Sono molti gli animali che mutano le loro abitudini per via delle trasformazioni dell’habitat.
Scienziati Usa hanno decretato l’inizio della sesta estinzione sulla Terra, la prima provocata dall’uomo
Attenti alla rana: è la spia che il clima cambia
Il suo organismo vittima dell’effetto serra. Alcune specie di anfibi a rischio estinzione
di ANTONIO CIANCIULLO *
ROMA - Sono piccole, ricche di colori e povere di futuro. Le rane arlecchino stanno scomparendo. Muoiono disidratate, con le pelle mangiata da un fungo che le ricopre come un sudario, bloccando la traspirazione. Assieme ad altre migliaia di specie, si estinguono travolte dalla violenta accelerazione dell’effetto serra che sta trasformando il normale avvicendamento delle forme di vita in un buco nero che inghiotte la biodiversità del pianeta. Il fenomeno ha raggiunto una dimensione tale da spingere molti biologi a descrivere quanto sta accadendo sotto i nostri occhi come la sesta estinzione di massa nella storia della Terra, la prima che porta la firma dell’uomo.
L’ultimo allarme viene dalla rivista Newsweek che ha messo a fuoco alcuni segnali biologici utili per misurare il processo di riscaldamento in corso. Nelle Montagne Rocciose le marmotte dalla pancia gialla escono dal letargo 23 giorni prima rispetto al loro ritmo abituale di 30 anni fa. In Gran Bretagna per 65 specie di uccelli il periodo di cova scatta con un anticipo di 9 giorni, e venti specie di libellule hanno spostato il loro habitat 90 chilometri più a Nord rispetto agli anni Sessanta. In Spagna l’onda calda ha ridotto a un terzo lo spazio vitale di 16 specie di farfalle. E la volpe rossa canadese ha invaso il territorio della volpe artica, spingendosi fin nelle isole Baffin, 900 chilometri più a Nord dei suoi confini tradizionali.
Ma non tutti riescono a sopravvivere spostandosi o mutando le loro abitudini: molti non hanno il tempo, o lo spazio, per scappare. Per le rane arlecchino del Costa Rica il nuovo clima è stato fatale. Le notti sempre più calde e lo strato di nuvole in crescita che durante il giorno blocca parte della radiazione solare hanno favorito la proliferazione di un fungo patogeno che attacca la pelle delle rane impedendo l’assorbimento dell’acqua attraverso i pori. Questa piccola mutazione climatica è bastata a far scomparire due terzi delle 110 specie di rane arlecchino dell’America latina in un arco di tempo estremamente ridotto.
Il fenomeno fu segnalato dai biologi per la prima volta nel 1990. E in appena 16 anni il problema è esploso finendo per travolgere buona parte delle popolazioni di rane, tritoni e salamandre. Secondo i dati dell’Iucn (International Union for the Conservation of Nature and Natural Resources), ad essere a rischio ormai è l’intera classe degli anfibi: su un totale di 5.700 specie, ben 1.800 sono in via di estinzione.
"I cambiamenti climatici, provocati principalmente dal consumo di combustibili fossili, sono diventati la principale minaccia per la sopravvivenza di molte specie", osserva Massimiliano Rocco, responsabile del settore Traffic del Wwf. "E purtroppo questa non è una tendenza arginabile nel breve periodo. Si potrebbe però intervenire con efficacia immediata per bloccare almeno le altre concause dell’estinzione di massa che ci troviamo a fronteggiare: la perdita degli habitat, determinata soprattutto dalla deforestazione, e il commercio illegale di specie protette. Entrambe hanno effetti drammatici nell’accelerazione della scomparsa di specie. Ad esempio il rospo dorato del Costa Rica ha pagato un prezzo molto caro per la sua bellezza che lo rendeva preda ambita dei collezionisti disposti a tutto: è stato avvistato per l’ultima volta tre anni fa. E in Madagascar la grande diversità di rane mantella, che si erano andate radicando nelle valli, nei laghetti, nei boschi planiziali mantenendo il loro specifico corredo genetico, ha subito un colpo durissimo per colpa della deforestazione che ha cancellato buona parte degli habitat naturali".
Quello che preoccupa è la progressiva accelerazione del mutamento climatico. La temperatura sale a una velocità che per molte specie è insostenibile: non riescono a sviluppare processi di adattamento ed escono di scena. Tra gli animali che sembrano destinati a non superare la soglia del ventunesimo secolo ci sono gli orsi polari, la tigre, il leopardo delle nevi, l’antilope tibetana. (9 ottobre 2006)
* www.repubblica.it, 09.10.2006
RAPPORTO CHOC SUL CLIMA,
E’ UNA MINACCIA ALL’ECONOMIA MONDIALE *
LONDRA - I cambiamenti del clima, con l’innalzamento generalizzato delle temperature medie, non sono solo una minaccia all’ambiente, ma rappresentano anche un pericolo gravissimo per l’economia mondiale: lo afferma un autorevole rapporto curato dall’economista britannico Nicholas Stern, ex dirigente della Banca Mondiale, che per lo scenario peggiore prevede un calo del 20% del prodotto economico mondiale a causa dei mutamenti climatici. Un costo calcolato attorno ai 5,5 trilioni di euro, se non si affronterà il problema in maniera risolutiva entro i prossimi dieci anni.
Il rapporto, che verrà presentato domani, viene anticipato oggi dal domenicale The Observer. Per la prima volta, un’analisi del ’global warming’ analizza le conseguenze economiche dei cambiamenti: questo potrebbe influenzare più di ogni considerazione ambientale le risposte di governi e industrie, in particolare negli Usa - il paese che inquina di più al mondo -, dove l’amministrazione ha sempre respinto l’opinione prevalente tra gli scienziati sui cambiamenti climatici. Stern ha studiato quali potrebbero essere le conseguenze dei cambiamenti climatici sul pil mondiale da qui al 2100, concludendo che nella migliore delle ipotesi, l’1% del prodotto economico mondiale andrà in spese volte a sanare le conseguenze dei cambiamenti climatici.
Lo studio - 700 pagine - è stato commissionato dal governo britannico nel 2005, e lo stesso esecutivo di Londra ritiene che le conclusioni preoccupanti della ricerca rendano possibile far accettare all’opinione pubblica una serie di tasse ’ecologiche’, dagli aumenti delle accise sulla benzina, a tasse su chi viaggia in aereo, già individuate dal ministro dell’Ambiente David Milliband. Ma quello dell’aggravio fiscale per i contribuenti britannici sembra ben poca cosa, a fronte di 200 milioni di possibili profughi, la maggiore migrazione della storia moderna, causa distruzione di intere zone da parte di siccità e alluvioni. Stern avverte che un nuovo trattato che seguirà Kyoto dev’essere varato entro il prossimo anno, e non entro il 2010/11 come previsto, se si vogliono tagliare drasticamente le emissioni dannose.
Lo studio spiega che l’Europa dovrà estendere il sistema detto ’cap and trade’, nel quale le emissioni di anidride carbonica vengono fissate a un certo tetto massimo: se un’azienda vuole inquinare di più deve comprare questo diritto da industrie meno inquinanti, che non raggiungono il tetto. Cosi, si auspica, le aziende accelereranno la ricerca di sistemi di produzione meno inquinanti. Al tempo stesso, ai governi viene chiesto di raddoppiare gli investimenti nella ricerca di fonti energetiche pulite.
E non servono - avverte Stern - misure unilaterali, ma serve un sforzo mondiale: se la Gran Bretagna chiudesse tutte le sue centrali elettriche domani, ad esempio, la riduzione di emissioni dannose verrebbe vanificata entro soli 13 mesi dalla crescita inquinante della Cina, che insieme all’India rappresenta la sfida decisiva per la riduzione delle emissioni nel futuro immediato. Le anticipazioni del rapporto Stern coincidono con l’allarme lanciato da un altro studio sul clima, ’Up in Smoke 2’, fatto da un gruppo di Ong britanniche - Oxfam, la New Economics Foundation e il Working Group on Climate Change and Development, che raccoglie organizzazioni umanitarie ed ecologiste - per il quale gli aiuti economici all’Africa vengono vanificati proprio dall’aggravarsi delle conseguenze dell’effetto serra. L’aumento delle temperature medie - 3,5 gradi negli ultimi 20 anni in alcune zone - rende le zone aride sempre più aride e quelle umide sempre più umide. Risultato: nella sola Africa sub-sahariana, 25 milioni di persone hanno sofferto la fame lo scorso anno.
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LA TERRA AL "CAPOLINEA". Manifestazioni in tutto il mondo per il salvare il pianeta...
Sciopero clima: in Italia 182 piazze da nord a sud
Gli organizzatori,no a simboli di partito o bandiere identitarie
di Redazione Ansa *
Migliaia di studenti scenderanno in piazza oggi, in 150 Paesi, per lo "Strike4Climate", manifestazione che sostiene la battaglia in difesa del clima dell’attivista 16enne svedese Greta Thunberg, promotrice delle marce di giovani in tutta Europa. La giovane è stata proposta da tre parlamentari norvegesi per il premio Nobel per la Pace. "Non c’è più tempo, anche gli adulti devono agire", dice la ragazzina e fa appello ai suoi coetanei: "Mobilitiamoci tutti per cambiamenti reali". E già decine di migliaia di giovani sono scesi in piazza in 50 città di Australia e Nuova Zelanda.
Piccole, medie e grandi città italiane per un totale 182 piazze in cui oggi i giovani daranno vita allo sciopero per il clima. Non ci saranno simboli di partito o bandiere identitarie almeno questa è la richiesta degli organizzatori, ma solo cartelli e striscioni sul tema dei cambiamenti climatici. ROMA: nella Capitale partiranno mini-cortei da scuole medie inferiori e licei e istituti, mentre dagli atei i manifestanti si muoveranno in bicicletta. Un corteo partirà dalla fermata metro Colosseo alle 10.30 per arrivare nella vicina piazza Madonna di Loreto, a pochi passi da piazza Venezia, dove alle 11 inizieranno gli interventi sui gradini. Unico adulto al microfono il geologo Mario Tozzi, poi 7 interventi di studenti delle elementari, medie, licei e università, dai 9 ai 24 anni.
MILANO: i giovanissimi attivisti attraverseranno la città con una marcia per il clima che partirà alle 9,30 da largo Cairoli e arriverà a piazza della Scala,davanti alla sede del Comune dove, dalle 11 alle 13, è prevista la manifestazione. Alle 18 un’altra manifestazione, a cui aderiscono associazioni ambientaliste come Greenpeace, partirà sempre da largo Cairoli per un corteo in difesa dell’ambiente. Sempre in città la scuola media di primo grado Pertini ha organizzato una marcia per il clima in collaborazione con Legambiente, alla quale parteciperà anche il sindaco, Giuseppe Sala, a fianco degli studenti.
