Se la corruzione svuota la democrazia
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 16.05.2010)
Mentre la marea della corruzione monta come un oceano in tempesta, il presidente del Consiglio promette che i singoli responsabili pagheranno per gli errori, che le mele marce verranno selezionate e scartate. E così tutto potrà continuare come prima. Ma si tratta di una rassicurazione che non rassicura poiché più i giorni passano più appare chiaro che qui non si tratta di casi individuali ma di una rete nazionale di illecito, di un vero e proprio sistema di arricchimento alimentato e coperto anche da norme specifiche, come quella sulla Protezione Civile. In aggiunta c’è che questo è un tempo di crisi economica grave, e la corruzione, il furto delle risorse pubbliche, sono un delitto se possibile ancora più grave.
Non ci sono ancora dati statistici capaci di confermare la relazione diretta tra regime democratico e sviluppo economico; quella stabilita dagli studiosi è solo una relazione indiretta. Ci sono invece dati certi sulla relazione, diretta, tra corruzione e sviluppo economico o benessere generale. La triangolazione di questi tre fattori - democrazia, sana politica, sviluppo economico - è uno dei temi più studiati e anche quello che ci offre molti interessanti argomenti per contestare la favola delle mele marce. Detto a rovescio, è provato che indirettamente la democrazia serve a mitigare gli effetti economici negativi della corruzione. La prima e fondamentale ragione di questa "utilità" della democrazia sta nel fatto che il meccanismo elettorale consente ai cittadini di mandare a casa i politici corrotti (se un paese dovesse affidarsi solo ai tribunali, non avrebbe una società civile efficiente e libera).
In buona sostanza, è l’effetto di deterrenza delle elezioni che dovrebbe riuscire a tenere sotto controllo i politici, ed è la sconfitta elettorale la punizione più efficace (proprio perché, come si vede, gli uomini di potere tendono a non volersene andare spontaneamente). Molto più chiara è la relazione tra salute politica e sviluppo economico. Detto a rovescio, la corruzione politica ha effetti diretti di impoverimento della società.
Perché corruzione e impoverimento vanno insieme? La risposta ci viene dalla natura stessa della corruzione. La corruzione è "l’abuso dei pubblici uffici o delle funzioni pubbliche per scopo di arricchimento" di privati o/e di gruppi. L’obolo offerto in vista di un calcolato guadagno dagli uomini d’affari ai politici può andare sia nelle tasche di un singolo ministro sia in quelle di un partito. La corruzione per il partito (che comunque non riguarda questo nuovo sistema di illecito) è corruzione. La natura del fatto non cambia con l’identità dell’«utilizzatore finale». La necessità che ha di celarsi alla legge e all’informazione qualifica la corruzione come una gravissima violazione di tutti principi, non solo quelli morali, etici, giuridici e politici, ma anche quelli economici. E veniamo così alla relazione diretta tra corruzione e impoverimento.
Lo scambio di favori - sul quale si raccontano casi tra i più bizzarri in questi giorni - agevola privati che operano nell’impresa, in quella delle costruzioni o industriale, commerciale o dei servizi. L’impresa del signor Anemone ha fatto grandi affari con i politici italiani in barba alle regole della libera competizione. Come un baro, il corruttore trucca il gioco e si arricchisce con e a spese di tre cose: il denaro dei contribuenti, le leggi e le norme, i potenziali competitori.
Prestando attenzione a questa terna (fatale in tutti casi di corruzione) si intuiscono gli effetti devastanti che la corruzione ha sull’economia di un paese. E siccome nel caso della corruzione il danno è sempre fatto a tutte e tre insieme le vittime (le finanze dello stato, le leggi, il mercato) risulta evidente che davvero la corruzione deturpa la società democratica impoverendo l’intera società.
Impoverisce per l’ovvia ragione che si alimenta con i soldi che sono di tutti e che violando la trasparenza delle regole (per esempio quelle per l’attribuzione di appalti nelle Grandi opere o nei lavori pubblici ordinari) fa saltare il principio che presiede al contenimento dei costi: competenza su un piede di parità.
La corruzione è un caso vero e proprio di attentato monopolistico all’economica di mercato. E una delle conseguenze perverse di questa turbativa delle buone pratiche è che gli imprenditori, sapendolo, si premuniscono in anticipo e si preparano a fare quello che fan tutti. Ecco spiegata la ragione per la quale la storia delle "mele marce" è una favola: la corruzione deve farsi sistema per avere successo; deve essere messa in conto da tutte le imprese che vogliono lavorare per il pubblico.
L’effetto escalation della corruzione - e la prova che la storia delle mele marce è una favola per gli stupidi - è molto ben descritto da queste parole usate da due studiosi (Shleifer e Vishny) a proposito del paese governato da Vladimir Putin: «Per investire in una compagnia russa, uno straniero deve corrompere ogni agenzia coinvolta nella transazione, inclusi il ministero degli esteri, quello dell’industria e dello sviluppo economico, quello delle finanze, il governo locale dell’area dove avverrà l’investimento, la banca centrale, l’ufficio centrale delle opere pubbliche e così via. L’ovvio risultato è che gli stranieri non investono in Russia». E qui siamo nella perfetta condizione di impoverimento generale a causa dell’arricchimento di pochi o pochissimi per vie illecite. Gli impoveriti non fanno notizia. Ne farebbero, e farebbero un gran rumore, se la democrazia funzionasse. E qui veniamo al punto: la democrazia ha le regole adatte per disincentivare la corruzione mandando a casa i politici corrotti. C’è da pensare, proprio perché questo teorema è noto a chiunque, che chi vive di corruzione non ami la democrazia e voglia fare di tutto per imbavagliarne la voce libera e pubblica. Questa è una storia di casa nostra.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Il bavaglio ai lavoratori e alle lavoratrici *
Il direttore dell’ufficio scolastico regionale dell’Emilia Romagna ritiene che i lavoratori e le lavoratrici della scuola non possano esprimere a mezzo stampa "posizioni critiche" nei confronti di un Governo che sta smantellando, con tagli indiscriminati, la scuola pubblica e ancora, ritiene "improprio" che gli stessi lavoratori indirizzino ad alte autorità politiche appelli, richieste od altro per rappresentare la gravità della situazione. Questo è quanto si legge in una nota riservata dell’USR Emilia Romagna.
Questa comunicazione è inaccettabile e illegittima.
Rappresenta una gravissima lesione alla libertà di manifestazione del pensiero e il tentativo di mettere il bavaglio alle legittime proteste dei lavoratori e delle lavoratrici della scuola, tra l’altro alla vigilia di una manovra che si prefigura pesantissima per l’occupazione e le retribuzioni dei dipendenti pubblici.
