No al suicidio dell’italiano
di Magdi Allam *
Aiuto, stiamo «suicidando» la lingua italiana! Dalla pubblica amministrazione alla scuola, dalla sanità alla giustizia, dalla religione alla sicurezza, dal lavoro alla pubblicità, ci affanniamo a persuadere le menti e a conquistare gli animi degli immigrati comunicando con decine di idiomi diversi, mobilitando un esercito di mediatori linguistico-culturali, anziché chiedere ed esigere che siano degli ospiti- che accogliamo dando loro l’opportunità di migliorare la loro condizione di vita - a conoscere e a dialogare nella nostra lingua nazionale.
Oltretutto, se ci pensiamo bene, l’italiano è la certezza che ci è rimasta di un’identità collettiva vilipesa e tradita dal rischio di estinzione a causa delle conseguenze letali del morbo del multiculturalismo sul piano della perdita dei valori comuni e condivisi. In un mondo in cui siamo soltanto noi a parlarlo e che ci ha già declassato a idioma di serie B, se siamo noi stessi a relativizzarne il valore all’interno stesso dell’Italia mettendolo sullo stesso piano di decine di lingue straniere, la sua morte certa sarà ancora più precoce dell’inevitabile tracollo demografico di una popolazione autoctona a tasso di natalità zero. Nonè una scoperta assolutamal’apparire sui tram milanesi della pubblicità della Kinder Ferrero in inglese, spagnolo e arabo ci costringe a una rinnovata riflessione.
Come interpretare il fatto che la parlamentare di An, Daniela Santanchè, decida di far pubblicare un manifesto a pagamento con una scritta in arabo che recita «Imparate l’italiano e sarete più sicuri dei vostri diritti, dei vostri doveri e del posto che vi spetta nella nostra Patria»? Perché in uno Stato che si rispetti un privato cittadino si accolla l’onere anche finanziario di esortare lo straniero a imparare la lingua nazionale? Non dovrebbe essere una prerogativa e un dovere del governo e delle istituzioni affermare la centralità dell’italiano? Evidentemente non è così visto che non solo non si ritiene che l’immigrato debba conoscere la nostra lingua, ma ci si rifiuta per ragioni ideologiche di prendere in considerazione tale ipotesi.
Tutt’al più si offre l’opportunità all’immigrato di imparare l’italiano, come è nei piani del ministro della Solidarietà sociale Paolo Ferrero, ma a condizione che sia lui a decidere se, quando e come accettare. E’ stato il ministro dell’Interno Giuliano Amato, lo scorso 11 ottobre, a formalizzare il rifiuto del governo a chiedere all’immigrato di conoscere l’italiano. L’ha fatto con una battuta: «Se a mia zia fosse stato chiesto di recitare l’Oxford Dictionary quando sbarcò a Staten Island, probabilmente sarebbe stata respinta dagli Usa e rispedita in Sicilia a fare la fame perché, a quei tempi, lei e tanti altri emigranti parlavano a stento l’italiano». E questa è stata la sua conclusione: «Ciò che non hanno chiesto a mia zia non intendo chiederlo agli immigrati che arrivano in Italia». Il discorso di fondo è una esplicita opzione per una società multiculturalista in cui vengono relativizzate le identità, le culture, le religioni e le lingue.
In quell’occasione Amato ha presentato raggiante un opuscolo «In Italia in regola », tradotto in sette lingue straniere e stampato in un milione di copie. Iniziative simili sono state fatte da diversi ministeri che interagiscono con gli immigrati. Ebbene se lo Stato investe milioni di euro per tradurre le regole comuni e riuscire a comunicarle a chi risiede nello stesso spazio territoriale, significa che ha fallito in partenza perché non ha compreso che solo condividendo la lingua nazionale, in aggiunta ai valori e alla cultura, potrà iniziare il percorso per una costruttiva integrazione. L’investimento deve essere fatto non per rincorrere le lingue dei nostri ospiti,ma per vincolare l’ospite a conoscere la nostra lingua. Deve essere un obbligo, non un optional.
Non c’è poi da sorprenderci se al tradimento dell’italiano in patria si accompagna l’abbandono totale della sorte della lingua nazionale all’estero, concedendo spiccioli alla Società Dante Alighieri (solo 1,7 milioni di euro contro i 300 milioni del Goethe Institut) e assottigliando sempre più i finanziamenti agli istituti di cultura italiani nel mondo (17,5 milioni di euro nel 2006). Ecco perché è ridicolo che ci si scandalizzi se l’Unione Europea e le Nazioni Unite declassificano l’italiano. Ma se non ci crediamo noi stessi al valore della nostra lingua e l’abbiamo trasformata nel simbolo di un suicidio nazionale, perché dovrebbero riabilitarla e riesumarla gli stranieri?
* Corriere della Sera, 24 ottobre 2007
Sul tema, nel sito, si cfr.:
ITALIA. A FIRENZE LA PRIMA "PIAZZA DELLE LINGUE D’EUROPA"
ITALIA. AMARE L’ITALIA. LO SCEMPIO DEL "TERRITORIO" E LE "CAMERE SGARRUPATE"
SALVARE LA COSTITUZIONE E LA REPUBBLICA IN NOI... SCUOLA E POLITICA. INAUGURAZIONE DELL’ANNO SCOLASTICO AL QUIRINALE.
RIPENSARE L’EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU-ROPEUO".
W o ITALY !!! LUNGA VITA ALL’ITALIA: "RESTITUITEMI IL MIO URLO".
ROMA: CONVEGNO SU LINGUA ITALIANA PER STANIERI
Roma, 9 nov. - (Adnkronos/Adnkronos Cultura) - E’stata il vice sindaco Maria Pia Garavaglia ad aprire, oggi in Campidoglio, il primo convegno sul tema ’’Lo studio dell’italiano per stranieri in Italia’’ organizzato dall’ASILS (Associazione di Scuole di Italiano come Lingua Seconda), sottolineando come la conoscenza della ’’propria’’ lingua renda piu’ liberi.