VIDEO. Manifestazioni in tutto il mondo per il salvare il pianeta
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
MASSIMO ALLARME TERRA: IL DOVERE DELLA PAURA. CINQUE MINUTI A MEZZANOTTE. Cambia il clima del pianeta, cambieranno i nostri modi di vivere, ed è sperabile che anche la politica cambi. Un’analisi di Barbara Spinelli
TROIA, L’OCCIDENTE, E IL PIANETA TERRA. PER LA PACE PERPETUA.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
Tre minuti a mezzanotte
di Giorgio Nebbia (Eddyburg, 30 Novembre 2015)
Settanta anni sono un periodo lunghissimo; chi ha oggi venti anni ha, della seconda guerra mondiale, finita nel 1945, lo stesso ricordo che io potevo avere, quando avevo venti anni, delle guerre di Indipendenza, cioè niente. Con la differenza che le guerre di indipendenza dell’Italia avevano lasciato conseguenze soltanto politiche, amministrative e sociali, mentre la seconda guerra mondiale coinvolge, a loro insaputa, i ventenni di oggi e quelli che verranno, per molte generazioni, con l’eredità politica e ecologica della bomba atomica.
Per conservare questo ricordo proprio nel dicembre di settanta anni fa, pochi mesi dopo il bombardamento americano delle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki, un gruppo di scienziati, colpiti dalla grande tragedia generata dalla “bomba” che loro stessi avevano contribuito a fabbricare, decisero di fondare un “bollettino” di informazioni, il Bulletin of the Atomic Scientists. Il fine era di avvertire il pubblico di quello che avrebbero potuto aspettarsi, nel male e nel bene, dalla scoperta dell’enorme energia che si libera dalla fissione del nucleo atomico. Per settanta anni, ogni mese, il Bulletin parla dei problemi delle armi nucleari ma anche delle conseguenze delle scoperte scientifiche che influenzano la vita dei terrestri, 2,3 miliardi di persone nel 1945, 7,2 miliardi di persone oggi.
A partire dal 1947 l’avvertimento dei pericoli è espresso con la immagine di un orologio, che appare sulla copertina di ogni numero, con le lancette che indicano i minuti, prima della mezzanotte dell’umanità, il giorno-della-fine-del-mondo, che restano se non si prendono provvedimenti. In mancanza dei quali l’umanità davvero rischia l’annientamento per la radioattività liberata dalla possibile esplosione di bombe atomiche, o per guerre, o per fame, o per catastrofi dovute agli sessi terrestri.
All’inizio la lancetta è stata messa a sette minuti a mezzanotte quando solo gli Stati Uniti possedevano le bombe atomiche; si avvicinò a tre minuti a mezzanotte nel 1949 quando anche l’Unione Sovietica dimostrò di possedere “la bomba”. La lancetta segnò due minuti a mezzanotte nel 1953, dopo l’esplosione della bomba H americana, e tornò indietro a dodici minuti a mezzanotte quando, nel 1963, Stati Uniti e Unione Sovietica decisero di far cessare le esplosioni nucleari sperimentali nell’atmosfera, limitandole alle esplosioni nel sottosuolo; negli anni successivi ci furono alterni rapporti fra le potenze nucleari “ufficiali” che erano diventate cinque: Stati Uniti, Francia, Regno Unito, Unione sovietica e Cina, con l’aggiunta del misterioso arsenale nucleare di Israele. Nel 1991, dopo la distensione seguita al crollo dell’Unione Sovietica, l’orologio segnò diciassette minuti a mezzanotte, una boccata di speranza di pace, ben presto vanificata dall’entrata di India e Pakistan fra i paesi dotati di bombe nucleari.
I primi quindici anni del Ventunesimo secolo hanno visto nuovi pericoli di instabilità per la popolazione umana, anche se lentamente la Russia e gli Stati Uniti hanno deciso di smantellare una parte delle “vecchie” bombe nucleari. Si tratta di delicate operazioni tecniche che liberano grandi quantità degli esplosivi plutonio e uranio arricchito, in parte utilizzati come combustibili per le centrali nucleari commerciali, in parte esposti a incidenti, e a furti da parte di criminali e terroristi. Dalle sessantamila bombe nucleari esistenti nel mondo all’apice delle crisi internazionali, nel 1987, oggi esistono nel mondo “soltanto” circa 10.000 bombe nucleari, alcune delle quali in stato permanente di allerta.
Le bombe nucleari si deteriorano col tempo e le due principali potenze nucleari continuano ad aggiornare i loro arsenali; adesso i collaudi delle bombe non richiedono più esplosioni sperimentali ma possono essere fatti con altri metodi. Di recente è stato annunciato che le bombe nucleari a fusione americane B61, alcune delle quali sono depositate anche in Italia a Ghedi (Brescia) e ad Aviano (Pordenone), saranno perfezionate nel modello B61-12 con una spesa di dieci miliardi di dollari; così si allontana ancora di più la speranza che gli stati nucleari rispettino l’impegno, da loro sottoscritto col Trattato di non proliferazione nucleare, che impone, all’articolo VI, l’avvio di trattative per il disarmo nucleare totale.
Eppure un disarmo atomico sarebbe possibile; si è riusciti, pur dopo anni di dibattiti, a vietare le armi chimiche e quelle biologiche, perché non si dovrebbero vietare quelle nucleari? Il denaro risparmiato fermando le attività nucleari militari, centinaia di miliardi di dollari ogni anno nel mondo, permetterebbe di affrontare e risolvere almeno una parte dei problemi di miserie, di ingiustizie e di sottosviluppo, di fame e di mancanza di acqua e di suoli inariditi, che sono la vera radice della violenza internazionale.
Altre nuvole tempestose hanno infatti affollato il cielo rendendo possibili disastri, anch’essi planetari, dovuti al riscaldamento globale, e anche per questo l’orologio del Bulletin si è avvicinato, di recente, di nuovo a tre minuti dalla mezzanotte dell’umanità. Vedremo che cosa uscirà dal dibattito iniziato a Parigi per attenuare i peggioramenti del clima dovuti alla nuova “bomba atomica”: i gas inquinanti, figli dei nostri processi produttivi e dei nostri consumi e sprechi di energia, di minerali, di prodotti agricoli e di merci.
Mi piacerebbe che di questi problemi si parlasse nelle scuole, nelle Università, nei partiti e, magari, nel Parlamento, al di là delle dichiarazioni di buona volontà. Miseria, migrazioni, disperazione, le madri del terrorismo, sono alle porte e non basta chiuderle. Bisogna aprire piuttosto, con coraggio, come raccomanda il Papa Francesco, le porte dei nostri cuori alla giustizia che è l’unica mamma della pace.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
CREATIVITA’: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETA’ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE.
Ansa» 2009-01-14 13:34
CLIMA, WORLD WATCH: O SI CAMBIA SVILUPPO O SI MUORE
WASHINGTON - O il mondo entro il 2050 ridurrà in modo drastico la sua attuale capacità di inquinare il pianeta, e in particolare l’attuale emissione nell’atmosfera di biossido di carbonio, oppure andrà incontro a catastrofi epocali: questa la conclusione dell’annuale Rapporto dell’organismo internazionale ’Worldwatch Institute’, che ogni anno raccoglie gli interventi di 47 tra i principali studiosi al mondo sui cambiamenti climatici. Secondo il rapporto, intitolato ’2009 - Lo stato del mondo - Verso un mondo piu’ caldo’, la situazione negli ultimi anni è ulteriormente peggiorata, ed è assolutamente necessario arrivare a un nuovo modello di sviluppo basato su produzione e consumo di energia eco-sostenibile. Nello stesso tempo però, sottolinea lo studio, non mancano le opportunità per intraprendere - oggi - iniziative che faranno sentire i loro benefici effetti nei prossimi decenni. "Abbiamo il privilegio di vivere in un momento della storia in cui possiamo ancora evitare una catastrofe climatica che trasformerebbe il pianeta in un ambiente ostile per lo sviluppo degli esseri umani" ha detto il vicepresidente di Worldwatch, Robert Engelman, che ha co-diretto il Rapporto 2009.
(di Luciano Clerico)
O si cambia o si muore. Perché un dato è certo: il mondo così come è se continua a svilupparsi secondo i criteri energetici seguiti finora è destinato ad andare incontro "a una catastrofe". Il grido d’allarme viene in questo caso del WorldWatch Institute, organismo internazionale che ogni anno raccoglie in un suo Rapporto ufficiale lo stato di salute del pianeta. Nel rapporto 2009, reso noto a Washington, la conclusione è questa: o il mondo sarà in grado entro il 2050 di ridurre in modo drastico la sua attuale capacità di inquinare il pianeta, abbassando in particolare le attuali emissioni di biossido di carbonio, oppure andrà incontro a catastrofi epocali. A questa conclusione sono giunti 47 tra i principali studiosi al mondo sui cambiamenti climatici.
Secondo il rapporto, intitolato ’2009 - Lo stato del mondo - Verso un mondo piu’ caldò, la situazione negli ultimi anni per quanto riguarda il cosiddetto ’global warming’ è ulteriormente peggiorata, ed è assolutamente necessario arrivare a un nuovo modello di sviluppo basato su produzione e consumo di energia eco-sostenibile. Nello stesso tempo però, sottolinea lo studio, non mancano le opportunità per intraprendere - oggi - iniziative che faranno sentire i loro benefici effetti nei prossimi decenni. Avranno un costo complessivo altissimo in termini monetari, gli studiosi stimano la potenziale spesa per la riconversione della produzione di energia alternativa compresa tra i mille e i 2.500 miliardi di dollari all’anno. "Tuttavia - si legge nel rapporto - gli eventuali costi derivanti da mancati interventi sarebbero, col tempo, ancora più alti".
Per il Worldwatch Institute è tempo di agire e di bisogna farlo subito. "Abbiamo il privilegio di vivere in un momento della storia in cui possiamo ancora evitare una catastrofe climatica che trasformerebbe il pianeta in un ambiente ostile per lo sviluppo degli esseri umani - ha detto il vicepresidente di Worldwatch, Robert Engelman, co-direttore del Rapporto 2009. Per Engelman "’non ci e’ rimasto molto tempo". "Varare un patto globale per salvare il clima del globo richiederà un supporto pubblico di enorme portata - ha sottolineato - e una volontà politica condivisa a livello globale di spostarsi verso l’energia rinnovabile, nuovi modi di vivere, e una scala di valori umani capace di adeguarsi ai limiti della atmosfera". Non c’é altra via.
Stando a Worldwatch, è ormai accertato in modo scientifico che il pianeta Terra si è mediamente riscaldato di circa 0,8 gradi dall’inizio della Rivoluzione Industriale a oggi, e il riscaldamento è in buona parte da attribuire alle attività dell’uomo. Un ulteriore grado medio di riscaldamento è potenzialmente prevedibile come conseguenza degli attuali consumi. Per questo secondo i climatologi bisogna correre ai ripari, e fare in modo che il picco di emissioni venga raggiunto prima del 2020, per poi ridurle entro il 2050 per almeno l’85% al di sotto dei livelli del 1990.
Il film di Al Gore nelle scuole: un atto di bullismo?
di Liliana Gorini, presidente del Movimento Solidarietà
14 aprile 2007 - Da settimane veniamo tempestati anche in Italia da previsioni catastrofiche e dall’isteria della campagna sul riscaldamento globale, che è giunta all’apice con la pubblicazione del rapporto dell’IPCC, l’ente dell’ONU sul cambiamento del clima, e col film dell’ex vicepresidente americano Al Gore “Una scomoda verità”. “Il clima sta cambiando, i ghiacciai si sciolgono, il livello del mare salirà di sei metri, gli orsi polari annegheranno, ed è tutta colpa tua”: è questo, in sintesi, il messaggio terroristico del film di Gore, che attribuisce all’attività umana questi presunti cambiamenti climatici (ancora da dimostrare).