L’unica risposta che attendiamo è il ritiro immediato della nota e le dimissioni del direttore dell’Ufficio scolastico regionale dell’Emilia Romagna.
* Conoscenzanews - Edizione Scuola, n. 13 del 24 maggio 2010
Difesa di casta
di MARIO CALABRESI (La Stampa, 24/5/2010)
Molti lettori nell’ultimo anno hanno espresso il loro disagio di fronte alle centinaia di pagine di colloqui privati, telefonate e messaggi intercettati dalla magistratura e finiti in tempo quasi reale sui giornali. Penso alle liste piene di nomi, pubblicate senza distinzioni di ruoli e responsabilità, o ai dialoghi privati riprodotti senza chiarire i necessari contesti di riferimento. Penso, per esempio, alle intercettazioni riguardanti le inclinazioni sessuali dell’inquisito Angelo Balducci, che nulla hanno a che fare con l’inchiesta che ha smascherato gli affari della «cricca» dei lavori pubblici, ma che sono state passate ai quotidiani e sono finite direttamente nelle case degli italiani. Un’anomalia, di cui parla in modo esaustivo Luca Ricolfi nell’articolo che trovate qui sotto. Un’anomalia che avremmo dovuto affrontare da tempo.
L’idea che l’Italia si sia trasformata in una società di guardoni, incollati allo spioncino delle procure in attesa di una nuova rivelazione, mi inquieta. Da mesi ne discutiamo in questa redazione, cercando di darci dei limiti quando la sera, nella fretta della chiusura, ci troviamo di fronte a centinaia di pagine di verbali e intercettazioni. Pensiamo che si debba pubblicare solo ciò che è significativo per far comprendere un’inchiesta, illuminante per i lettori.
Resto convinto che in uno Stato di diritto e in una democrazia sana spetti alla magistratura la valutazione degli indizi e delle prove e che debbano essere i tribunali e non i giornali a emettere le sentenze. L’idea di una giustizia sommaria somministrata sull’onda delle emozioni e dell’indignazione è qualcosa che mi ha sempre fatto paura e che in passato ha fatto danni che non si dimenticano. Sarebbe il tempo di aprire una discussione vera e approfondita sul rispetto della privacy, dei diritti degli inquisiti e sulla tutela che andrebbe garantita a chi finisce suo malgrado in un’inchiesta senza averne colpa.
Si potrebbe allora dire che la legge in discussione al Senato arriva al momento opportuno. Purtroppo non è così, anzi accade il contrario: il disegno di legge sulle intercettazioni è così palesemente sproporzionato e ha un sapore talmente vendicativo da risultare inaccettabile e da soffocare ogni possibilità di riflessione. Nei mesi in cui riemergono prepotentemente la corruzione e gli intrecci tra la politica e gli affari e in cui la nostra classe dirigente mostra il suo volto più arrogante e spregiudicato, la nuova legge suona come l’estremo rimedio per coprire l’illegalità e garantire impunità.
Non si capisce come siano collegate la necessità di offrire maggiore privacy e vere garanzie agli indagati con la limitazione dei tempi delle intercettazioni o l’obbligo che per autorizzarle ci voglia un collegio formato da tre magistrati. Rendere più faticosa, farraginosa e intempestiva la possibilità di intercettare va nella direzione di indagini più serene e rispettose o finisce per essere un favore a chi delinque? Prima ancora del diritto di informazione mi sta a cuore la possibilità che la magistratura possa continuare ad indagare a fondo, sia messa nelle condizioni di operare senza inciampi. Perché se anche fossimo liberi di pubblicare ogni atto e ogni intercettazione ma ai pubblici ministeri fosse impedito di lavorare, allora mi chiedo cosa ci resterebbe da raccontare.
Se il problema invece è quello di evitare di pubblicare le trascrizioni di telefonate di persone che non sono coinvolte nelle indagini o se è importante tutelare il segreto istruttorio, perché allora vietare anche di dare notizia degli atti di indagine (anche sotto forma di riassunto) fino al rinvio a giudizio degli indagati? È surreale pensare che si debba dare notizia di un arresto ma non si possa spiegare ai lettori perché quella persona è stata arrestata. La legge in discussione prevede poi, in caso di violazione, di non condannare tanto i giornalisti quanto gli editori con multe che arrivano a sfiorare il mezzo milione di euro. Una mossa odiosa e subdola che punta a spaccare le aziende editoriali e a terrorizzarle in tempi di crisi economica, oltre che a demandare non ai direttori ma agli amministratori il controllo su ciò che si pubblica.
È tempo che i giornali e i giornalisti tornino a fare inchieste senza aspettare di essere imboccati dagli inquirenti e senza diventare ogni settimana il megafono di una diversa procura. Che si rifletta su ciò che è corretto pubblicare smettendo di giocare a chi rivela un particolare più degli altri anche se questo non aggiunge nulla ma anzi può distruggere qualcuno.
È ora che il Parlamento abbia un sussulto e ripensi ad una legge che avrebbe effetti devastanti sulle inchieste.
È chiaro che questa legge ha poco a che fare con le preoccupazioni dei lettori e le sensibilità ferite di cui parlavo prima, mentre ha molto a che fare con una difesa corporativa e di casta. Ma non della casta dei giornalisti, quanto di quella dei politici.
Una lezione di democrazia
di Federico Rampini (la Repubblica, 22.05.2010)
NEW YORK - Non è interferenza, ma un messaggio chiaro dagli Stati Uniti sullo Stato di diritto, il senso delle regole, il ruolo essenziale della magistratura. «Nessuna norma ostacoli l’ottimo lavoro dei magistrati italiani, le intercettazioni telefoniche sono uno strumento essenziale delle loro indagini». Il sottosegretario alla Giustizia Lanny Breuer soppesa bene le sue parole, parlando alla commemorazione di Giovanni Falcone. Breuer è un uomo chiave nella collaborazione tra i due paesi su terreni strategici della sicurezza: la lotta alla mafia e al terrorismo internazionale. «Niente - dice l’esponente dell’Amministrazione Obama - deve impedire ai magistrati italiani di continuare la missione svolta finora». Responsabile del Dipartimento penale, Breuer non è uno sprovveduto, non è un marziano sbarcato in Italia senza informazioni sulla situazione della giustizia.