Alla giornata di lavori hanno partecipato rappresentanti delle Universita’ per Stranieri di Siena e Perugia e la "Ca Foscari" di Venezia, la Societa’ Dante Alighieri, e associazioni di volontariato; non sono mancati rappresentanti dei ministeri degli Affari Esteri, della Pubblica Istruzione nonche’ Domenico Di Resta, presidente del Consiglio Regionale del Lazio. Al convegno si e’ sottolineato come lo studio dell’Italiano L2, ovvero come seconda lingua, sia in grande crescita con ampie possibilita’ di sviluppo. Nell’anno 2006 sono stati oltre 100.000 gli studenti stranieri venuti in Italia ad imparare l’italiano.
Silvano Focardi, rettore dell’Universita’ di Siena e Alessandro Vidoni, presidente dell’ASILS hanno auspicato la nascita di un "Sistema Italia" per la cultura che coordini gli sforzi promozionali e normativi e per permettere al settore di crescere. Si calcola che il settore dello studio dell’italiano, relativamente all’attivita’ delle Scuole ASILS, produca un fatturato complessivo stimabile intorno ai 55 milioni di euro. La regione Lazio ha comunicato, inoltre, l’intenzione di inserire la tematica legata al "Turismo di studio", nel piano di sviluppo triennale del turismo della regione Lazio.
Immigrazione, Benedetto XVI:
"Garantire accoglienza e sicurezza"
ROMA - Di fronte alla presenza degli immigrati occorre assicurare "la sicurezza e l’accoglienza", garantendo "i diritti e i doveri che sono alla base di ogni vera convivenza e incontro tra i popoli". Benedetto XVI, parlando ai fedeli di Piazza San Pietro dopo la recita dell’Angelus, affronta il tema dell’immigrazione. Proprio nei giorni in cui, dopo l’omicidio di Giovanna Reggiani da parte di un cittadino romeno, il tema è al primo posto dell’agenda politica e non solo.
E lo fa con parole che rifuggono la violenza e l’intolleranza ma che richiamano forte il dovere di accogliere chi ha bisogno e di tutelare la sicurezza dei cittadini. "Auspico - dice il Papa - che le relazioni tra popolazioni migranti e popolazioni locali avvengano nello spirito di quell’alta civiltà morale che è frutto dei valori spirituali e culturali di ogni popolo e Paese. E chi preposto alla sicurezza e all’accoglienza sappia far uso dei mezzi atti a garantire i diritti e i doveri che sono alla base di ogni vera convivenza e incontro tra i popoli".
* la Repubblica, 4 novembre 2007.
Un clima pericoloso
di STEFANO RODOTÀ *
L’aggressione di ieri sera contro un gruppo di romeni dimostra che è avvenuto qualcosa che i pessimisti sentivano nell’aria. Quando sono tanto forti le emozioni, e nessuno le raffredda e troppi le sfruttano, non soltanto diventa difficile trovare le risposte giuste, ma si esasperano i conflitti.
Da un caso gravissimo, l’uccisione di Giovanna Reggiani, si è passati con troppa rapidità all’indicazione di responsabilità collettive. L’assassinio è quasi finito in secondo piano, e l’attenzione è stata tutta rivolta a documentare una sorta di incompatibilità tra la nostra società e la presenza romena, insistendo sulla percentuale di reati commessi da persone provenienti da quel paese. In un clima sociale che si sta facendo sempre più violento, le premesse per l’apertura della caccia al romeno, purtroppo, ci sono tutte.
Così non basterà condannare l’accaduto. Le risposte istituzionali sono già venute, e sarebbe sbagliato chiederne ulteriori inasprimenti, che darebbero la sensazione che alla violenza si debba reagire solo con la violenza sì che, se lo Stato arriva tardi o in maniera ritenuta inadeguata, tutti sarebbero legittimati a farsi giustizia da sé. Alla politica si devono chiedere non deplorazioni, ma misura; non ricerca di consenso, ma di soluzioni ragionate.
Da anni, da troppi anni, siamo prigionieri di un uso congiunturale delle istituzioni, che porta a misure che rispondono ad emozioni o a interessi di breve periodo più che alla realtà dei problemi da affrontare. E’ un rischio che stiamo correndo anche in questi giorni, mentre avremmo bisogno di analisi non approssimative e testa fredda nell’indicare le via d’uscita. Di fronte alle tragedie nessuno dovrebbe fare calcoli meschini.
Il presidente della Repubblica ha sottolineato che le questioni dell’immigrazione esigono responsabilità comuni dell’Unione europea. Il presidente del Consiglio si è messo in contatto con il primo ministro romeno. Dalle parti più diverse si è sottolineata la necessità di un controllo del territorio e di una attenzione per le condizioni in cui vivono gli immigrati. E’ stata proprio una donna romena che ha consentito l’immediato arresto dell’assassino.
Perché allineo questi fatti? Perché, messi insieme, dimostrano la parzialità della tesi di chi pensa che sia sufficiente inasprire le pene, cancellare le garanzie, far di tutt’erbe un fascio, sparare nel mucchio. "Facimmo ’a faccia feroce" è una vecchia tecnica di governo, ma è esattamente il contrario di quel che serve in situazioni come questa. E’ indispensabile, invece, una strategia integrata, fatta di cooperazione internazionale, di legalità a tutto campo, di efficienza degli apparati di sicurezza, di misure per l’integrazione, di politica delle città. Ed è indispensabile una politica volta a promuovere la fiducia degli immigrati: senza la collaborazione di quella donna, senza la rottura dello schema dell’omertà (purtroppo così forte anche nella nostra cultura), l’assassino non sarebbe stato individuato così rapidamente. In ogni società la fiducia è una risorsa essenziale. Da soli, i provvedimenti di ordine pubblico non ce la fanno, non ce l’hanno mai fatta.