Benchè numerosi eminenti scienziati, e perfino alcuni autori del rapporto dell’IPCC, abbiano smentito clamorosamente i dati e i modelli climatici presentati dal film di Gore (ad esempio gli scienziati intervistati da una trasmissione di Channel 4 in Gran Bretagna dal significativo titolo “la grande truffa del riscaldamento globale”) anche in Italia si sta diffondendo l’isteria intorno a questo film, che forse dovrebbe meglio intitolarsi “la menzogna scomoda”. L’aspetto che più preoccupa in questa campagna, è che ora essa si rivolge alle scuole, con l’intento di terrorizzare studenti e scolari fin dai primi anni.
Il ministro Pecoraro Scanio ritiene che il film di Gore debba essere trasmesso in prima serata dalla RAI e già a fine marzo alcuni cinematografi ho hanno proiettato per le scuole superiori, pubblicizzando i dati falsi che propone come “una serie di dati scientifici inattaccabili” e facendo anche pagare l’ingresso agli studenti per poi uscire dal cinematografo terrorizzati e con sensi di colpa che si porteranno dietro per anni.
Mi metto nei loro panni: alla loro età vidi un documentario in televisione che prevedeva che per via dell’aumento demografico l’acqua sarebbe finita entro il 2000, e per molto tempo mi sentii in colpa ogni volta che bevevo un bicchier d’acqua. Naturalmente, siamo al 2007 e l’acqua non è finita, anzi, ora ci annunciano l’opposto, che inonderà il nostro continente trasformando le “case in collina” in case sul mare, come sostiene un ridicolo spot trasmesso da La7 ed MTV, che pur essendo una burla indica il livello di isteria a cui siamo arrivati.
Chi propone il film di Gore alle scuole non si è mai fermato a pensare agli effetti che avrà sugli studenti più sensibili? Non è forse anche questo un atto di bullismo, mirante a terrorizzare i ragazzi che prendono per oro colato tutte le affermazioni antiscientifiche che esso spaccia per “verità”?
I giovanissimi, che dovrebbero essere i più ottimisti, e che dovrebbero apprendere come la scienza possa risolvere tutti i problemi del mondo, la fame, le epidemie e (perché no?) anche l’inquinamento, imparano invece che il progresso e la tecnologia sono la causa di tutti i mali. Insegnanti e presidi non dovrebbero indottrinare gli studenti, ma dare loro gli strumenti per giudicare con la loro testa.
Se davvero verrà imposta la proiezione del film di Gore alle scuole, che almeno i provveditori, i presidi e gli insegnanti esigano che venga affiancata dalla proiezione della tesi opposta, contenuta nel film di Channel 4 in cui eminenti metereologhi, tra cui il Prof. Paul Reiter, dell’IPCC e dell’Istituto Pasteur, confutano le argomentazioni del film di Gore e dimostrano come si punti a creare tanta isteria sui mutamenti climatici non per migliorare le condizioni della terra ma per “uccidere il sogno dell’Africa e del terzo mondo: quello di svilupparsi”.
Effetto serra, il conto salato che l’Africa pagherà per colpa nostra
di Pietro Greco *
Il conto dei cambiamenti climatici è «già» arrivato. Ed è «già» piuttosto salato. Nell’Oceano Artico le temperature stanno salendo più velocemente del previsto e più rapidamente si stanno fondendo i ghiacci. Molte specie viventi in tutto il mondo stanno migrando e molte altre stanno già sparendo sia nei mari che sulla terraferma. Molte coste si stanno già erodendo e molti regimi meteorologici stanno già mutando. I deserti stanno già avanzando. Il permafrost si sta già sciogliendo. Nel contempo, la frequenza degli uragani più estremi è già aumentata.
È proprio in questo avverbio, «già», che è contenuto la gran parte del succo del nuovo studio reso pubblico ieri a Bruxelles, dove il Gruppo di Lavoro II dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc) che ha approvato, non senza fatica, la seconda parte del Quarto Rapporto sui Cambiamenti Climatici. Una parte che per ora ha la forma di un sommario di 21 pagine destinato ai politici, ma che è destinato a regime a riempire un intero volume, ed è relativa appunto a «Impacts, Adaptation and Vulnerabilità»: impatti, adattamento e vulnerabilità degli ecosistemi sottoposti ai cambiamenti del clima. Come ha detto Martin Parry, co-presidente del Gruppo di Lavoro II, «per la prima volta non stiamo parlando solo di scenari elaborati al computer, ma di dati empirici reali». Non stiamo parlando di un ipotetico futuro, ma di un presente reale. Di ciò che, appunto, sta «già» accadendo o è «già» avvenuto.
Il Gruppo di Lavoro II fa riferimento per esempio a ben 75 diversi studi che hanno raccolto complessivamente 29.000 serie di dati empirici, l’89% dei quali risulta del tutto congruente con l’accelerazione del cambiamento climatico in atto. Sono proprio questi dati empirici, questa verifica della realtà, che rende molto più credibile le previsioni proposte ieri a Bruxelles sulla base di modelli di simulazione. Cosa accadrà dunque nei prossimi anni? Prima di ridare la parola agli scienziati del Gruppo di Lavoro II conviene ricordare brevemente quanto hanno annunciato, all’inizio dello scorso mese di febbraio, gli scienziati del Gruppo di Lavoro I quando hanno approvato la prima parte del Quarto Rapporto sui Cambiamenti del Clima dell’Ipcc, «The Physical Science Basis», la parte relativa appunto alle basi fisiche dei cambiamenti del clima. Le novità per così dire strutturali dei cambiamenti del clima sono due. In primo luogo, la temperatura media al suolo del pianeta è già salita, nell’ultimo secolo, di 0,72 gradi e il livello dei mari è già aumentato di una ventina di centimetri. Entro la fine del secolo, la temperatura continuerà a salire per un valore compreso probabilmente tra 1,8 e 4 °C e il livello dei mari di una quantità compresa tra 20 e 40 centimetri. In secondo luogo, causa di questo incremento di temperatura (con conseguente aumento del livello dei mari) sono, con una probabilità molto elevata (oltre il 90%), le attività umane, in particolare l’uso dei combustibili fossili e poi la deforestazione.
Questi cambiamenti delle condizioni strutturali del clima, come abbiamo detto, stanno già producendo degli effetti misurabili di diversa natura sugli ecosistemi di tutto il mondo. Ma sono destinati a produrne di altri (vedi schede). Avremo un incremento dei fenomeni di erosione delle coste e di avanzamento dei deserti. Nel medesimo tempo aumenterà in molte regioni del mondo la penuria di acqua e di cibo - entro la fine del secolo da 1 a 3 miliardi di persone potrebbero soffrire per la penuria di acqua potabile, e 600 milioni di persone potrebbero soffierie la fame (ovviamente in aggiunta agli assetati e agli affamati dei nostri gironi). Entro il 2080 potrebbero esserci 60 milioni di persone costrette ogni anno ad abbandonare le loro case a causa dei cambiamenti climatici.
Certo, saranno i più poveri tra i poveri del mondo a subire le conseguenze più gravi dei cambiamenti climatici, come ha notato Rajendra Pachauri, il presidente dell’Ipcc. Anche se i ricchi non potranno dormire tra due guanciali.
Ma non tutto è già scritto. L’altro messaggio forte che l’Ipcc nonostante tutto ha lanciato ieri è che questi scenari possono essere modificati. Che possiamo mitigare gli effetti dei cambiamenti climatici sia attraverso azioni di prevenzione (come, lo dirà in dettaglio nei prossimi mesi un rapporto del Gruppo di Lavoro III), sia attraverso azioni di adattamento. Ma prevenire per chi non ha le tecnologie e adattarsi per tutti costa. L’Africa, per esempio, dovrebbe impegnare dal 5 al 10% della proprio prodotto interno lordo per opere di adattamento. Un’enormità, che non è nelle sue disponibilità. Di qui la domanda (nostra, non dell’Ipcc): visto che il clima è globale e che l’Africa pagherà per azioni compiute da noi, non sarebbe giusto socializzare i costi necessari ad adattarsi ai cambiamenti del clima? Non potremmo, non dovremmo adottare l’Africa e tutti i più poveri tra i poveri del mondo cui un cameriere sbadato e ingiusto sta «già» portando il conto più salato dei cambiamenti del clima?
Il rapporto del Gruppo di Lavoro II è stato approvato ieri nonostante troppe interferenze politiche. Molti paesi e troppi scienziati hanno tentato di addolcire l’analisi rigorosa approvata dal gruppo. Questi paesi, narrano le cronache, sono stati soprattutto l’Arabia Saudita, gli Stati Uniti, la Cina. Inquinatori potenti, di vecchia data ed emergenti. Proprio l’azione frenante della Cina (secondo paese inquinatore), oltre alla reiterazione dell’azione frenante degli Usa (primo paese inquinatore), getta un’ombra sulla possibilità di andare rapidamente «oltre Kyoto» e costruire un futuro climatico più desiderabile.
* l’Unità, Pubblicato il: 07.04.07, Modificato il: 07.04.07 alle ore 12.04
Ciao mi chiamo Schilzer Michele.
State parlando solo degli effetti, non della causa. Stiamo peggiorando e stiamo andando verso la nostra morte portando con noi i bambini, questo sta succedendo perché c’é troppa ignoranza nelle persone, quindi siete totalmente incapaci di salvare la vita a voi stessi e ai vostri figli. Entro il 2020 accadrà il peggio nel pianeta, perchè state cercando di curare questo o quello, ma l’ignoranza presente in VOI, a chi la lasciate? Quella é la causa fondamentale del nostro declino, perché causa: incapacità di.
Preciso che dietro a tutto il male che vedete, per quanto riguarda la civiltà cristiana, c’é il clero. E’ lui che rende ignoranti le persone e non gli fa sapere chi sono. Quindi, se moriranno i bambini entro qualche anno, se moriranno i vostri figli, ringraziate la chiesa, ma anche VOI stessi.
In questo sito, trovi tutte le prove che ti servono per capire che la chiesa è la responsabile del male a livello planetario e sociale. Inoltre trovate anche le soluzioni Reali alla fine della razza umana.
http://www.cospirazione.net/index.php?option=com_docman&task=cat_view&gid=81&Itemid=32
Ciao Schilzer Michele.
P.S.
Forse non ci salveremo, forse moriranno i bambini, perchè il 99% di voi sono Troppo ignoranti.
Dopo il primo, pubblicato a febbraio, l’Ipcc ha varato il secondo capitolo del documento.
Lo studio si concentra sulle drammatiche conseguenze del riscaldamento globale
Clima, trovato l’accordo sul rapporto Onu
"A rischio 20-30% specie vegetali ed animali"
Tra le situazioni più a rischio, l’accesso all’acqua per milioni di persone e la tutela della biodiversità *
BRUXELLES - La scienza alla fine ha prevalso sulla politica, almeno per il momento. Dopo un temuto rinvio dovuto alle pressioni di Stati Uniti e Cina e Arabia Saudita, preoccupate per le conclusioni decisamente allarmanti, l’Ipcc, l’organismo delle Nazioni Unite che si occupa dei cambiamenti climatici, ha finalmente trovato l’accordo sul secondo capitolo del rapporto 2007. Dopo il primo capitolo sulla fisica dei cambiamenti, pubblicato nel febbraio scorso, quello attuale è il dossier che prende in esame le conseguenze pratiche dei mutamenti.