Nel bel mezzo della battaglia sulle intercettazioni, con il tentativo di mettere il bavaglio alla stampa, la sua uscita provoca naturalmente dei contraccolpi a Washington. Tutti italiani. Si muovono il nostro ministero degli Esteri, e quello della Giustizia: per ottenere il più rapidamente una smentita delle parole di Breuer. Per evitare l’impressione che l’Amministrazione Obama sconfessi l’attacco alle intercettazioni e all’informazione, le telefonate da Roma a Washington sono roventi.
L’unica cosa che il governo Berlusconi ottiene è una nota dell’Ambasciata Usa a Roma. Che non smentisce né corregge le parole di Breuer ma si limita a precisarne il contesto: «Ha elogiato la collaborazione tra le giustizie dei due paesi». Un intervento quasi sibillino: per tutto ciò che non dice, e per la forza con cui ribadisce il sostegno ai magistrati italiani.
A Washington le bocche sono cucite, solo "off-the-record" e a condizione di non citare le fonti, si può ricostruire il retroscena dell’evento. Mancano solo tre giorni all’arrivo qui del presidente Giorgio Napolitano: incontrerà Barack Obama e la Speaker of the House, Nancy Pelosi. Mai come in questo momento i responsabili della politica estera americana sono aggiornati su quanto accade in Italia: nessuna sfumatura dello scontro sulla giustizia sfugge a chi sta preparando sul versante Usa il summit Obama-Napolitano. Sanno di doversi muovere su un sentiero strettissimo, in un equilibrio delicato e precario. «Il governo italiano è un alleato prezioso degli Stati Uniti, nell’impegno comune in Afghanistan l’Italia ha versato ancora di recente un pesante tributo di sangue». Alla Casa Bianca e al Pentagono non si vuole mettere a repentaglio la cooperazione su quel fronte strategico, dov’è in corso l’escalation militare e si prepara la grande offensiva su Helmand.
E tuttavia questa è un’Amministrazione i cui valori sono chiari. Mai come ora c’è stato nelle stanze del potere di Washington un "clan italo-americano" schierato tutto a sinistra. Nancy Pelosi, l’ultraprogressista di San Francisco che è la seconda autorità del partito democratico dopo il presidente. Janet Napolitano, superministro degli Interni alla Homeland Security. Leon Panetta capo della Cia. E poi l’uomo dei programmi, John Podesta che dirige il Center for American Progress, il think tank di riferimento di Obama, il cui manifesto riformista uscirà tra breve alle edizioni del Mulino.
È una squadra che ha una conoscenza dell’Italia del tutto insolita per la classe dirigente americana. E i cui valori sono molto vicini, come si ribadisce nell’entourage di Nancy Pelosi, a quelli di Giorgio Napolitano. Nessuna smentita quindi alle parole di Breuer, che esprimono una cultura del diritto e della trasparenza, una scelta di civiltà prima ancora che un’ideologia. È la trasparenza che, per una coincidenza singolare, veniva esaltata proprio ieri da un editoriale del New York Times, il giornale di riferimento del partito democratico Usa. L’editoriale s’intitola: «Un’informazione completa nelle aule di giustizia». Commenta la sentenza della Corte suprema del New Jersey che ha ribadito il diritto di accesso della pubblica opinione americana, attraverso i giornali, a «tutte le istruttorie giudiziarie, anche quando non arrivino fino ad avere pubblicità nel dibattimento in tribunale». Trionfa la Costituzione, «i cittadini non possono essere all’oscuro sulle indagini di rilevanza pubblica». Dixit il New York Times, e la Corte suprema del New Jersey.
ISTITUZIONI
Napolitano, monito al governo
"Il Parlamento è compresso"
Il capo dello Stato accompagna la firma della legge incentivi con una lettera al presidente del Senato e ai presidenti del Consiglio e della Camera. I contenuti del decreto, scrive il presidente della Repubblica, modificati "nel corso dell’iter di conversione". "Basta fiducia su maxiemendamenti". "A rischio equlibri costituzionali". "Firmo solo per la lotta all’evasione" *
ROMA - Nuovo, duro richiamo di Napolitano all’esecutivo. Il presidente della Repubblica ha accompagnato la firma al dl incentivi con una lettera indirizzata al presidente del Consiglio e a quelli di Camera e Senato, con al quale mette nero su bianco i rilievi alle modalità dell’iter di conversione. Un modo per ribadire tutte le sue perplessità sull’alterazione degli equilibri e delle prerogative degli organi costituzionali. Nella lettera, Napolitano sottolinea di aver apposto la sua firma sul decreto per evitare la decadenza di "disposizioni di indubbia utilità", come quelle relative al contrasto dell’evasione fiscale e al reperimento di nuove risorse finanziarie. Appena ricevuta la lettera, il presidente del Senato, Renato Schifani, ne ha trasmesso copia ai presidenti dei Gruppi parlamentari di Palazzo Madama.
Scrive Napolitano che "il decreto legge, che nella sua formulazione originaria conteneva disposizioni riguardanti esclusivamente la repressione delle frodi fiscali, la riscossione tributaria e incentivi al sostegno della domanda e delle imprese, nel corso dell’iter di conversione è stato profondamente modificato, anche mediante l’inserimento di numerose disposizioni estranee ai contenuti del decreto e tra loro eterogenee".
Tale tecnica, ricorda il capo dello Stato, è stata "criticata" sia da lui che dai suoi predecessori. Napolitano dice dunque ancora una volta "no" ai maxiemendamenti approvati con il voto di fiducia che ampliano il contenuto originario dei decreti legge. Tale procedura, sottolinea il capo dello Stato, incide negativamente "sulla qualità della legislazione" ed elude "la valutazione spettante al presidente della Repubblica in vista della emanazione" dei provvedimenti d’urgenza del governo. Inoltre, "si realizza una pesante compressione del ruolo del Parlamento, specialmente allorché l’esame da parte delle Camere si svolga con il particolare procedimento e nei termini tassativamente previsti dalla Costituzione per la conversione in legge dei decreti".
Fin quando non intervengano eventuali modifiche alla prassi e alle norme vigenti, "si impone un richiamo al senso di responsabilità del Governo e del Parlamento - aggiunge Napolitano -, in particolare dei gruppi di maggioranza, affinché non si alterino gli equilibri costituzionali per quel che riguarda i criteri per l’adozione dei decreti-legge e i caratteri di omogeneità che ne devono contrassegnare i contenuti, nonché sotto il profilo dell’esercizio delle prerogative del presidente della Repubblica".
Il presidente della Repubblica confida che "Parlamento e governo converranno sulla fondatezza dei rilievi di carattere generale che ho ritenuto di sottoporre alla loro attenzione, nonché di quelli concernenti specifiche disposizioni del provvedimento da me oggi promulgato, anche apportando, nei modi opportuni, possibili correzioni".