Essere consapevoli di tutto questo non è cattiva sociologia, ma buona politica, anzi l’unica politica possibile. Proprio quanti si preoccupano dell’efficienza dovrebbero esigere che si facciano passi concreti in quelle direzioni. Proprio chi invoca la legalità deve sapere che questa non è divisibile, ed è stato giustamente notato che uno dei meriti del "pacchetto sicurezza" è nell’aver previsto anche una nuova disciplina del falso in bilancio. Proprio chi fa professione di garantismo deve mostrare coerenza, soprattutto nei momenti difficili: non si può essere garantisti a corrente alternata.
Non sto sostenendo che il problema è "ben altro". Cerco di dire che non ci si può mettere la coscienza in pace con un decreto e una raffica di espulsioni, dando così all’opinione pubblica la pericolosa illusione che il problema sia risolto. Qualche sera fa, intervenendo in una trasmissione televisiva, Pier Luigi Vigna, certo non imputabile di atteggiamenti compiacenti verso chi viola la legalità, ha riferito la risposta di un responsabile dell’ordine pubblico ad una sua domanda su dove fossero finiti i lavavetri scomparsi dalle vie di Firenze: "Stanno a rubare". E’ l’effetto ben noto a chi ha indagato sulla scomparsa o la diminuzione dei reati nelle aree videosorvegliate: semplicemente i comportamenti criminali si erano spostati nelle zone vicine. Ecco perché, se davvero si vuole uscire dalla violenza e vincere la paura, nuove norme contenute in un decreto possono essere un punto di partenza, vedremo fino a che punto accettabile.
Guardando solo agli inasprimenti della legislazione, anzi, si finisce col distogliere lo sguardo dalla realtà. Più di una inchiesta di questo giornale, ultima quella di Giuseppe D’Avanzo, ha documentato il degrado urbano, le terribili condizioni di vita degli immigrati. Si può davvero pensare che il problema si risolva con una politica delle ruspe e degli "allontanamenti"? Con una tolleranza zero che poi non riesce neppure ad essere tale se le forze di polizia non sono messe in grado di un controllo intelligente e mirato del territorio, se i nuovi poteri dei sindaci finiscono con l’indirizzare la loro attenzione verso una esasperazione del momento dell’ordine pubblico invece di mettere al centro gli interventi strutturali, complici le difficoltà economiche dei comuni? Si può certo contare sull’effetto dissuasivo di una massiccia ondata di espulsioni. Ma quanto potrà durare? E quali saranno gli effetti reali e i prezzi della nuova disciplina?
Il decreto riprende lo schema delle norme di attuazione della direttiva comunitaria del 2004 sul diritto di circolazione e di soggiorno dei cittadini comunitari (romeni compresi), in vigore dal marzo di quest’anno, con due significative integrazioni. La prima riguarda l’attribuzione del "potere di allontanamento" non più al solo ministro dell’Interno, ma pure al prefetto (una figura di cui si continua chiedere la scomparsa e che, invece, ottiene così una nuova e forte legittimazione). La seconda, ben più incisiva, consiste nell’ampliamento delle cause che permettono l’allontanamento del cittadino comunitario, riassunte nella formula dei "motivi imperativi di pubblica sicurezza" che derivano dall’aver "tenuto comportamenti che compromettono la tutela della dignità umana o dei diritti fondamentali della persona umana ovvero l’incolumità pubblica, rendendo la sua permanenza sul territorio nazionale incompatibile con l’ordinaria convivenza". Malgrado riferimenti altisonanti come dignità o diritti fondamentali, siamo di fronte ad una formula larghissima, nella quale possono rientrare le situazioni e i comportamenti più diversi. Come sarà interpretata?
Qui gioca il clima in cui il decreto è stato approvato. Non "necessario e urgente" fino alla sera prima (sono questi i requisiti di un decreto), il provvedimento lo diventa dopo il brutale assassinio di Roma. Poiché si deve supporre che il governo conoscesse già i dati riguardanti i reati commessi dai romeni, sui quali si è tanto insistito in questi giorni, la conclusione obbligata è che si è utilizzato lo strumento del decreto unicamente per rispondere all’emozione dell’opinione pubblica. E la sua applicazione rischia di essere guidata dalla stessa ispirazione, rendendo inoperanti le garanzie necessarie per evitare che venga travolta una libertà essenziale del cittadino europeo.
La pressione dell’opinione pubblica non è stata alleggerita dal decreto. Al contrario, è stata ulteriormente legittimata, sì che bisogna attendersi che continuerà nei confronti dei prefetti. Già si annunciano liste di migliaia di persone da allontanare: questo renderà difficilissimo motivare in modo adeguato ciascun singolo provvedimento. E i debolissimi giudici di pace, che dovrebbero controllare questi provvedimenti, non hanno i mezzi per farlo in modo adeguato, sì che non se la sentiranno di pronunciare un no. Per non parlare di un successivo ricorso al tribunale amministrativo contro l’allontanamento, che quasi nessuno potrà concretamente proporre. La garanzia giurisdizionale, essenziale in uno Stato di diritto, rischia così d’essere concretamente cancellata.
Alle norme del decreto bisogna guardare con distacco e preoccupazione. Con distacco, perché non verrà solo da esse la soluzione di problemi che, com’è divenuto evidentissimo proprio in questi giorni, esigono interventi di altra qualità per rispondere alle legittime richieste dei cittadini in materia di sicurezza. L’ordinaria convivenza, alla quale il decreto si riferisce, non è un qualcosa da salvaguardare, ma da ricostruire con responsabilità e azioni comuni, di cui gli italiani devono essere i primi protagonisti. Con preoccupazione, perché le norme del decreto e il clima in cui nasce ci spingono in una direzione che aumenta la distanza dall’"altro", che favorisce la creazione di "gruppi sospetti", abbandonando la logica della responsabilità individuale.