E sono conseguenze che fanno paura. Un innalzamento della temperatura media globale di 2-2,5 gradi rispetto al presente, si legge nel testo approvato, "potrà causare un forte aumento degli impatti" con spostamenti geografici di specie, perdite totali di biodiversità, riduzione della produttività agricola e delle risorse idriche in vaste aree. E questo determinerà un maggiore rischio di estinzione per circa 20-30% delle specie vegetali ed animali. In Australia e Nuova Zelanda le proiezioni climatiche stimano una forte perdita di biodiversità entro il 2020.
Gli impatti dei cambiamenti climatici, dicono gli esperti dell’Ipcc, "sono già in atto a livello globale e regionale e saranno più forti nel futuro". Inoltre, "molti sistemi naturali in tutto il pianeta sono stati già affetti da cambiamenti climatici regionali, in particolare da aumenti di temperature".
"Alla fine abbiamo un documento che spero attirerà l’attenzione in tutto il mondo", ha annunciato il presidente dell’Ipcc, Rajendra Pachauri. "Stiamo facendo le ultime correzioni della bozza - ha aggiunto - il lavoro non è facile ed è un documento complesso". Nella notte, tra mille tensioni, è stata fatta un’estenuante opera di limatura, correggendo alcuni aggettivi e alcune definizioni ("alto rischio" riferito al timore di perdita di biodiversità è divenuto ad esempio "crescente rischio"), ma la sostanza delle conclusioni messe insieme dallo staff di oltre duemila scienziati coordinato dall’Ipcc non è cambiata ed è la stessa anticipata dalla stampa nei giorni scorsi.
L’allarme per le conseguenze pratiche sulla vita umana e gli ecosistemi portate dal riscaldamento globale lanciato nel documento è pesantissimo. Stando alle previsioni basate su proiezioni scientifiche, già tra venti anni centinaia di milioni di persone rimarranno senza acqua a causa della siccità, mentre epidemie come la malaria si estenderanno anche in zone non tropicali. Nel 2050 l’Europa potrebbe perdere tutti i suoi ghiacciai e nel 2100 metà della vegetazione mondiale potrebbe essere estinta. Inoltre si ripeteranno ondate di calore anomalo in grado di uccidere migliaia di persone ed eventi climatici estremi come inondazioni e alluvioni.
Rispetto al precedente rapporto, pubblicato dall’Ipcc nel 2001, quello attuale è molto più allarmato e circostanziato e soprattutto affronta il riscaldamento globale non più come una vaga minaccia per un futuro lontano, ma come un fenomeno che sta già producendo i suoi effetti. "I cambiamenti climatici - spiega Neil Adger, uno dei leader della delegazione britannica nell’organismo Onu - non è qualcosa che riguarda il futuro, è già tra noi". Dopo l’estate l’Ipcc pubblicherà anche il terzo capitolo del suo rapporto 2007 nel quale vengono affrontati i possibili rimedi per contrastare il riscaldamento globale e mitigarne gli effetti.
* la Repubblica, 6 aprile 2007
L’agenzia SviPop (Popolazione e Sviluppo) del 19 marzo 2007 ha riferito di due veterane ambientaliste, l’americana Ann Bancroft e la norvegese Liv Andersen, che il 7 marzo sono partire per attraversare il Polo Nord onde dimostrare il ritiro dei ghiacci a causa dell’effetto serra. Per tutto il tragitto sarebbero state in contatto con una rete di scuole in tutto il mondo.
Così, il dramma del riscaldamento globale sarebbe stato appreso in diretta da migliaia di studenti. Tuttavia, l’eccezionale freddo che hanno incontrato le ha costrette a fare subito marcia indietro. Una ci ha rimesso alcune dita del piede per congelamento.
Anche la strumentazione è andata in tilt per via degli oltre cinquanta sotto zero. Va detto che le due sono veterane dei Poli, che hanno già attraversato.
Ma, questa volta, dopo cinque giorni hanno dovuto fare dietrofront. Eppure, al ritorno hanno dichiarato che anche in questo caso è colpa dell’effetto serra, che produce eventi climatici estremi. Insomma, se fa troppo caldo è il riscaldamento globale; se fa troppo freddo, pure.
Mah. Sembra un po’ il gioco delle tre carte, nel quale il banco vince sempre comunque si punti. Però, chi siamo noi per discutere quel che dicono gli ambientalisti professionisti?
www.rinocammilleri.it
CLIMA: E’ ALLARME CO2, SIAMO IN UN NUOVO PIANETA *
ROMA - Se l’uomo non corre ai ripari per abbassare la febbre del Pianeta, il rischio è che la nostra civiltà sia solo un interludio nella storia della Terra. E inoltre parlare di un generico aumento della temperatura non basta, perché quello in cui viviamo oggi è a tutti gli effetti "un nuovo Pianeta", a causa dei livelli di concentrazione di CO2.
L’allarme arriva da Vittorio Canuto, consigliere scientifico dell’Enea che da anni lavora negli Usa per il Goddard Space Flight Center della Nasa ed insegna alla Columbia University, in una conferenza tenuta al Circolo canottieri Tevere Remo a Roma, alla quale hanno partecipato anche il presidente dell’Enea, Luigi Paganetto e il direttore generale del ministero dell’Ambiente, Corrado Clini. "Il fatto che si parli di un aumento della temperatura non rende l’idea della realtà, che appare quasi piacevole - ha spiegato Canuto - e il termine effetto serra è quasi positivo. Bisognerebbe fare come i portoghesi, che parlano di effetto ’stufa’. Anidride carbonica e metano sono i colpevoli, quelli che fanno la parte del leone".
La responsabilità dell’immissione in atmosfera di questi gas é dell’uomo e spetta all’uomo curarsi prima che sia troppo tardi. "Mentre lo scambio di CO2 con l’atmosfera di vegetazione e oceani è in pareggio, quello delle emissioni umane, che provengono dai fondi geologici, invece non lo è, si tratta di un percorso a senso unico". Per questo sale la temperatura e di conseguenza la febbre del Pianeta.
Quali sono gli antifebbrili consigliati? "I ghiacciai, che però si stanno sciogliendo, e le foreste, che invece stiamo tagliando" ha spiegato l’esperto, che ha sottolineato il ruolo fondamentale degli oceani come spugne del 50% delle nostre emissioni. Una funzione che però sta venendo sempre meno a causa della crescita delle temperature, che scaldando l’acqua rallentano il rimescolamento con i nutrienti, alla base dei polmoni verdi sottomarini del Pianeta che effettuano la fotosintesi, le alghe. "Secondo i biologi il punto critico per le alghe sarà una concentrazione di CO2 di 500 parti per milione, quando oggi siamo già a 380 parti per milione, mentre nel 1860 erano 290 parti per milione" ha ricordato Canuto.
E poi c’é la questione dell’innalzamento del livello del mare: "Se il mare si scalda aumenta di volume, un fattore che va aggiunto allo scioglimento dei ghiacciai. Gli economisti - ha affermato l’esperto - stimano un numero di 40/50 milioni di rifugiati dovuti all’innalzamento del livello del mare: a quel punto il clima diventa anche un problema di sicurezza".
ANSA » 2007-03-23 16:44
Pubblicata stamane la versione definitiva dello studio dell’Ipcc dell’Onu. Secondo le previsioni degli scienziati, il livello dei mari si alzerà tra i 18 e i 59 centimetri
Ambiente, al più tardi entro il 2100 la temperatura crescerà da 1,8 a 4 gradi
Il riscaldamento del clima durerà "per oltre un millennio". E’ dovuto con una probabilità del 90% alle emissioni umane di gas serra *
PARIGI - Entro la fine del secolo in corso, dunque al più tardi nel 2100, la temperatura superficiale della Terra crescerà probabilmente da 1,8 a 4 gradi centigradi. E’ la stima definitiva dell’Ipcc, l’Intergovernmental Panel on Climate Change, la più importante commissione di studio delle Nazioni Unite sul surriscaldamento globale, di cui è in corso a Parigi la conferenza. Secondo la commissione, il riscaldamento del clima sulla Terra durerà per "oltre un millennio". Gli esperti dell’Ipcc ritengono con una probabilità del 90 per cento che il riscaldamento climatico sia dovuto alle emissioni umane di gas serra.
La oscillazioni nelle previsioni dipendono dalle quantità di anidride carbonica, il principale tra i gas-serra, che in concreto saranno immesse nell’atmofera. La stima si riferisce al decennio 2089-2099, messo a confronto con il periodo 1980-1999: si basa sul lavoro, e lo sintetizza, di 2500 ricercatori esperti in diversi settori di rilevanza climatica, e operanti in ogni parte del mondo.
Si tratta della prima revisione in sei anni delle prove scientifiche relative all’effetto-serra e alle sue conseguenze potenzialmente disastrose: l’ultima risaliva infatti al 2001, quando la proiezione fu di un incremento nella temperatura della superficie terrestre nell’ordine di 1,4-5,8 gradi. Ora gli studi sono riusciti a ridurre la forbice, tagliando sia l’estremo positivo che quello negativo. All’epoca si adottò tuttavia un metodo di calcolo parzialmente diverso da quello impiegato ora.
La differenza tra quest’ultimo rapporto e quello che l’ha preceduto, Stephanie Tunmore, di Greenpeace International, la sintetizza così: "Il messaggio ai governi è chiaro: c’è una finestra di tempo per agire che si sta restringendo in fretta. Se il rapporto del 2001 era un invito a svegliarsi, quest’ultimo è una sirena che urla".
Quanto all’innalzamento del livello dei mari, si valuta che entro la scadenza considerata esso sarà compreso tra 18 e i 59 centimetri: si tratta peraltro di cifre sulle quali non c’è consenso unanime. Una parte degli scienziati le considerano infatti troppo prudenti, dal momento che non tengono conto delle ripercussioni di alcuni eventi recentissimi, come lo scioglimento di vaste estensioni di ghiaccio osservato sia in Antartide sia in Groenlandia.
* la Repubblica, 2 febbraio 2007
Secondo il prof Beck i dati diffusi da Gore e dall’Ipcc sarebbero una frode.
Tutti i grafici con le concentrazioni di biossido di carbonio diffusi dall’Ipcc e ripresi nel film-documentario dell’ex presidente americano Al Gore costituirebbero una frode colossale.
A dichiararlo alla stampa è stato un pool di scienziati tedeschi di Friburgo capitanati dal Prof. Ernst-Georg Beck.
Secondo lui sono stati scelti alcuni carotaggi effettuati di recente in modo arbitrario per i rilevare i dati sulla CO2 prima del 1957, ignorando le oltre 90.000 misurazioni dirette e accurate effettuate con metodi chimici dal 1857 al 1957.
Beck ha diffuso alla stampa quasi 180 articoli in cui sostiene, dati alla mano, che Guy Stewart Callendar e Charles David Feeling hanno completamente ignorato misurazioni attente e sistematiche effettuate da alcuni dei più famosi nomi della chimica fisica, tra cui diversi premi Nobel.