* la Repubblica, 22 maggio 2010
La prova del sistema
di MASSIMO GIANNINI *
Al culmine dello scandalo che colpisce il governo, nel turbine di appalti truccati e case regalate, tasse evase e favori sessuali che coinvolge ministri e grand commis, Berlusconi prova a uscire dall’angolo con una mossa che ricorda il Craxi della prima Tangentopoli. Come il Mario Chiesa del ’92, "mariuolo" indipendente e solitario, anche gli Scajola e i Verdini di oggi sarebbero dunque "casi personali e isolati, che nulla hanno a che vedere con l’attività del governo e del partito". La "dottrina Berlusconi", affidata ancora una volta alle premurose cure di un Bruno Vespa ormai unico "biografo" accreditato dal Palazzo, non sta in piedi da nessun punto di vista. Né etico, né politico.
Al di là delle retromarce e delle precisazioni successive, la tesi del Cavaliere è "tecnicamente" risibile.
L’intenzione è chiara: il premier, nell’illusione di mettere in sicurezza l’esecutivo e il Pdl, non nega gli addebiti al vaglio della magistratura, ma li scarica sui singoli espungendoli dagli organismi collettivi. Ma la spiegazione non regge: qui non stiamo parlando dell’oscuro assessore di un comune dell’hinterland milanese. Finora nelle inchieste delle Procure di mezza Italia sono coinvolti, nell’ordine: un ex ministro (Lunardi), un ministro dimesso (Scajola), un ministro in carica (Matteoli), un sottosegretario con delega alla Protezione Civile e ai Grandi Eventi (Bertolaso), un nutrito drappello di servitori dello Stato (dal direttore generale dei Lavori Pubblici Balducci al capostruttura del ministero delle Infrastrutture Incalza), uno dei tre coordinatori del partito di maggioranza (Verdini). Di fronte a questo "apparato", fatto di uomini e di incarichi, è difficile parlare di "casi isolati". Ed è impossibile non vedere l’elemento "di sistema" che, nella zona grigia in cui si mischiano politica ed economia, può trasformare un episodio in un metodo, e un gruppo di persone in un comitato d’affari.
Per questo la tesi del Cavaliere è anche politicamente inaccettabile. La giustizia deve fare il suo corso. Le responsabilità penali, personali, dovranno essere accertate. Ma le responsabilità politiche, collegiali, sono già sotto gli occhi di tutti. Si può far finta di non vederle. Si può, manzonianamente, continuare a troncare e a sopire, ripetendo come un esorcismo che "questa non è una nuova Tangentopoli". Ma sapere che oggi si ruba per se stessi e non per il partito (ammesso che sia vero) non può e non deve consolare nessuno. Questi scandali producono comunque una profonda alterazione alle regole del gioco democratico e del libero mercato. E di questo Berlusconi, che si fregia tuttora di aver portato in politica "una nuova visione morale", non può non rispondere.
m.giannini@repubblica.it
* la Repubblica, 21 maggio 2010
Intervista Marco Bellocchio
«In questa povera Italia la dittatura è ormai interna alla stessa democrazia»
Il regista Dopo la sua «Lezione di cinema» non riesce a non parlare di politica e tagli alla cultura. E racconta anche del suo nuovo film familiare «Sorelle»
La crisi. «Chiedono ancora sacrifici alle classi più deboli mentre loro si tolgono il 5%: ridicolo, dovrebbero togliersi il 50%»
I progetti. «La cronaca offre infiniti spunti: il caso Englaro, i finti ciechi che chiedono la licenza per il taxi, il museo con una sola visitatrice...»
di Gabriella Gallozzi (l’Unità, 20.05.2010)
Guardate la finanziaria: chiedono ancora sacrifici alle classi più deboli mentre loro si tolgono il 5%. È quasi più ridicolo che vergognoso. E tutto questo di fronte agli operai in cassa integrazione. Ma come? Viviamo nella società dell’immagine, no?! Allora dicessero: eccovi il 50% dei nostri stipendi così guadagnerebbero almeno un po’ di dignità...».
Neanche da Cannes è facile parlare di cinema per Marco Bellocchio. Le «urgenze italiane» travolgono tutto. Soprattutto qui sulla Croisette dove ancora risuona l’eco delle polemche di Bondi sul caso Draquila. A distanza di un anno da Vincere, Bellocchio fa ritorno al festival per tenere la sua lezione di cinema davanti ad una platea osannante. Forse un «risarcimento», commenta, o meglio «un riconoscimento» per il suo film su Mussolini che, l’anno passato, uscì a bocca asciutta dal concorso. Ma che la sua rivincita l’ha avuta in seguito nelle sale francesi, nelle critiche entusiaste, nelle vendite in tutto il mondo e, l’ultima, nella vittoria a sorpresa dei David di Donatello.
Il tema del suo film, del resto, è ancora così attuale non solo nell’Italia di Berlusconi, ma anche nell’Europa che svolta sempre più verso l’autoritarismo.
«Certo dice Bellocchio la situazione di smarrimento di oggi non è paragonabile a quella del ’22, ma è vero che l’attuale maggioranza lavora molto sulla paura, alla quale contrappone l’uomo forte, decisionista, autoritario. Berlusconi con la tv arriva dappertutto. È il grande fratello. A questo punto non c’è bisogno della dittatura militare: è interna alla stessa democrazia».
Come spiegare tutto questo all’estero?
«Gli stranieri si stupiscono della situazione italiana continua Bellocchio -. Eppure Silvio Berlusconi non è un usurpatore, ma è stato votato dalla maggioranza del Paese. Bisognerebbe, piuttosto riflettere sull’atteggiamento della sinistra nei suoi confronti, su questo costante attacco frontale... Se l’obiettivo era scavalcare il cavaliere il tentativo è fallito completamente. Se il mio Vincere l’avessi intitolato Perdere sono sicuro che la sinistra sarebbe stata più contenta».
Il problema dell’opposizione, prosegue il regista, «è l’incapacità di articolare delle alternative. Siamo stati delusi dalla destra e pure dalla sinistra. Ma soprattutto da quest’ultima. Da Bondi certe cose me l’aspetto, non mi offende neanche, è semplicemente inadeguato al suo ruolo. La sinistra però... Penso alla riconferma di Alberoni al Centro sperimentale, per esempio. Non ho niente contro di lui, ma certamente non è uomo di cinema. Eppure è stato Rutelli a rinnovare il suo mandato. Ecco, ho come l’impressione che, al di là della politica, tutto sia deciso tra amici».
Si è toccato davvero il fondo rincara Bellocchio.