Serve, davvero con "necessità e urgenza", un’altra forma di tolleranza zero. Quella contro chi parla di "bestie", o invoca i metodi nazisti. Non è questione di norme. Bisogna chiudere "la fabbrica della paura". E’ il compito di una politica degna di questo nome, di una cultura civile di cui è sempre più arduo ritrovare le tracce. Un’agenda politica ossessivamente dominata dal tema della sicurezza porta inevitabilmente con sé pulsioni autoritarie. Ricordiamo una volta di più che la democrazia è faticosa, ma è la strada che siamo obbligati a percorrere.
* la Repubblica, 3 novembre 2007.
L’aggressione nel parcheggio di un centro commerciale sulla via Casilina In dieci feriscono gli stranieri a bastonate. Tre in ospedale, uno in gravi condizioni Spedizione punitiva contro romeni tre feriti alla periferia di Roma
ROMA - Nel giorno della pubblicazione, sulla Gazzetta Ufficiale, del decreto legge sulle espulsioni, e all’indomani della morte di Giovanna Reggiani, aggredita barbaramente quarantotto ore prima (il gip ha convalidato il fermo dell’aggressore, Nicolae Romolus Mailat), a Roma si registra un grave episodio di xenofobia ai danni di un gruppo di romeni nella zona di Tor Bella Monaca.
Una vera e propria "spedizione punitiva" quella compiuta in serata da circa dieci persone che, con il volto coperto da caschi o passamontagna, hanno aggredito a bastonate quattro romeni nel parcheggio del centro commerciale Lidl di via Casilina. Tre degli stranieri sono rimasti feriti, uno di essi è in condizioni più gravi.
I feriti sono stati trasportati e ricoverati negli ospedali di Tor Vergata e Frascati, una cittadina dei Castelli Romani, a pochi chilometri dalla capitale. I carabinieri hanno avviato le ricerche del gruppo di aggressori, piombati all’improvviso nel parcheggio del centro commerciale, luogo di ritrovo abituale di cittadini romeni.
Una tragedia che ci riguarda
di Laura Balbo *
Io spero che si sia in molti, in Italia, a interrogarci sui tanti aspetti che ci sono dietro a questo fatto terribilmente doloroso: una donna, sulla via di casa, la sera, aggredita, massacrata, gettata da una scarpata. Le periferie insicure, la violenza sulle donne. Spero anche che molti provino a chiedersi cosa ci possa essere nella testa (o nell’esperienza quotidiana) di un giovane che compie un atto così tremendo: arrivato in Italia da pochi mesi, hanno detto; ci hanno fatto vedere il tugurio in cui vive; certo, senza risorse e senza speranza per il futuro. E ancora: fermarci a pensare a quanti, nelle condizioni dell’immigrazione -pur diverse, cerchiamo di non ragionare con categorie semplificanti- vivono una fase almeno, e in molti casi un periodo lungo, di estremo isolamento (incertezza, solitudine, disperazione).
E chiederci se il modo in cui la cronaca della televisione e dei quotidiani ci presenta fatti di violenza come questo (altri ne possiamo ricordare: certo, ne succedono) sia in qualche modo utile: a capire la complicata situazione del mondo in questa fase, a evitare proposte di soluzione inadeguate di fronte a problemi oggettivamente difficili da gestire. Una occasione per riflettere sul fenomeno dell’immigrazione non genericamente. Da quali diversi paesi e in quali diverse circostanze arrivano, uomini e donne, attraverso «reti» o del tutto soli, senza sostegni; e in quali dei molto disomogenei contesti del nostro paese.
E però anche per riflettere su «noi»: come veniamo informati, se ci poniamo la questione in termini abbastanza attenti, se pensiamo al futuro consapevoli, in qualche misura, delle possibili ricadute del presente.
Continueranno gli arrivi. Proprio due giorni fa, val la pena di ricordarlo, è stato presentato il rapporto annuale sull’immigrazione in Italia della Caritas.
Per molti, condizioni durissime; altri vivono meglio, ma comunque lo sappiamo: difficoltà, sfruttamento, discriminazione. I percorsi dell’ accoglienza (o dell’inserimento, o dell’integrazione, o della cittadinanza; della società multi-etnica, multi-culturale, ecc.) sono lunghi, contrastati, difficili. Cominciamo appena a parlare delle «seconde generazioni».
Di fronte a un tragico fatto come questo dovremmo arrivare a capire che appunto è una fase complicata quella che viviamo.
Vorrei insistere su qualcosa che trovo non sia abbastanza detto: è fondamentale che si abbia una prospettiva che colga come siamo «noi», la società italiana (ed europea). Sondaggi e ricerche ci dicono che crescono l’ insicurezza, il rifiuto, gli stereotipi. Diventiamo sempre più spaventati, ostili. Una società burocratica, chiusa, negativa. Aumentano risposte che sono discriminazioni, controlli (anche angherie). A volte sembrerebbe che fatti di illegalità e di violenza, se non ci fossero gli immigrati, in Italia non ce ne sarebbero.
Ci riguarda: dovremmo pensarci.
«Loro» continueranno ad arrivare. Abbiamo bisogno dei migranti (anche questo lo troviamo nei dati statistici, nelle ricerche, in dichiarazioni di politici). Certo, ci piacerebbe poterli «scegliere» (succede ormai in molti paesi) o almeno, certi, mandarli indietro. È la soluzione di cui si parla in questi giorni.
Di fronte a episodi come questo la reazione di condanna e sgomento è comprensibile (i media naturalmente svolgono il loro ruolo di informazione con modalità che studi approfonditi hanno discusso in termini allarmati).Ma dovrebbero preoccuparci risposte che, con apparente senso di efficienza, non diano la misura delle difficoltà reali.
Sono pochissimi i casi (in altri paesi, e da noi in qualche situazione relativamente ben organizzata) in cui si opera con soluzioni abbastanza soddisfacenti (anche, per esempio, riuscire ad anticipare i rischi in una strada così buia, in periferia, vicino a un campo in condizioni di disagio estremo).
In casi estremi - come è questo - riesco a dire soltanto che viviamo, e certo vive la maggioranza di «loro», una fase storica che molto poco sappiamo come gestire. Riuscire a esserne consapevoli - e anche vigili, certo, nelle diverse posizioni di responsabilità - è un impegno culturale e politico prioritario.