Le misurazioni ignorate mostravano che l’attuale concentrazione atmosferica di CO2 di circa 375 parti per milione (ppm) è stata superata nel passato, soprattutto nel periodo tra il 1936 e il 1944, con punte comprese tra 393 a 454 ppm. ,
Ecco altre rilevazioni che fanno davvero discutere:
375 ppm nel 1885 (Hempel a Dresda)
390 nel 1866 (Gorup a Erlangen)
416 nel 1857 e 1858 (Von Gilm a Innsbruck).
Incredibilmente, mentre l’aumento degli anni ’40 si correlava con un periodo di medio riscaldamento atmosferico, Beck e altri hanno mostrato che il riscaldamento precedette l’aumento nelle concentrazioni di CO2.
I dati diffusi da Beck provengono da zone rurali o nella periferia di città senza contaminazione da industria, ad un’altezza da terra di circa due metri. Certo, può esservi un margine d’errore anche del 3% ma la sostanza non cambia.
A dar manforte a BECK ecco il dottor Zbigniew Javorowsky, ex direttore del servizio di monitoraggio delle radiazioni polacco; secondo lui il gas intrappolato nelle carote di ghiaccio non ha validità come valore approssimato della concentrazione atmosferica. "Il continuo processo di congelamento, scongelamento e pressurizzazione della colonna di ghiaccio altera drasticamente le concentrazioni atmosferiche originali delle bolle di gas".
Secondo Beck il biossido di carbonio incide nella misura del 2-3% sull’effetto serra. Il gas serra di gran lunga più importante è il vapore acqueo. "Ci sono talmente tanti effetti interrelati, dalle macchie solari ai cicli delle orbite terrestri, che collegare la temperatura globale alla concentrazione di CO2 è una autentica follia".
Beck conclude mette poi in guardia i serristi: "sfortunatamente per loro gli scienziati hanno cominciato a raccogliere i dati sulla concentrazione di CO2 già dagli inizi del ’700, in concomitanza con i primi studi sul processo di fotosintesi, e oggi siamo in possesso di più di 90.000 accurate misurazioni e solo gli sciocchi possono dar credito alle emissioni di gas di Al Gore.
Dal sito: MeteoLive.it, 09 Marzo 2007
Per gli esperti il surriscaldamento del pianeta ha ormai raggiunto il punto di non ritorno: "Rimedi immediati o sarà una catastrofe ambientale"
"Caldo e uragani non daranno tregua sulle coste un miliardo di persone a rischio"
Clima, verdetto-choc dell’Onu: ecco il mondo che ci aspetta a metà secolo
di ANTONIO CIANCIULLO *
Un paesaggio marino della Groenlandia ROMA - Ci sono voluti quasi 6 anni di lavoro e l’impegno di 2.500 scienziati coordinati dalle Nazioni Unite. Ma il verdetto, che sarà annunciato ufficialmente il 2 febbraio a Parigi, questa volta è senza appello. "Il riscaldamento climatico è inequivocabile, risulta evidente dall’aumento della temperatura dell’aria e degli oceani, dallo scioglimento delle nevi e dei ghiacci, dall’aumento del livello dei mari", si legge nel 4° rapporto dell’Ipcc (Intergovernamental Panel on Climate Change) anticipato da una fonte americana.
Il global warming non solo è in atto, ma in costante accelerazione: 11 dei 12 anni più caldi nella storia della meteorologia sono concentrati negli ultimi 12 anni. All’inizio del 2001, quando uscì il terzo rapporto Ipcc, l’aumento di temperatura nell’arco dell’ultimo secolo si misurava in 0,6 gradi. Oggi gli ultimi cento anni danno un incremento di 0,74 gradi. E per i prossimi vent’anni è attesa un’ulteriore crescita di 0,4 gradi. Avrebbe potuto essere la metà, ricordano gli scienziati Onu, se gli avvertimenti fossero stati colti in tempo tagliando radicalmente le emissioni serra. Adesso ci aspettano almeno tre decenni di caldo crescente.
Oltre quella data il livello di certezza delle previsioni diminuisce perché la speranza aumenta. Potremmo ancora tirare il freno d’emergenza, potremmo ancora smettere di bruciare petrolio e carbone. E in questo caso gli scenari per il 2100 virano verso esiti più accettabili: il panorama più favorevole tra quelli possibili prevede un aumento di 1,7 gradi (è una stima che rappresenta la media tra un minimo di 1 grado e un massimo di 2,7 gradi).
Ma potremmo anche andare avanti facendo finta di niente, come è successo finora. In questo caso l’aumento medio previsto è di 4 gradi, con l’ipotesi peggiore che arriva a 6,3 gradi. Una prospettiva del genere cambierebbe radicalmente le possibilità di sopravvivenza di centinaia di milioni di persone. Accanto all’innalzamento degli oceani da considerare ormai certo (da 28 a 43 centimetri a fine secolo) si dovrebbe mettere in conto l’ingresso nell’era dell’apocalisse: con un aumento di temperatura compreso tra 1,9 e 4,6 gradi si arriverebbe allo scioglimento dei ghiacciai della Groenlandia con una crescita del livello del mare di 7 metri. Sarebbe un processo lento (durerebbe millenni) ma anche difficile da disinnescare perché i tempi di riequilibrio dell’atmosfera, avverte l’Ipcc, si misurano nell’arco dei secoli.
Più rapidi, invece, sono altri effetti negativi provocati dai cambiamenti climatici. Assisteremo a una riduzione delle calotte glaciali che, nel caso del Polo Nord, porterà a fine secolo a una scomparsa quasi totale dei ghiacci durante il periodo estivo. Inoltre "è molto probabile che le ondate di calore e gli episodi di precipitazioni molto intense continuino a diventare sempre più frequenti" e che i cicloni tropicali diminuiscano in numero ma aumentino in intensità.
Dal punto di vista tecnico, la responsabilità di questi fenomeni va attribuita ai gas serra che trattengono il calore all’interno dell’atmosfera. Gas come il metano, che in poco più di due secoli è passato da una concentrazione di 715 parti per miliardo a 1774. O come l’anidride carbonica che, nell’era preindustriale, si misurava in 270-280 parti per milione: oggi sono già 380. Arrivare al raddoppio dell’anidride carbonica, cioè a quota 550, comporterebbe un aumento della temperatura valutabile in 3 gradi. È un traguardo disastroso per l’equilibrio degli ecosistemi su cui si basa la stabilità delle nostre società e non troppo lontano: si può collocare tra il 2040 e il 2080.
Di fronte a una prospettiva così devastante, l’Ipcc chiama direttamente in causa le responsabilità politiche che hanno portato a questa situazione, cioè le scelte di sviluppo energetico e produttivo centrate sui combustibili fossili e sulla deforestazione: "L’aumento dei gas serra è dovuto principalmente alle emissioni derivanti dai combustibili fossili, dall’agricoltura e dai cambiamenti d’uso del terreno". Nel disastro che si prospetta la natura gioca un ruolo del tutto marginale: analizzando l’aumento di temperatura dal 1750 a oggi si scopre che l’intervento umano ha un peso "almeno 5 volte maggiore" dei mutamenti di tipo astronomico.
* la Repubblica, 21 gennaio 2007
Due gradi e la terra si ribella
di JAMES LOVELOCK (La Stampa, 09.01.2007)
Oggi l’umanità è davanti alla sua prova più dura. L’attuale accelerazione dei mutamenti climatici spazzerà via l’ambiente confortevole cui siamo abituati. Il mutamento è un aspetto normale della storia geologica. Il più recente è stato il passaggio da un lungo periodo di glaciazione all’attuale periodo temperato interglaciale. Quel che è strano è che l’imminente crisi è stata provocata da noi, e nulla di così grave è più avvenuto dopo il lungo periodo caldo all’inizio dell’Eocene 55 milioni di anni fa, quando il mutamento è stato più grande di quello tra l’era glaciale e il XIX secolo ed è durato 200 mila anni.
Quando la Terra si trova in un periodo interglaciale come ora, rimane intrappolata in un circolo vizioso ed è questo che rende così grave e pressante il problema del riscaldamento globale. Il calore supplementare di qualsiasi origine, siano essi i gas ad effetto serra, la scomparsa del ghiaccio artico, il mutamento strutturale degli oceani o la distruzione delle foreste tropicali, risulta amplificato e gli effetti non si limitano a sommarsi uno all’altro.
È come se avessimo acceso il camino per scaldarci, continuando ad alimentarlo senza accorgerci che nel frattempo la casa intorno ha preso fuoco. E quando questo accade rimane ben poco tempo per spegnere l’incendio prima che bruci tutta la casa. Il riscaldamento globale sta aumentando come un incendio e non c’è quasi più tempo per agire.
Quest’anno, come mai da quando un ventennio fa è suonato il primo campanello d’allarme, è stato come risvegliarsi da un letargo: il riscaldamento globale non è una congettura, un inutile allarmismo o un’esagerazione di parte, ma piuttosto un pericolo molto netto e presente. Il libro e il film Una verità scomoda, oggi visto in tutto il mondo, hanno contribuito a questa consapevolezza. Le immagini degli orsi polari che annegano perché non riescono a nuotare tra i banchi di ghiaccio liquefatti nei mari artici o le nevi che si sciolgono sul Kilimangiaro hanno drammatizzato la minaccia.
La consapevolezza è poi cresciuta grazie agli studi effettuati in vari luoghi del cielo, della terra e del mare, riassunti nella Stern Review della Royal Society of London e presentati dal premier Tony Blair il 30 ottobre.
Perché siamo stati così lenti, specie negli Stati Uniti, a scorgere il grave pericolo che incombe su di noi e sulla nostra civiltà? Cosa c’impedisce di realizzare che la febbre del riscaldamento globale è un fatto letale che potrebbe già essere uscito dal nostro controllo e da quello del pianeta stesso? Credo che rifiutiamo l’evidenza che il nostro mondo sta cambiando perché, come ci ha ricordato il saggio biologo Edward O. Wilson, siamo ancora dei carnivori tribali. Facciamo ancora fatica ad assimilare il concetto che noi e gli altri esseri viventi, dai microbi alle balene, facciamo parte di un’entità molto più grande e diversificata, ovvero la Terra vivente.
Sono abbastanza vecchio per notare una notevole somiglianza tra l’atteggiamento che si aveva 60 anni fa verso la minaccia della guerra e quello che si ha oggi verso il pericolo del riscaldamento globale. La maggior parte di noi pensa che presto potrebbe accadere qualcosa di molto spiacevole, ma adesso come nel 1938 non sappiamo bene che forma avrà questo qualcosa e che fare per evitarlo. Finora la nostra risposta è stata esattamente come prima della seconda guerra mondiale: cercare una mediazione. L’accordo di Kyoto è stato incredibilmente simile al Patto di Monaco, con i politici che si mostrano ansiosi di intervenire ma poi in realtà si limitano a temporeggiare.