«E seppure non credo che la Lega conquisterà l’Italia, penso che sia vera la frase tanto di moda «il Pd non ha più la capacità di stare sul territorio». Dovrebbe piuttosto sforzarsi di cambiare davvero al suo interno: per gli ex non c’è futuro. Ci vuole una classe dirigente nuova che col Pci non abbia più niente a che vedere».
Invece ci si continua dividere. Mentre gli attacchi, dall’altra parte si fanno sempre più pesanti.
«Brunetta insulta dandoci dei ladri, dei parassiti, convincendo le persone che la cultura non serve a nulla. Nei confronti del cinema, poi, ancora peggio: pensano che quello italiano sia comunista e quindi via, lo rigettano completamente», coi drastici tagli al Fus che sappiamo. Da soli, però «non si va da nessuna parte», dice Bellocchio. «Serve unità, per ricompattare tutto il mondo della cultura, senza ricorrere agli slogan di un tempo che non hanno portato a nulla. Per questo ho aderito al movimento dei Centoautori. Non è piu tempo di barricate, ma come dice Carla Fracci solo l’unione fa la forza. Bisogna rafforzare l’unità nel rispetto delle diseguaglianze e trovare un punto comune».
Puntando ciascuno sulla qualità del proprio lavoro. Come Bellocchio ha sempre fatto, del resto.
«A me prosegue non mi interessa l’invettiva, la polemica diretta, la derisione ad personam. Si può fare, certamente, contro Berlusconi, Scajola... figurarsi. Quello che cerco io però è l’approfondimento. Per questo sto pensando ad un film a partire dall’Italia di oggi. Il caso Englaro, per esempio, mi ha colpito come sintesi della disperazione e dell’ipocrisia di questa classe politica che pur di non perdere l’appoggio della chiesa è stata disposta a fare leggi incredibili che poi si sono perse chissà dove».
La cronaca di spunti ne offre infiniti.
«Penso ancora ai finti ciechi che hanno richiesto la licenza per i taxi. Al museo in Sicilia con una sola visitatrice, al concerto interrotto al Pantheon perché i guardiani avevano finito il turno. Sono tutti casi fra il tragico e il grottesco che potrebbero costituire uno spunto. Al momento però, quello che più lo interessa è Sorelle, «un piccolo film familiare in sei episodi», che racconta il ritorno del regista a Bobbio, nella casa dei Pugni in tasca, insieme ai figli Pier Giorgio e la piccola Elena. E che probabilmente vedremo a Venezia.
Il regno dei barbari
L’era moderna in Italia è finita, dice Scalfari Ma la vera domanda è un altra: sono gli invasori incolti ad aver vinto o è la sinistra ad aver perso?
di Nicola Tranfaglia (l’Unità, 18.05.2010)
Eugenio Scalfari, ospite in una trasmissione televisiva per il suo ultimo libro, ha detto che in Italia l’era moderna è finita e che siamo in un’età contemporanea abitata e dominata dai barbari. Constatazione condivisibile ma fino a un certo punto. Chi ha vissuto con strumenti storici la crisi del vecchio sistema politico del ’92-94 e l’ascesa di Berlusconi non può dimenticare che sono stati proprio molti “moderni”, di cui parla Scalfari, a favorire l’arrivo dei barbari con i loro gravi errori a sinistra come, altrettanto, a destra. E ancora, mentre i barbari ormai impazzano, assistiamo ai soliti scontri tra moderni che assomigliano ai barbari e ripetono all’infinito le vecchie lotte di potere, sempre le stesse.
Affronta la contraddizione di questo periodo con armi più leggere, ma per certi versi più efficaci, un giornalista colto come Piero Dorfles, immaginando di essere un dinosauro di fronte ai barbari di oggi e scrivendo un saggio assai godibile che si intitola Il ritorno del dinosauro. Una difesa della cultura (Garzanti, pp.205, 18 euro) e che mette in luce l’atteggiamento molto negativo delle classi dirigenti, soprattutto di governo, sull’istruzione, sull’università e sulla ricerca, quindi sulla cultura degli italiani.
Da questo punto di vista, vale la pena parlare di un documento straordinario come il Carteggio Pannunzio-Salvemini 1949-1957 (pp 190) edito dall’Archivio Storico della Camera dei Deputati, che rievoca l’incontro felice che si realizza in un periodo difficile, come quello del dopoguerra caratterizzato da un’aspra guerra fredda in cui è immersa l’Italia, tra lo storico pugliese Salvemini, appena tornato dal lungo esilio americano per sfuggire al fascismo, e il giornalista italiano Mario Pannunzio che aveva ripudiato il passato fascista e credeva a una repubblica democratica come quella costruita dall’Italia con la Costituzione del 1948.
Le diffidenze iniziali, che pure c’erano state nel primo incontro, erano state fugate dalla comune volontà delle due personalità che avevano una fede comune nella democrazia occidentale dopo lo scoppio della guerra fredda e Salvemini decide di collaborare al Mondo, il nuovo settimanale fondato da Pannunzio che rappresenta, come osserva a ragione Massimo Teodori nel suo saggio introduttivo, «la reazione alla crisi della forze di democrazia laica emarginate nel 1948» dal governo De Gasperi che si preparava a sostenere, con la cosiddetta “legge truffa” una battaglia mortale il 18 aprile 1948 con i partiti socialista e comunista costretti dalla guerra fredda a passare all’opposizione anche per la loro vicinanza all’Unione Sovietica.
In quello scontro la Democrazia Cristiana non vinse, perché la legge truffa non scattò, ma riuscì a tenere all’opposizione i partiti della sinistra e si aprì un scontro a lungo termine tra le esigenze costituzionali dell’opposizione e le ragioni della democrazia repubblicana. Il settimanale di Pannunzio, a sua volta, tenne diritta la barra tra la battaglia per i diritti civili e una democrazia avanzata, continuando peraltro a difendere le ragioni dell’alleanza occidentale contro il blocco orientale e filosovietico.
Il carteggio è ricco di notizie sulle grandi campagne giornalistiche condotte dal settimanale per un’Italia consapevole della sua migliore tradizione democratica e furono alla base di quei convegni del Mondo sulla libera concorrenza, sui monopoli, sullo Stato imprenditore, sulla corruzione, sulle interferenze del Vaticano, che avrebbero preparato, assai meglio di altri dibattiti, la nascita del centro-sinistra e di quella che negli anni sessanta sarebbe stata, pur con le sue inevitabili contraddizioni, la stagione delle riforme possibili nella difficile situazione internazionale.