Dovremmo cercare di porci in una prospettiva non «banalmente» rassicurante. Non serve per affrontare i problemi, ai diversi livelli; né per un’opinione pubblica che rifiutando il rischio di essere «mediatizzata» cerchi invece di tenere gli occhi aperti su quello che ci succede intorno.
* l’Unità, Pubblicato il: 02.11.07, Modificato il: 02.11.07 alle ore 11.54
Presentato il dossier della Caritas, il nostro paese balza al terzo posto in Europa per presenze straniere
Parlano oltre 150 lingue, ma il gruppo più numeroso è di gran lunga quello romeno
Immigrati, in Italia arrivi boom
Ora sono quasi quattro milioni
Crollano i rimpatri delle forze dell’ordine, i nuclei più vasti nelle zone di Roma e Milano
Napolitano: "Senza di loro il nostro Paese si bloccherebbe. No a rigurgiti razzisti" *
ROMA - Sono quasi quattro milioni gli immigrati presenti in Italia. Lo afferma il dossier statistico sull’immigrazione realizzato da Caritas-migrantes e presentato oggi a Roma. Per la precisione gli immigrati residenti nel nostro paese sono 3.690.000. Un numero aumentato in un anno del 21,6% e pari al 6,2% della popolazione complessiva, contro una media dei paesi Ue del 5,6%. "Senza di loro il sistema Italia si bloccherebbe", ha commentato il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, mettendo in guardia contro i "rigurgiti di razzismo".
Il boom in Italia. Se i dati della Caritas fossero confermati, il nostro Paese balzerebbe al terzo posto in Europa sia per tasso di crescita, sia per presenze in assoluto, alle spalle solo di Germania e Spagna, che ospitano rispettivamente 7.287.900 e 4.002.500 immigrati.
Estendendo l’analisi all’intera Europa, si raggiunge la cifra di 50 milioni di immigrati, ovvero poco meno di un terzo di quelli presenti in tutto il mondo.
I numeri italiani. Gli immigrati presenti in Italia parlano 150 lingue diverse, sognano la cittadinanza italiana e arrivano in massa: più di 500 mila nel corso del 2006, con un aumento che non era mai stato raggiunto neppure con le regolarizzazioni degli anni passati. Per quanto riguarda la dislocazione geografica, la loro presenza è distribuita abbastanza uniformemente su tutto il territorio, con dei picchi nelle grandi città. La concentrazione più alta si registra infatti nelle aree metropolitane di Milano e Roma.
Il fenomeno romeni. A dare il maggiore contributo sono i paesi dell’Est europeo, Romania in testa, di gran lunga il Paese che detiene il record di immigrati in Italia. Solo i romeni, sempre secondo le stime della Caritas, sfiorano ormai le 600 mila presenze, ovvero un sesto del totale di tutta l’immigrazione. Al secondo posto nella classifica degli arrivi c’è il Marocco (387.000) e al terzo l’Albania (381.000).
I clandestini. Il dossier Caritas si occupa poi del problema degli irregolari, segnalando che nel 2006, su 124.383 stranieri individuati dalle forze dell’ordine senza permesso di soggiorno, solo il 36,5% (45.449) è stato rimpatriato. Un dato crollato rispetto al ’99 quando fu rimpatriato il 64,1%. Nel valutare queste cifre occorre però tenere conto che con l’ingresso nell’Unione Europea di Romania e Bulgaria il numero degli intercettati in posizione irregolare è sceso per la prima volta dopo tanti anni sotto quota 100 mila (per l’esattezza, 84.245).
La questione scolastica. Altro problema legato all’immigrazione che rimane aperto, sottolinea ancora il dossier Caritas, è quello della scuola. Se su scala nazionale ci sono più di mezzo milione di bambini stranieri (5,6% della popolazione scolastica), ma in diversi contesti provinciali i minori immigrati rappresentano più di un quarto di tutti gli alunni, creando non poche difficoltà di gestione.
La conflittualità. Il rapporto con gli immigrati è più che mai difficile e contraddittorio. La Caritas cita a tale proposito i risultati di un sondaggio di Eurobarometro che ben sintetizza lo stato d’animo degli europei davanti all’immigrazione. Un europeo su due ritiene che la presenza degli immigrati sia ormai indispensabile. Ma quasi la stessa percentuale (48% del totale) pensa che gli immigrati siano la principale fonte di insicurezza e non solo dal punto di vista dell’ordine pubblico, ma da quello della sicurezza sociale, facendo aumentare i tassi di disoccupazione.
Il commento di Napolitano. "Senza gli immigrati il sistema Italia si bloccherebbe", afferma il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in un messaggio inviato alla Caritas. Il Rapporto, sottolinea il capo dello Stato, "conferma il fatto che l’Italia si presenta oggi come uno dei paesi europei più decisamente investiti dai flussi migratori. E conferma pure il radicamento di una parte consistente dei nostri immigrati: più famiglie, più nascite, più studenti, più acquisti di abitazioni, più nuovi cittadini. Conferma altresì il contributo decisivo del lavoro immigrato alla produzione di beni e servizi, al pagamento di contributi e imposte". Infine il capo dello Stato auspica che si creino le "condizioni di successo del nostro comune impegno di denuncia e di rifiuto di ogni rigurgito e nuova manifestazione di razzismo".
* la Repubblica, 30 ottobre 2007.
Viaggio tra i romeni delle baracche sull’Aniene
Vita da incubo nella città di latta
di GIUSEPPE D’AVANZO *
ROMA - L’odore è buono. Come in ogni casa del mondo, dove c’è una famiglia e un pranzo nel giorno di festa. Il vapore che sale dalla pentola dello stufato di maiale con l’aglio e le cipolle è denso e profumato e Iuliana - Iuliana Dumea è venuta a Roma dalla contea di Piatra Neamt, Romania, quattro anni fa, in settembre - ne è fiera. Sorride e si stringe sulle spalle lo scialletto di lana. Fuori piove. Vuole preparare un caffè tanto per levarsi di dosso l’umidità.