Quello che è veramente a rischio è la civiltà. Come singoli animali non siamo niente di speciale, anzi in un certo senso la specie umana è una sorta di malattia del pianeta, ma è attraverso la civiltà che ci redimiamo e che siamo diventati una risorsa preziosa per la Terra. Esiste una piccola possibilità che gli scettici abbiano ragione e che possiamo essere salvati da eventi imprevedibili come una serie di eruzioni vulcaniche tanto forti da bloccare la luce solare e far raffreddare la Terra. Ma solo un perdente scommetterebbe la sua vita su una possibilità tanto improbabile. Qualunque siano le perplessità sui climi del futuro, non v’è dubbio che sia i gas a effetto serra sia le temperature stiano aumentando. Nel 2004 Jonathan Gregory e i suoi colleghi dell’Università di Reading hanno reso noto che, se le temperature globali aumentano di più di 2,7 gradi centigradi, il ghiacciaio della Groenlandia diventerà instabile, inizierà a sciogliersi e continuerà fino a scomparire in gran parte, anche se la temperatura poi ritornasse sotto i livelli di soglia. Dato che la temperatura e l’abbondanza di anidride carbonica sembrano strettamente correlate, la soglia può essere espressa nei termini dell’una o dell’altra.
Gli scienziati Richard Betts e Peter Cox del Centro Hadley per le previsioni climatiche hanno concluso che un aumento di 4°C della temperatura del globo sarebbe sufficiente a destabilizzare le foreste pluviali tropicali e a causarne la sparizione a favore della boscaglia o del deserto. Se ciò avvenisse, la Terra perderebbe un altro meccanismo di raffreddamento e l’aumento della temperatura diventerebbe ancora più rapido.
Il ghiaccio galleggiante dell’Artico copre un’area pari agli Stati Uniti ed è l’habitat naturale degli orsi polari e di altri animali. È anche la destinazione dei coraggiosi esploratori che hanno raggiunto a piedi il Polo Nord, ma più che altro ci serve come lente riflettente della luce solare estiva, mantenendo il mondo più fresco. Quando i ghiacci si scioglieranno, forse presto, potremo arrivare al Polo Nord in barca, ma avremo perso la capacità di condizionamento dell’aria del ghiaccio artico. Il mare scuro che lo sostituirà assorbirà il calore del sole e scaldandosi accelererà lo scioglimento dei ghiacci della Groenlandia.
Anche se non possiamo tornare allo splendido mondo del 1800, quando eravamo solo un miliardo, potremmo comunque fare qualcosa per limitare le conseguenze del riscaldamento globale. Se esiste effettivamente una soglia e noi la superassimo, le nazioni del mondo potrebbero limitare i danni cessando le emissioni di anidride carbonica e di metano.
L’aumento della temperatura rallenterebbe, come anche l’innalzamento degli oceani, e ci vorrebbe più tempo per raggiungere la fase calda finale rispetto al nostro modo di vivere attuale. Ma anche così i danni sarebbero enormi. Politicamente io sono un verde, ma sono prima di tutto uno scienziato. Per questo sollecito sempre i miei amici verdi a riconsiderare la loro ingenua fiducia nello sviluppo sostenibile e nell’energia rinnovabile. Prima di tutto, i verdi devono abbandonare la loro ostinata opposizione al nucleare.
(*James Lovelock, autore di La rivolta di Gaia, è un pioniere dell’ecologia famoso per essere l’autore dell’ ipotesi Gaia, secondo cui la Terra stessa è vista come un unico grande organismo. Ospite scientifico onorario al Green College dell’Università di Oxford, vive a Lounceston, Inghilterra)
Traduzione a cura del Gruppo LOGOS
Clima, disastro annunciato: «Cambiare subito rotta»
di Pietro Greco *
Da 37mila a 87mila morti in più ogni anno in Europa. E, inoltre, sulle sponde del Mediterraneo: erosione delle coste, maggiore siccità, ridotta fertilità del suolo, aumento degli incendi e della frequenza delle «onde di calore». Con danni devastanti per l’agricoltura, la pesca e il turismo. Con costi economici di decine di miliardi di euro l’anno. E con decine di milioni di vacanzieri che, intorno al 2100, sciameranno verso le tiepide coste scandinave per sfuggire alle torride estati di quel deserto cui ormai sono ridotti Capri e Maiorca, la penisola iberica e il Mezzogiorno d’Italia, insieme alla Grecia e alla costellazione delle sue isole una volta magnifiche. Hanno scosso l’opinione pubblica i pochi tratti del rapporto «Peseta» sugli effetti dei cambiamenti del clima globale anticipati dal «Financial Times» di Londra. Poiché «Peseta» è un programma di ricerca che risale alla Commissione Europea, è lecita la domanda che ci siamo fatti tutti: ma, allora, è questo il futuro che ci attende? Diciamo subito che il rapporto «Peseta» è un’analisi di tipo socio-economico. Non un rapporto scientifico sui cambiamenti del clima, dunque. Ma una proiezione da parte di economisti e scienziati sociali (italiani della Fondazione Enrico Mattei, tedeschi dell’università di Amburgo e inglesi dell’università di Southampton) su cosa potrebbe succedere se la temperatura media del pianeta dovesse continuare a salire da oggi al 2100. Gli scenari presi in esame dal rapporto sono due: uno relativo a un aumento di 2 gradi della temperatura media planetaria e l’altro relativo a un aumento di 3 gradi. I calcoli degli effetti sociali ed economici di questi due possibili scenari climatici sono diversi: molto seri nel primo caso, devastanti nel secondo.
Il rapporto, anticipato dal giornale inglese, non è ancora disponibile. Cosicché, in mancanza di dati più precisi e in attesa della pubblicazione integrale, è difficile dire se sia fondato. Certo è che l’esercizio di previsione socio-economica sulla scala dei decenni è impresa difficile, perchè le variabili in gioco sono moltissime, non tutte conosciute, sviluppano i loro effetti in maniera non lineare e alcune dipendono dalle nostre stesse azioni: quanto faremo per prevenire i cambiamenti climatici, quanto faremo per adattarci. Azioni che a loro volta dipendono dal credito che diamo a rapporti tipo «Peseta». Ma, al netto di questi (enormi) fattori di retro-azioni e di imprecisioni, va detto anche che i presupposti scientifici su cui si basa il rapporto «Peseta» non sono affatto campati in aria. Davvero corriamo il rischio che la temperatura media da qui al 2100 aumenti di alcuni gradi. Davvero corriamo il rischio che il livello dei mari aumenti di diverse decine di centimetri.
Chi ha valutato questi rischi? La comunità scientifica internazionale, con una crescente uniformità di giudizio. Da cosa derivano? Non solo è non tanto da cause naturali, ma anche e soprattutto da cause antropiche. Quasi tutti gli scienziati esperti ne sono convinti: la temperatura media del pianeta aumenta anche perché noi sversiamo nell’atmosfera troppi gas serra. E se continueremo a farlo con i ritmi attuali, è possibile che la temperatura aumenti effettivamente da 2 a 6 gradi entro il 2100. Non ci sono solo le proiezioni al computer. L’aumento della temperatura media del pianeta è già in atto. Nell’ultimo secolo è aumentata di oltre mezzo grado. E con essa è aumentato, un po’, il livello dei mari ed è aumentata la frequenza dei fenomeni meteorologici estremi (come tempeste e onde di calore). Certo, non sempre ce ne accorgiamo. Sia perché l’aumento di questi fenomeni non è né continuo, né lineare, né diffuso in maniera omogenea nel mondo. Sia perché ci sono altri effetti che lo mascherano. Il fenomeno di El Nino, che in questo momento interessa il Pacifico, provoca di per sé un momentaneo aumento della temperatura, soprattutto in Asia e in America, che si sovrappone a quello del cambiamento climatico globale. Ma la stessa frequenza e intensità di El Nino è correlata al cambiamento globale del clima. A riprova della complessità del sistema di cui parliamo. E del fatto che anche gli effetti dei cambiamenti per così dire strutturali del clima non sono né lineari né progressivi. Tuttavia è lecito attendersi, sulla base delle conoscenze acquisite, che nei prossimi decenni l’aumento della temperatura continuerà, sarà accompagnato da un aumento del livello dei mari e anche - come sostiene un recente rapporto scientifico, «Going to the extremes», elaborato dagli esperti americani del National Center for Atmospheric Research e finanziato dal governo degli Stati Uniti, attraverso la National Science Foundation, il Department of Energy e l’Environmental Protection Agency - da un aumento della frequenza degli eventi meteorologici estremi, come tempeste (soprattutto negli Usa) e onde di calore. Il cambiamento globale comporterà, ovviamente, anche il mutamento dei climi locali. Il Mediterraneo andrà incontro a una sorta di tropicalizzazione. Il Nord Europa a una sorta di mediterranizzazione. La Siberia diventerà coltivabile. Quali le conseguenze sociali ed economiche? Qui l’incertezza aumenta ancora. Non c’è dubbio che saranno i paesi poveri a pagare il conto più salato. Il Bangladesh rischierà di essere sommerso per larga parte dal mare. L’Africa vedrà avanzare ancora i deserti. Molti demografi prevedono già nei prossimi anni un aumento delle migrazioni: nel 2050 i «rifugiati per cause ambientali» saliranno dagli attuali 25 milioni a 50 milioni. È per tutto questo che molti studiosi e persino i servizi segreti americani considerano i cambiamenti del clima la minaccia più grave che in questo secolo incombe sull’umanità. Ora gli esperti europei, con il loro rapporto «Peseta», sostengono che anche il nostro continente - e in particolare l’Italia, insieme alla Spagna e alla Grecia - subiranno danni sociali ed economici insostenibili. È possibile, anche se non è certo.
E, in ogni caso, non è scontato. Quegli scenari previsti da «Peseta» infatti possono essere modificati. Devono essere falsificati. Avviando per tempo azioni di adattamento. Ma soprattutto investendo sulla prevenzione: andare subito «oltre Kyoto» e abbattere al più presto le emissioni antropiche di gas serra. Un euro investito oggi, può far risparmiare molti euro e molti disagi ai nostri figli. E molte vite all’intera umanità.
* l’Unità, Pubblicato il: 08.01.07 Modificato il: 08.01.07 alle ore 11.23
Entro gennaio convocati gli esperti che hanno preparato la ricerca per la Ue. Nel conto i danni a turismo e agricoltura e le sanzioni per le violazioni di Kyoto
Clima, minaccia per l’economia l’Italia rischia decine di miliardi
Padoa-Schioppa: una commissione sui costi dell’effetto serra
di ANTONIO CIANCIULLO *
ROMA - L’ombra del disastro climatico pesa sul futuro del nostro sistema economico. Tanto da aver convinto il ministro dell’Economia e delle Finanze, Tommaso Padoa Schioppa, a istituire una Commissione ministeriale per la contabilità ambientale. Per la prima volta si prende ufficialmente atto dell’entità del danno potenziale da cambiamento climatico che non è più solo di una questione ambientale ma un problema di rilevanza economica e finanziaria.
Entro gennaio la Commissione convocherà gli esperti che hanno preparato la ricerca dell’Unione europea sul costo del global warming. Subito dopo verrà ascoltato l’economista Nicholas Stern, ex dirigente della Banca Mondiale e autore di uno studio secondo il quale il 20 per cento del Pil mondiale è a rischio a causa dei cambiamenti climatici. Poi si cominceranno a mettere nero su bianco le contromosse necessarie a salvaguardare le basi su cui poggia la nostra economia.