Furono l’espressione di una mentalità illuministica (su cui sono preziose le Lezioni illuministiche di Enzo Ferrone edite da Laterza (200 pagine, 22 euro) che oggi manca nelle classi dirigenti e che è all’origine, non soltanto del fanatismo e degli scontri feroci all’interno della classe politica, ma anche di un tatticismo esasperato che ha sostituito, grazie al tramonto delle grandi ideologie palingenetiche, il modo di agire dei governi e dei partiti. Capita spesso anche a chi scrive di aver nostalgia di quella grande stagione di tre secoli fa in cui un gruppo di illuministi in Francia, ma anche in Italia, superò l’epoca feudale e l’ancien regime e aprì la strada alla modernità e alla democrazia. Ma possiamo sperare, oggi, in un ritorno dell’illuminismo?
MILANO ORDINA UCCIDETE BORSELLINO
«L’ESTATE CHE CAMBIÒ LA NOSTRA VITA»
di Alfio Caruso *
Diciotto anni dopo ignoriamo chi azionò il telecomando della strage di via D’Amelio, in cui vennero macellati Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta.
La mattanza di quel 19 luglio 1992 è stata fin qui un insieme di domande senza risposte: in che modo è sparita l’agenda rossa nella quale Borsellino segnava incontri, confidenze, ipotesi di lavoro?
Dov’era posizionato il misterioso uomo con il timer?
Fino a che punto i servizi segreti sono stati coinvolti nella trama?
Gli inquirenti hanno sbagliato per amore di carriera o per coprire pezzi dello Stato coinvolti con le cosche?
Le rivelazioni di Gaspare Spatuzza hanno, infatti, sbugiardato la ricostruzione ufficiale dell’eccidio su cui si sono basati tre processi con 47 condannati.
Oggi sappiamo soltanto che Cosa Nostra partecipò alla preparazione dell’attentato e che Borsellino non fu ucciso per il fallimento della trattativa condotta dai carabinieri con Riina attraverso la mediazione di Vito Ciancimino. Allora la minuziosa rilettura d’ingialliti verbali, le dichiarazioni di antichi testimoni, l’incrociarsi di vecchie e nuove verità aprono uno scenario rabbrividente. Sullo sfondo campeggia inquietante il Ros dei carabinieri: a che gioco giocava? Assodato che fu Provenzano a consegnare Riina, quali garanti dal gennaio ‘93 hanno protetto la latitanza di «zu Binnu», non a caso arrestato dalla polizia?
Un filo rosso lega via D’Amelio a Capaci. Falcone e Borsellino puntavano su Milano, da oltre vent’anni vera capitale della mafia. All’interno dei suoi insospettabili salotti i boss avevano trovato i complici ideali per riciclare e moltiplicare le centinaia di miliardi guadagnati con il traffico internazionale degli stupefacenti. L’appoggio di banchieri, imprenditori, finanzieri aveva consentito alle «famiglie» siciliane di trasformarsi in un impero economico capace di condizionare la vita del Paese: molti, dunque, volevano stoppare i due magistrati palermitani. Nei suoi cinquantasette giorni di corsa contro la morte Borsellino aveva capito il complesso meccanismo di quattrini e di complicità nel quale persino Riina e Provenzano agivano spesso da pupi anziché, da pupari. Ma lo Stato, nel cui nome Paolo sfidava il Male, fece ben poco per proteggerlo.
Questo libro vi racconta come e perché.
...Borsellino mostrava di conoscere determinate vicende; mostrava soprattutto di non avere alcuna ritrosia a parlare dei rapporti tra mafia e grande imprenditoria del Nord, a considerare normale che le indagini dovessero volgere in quella direzione; non manifestava alcuna sudditanza psicologica, anzi una chiara propensione ad agire con gli strumenti dell’investigazione penale senza rispetto per alcun santuario e senza timore del livello al quale potessero attingere le sue indagini, confermando la tesi degli intervistatori che la mafia era non solo crimine organizzato, ma anche connessione e collegamenti con ambienti insospettabili dell’economia e della finanza.
(Dalla sentenza d’appello del processo Borsellino bis, Caltanissetta 18/3/2002)
guarda la presentazione su youtube
* Fonte: ALFIO CARUSO
La corruzione dimenticata
C’è qualcosa che colpisce più ancora della ampiezza dei fenomeni di corruzione venuti alla luce o della pervasività del «sistema», per dirla con l’onorevole Denis Verdini. Colpisce soprattutto che il «sistema» abbia potuto rimodellarsi negli ultimi quindici anni in un silenzio quasi assoluto.
di Guido Crainz (la Repubblica, 18.05.2010)
Per molto tempo la politica e la società italiana avevano rappresentato - in primo luogo a se stesse - i guasti degli anni ottanta e novanta come un’anomalia sostanzialmente conclusa. E, progressivamente, come una vicenda ampiamente esagerata dalla faziosità dei giudici e da una cultura moralistica arcaica. In questo modo alla fine del 2008, di fronte al moltiplicarsi di nuove indagini che coinvolgevano anche il centrosinistra, sembrarono prevalere le reazioni che un titolo sintetizzò: Mani Pulite 2? No, grazie. Soprattutto, continuò una forte sottovalutazione della corruzione presente nel paese. Eppure in quello stesso periodo la Corte dei Conti valutava che la sua entità sfiorasse i 60 miliardi di euro, cifra molto più alta rispetto agli anni di Tangentopoli. Nel 2009, poi, le denunce per corruzione aumentarono del 230% e quelle per concussione del 150%: sono ancora dati della Corte dei Conti, resi pubblici il 17 febbraio di quest’anno. Cioè a 18 anni esatti dall’arresto di Mario Chiesa e dall’avvio di Tangentopoli, e mentre già le cronache e le intercettazioni stavano disegnando un panorama inquietante. Caratterizzato però da tratti nuovi rispetto al passato, anche se ad esso ci ha riportati la mazzetta di un politico milanese nascosta in un pacchetto di sigarette.
C’è dunque da interrogarsi meglio sulla coltre di silenzio che ha velato per anni il rimodellarsi del fenomeno, e anche sulle caratteristiche dei processi in corso. Già nel dicembre del 2008 Roberto Saviano rifletteva su La corruzione inconsapevole che affonda il paese e ne coglieva un tratto di fondo: nessuna delle persone indagate «aveva la percezione dell’errore, tantomeno del crimine (...). Cosa potrà mai cambiare in una prassi quando nessuno ci scorge più nulla di sbagliato o di anomalo»? Ne coglieva al tempo stesso il terreno di coltura: la corruzione si estende «quando la politica si accontenta di razzolare nell’esistente e rinuncia a farsi progetto e guida». In altri termini, come annotava poco dopo Piero Ottone ancora su questo giornale, quando viene a mancare la «religione civile»: che può nutrirsi di ideali di progresso o di conservazione ma è, appunto, concezione alta della politica.