Iuliana racconta di sé senza disperazione, quasi orgogliosa della sua rassegnazione a una vita aspra, della sua capacità di sopportarla con dignità. Dice del suo lavoro di badante a Cerveteri, 650 euro al mese, un posto fisso, un letto caldo per sei giorni la settimana e la famiglia che l’ospita la rispetta e ha fiducia in lei. Dice della figlia Andreea, arrivata in Italia che sono sette giorni: si prepara a diventare "grande", a dicembre finalmente festeggerà i diciotto anni e potrà cercarsi un lavoro. Del marito muratore che guadagna 40 euro a giornata, anche 50, quando è fortunato a trovarlo e, se Dio vuole, quest’anno la fortuna non lo ha mai abbandonato. Dice Iuliana, delle sue preoccupazioni, ma anche della sua speranza di una vita regolare, del desiderio di trovare una casa e non la baracca dove in un angolo ora borbotta - allegra - la pentola dello stufato.
La baracca, quindici metri quadrati, è stata tirata su con gli alberi del parco dell’Aniene, con l’aiuto di Cristian Samoila che ora sta tirando su la sua poco più in là. La baracca ha un tetto di laminato d’alluminio e pareti di cartone, protette da larghi fogli di plastica e cartelloni pubblicitari. C’è anche una finestra, ma non si apre. E’ lì per decoro, per simulare una casa vera. Il rifugio di Iuliana è a ridosso dell’argine destro dell’Aniene tra l’ansa di Ponte Mammolo e Casale Rocchi. E’ nel mezzo di una fangosa discarica per gran parte annerita dal fuoco - televisori sventrati, marmitte e batterie d’auto, vecchie scarpe, centinaia di bottiglie di vino e di birra, monnezza, bambole, cessi sbreccati, plastica bruciata.
Se guardi il volto di Iuliana, puoi anche dimenticare la baracca e la discarica. E se dimentichi la baracca e dove sei, la vita di Iuliana può anche apparire non disperata - Iuliana non la sente disperata - difficile sì, dura come la pietra sì, ma non disperata. E’ una vita che ha ridotto al minimo ogni bisogno di abitazione, di vesti, di vitto ma non l’aspettativa di giorni migliori. E ora, chiede Iuliana, che succederà dopo quel che è accaduto a Tor di Quinto a quella povera signora: noi romeni finiremo tutti nei guai? Ci cacceranno tutti? Pagheremo tutti, i delitti di pochi o di uno? Io ho un lavoro, potrò restare? E Andreea potrà restare, lei che il lavoro non ce l’ha, ma ha me? Perché non li punite? Perché non li tenete in carcere? Perché, se li arrestate, poi li scarcerate?
Può apparire un paradosso e non lo è. I romeni, quei romeni che menano una vita agra lungo l’argine dell’Aniene, in baracche di cartone, legno e plastica, a pochi metri dal fiume - "invisibili" soltanto per chi abita in un’altra parte della città - temono la violenza dei romeni quanto gli italiani. La odiano come loro. Ne sono impauriti come loro e, come loro, chiedono che chi sbaglia paghi duramente. Come duramente pagherebbero in Romania. Se rubi una gallina in Romania, sei condannato a cinque anni di carcere anche se quella gallina ti sfama soltanto per un giorno, dice Cristian - è alto, magrissimo, è un elettricista, ha ascoltato Iuliana, in silenzio, infreddolito e scosso dai brividi. Se hai la droga, puoi essere condannato a quindici anni, dice. Se la droga è troppa per essere soltanto la tua, rischi l’ergastolo. Se hai bevuto anche solo un bicchiere di birra e guidi, perdi l’auto e la patente. Perché da voi non è così?
Lungo il fiume, per chilometri, ci sono soltanto baracche di romeni, di rom, di bosniaci, dice Cristian, vai a vedere: ognuno vive, come può e come sa e, se non ti fai confondere dalla povertà e dal loro aspetto o dalla confusione delle loro baracche, la vita che vogliono fare gliela leggi in faccia. Se hanno voglia di lavorare, se cercano lavoro per mangiare, lo capisci. Se vogliono mangiare e bere senza lavorare, lo puoi intuire. Se vuoi capirlo meglio, guarda se ci sono bambini e donne in casa. Se hanno la responsabilità di bambini e donne, gli uomini non rischiano di finire in carcere per una sbronza violenta. Se ci sono bambini e non ci sono le donne, diffida di quegli uomini: mandano le loro donne a rubare.
Se vedi soltanto uomini in una baracca, stai attento: possono essere loro - proprio quelli - la maledizione che può dannarci tutti. Sono spesso uomini che non hanno nulla da perdere. Venuti negli ultimi mesi in Italia, non dai villaggi ma dalle città, Costanza, Timisoara, Iasi, Cluj Napeca, dai peggiori quartieri di Bucarest, Ferentari, Obor, Pantelimon. Magari in Romania hanno fatto già il carcere e ancora ne devono fare e non hanno nulla da perdere. Sono uomini in fuga e di nulla conoscono il valore, nemmeno della vita umana. Ogni giorno in più per loro è un giorno guadagnato e per trenta euro possono ucciderti, se hanno bevuto; e d’altronde hanno sempre bevuto perché non fanno altro, dice Cristian.
Le acque dell’Aniene, grigie come il ferro, corrono veloci e gonfie. Le baracche sono addossate all’argine melmoso, nascoste dalle canne. L’una accanto all’altra per chilometri. Sono costruite tutte nello stesso modo, più o meno. Una camera, i grandi letti, la cucina a gas, la stufa a cherosene. Una porta che dà sul sentiero interno e un’altra che si apre su una specie di terrazzino "panoramico" che guarda il fiume e l’altra riva. C’è il tavolo, un paio di sedie e, a volte, anche un divano sfondato. Qualche baracca ha il televisore e l’antenna satellitare. Non si ode un rumore, una voce, il pianto o il riso di un bambino.