Il lavoro della Commissione, presieduta dal sottosegretario Paolo Cento, dei Verdi, parte dall’analisi del costo della mancata attuazione del protocollo di Kyoto. Dopo aver assunto l’impegno di tagliare le emissioni di gas serra del 6,5 per cento entro il 2012, l’Italia ha continuato a far crescere queste emissioni fino a raggiungere, nel 2004, quota 583 milioni di tonnellate di anidride carbonica. Sono 97 milioni di tonnellate di eccedenza annua che ci costeranno cari, anche perché, in assenza di misure correttive, la situazione peggiorerà. Nel periodo in cui scatteranno le sanzioni (tra il 2008 e il 2012) arriveremo a 614 milioni di tonnellate, portando a 128 milioni di tonnellate la distanza dall’obiettivo fissato.
A quel punto il conto da pagare diverrà salato. La Commissione europea e la Banca mondiale calcolano che il prezzo di mercato dei crediti di carbonio, cioè delle misure compensative per annullare gli effetti negativi dell’emissione dei gas serra, sia pari a 20 euro per tonnellata di anidride carbonica. Moltiplicando i 128 milioni di tonnellate di anidride carbonica emessi in violazione del protocollo di Kyoto per 20 si arriva a 2,56 miliardi di euro l’anno. Nell’arco del quinquennio 2008-2012 aver chiuso gli occhi di fronte al disastro climatico rinviando le decisioni politiche (rilancio delle fonti rinnovabili, efficienza energetica, passaggio dal trasporto su gomma al trasporto su ferro) potrebbe perciò costarci, se non riusciremo a correggere la rotta all’ultimo momento, 12,8 miliardi di euro.
"Ma dopo il rapporto Stern e lo studio della Commissione europea risulta evidente che questa cifra rappresenta solo una piccola frazione del danno economico che rischiamo di subire", spiega Cento. "Prendiamo due aspetti evidenziati dagli esperti della Commissione: il turismo e l’agricoltura nei paesi del Sud del Mediterraneo rischiano il tracollo a causa dell’instabilità del clima. Ora il turismo vale il 12 per cento del Pil italiano e l’agricoltura tra il 14 e il 15 per cento: insieme fanno oltre un quarto della ricchezza nazionale. Il che vuol dire che il rischio finanziario complessivo riguarda un fatturato oltre 100 volte superiore ai 2,5 miliardi annui che potremmo essere costretti a pagare per il mancato rispetto degli impegni contro l’effetto serra".
Per evitare la possibilità di un collasso di settori chiave della nostra economia si dovrà perciò mettere a fuoco una strategia mirata a sviluppare l’innovazione tecnologica in direzione dell’efficienza energetica e delle fonti rinnovabili. In questo modo da un lato si eviterebbe la penalizzazione diretta (le compensazioni per il mancato rispetto degli impegni previsti dal protocollo di Kyoto) e dall’altro si farebbe guadagnare competitività al sistema Italia.
* la Repubblica, 8 gennaio 2007.
CLIMA: L’UE LANCIA L’ALLARME, EUROPA A RISCHIO DISASTRO *
ROMA - Il riscaldamento globale potrebbe costare all’ Europa migliaia di vite e miliardi di euro entro i prossimi 70 anni. E’ impietoso lo studio sulla situazione climatica e ambientale elaborato dalla Commissione europea e pubblicato oggi dal Financial Times. Tanto impietoso da lasciare pochi margini al dubbio, tra cifre e prospetti che delineano un quadro da film del terrore.
Se non saranno presi provvedimenti sulle emissioni dannose, ammonisce Bruxelles, l’effetto serra e il relativo surriscaldamento del pianeta andranno avanti a passi veloci. Le prime avvisaglie del clima bizzarro, d’altra parte, sono sotto gli occhi di tutti.
Le possibili conseguenze per l’Europa, secondo il rapporto, investono un po’ ogni settore e andrebbero a colpire in particolare le aree meridionali del continente, con l’Italia in prima fila. Mentre il Nord Europa avrebbe un clima più mite e la possibilità di un’ agricoltura più generosa, altrove si avrebbero siccità, gran caldo, inondazioni e colture depresse.
Sulla base dello studio ambientale, elaborato anche con sistemi satellitari, il rapporto Ue evidenzia due possibili scenari di riferimento. Il primo prevede un innalzamento della temperatura di 2,2 gradi; il secondo, più tragico, prevede un innalzamento di 3 gradi.
In entrambi i casi, entro un decennio, circa 11.000 persone in più potrebbero morire ogni anno a causa del caldo, mentre l’innalzamento del livello del mare causerebbe danni per un valore di miliardi di euro. Successivamente, nel caso del primo scenario (+2,2 gradi), quasi 29.000 persone in più potrebbero morire ogni anno nel Sud Europa dal 2071. Il quadro più grave riguarda proprio l’ Italia che, insieme alla Spagna, potrebbe essere destinata a soffrire maggiormente questa situazione catastrofica a causa, si legge nel rapporto, di "siccità, riduzione della fertilità del suolo, incendi e altri fattori dovuti al cambiamento di clima".
Ma lo studio non risparmia flora e fauna: "piante e animali tipici di certe aree geografiche moriranno o si sposteranno verso altre zone". Il riscaldamento porterà ovviamente anche all’ innalzamento del livello del mare che, secondo lo studio della Commissione europea, potrebbe crescere fino a un metro con costi ingenti per far fronte al fenomeno. Già nel 2020, in caso di innalzamento della temperatura di 2,2 gradi, la spesa per far fronte al disastro delle coste potrebbe essere di 4,4 miliardi di euro; nel caso del secondo scenario (+3 gradi) la spesa aumenterebbe a 5,9 miliardi e potrebbe crescere a 42,5 miliardi nel 2080. Ma il riscaldamento globale non risparmierà, secondo lo studio, neppure altri settori come la pesca.
Dal rapporto emerge infatti una tendenza alla migrazione degli stock di pesce verso le aree più a Nord. E c’é poi il problema delle inondazioni, sempre più intense un po’ in tutta Europa. In proposito l’ allarme riguarda soprattutto i grandi bacini fluviali, come il Danubio che già negli ultimi anni ha fatto sentire i suoi effetti interessando con gravi danni circa 240.000 persone. E il turismo? Nota dolente ancora una volta per l’Italia e per gli altri Paesi del Mediterraneo.
Il rapporto Ue non fa mistero sulle conseguenze drammatiche del cambiamento climatico. Sono circa 100 milioni le persone che ogni anno trascorrono le vacanze nel Sud Europa, per un giro d’affari di circa 130 miliardi di euro. Se non si porrà fine all’ effetto serra, ammonisce lo studio, entro i prossimi 70 anni quel turismo mediterraneo non ci sarà più, per il Sud sarà soltanto desertificazione e la nuova riviera europea si sposterà inevitabilmente molto più a Nord.
* ANSA 2007-01-06 09:58
La previsione negativa dei meteorologi britannici
Clima: il 2007, anno più caldo di sempre.
Il fenomeno di El Nino nel sud Pacifico prelude a un innalzamento delle temperature. Conseguenze: alluvioni, siccità e disastri *
ROMA - Il 2007 sarà l’anno più caldo di sempre. L’ente metereologico nazionale della Gran Bretagna, lo afferma con certezza: non ci saranno precedenti altrettanto torridi nel passatto, almeno da quando misurazioni certe sono state effettuate, permettendo quindi raffronti. Il motivo principale, secondo la Bbc che ha raccolto l’allarme degli scienziati inglesi, è la corrente di El Nino sull’Oceano Pacifico, che farà salire la temperatura globale, dando origine ad un esteso periodo di caldo. Il Me sostiene che una serie di altri fattori concomitanti potrebbe spingere le temperature medie al di sopra del livello record del 1998, che finora rimane l’anno più caldo registrato. L’anno appena trascorso è risultato invece il sesto più caldo.
EFFETTO NINO - «Questo dato rappresenta un ulteriore avviso del cambiamento climatico in corso nel nostro pianeta», ha detto Katie Hopkins, scienziata del Met. I dieci anni più caldi registrati finora sono concentrati nel periodo che va dal 1994 a oggi, in una serie di rilevamenti che iniziò un secolo e mezzo fa, secondo i dati forniti dall’agenzia climatica delle Nazioni Unite. Secondo i metereologi inglesi, c’è il 60% di possibilità che la media delle temperature sia uguale o superiore a quella registrata nel 1998. Secondo gli esperti la combinazione dell’effetto El Nino e quello deill’aumento dei gas serra sarà particolarmente pericolosa e sono convinti che le temperature medie subiranno un aumento che va dai 2 ai 6 gradi con conseguenze gravi, dal maggiore scioglimento dei ghiacciai, all’aumento del livello del mare ad alluvioni e violente tempeste. Non è la prima volta che El Nino viene chiamato in causa come responsabile di vasti cambiamenti climatici. Il fenomeno (riscaldamento delle acque del Sud pacifico) è già in corso dalla fine del 2006 ma i suoi effetti si fanno sentire con un certo ritardo sulle temperature del pianeta e dunque le conseguenze a livello climatico si avvertiranno nel corsodel 2007. «C’è un intervallo piuttosto lungo, circa 4 mesi tra El Nino e il riscaldamento globale delle temperature - spiega Chris Folland, capo del centro di ricerca sul clima di Hadley -Ci siamo serviti di due metodi per prevedere gli effetti di El Nino: uno statistico e l’altro matematico, analizzando anche i dati registrati nei precedenti 50 anni. Così abbiamo ricavato una probabilità del 60% di un’annata da caldo record, il che significa che è più probabile che accada che il contrario».
* Corriere della Sera, 04 gennaio 2007
Un futuro di ghiacci alla deriva
di Marina Forti (il manifesto, 02.01.2007)
Da quasi 3.000 anni la lastra di ghiaccio chiamata Ayles si protendeva nell’Oceano Artico, come una penisola, sul lembo più settentrionale della costa del Canada. Poi si è staccata, d’improvviso. E’ successo in meno di un’ora, intorno a mezzogiorno del 13 agosto 2005: nel ghiaccio si è aperta una crepa e la gigantesca lastra, spinta dai venti, ha imboccato un fiordo della costa settentrionale dell’isola di Ellesmere e se n’è andata. Ora Ayles, 65 chilometri quadrati per uno spessore di una trentina di metri, è un’isola alla deriva. Se n’è accorta pochi giorni fa Laurie Weir, una scienziata del Canadian Ice service, esaminando le immagini scattate dai satelliti in quella zona del grande nord canadese, la costa di Ellesmere, nel Nunavut.
Notizia allarmante. Intanto, per un motivo immediato: ora la piattaforma Ayles è ferma a una trentina di miglia dalla costa, trattenuta dal ghiaccio invernale. Ma col disgelo estivo, quando zone sempre più ampie dell’Oceano Artico restano aperte, sarà libera di muoversi, e una delle vie che potrebbe imboccare porta a ovest verso il mare di Beaufort, pieno di piattaforme petrolifere e d’estrazione di gas. Uno scontro tra quella massa di ghiaccio e una piattaforma petrolifera sarebbe una catastrofe.
