne non saranno mai più quelle di prima. Anche grazie a libri come questo, scritto affinché nella memoria collettiva resti traccia di quel momento di protagonismo femminile.