Sono passati poi altri mesi e sono venuti alla luce contorni ancor più laceranti di un fenomeno che si è rimodellato sostanzialmente attorno a due cardini: da un lato la sostituzione del «rubare (soprattutto) per il partito» degli anni di Tangentopoli con il «rubare per sé»; dall’altro una eversione delle regole che non si è radicata solo in pratiche anomale o marginali ma all’interno di quella «pratica dell’emergenza» e di quella «politica del fare» che sono state erette a bussola e a bandiera.
Sul primo versante i dibattiti degli anni novanta sono ormai un ricordo sbiadito. Certo, continua ad apparirci indecente il tentativo di assolvere chi almeno «rubava per il partito» (ignorando che in questo modo la corruzione metteva a rischio lo stato di salute della democrazia) ma lo squallore che le intercettazioni portano oggi a galla non ha forse paragoni con il passato. Esse rivelano in realtà un rovesciamento più generale: il «rubare per sé» è così diffuso perché il «primato del sé» ha sostituito «il primato del partito» in una cultura che si è diffusa ben oltre la vita pubblica. Il degrado attuale della politica ci appare dunque non solo causa - come avvenne negli anni ottanta - ma in qualche modo anche conseguenza del trionfo dell’antipolitica. Una antipolitica che è andata al potere.
A questo stesso nodo rimanda un altro corposo «slittamento» rispetto agli anni di Tangentopoli. Allora ci si illuse - ci si volle illudere - che i guasti fossero annidati solo in un degenere ceto politico e che una virtuosa società civile ne fosse del tutto immune. In taluni interventi di oggi, all’opposto, sembra trasparire la tentazione di considerare il Palazzo come corrispettivo quasi inevitabile di una società civile irrimediabilmente perversa. Obbligato in qualche modo ad assecondare il flusso per non perdere consensi. Appaiono così fastidiose «anime belle» coloro che segnalano le responsabilità specifiche della politica: l’abdicazione a una selezione reale della classe dirigente, l’assenza di adeguate misure correttive, la delegittimazione della magistratura, le scelte relative a esenzioni, prescrizioni e condoni, le leggi ad personam, e così via.
Il secondo aspetto centrale dello scenario che si è delineato sta poi nel suo rapporto con alcuni cardini dell’azione del governo. Com’è noto, nulla di ciò che è stato pubblicato sarebbe venuto alla luce se fossero stati già approvati i vincoli alle intercettazioni voluti dalla maggioranza. E solo lo scandalo ha affossato una legge che avrebbe regalato alla Protezione civile una specialissima immunità. Era il corollario minore ma simbolico di un progetto di presidenzialismo che si accompagna all’indebolimento drastico dei controlli, delle regole e delle garanzie: questa è la reale posta in gioco, e i tempi della partita si stanno accorciando. Negli anni di Tangentopoli un intellettuale e poeta civilmente impegnato come Giovanni Raboni scriveva: c’è qualcosa che mi impedisce di esultare per la giustizia finalmente all’opera, ed è «un pensiero sordo e odioso come certi dolori: e noi, nel frattempo, dove eravamo?». Forse il centrosinistra nel suo insieme dovrebbe porsi oggi la stessa domanda.
Le armi del dominio
di Danilo Zolo (il manifesto, 16.05.2010
Nel suo ultimo lavoro Alessandro dal Lago mette a fuoco il ruolo degli eserciti nella globalizzazione a partire dalla caduta del Muro di Berlino. A differenza del passato gli interventi militari riguardano solo in parte le controversie tra stati. Centrale è la costruzione di un nuovo ordine mondiale, la repressione dei migranti e la prevenzione dei conflitti sociali all’interno delle realtà nazionali
A partire dall’ultimo decennio del secolo scorso si è affermato in Occidente un processo di normalizzazione della guerra. L’industria della morte collettiva si è fatta più che mai fiorente e redditizia. La produzione e il traffico delle armi, inclusi gli ordigni nucleari, sono sottratti a qualsiasi controllo della cosiddetta «comunità internazionale». E l’uso delle armi dipende sempre più dalle decisioni che le grandi potenze occidentali prendono ad libitum, secondo le proprie convenienze strategiche.
In questi anni, sentenze di morte collettiva sono state emesse nella più assoluta impunità contro migliaia di persone non responsabili di alcun illecito penale, né di alcuna colpa morale. E nel mercato della morte il valore di scambio della vita umana si è sempre più diversificato: da una parte la vita delle persone ricche e civilizzate, e cioè in massima parte occidentali, e dall’altra parte la vita delle persone povere e non civilizzate, che vivono nel sottosuolo del mondo. La vita dei poveri e dei deboli vale sempre meno. Il loro diritto alla vita è una favola.
Alessandro Dal Lago dedica una sua recente raccolta di saggi - Le nostre guerre (manifestolibri pp. 262, euro 22) - ad una lucida riflessione filosofica e sociologica sulla natura delle nuove guerre e sulla normalizzazione della violenza anche nelle sue modalità più sanguinarie. Con poche eccezioni, sostiene Dal Lago, i sociologi, gli antropologi e i filosofi si disinteressano dei conflitti contemporanei e delle loro nuove modalità. La «guerra» è citata a malapena e ben pochi studiosi ricorrono a un minimo di immaginazione nel collegare i conflitti interni con quelli internazionali. E intanto aumenta la violenza, cresce l’insicurezza e si afferma il terrorismo sia nella forma delle guerre di aggressione occidentali, sia nelle repliche del global terrorism.
Il silenzio delle coscienze
Più in generale non si può negare che in Occidente si sta affermando un processo di «metabolizzazione» e di banalizzazione del fenomeno bellico che non conosce precedenti. La sensibilità nei confronti della tragedie umane e delle irreparabili devastazioni che le guerre comportano è inibita da una diffusa propensione individualistica. Un senso depressivo di insicurezza porta a ignorare tutto ciò che non riguarda l’incolumità individuale, e a pretendere che la propria sicurezza sia rigorosamente garantita dalle istituzioni repressive e penitenziarie. Il pacifismo - a partire da quello di ispirazione cattolica - è cosa di altri tempi.