Gli "uomini soli" li vedi subito, da lontano. Sono in cerchio davanti alla baracca. Fumano, chiacchierano, hanno già bevuto e sono soltanto le undici del mattino. Non hanno voglia di dire il loro nome. Farfugliano se si parla di lavoro. Dicono che sono di Timisoara. Dicono che loro "i romeni cattivi" li prendono a calci nel culo se si fanno vedere da quelle parti. Uno che sembra il capo - è il solo a parlare mentre gli altri al più annuiscono a quel che dice - racconta che l’altro giorno si presentano un paio di loro con un’auto. Vedete, quella Ford laggiù. Vogliono venderla per mille euro. L’uomo chiede i documenti, ma non c’è alcun documento. Allora, giù calci nel culo. Quelli scappano e l’auto resta lì. E’ ancora lì. "Che ci posso fare? Magari qualcuno può pensare che l’ho rubata io".
Se si racconta la storia a Essan, ride e ti chiede se l’hai bevuta. Abita più in là, lungo l’argine in una larga area umida e piana. E’ un bosniaco, in Italia dal 1969. 43 anni, magro come uno chiodo, otto figli, dieci nipoti. Vivono tutti con lui, in quattro baracche di legno e una roulotte in un lotto recintato da rovi di more e una rete di ferro con su un cartello "Proprietà privata, non oltrepassare". Dice Essan che gli è venuta la pelle d’oca quando ha saputo della signora di Tor di Quinto. Mai, dice, si è vista questa violenza.
Ci sono stati gli albanesi, i marocchini, che non sono roba da poco, e mai la violenza dei romeni, dei romeni sfrizzati. Essan non vuole fare il santo. E’ stato un ladro, ammette. Ha rubato, ma era un altro rubare, sostiene. Mai un coltello, mai una pistola e, se entravi in una casa e qualcuno gridava, te la davi a gambe e in fretta. Se ti beccavano e magari dovevi scontare un "residuo di pena", con le vostre leggi strane che prima ti scarcerano e poi, dopo anni, ti chiedono di tornare in galera a scontare la condanna, preparavi la tua valigia e te ne andavi a Rebibbia con le tue gambe. Ma ora, dice Essan, chi ci capisce niente? "Questi t’ammazzano per cinque euro, se sono ubriachi! Io non voglio che i miei figli abbiano a che fare con quella gente lì. Abbiamo il nostro lavoro della raccolta del ferro, e questo ci basta".
Anche Nichita è il capo di una tribù, otto figli, tre generi, cinque nipoti. E’ autista e si sente proprietario dello spicchio di demanio pubblico che occupa. Lo ha pagato 11.500 euro, dice. Ha un foglio di carta firmato. Glielo ha venduto un tale di nome Gino che prima aveva lì un orto. Testardo, non vuole saperne di essere stato truffato. Dice che quella terra è ormai sua e da lì non se ne andrà. Perché dovrebbe andarsene, chiede. "Perché sono romeno? E allora stai a sentire? Guarda questa mano. In questa stessa mano, non c’è un dito uguale all’altro. Questo è corto e largo. Quest’altro è lungo e magro. Quest’altro ancora non si sa che farsene se non infilarci un anello.
Un popolo è come una mano. Ognuno è diverso dall’altro. Perché non volete capirlo? Proprio voi dovreste capirlo. Per alcuni, siete tutti mafiosi. Io so che non è vero, ma allora perché, per voi, può essere vero che tutti i romeni sono ladri e assassini e ubriaconi e violenti? Noi romeni siamo come cavalli che sono stati per anni chiusi in una stalla al buio. Poi hanno aperto le porte della stalla e il sole, la luce, l’aria, la libertà ci hanno intontito e turbato. C’è chi quella libertà vuole respirarla a pieni polmoni e corre, corre, corre approfittando degli spazi liberi pensando che la vita che vuole regalare ai figli deve essere diversa da quella che lo ha imprigionato per anni e ci sono altri che non sanno che farsene di quella libertà. Quella libertà non li rende felici. Al contrario, li riempie di rancore. Li fa rabbiosi e pazzi come cani e mordono chiunque li avvicini. Perché volete confondere me, la mia famiglia, con quei cani?".
Oltre la curva dell’Aniene a Ponte Mammolo, c’è una rete di strade e in una di quelle vie cieche che scendono verso l’area di esondazione del fiume, a Pietracamela, dicono che da qualche tempo c’è un nuovo campo di romeni, nelle grotte. Sembra una leggenda metropolitana. Quelle strade sono deserte e di grotte, in apparenza, non se ne vedono. Sarebbe difficile accorgersene se non spuntasse nell’angolo di un costone roccioso una testa per scomparire subito. E’ quello l’ingresso delle grotte. Dentro inzuppato in un’umidità quasi solida c’è un intero borgo.
Le baracche appoggiate alla roccia, una larga "piazza" con intorno tavoli e sedie. Nel tavolo in fondo, un uomo allampanato, avanti con gli anni, beve un tè, concentrato nel gioco enigmistico del giornale romeno che lo ha accompagnato nel viaggio dalla Transilvania a Roma. E’ arrivato appena ieri, dice Marian. Marian ha 22 anni, è nato e vissuto in un villaggio di trecento abitanti nel distretto di Maramures, in Transilvania appunto. Quando vivi in un posto di trecento abitanti, dice, non sai che cos’è la violenza.
Tutti si conoscono. Qualcuno può stare sul naso di un altro, ma al peggio non gli rivolge la parola ed è il massimo della violenza in un posto così. "Io - dice Marian - la violenza l’ho scoperta qui da voi ed è una violenza figlia delle vostre abitudini. Sono qui per lavorare e il lavoro non mi manca. Non guadagno molto, ma vado avanti. Penso che domani possa andare meglio. Quando mi manca il lavoro a Roma, vado al Nord, da mio fratello, e un lavoretto lo trovo sempre. Ora faccio pubblicità per una discoteca. Cinquanta euro al giorno. Può andare. Non capisco perché vi aspettate che chi non ha voglia di lavorare non procuri guai agli altri. Se non lavori, non mangi. Se non ti cerchi un lavoro, l’unico modo per mangiare è rubare. Se hai rubato una volta, tornerai a farlo. Se hai ucciso, sarai tentato di farlo un’altra volta. C’è un solo modo per risolvere il problema, chiudere in carcere chi fa del male agli altri, come fanno in Romania. Che ci vuole a capirlo?".
Marian alza la voce, senza volerlo, come in preda a una incomprensibile rabbia. Gli viene accanto una ragazza. Si chiama Veronica. E’ la sua donna. Veronica prende per mano Marian, che si calma subito. Veronica è stata una schiava. Costretta a prostituirsi, picchiata selvaggiamente quando si rifiutava di passare le notti sulla Tiburtina. Marian l’ha convinta a denunciare i suoi "padroni". Ora vogliono sposarsi, appena troveranno un posto più decente di una grotta.
Via libera del capo dello Stato al decreto che dà ai prefetti il potere di rimpatrio
Il leader di An: "Il governo si vergogni". Il ministro dell’Interno: "Critiche ingiustificabili"
Napolitano firma il dl sulle espulsioni
ma sulla sicurezza è scontro Fini-Amato
Prodi assicura: "Abbiamo fatto quello che dovevamo fare, ognuno il proprio dovere
Vigileremo affinché tragedie come quella di Roma non si ripetano più"
ROMA - La morte di Giovanna Reggiani, la donna aggredita da un romeno e deceduta dopo 48 ore di agonia, alimenta lo scontro fra governo e opposizione sul tema della sicurezza, esploso dopo le misure straordinarie varate dall’esecutivo mercoledì sera. La giornata registra la firma, da parte del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, del decreto sulle espulsioni e Romano Prodi lo ringrazia "perché ci è stato vicino e ci ha incoraggiato nelle nostre decisioni". E promette: "Continueremo a vigilare per fare in modo che questi atti non si ripetano". Gianfranco Fini si reca sul luogo dell’aggressione, a Roma: "Il governo si dovrebbe vergognare. Il giorno prima, Amato aveva detto che il decreto non era necessario poi, dopo la tragedia, il governo ha fatto il decreto. Meglio tardi che mai". Il ministro degli Interni replica duramente ed è scontro.
"Critiche ingiustificabili". Quelle di Fini sono "critiche ingiustificabili - replica Prodi - perché non siamo al governo da cento anni e la grande responsabilità di queste politiche è del governo precedente". Gli fa eco il ministro dell’Interno: "Sorprende e amareggia che un uomo di governo come Fini vada sul luogo del delitto a sollevare emozioni contro di me e il governo in una giornata come questa. Proprio lui che si è trovato a gestire l’ingresso della Romania nella Ue in una fase decisiva. Di tutto abbiamo bisogno - aggiunge - tranne che dividerci davanti alle tragedie. An dia il suo contributo in Parlamento per una rapida approvazione del decreto e dell’insieme di norme sulla sicurezza".
"Veltroni e governo colpevoli". La polemica tira in ballo il ruolo di Walter Veltroni nella doppia veste di sindaco di Roma e leader del più grande partito della maggioranza. Contro di lui il centrodestra, in prima fila An: "Governo e sindaco - dice Maurizio Gasparri - sono colpevoli di quanto accade a Roma e in tutta Italia".
Scontro Unione-centrodestra. "Se il leader di An vuole dare una mano - dice Massimo Donadi (Idv) - collabori all’approvazione del pacchetto sicurezza. Se cerca visibilità è meglio che taccia e rispetti il dolore del Paese". "Se c’è uno sciacallo a Roma - replica Gianni Alemanno, An - è chi per anni ha nascosto i problemi della città per esigenze di immagine e propaganda. La sinistra romana si deve vergognare". Per Silvio Berlusconi parla il portavoce Paolo Bonaiuti: "Con quale faccia tosta Prodi dà la colpa di quanto accade in Italia al governo precedente? In diciotto mesi la sinistra non ha fatto nulla per contrastare gli arrivi degli irregolari".
Linea dura del governo. Nessuna retromarcia del governo sulla linea dura adottata con la trasformazione in decreto legge del disegno di legge che facilita le espulsioni. Prodi e l’ala riformista della coalizione, il Pd in primis, rivendicano la validità delle decisioni. "Abbiamo fatto quello che dovevamo fare - sostiene - e continueremo a vigilare. Ognuno ha fatto il proprio dovere, il governo che ha agito con tempestività e il sindaco di Roma".
Veltroni conferma linea fermezza. Conferma la linea della fermezza anche il sindaco di Roma, per il quale davanti all’immigrazione vale il doppio binario: "Bisogna accogliere chi scappa dalla morte, ma essere duri con chi vuole provocare la morte". Linea che il ministro per lo Sviluppo Economico, Pierluigi Bersani, ribadirà martedì prossimo in Romania al premier rumeno e che oggi Prodi ha illustrato al capo dello Stato rumeno, definendo la creazione di una task force congiunta tra i due Paesi.
Disagio nella sinistra radicale. Da Rifondazione prendono voce i disagi contro "la linea emergenziale" e la preoccupazione che il decisionismo di Veltroni rischi di spostare l’asse della coalizione e del rapporto con il premier. "Ho la sgradevole impressione che in questa vicenda Veltroni sia stato il presidente del Consiglio ombra", osserva il capogruppo del Prc al Senato, Giovanni Russo Spena. Ironico il diniano Roberto Manzione: "C’è una parte della maggioranza, quella che viene dal Nord, che si lamenta che quando simili episodi avvengono al Nord non vengono considerati... Quando si dice l’effetto Veltroni".
* la Repubblica, 1 novembre 2007 - ripresa parziale