Ai limitati rischi bellici che corre chi vive in Occidente si accompagna un ottundimento del senso delle sofferenze altrui, del martirio di intere popolazioni e una consapevolezza pressoché nulla nei confronti delle responsabilità politiche delle potenze occidentali che scatenano le guerre. In Italia, ad esempio, tutte le forze politiche presenti in parlamento sono concordi nel sostenere e finanziare la «missione di pace» che gli Stati Uniti e la Nato hanno deciso di condurre in Afghanistan, giustificando con false motivazioni la strage di decine di migliaia di cittadini afghani, in particolare dei membri dell’etnia Pashtun, cinicamente identificati con il movimento Taliban. L’opinione pubblica tace.
Da quando Massimo D’Alema, nel 1999, autorizzò personalmente il bombardamento della ex Jugoslavia - ricorda Dal Lago - i governi italiani non hanno mai parlato di guerra vera e propria, ed hanno del tutto ignorato l’articolo 11 della Costituzione italiana che vieta ogni guerra che non sia difensiva. Lo stato di guerra non è mai stato dichiarato - anche in questo caso in violazione della Costituzione -, né il parlamento è stato chiamato in causa, se non per finanziare le missioni militari all’estero, subdolamente qualificate come missioni di pace, finalizzate alla diffusione della libertà e della democrazia.
In questi anni le stragi hanno colpito quasi esclusivamente civili inermi e indifesi, come è ormai la caratteristica delle «nuove guerre», quelle che Dal Lago chiama «le nostre guerre». Si è trattato di guerre di aggressione «asimmetriche», nelle quali l’uso di armi di distruzione di massa sempre più sofisticate e potenti ha reso soverchiante il potere distruttivo degli aggressori e sottratto agli aggrediti ogni speranza di salvezza. E molto spesso gli aggressori si sono fatti forti del proprio strapotere economico arruolando truppe mercenarie di contractors, alle dipendenze di grandi corporations globali, talora in numero superiore a quello dei combattenti di ruolo. E si è trattato di guerre «privatizzate» nelle quali non esiste più un «nemico legittimo», definito come tale dalle norme del diritto internazionale, come un tempo accadeva.
La logica delle guerre di aggressione contemporanee è la stessa di qualsiasi «guerra civile», nella quale si lotta fino all’estremo e non si fanno prigionieri. Per di più, si tratta di guerre che non hanno la finalità di una conquista territoriale: si combatte su scala globale coinvolgendo potenzialmente il mondo intero. La finalità è un obiettivo strategico di dimensioni planetarie che coincide con la volontà egemonica degli Stati Uniti e che si esprime attraverso la costante minaccia dell’uso della forza.
La volontà egemonica degli Stati Uniti e dei loro alleati occidentali ha comportato la devastazione terroristica della vita, dei beni e dell’ambiente di interi paesi, mentre gli aggressori hanno subito un numero molto limitato di vittime, a volte addirittura nessuna. Questo è accaduto nell’arco di un ventennio in paesi come l’Iraq (1991), la ex Jugoslavia, l’Afghanistan, di nuovo l’Iraq (2003), il Libano, i territori palestinesi, per citare gli eventi bellici più rilevanti. In queste guerre, condotte in nome di valori universali, nessuna limitazione «umanitaria» degli strumenti bellici è stata praticata. Anzi, è vero il contrario: gli interventi «umanitari» sono serviti, soprattutto agli Stati Uniti e a Israele, per sperimentare nuovi sistemi d’arma, sempre più sofisticati e devastanti.
L’impero contro gli infedeli
Si può qui aggiungere, a commento conclusivo del testo di Dal Lago, che in tutti questi casi il terrorismo degli aggressori si è autogiustificato - ed è stato giustificato - in nome della pace globale, della lotta al global terrorism e soprattutto della tutela dei diritti umani. La guerra è stata esaltata come l’impresa di benefattori umanitari impegnati a proteggere e promuovere i diritti fondamentali delle persone in tutti gli angoli della terra. In realtà, la difesa dei diritti umani è stata mistificata e tradita dalla violenza omicida. E agli aggressori è stata riservata l’assoluta impunità. Questo vale anche per le aggressioni, le stragi, gli «omicidi mirati» compiuti dallo Stato di Israele contro il popolo palestinese, in particolare contro la popolazione di Gaza e il movimento Hamas, accusati di essere la culla del terrorismo globale.
In questi ultimi anni, in altre parole, si è sviluppato un processo di transizione dalla «guerra moderna» alla «guerra globale», con al centro il recupero da parte delle potenze occidentali della nozione di «guerra preventiva», concepita e praticata dagli Stati Uniti contro i cosiddetti rogue states e le organizzazioni, vere o presunte, del terrorismo globale. Questa transizione non riguarda soltanto la morfologia delle «nuove guerre», e cioè la loro dimensione strategica e la loro potenzialità distruttiva. Strettamente connessa è una vera e propria eversione del diritto internazionale vigente, dovuta all’incompatibilità della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale generale con la «guerra preventiva». E a questo si aggiunge la regressione alle retoriche antiche di giustificazione della guerra, inclusi importanti elementi della dottrina «imperiale» del bellum justum e del suo nocciolo teologico-sacrificale di ascendenza biblica: la «guerra santa» contro i barbari e gli infedeli. Queste retoriche sono diventate oggi, nel contesto della globalizzazione dei mezzi di comunicazione di massa, uno strumento bellico di eccezionale rilievo.
Ha fatto dunque molto bene Alessandro Dal Lago a richiamare l’attenzione e a denunciare la responsabilità dei filosofi e dei sociologi - oltre che, aggiungerei, dei giuristi accademici «al di sopra delle parti» - che dall’alto delle loro cattedre minimizzano la tragedia delle nuove guerre e talora la giustificano. Dulce bellum inexpertis, sosteneva Erasmo da Rotterdam.
A fine gennaio del 1933, Adolf Hitler giunge al potere. Nello stesso anno, Martin Heidegger diventa rettore dell’Università di Friburgo ed esprime pieno ed inequivocabile appoggio al regime nazista, con il suo famoso discorso su “L’autoaffermazione dell’università tedesca”. Per Heidegger non c’è alcun dubbio che Hitler sia il Messia del popolo tedesco, come ripeterà in uno scritto sul giornale degli studenti dell’Università, il 3 novembre del 1933: “Il Fuhrer stesso e lui soltanto è la realtà tedesca e la sua legge, oggi e da oggi in poi. Rendetevene conto sempre di più: da ora ogni cosa richiede decisione, e ogni azione responsabilità”. La notte scende sulla Germania, e su tutta l’Europa: in un’intervista del 1966, Heidegger, pur mai pentendosi dei suoi trascorsi nazionalsocialisti, dichiarerà che “Solo un Dio ci può salvare”.