L’isola di ghiaccio alla deriva, soprattutto, è un segno di cosa può provocare il riscaldamento del clima terrestre - in particolare nella regione artica, dove da diversi decenni ormai i ghiacci sono in ritirata. La nascita dell’«isola» Ayles è il risultato di una particolare ondata di caldo nella regione nell’estate del 2005, dice Luke Copland, direttore del Laboratorio di ricerca della criosfera all’Università di Ottawa: forse è prematuro attribuirlo al cambiamento del clima provocato dalle attività umane, dice, ma è un segnale di cosa ci aspetta: «Ciò che risulta molto chiaro è quanto veloce sia il ritmo di questi cambiamenti».
Come si adatterà il mondo al suo caldo futuro? Un’occasione per fare il punto si presenterà alla fine di gennaio, quando a Parigi si riunirà il Gruppo intergovernativo sul cambiamento del clima (Ipcc nell’acronimo inglese), l’organismo di scienziati incaricato dall’Onu di riferire ai governi lo stato delle conoscenze scientifiche sul riscaldamento del pianeta. Ma saranno ascoltati?
Clima L’Organizzazione metereologica mondiale lancia l’allarme sul riscaldamento climatico
Un colpo di sole ci seppellirà
Secondo gli scienziati, il 2006 è stato il sesto anno più caldo della storia moderna e il futuro prometterebbe male. Scioglimento dei ghiacciai, ecosistemi sconvolti, economie in ginocchio, desertificazione e milioni di morti *
Milano. Il riscaldamento del pianeta è un fatto incontestabile, la percezione delle sue conseguenze forse un po’ meno, visto che a livello mondiale pochi sono disposti ad investire davvero per cercare di limitare le emissioni di gas serra. L’ Organizzazione meteorologica mondiale (Omm), rischiando l’effetto tormentone, l’ha ribadito ancora ieri a Ginevra, anticipando i dati definitivi di uno studio su scala mondiale che verranno resi pubblici la prossima primavera: l’anno che sta terminando è stato straordinario, il sesto più caldo dell’epoca moderna (1861).
Nel 2006, la temperatura media della superficie del globo dovrebbe essere stata superiore di 0,42 gradi alla media del periodo di riferimento 1961-1990 (era 14 gradi). Tra le altre anomalie, un autunno «torrido» come non si ricordava a memoria d’uomo (di strumenti di misurazione), questo significa, per esempio, che dal XVII secolo in Inghilterra non ha mai fatto così caldo come nella stagione autunnale (record a luglio con 36,5 gradi).
Dire che le conseguenze del cambiamento climatico sconvolgeranno la terra, e la vita di chi la abita, forse non rende l’idea. Intere economie, a partire da quelle dei paesi dell’emisfero nord, saranno sconvolte, e deve essere proprio vero se anche le imprese del turismo invernale delle regioni alpine già cominciano a fare i conti del disastro prossimo venturo: secondo un recentissimo rapporto, i massicci alpini di Francia, Austria, Svizzera e Germania hanno «sopportato» un riscaldamento tre volte superiore alla media mondiale (1994, 2000, 2002 e 2003 sono stati gli anni più caldi degli ultimi cinque secoli).
Altra zona, altro allarme, con conseguenze davvero incalcolabili. Secondo alcuni ricercatori americani e canadesi del Centro nazionale per la ricerca atmosferica (Ncar), la quasi totalità della regione artica sarà priva di giaccio durante i mesi estivi del 2040: «Uno scioglimento brutale che potrebbe modificare l’ecosistema mondiale». Il ritmo di scioglimento già oggi è pari a 60.421 chilometri quadrati, una superficie superiore a quella della Svizzera. Avanti di questo passo, gli animali si dovranno spostare, l’orso polare dovrà andare altrove a cacciare...e alcune economie mondiali potranno addirittura espandersi o risentirne: per la Russia potrebbero aprirsi nuove vie marittime, così come per il Canada, mentre gli Stati Uniti con l’intensificarsi dei traffici su mare si troveranno a fronteggiare nuove «maree nere».
Anche sposando un altro approccio, quello del «duro» Nicolas Sarkozy, il ministro degli interni francese, la sostanza non cambia: è stato lui, fissato com’è con l’ordine pubblico, a parlare per primo di «rifugiati climatici» (dalle regioni del sud, a causa del riscaldamento, arriverebbero in Europa altri 50 milioni di nuovi migranti). E, sia detto per inciso, nel sud del mondo il riscaldamento causerebbe milioni di morti. L’anno in corso è già stato caratterizzato da fenomeni di siccità nell’Africa orientale e in particolare in Somalia.
Altri paesi, in particolare il Corno d’Africa, sono stati colpiti da inondazioni catastrofiche. Anche l’Italia, dove nessuno ha ancora avuto il coraggio di confrontarsi seriamente sul tema della riduzione delle emissioni inquinanti, è già stata investita dal riscaldamento globale. Lo confermano i dati presentati ieri dall’ Agenzia per la prevenzione dell’ambiente (Apat) che ha realizzato uno studio mirato sul clima in Italia nel 2005. Un dato fa particolarmente impressione.
Il numero medio annuale delle nottate con temperature minime uguali o maggiori ai 20 gradi è passato da 15,8 nel 1981 a 36,7 nel 2004: in 25 anni abbiamo guadagnato quasi un mese di caldo notturno, e speso milioni in inutili condizionatori d’aria. Inoltre, l’aumento della temperatura negli ultimi 45 anni (circa 1 grado) è stato superiore alla media globale. Altra anomalia: il 2005 è stato caratterizzato da numerosi eventi di caldo e di freddo intenso. Se siete contenti perché quest’inverno non si sta poi così male, allora non avete capito niente.
* il manifesto, 15.12.2006
A causa del riscaldamento globale della Terra si sciolgono le strade ghiacchiate che li collegano al resto del mondo
Ontario, 20.000 verso l’isolamento sono i primi naufraghi del clima
Pronto un piano di emergenza per queste popolazioni delle foreste canadesi: rifornimento di viveri con gli aerei
di LUIGI BIGNAMI *
ROMA - Numerose comunità che vivono a Nord dell’Ontario stanno per diventare i primi naufraghi per l’aumento della temperatura terrestre. Nei prossimi mesi infatti, potrebbero ritrovarsi completamente isolate dal resto del mondo perché la temperatura è così elevata che le strade ghiacciate, tracciate sopra fiumi e laghi, solitamente utilizzate durante la stagione invernale per rifornire i vari villaggi, non offrono la garanzia di poter essere percorse.
"Il ghiaccio non ha il suo colore bluastro indice di consistenza. Assomiglia a polistirolo. E’ estremamente fragile", spiega Stan Beardy, il gran capo della Nishnawbe Aski Nation, che rappresenta il gruppo First Nation dell’Ontario. Questa situazione ha già causato gravi problemi negli scorsi anni, ma quest’anno sembra che la condizione sarà peggiore, perché le strade invernali che attraversano laghi e fiumi non saranno percorribili che per poche settimane. Le comunità infatti, attendono proprio l’inverno per fare rifornimenti di vario tipo, dai combustibili ai materiali per la costruzione di edifici, fino ai viveri di ogni genere. Attraversare le foreste infatti, in estate risulta molto difficile se non impossibile, perché le strade sono poche e i grossi camion da rifornimento non sono in grado di raggiungere tutti i villaggi. In inverno invece, la gente sfrutta i fiumi e i laghi ghiacciati sui quali tracciano anno dopo anno rotte ben precise.
Negli ultimi anni l’arco di tempo durante il quale era possibile tale tipo di trasporto si è via via ridotto, tanto che negli ultimi due anni si è ristretto a soli 2-3 mesi, quando in origine si estendeva anche per 5-6 mesi. Se le condizioni meteorologiche non dovessero cambiare entro poche settimane quest’anno il tempo per il trasporto si ridurrà ad uno o al massimo due mesi, insufficiente per poter rifornire le 34 comunità, composte da oltre 20,000 persone, che vivono disperse nelle foreste canadesi.
"Basta un grado di aumento della temperatura dell’area per perdere anche due mesi di possibili trasporti", spiega Beardy. Qualcuno ha pensato di comprare camion più leggeri, ma ciò non fa che aumentare il potenziale pericolo di finire annegati in un fiume o un lago, sottolinea il gran capo. Ora si sta pensando di rifornire le comunità per via aerea, ma questo permette di inviare loro solo viveri, non certo altri beni.
Stando ai dati dell’Environment Canada, l’organizzazione che studia il clima del Paese, negli ultimi 60 anni, la temperatura invernale del Paese è aumentata di 0,8° C, mentre quella primaverile di 1,3°C. Ma nelle regioni del nord, la temperatura è cresciuta di ben 4,4°C nell’arco dello stesso tempo. "In effetti, dal 1998 ad oggi la temperatura media del Canada è sempre stata al di sopra della media, tant’è che queste temperature anomale stanno diventando la noma", spiega Bob Whitewood, un climatologo dell’Environment Canada. Le conseguenze si possono ben vedere nella Baia di Hudson dove i ghiacci si sciolgono in media anche una settimana prima rispetto a soli 10 anni fa.
Ma se fino ad oggi questi dati erano solo elementi per allarmare il mondo intero ora sono diventati un’urgenza senza confronti per le comunità indigene del Canada, le cui popolazioni stanno diventando i primi naufraghi dei cambiamenti climatici.
* la Repubblica, 13 novembre 2006
Si è aperta oggi in Africa la conferenza Onu per la lotta al riscaldamento globale. Si cerca una difficile intesa per ridurre drasticamente i gas serra dopo il 2012
Clima, al via il vertice di Nairobi il mondo davanti alla sfida più difficile
Danni catastrofici se non si tagliano le emissioni del 50% entro il 2050. L’obiettivo deve fare i conti con l’opposizione di Bush e il ruolo di Cina e India
di VALERIO GUALERZI *
NAIROBI - Undici giorni per decidere cosa fare nei prossimi quindici anni. Da oggi fino al 17 novembre si svolge a Nairobi, in Kenya, la dodicesima conferenza internazionale sui cambiamenti climatici organizzata dalle Nazioni Unite. Al vertice partecipano oltre seimila delegati di circa duecento paesi. All’ordine del giorno, gli interventi per ridurre i danni dei cambiamenti climatici già in atto (in primis proprio in Africa), il confronto sull’attuazione degli obiettivi fissati dal protocollo di Kyoto, e, soprattutto, le trattative per cercare di gettare le basi per un suo rinnovo con obiettivi molto più ambiziosi a partire dal 2012, quando scade il termine della prima ratifica che fissa il traguardo di un -5% nelle emissioni di gas serra rispetto ai livelli del 1990. La comunità internazionale arriva all’appuntamento sulla scorta di previsioni nefaste e segnali incoraggianti.
Previsioni drammatiche. Da un lato la comunità scientifica è ormai pressoché concorde sul fatto che il tempo a disposizione sta scadendo e rimangono tra i 10 e 15 anni per ingranare la retromarcia e scongiurare gli effetti più drammatici del riscaldamento globale. Secondo Greenpeace, ma il consenso su questo aspetto va ormai molto oltre i ristretti confini del mondo ambientalista, entro il 2020 bisogna arrivare alla riduzione delle emissioni del 30 per cento da parte dei paesi industrializzati, e almeno al 50 per cento entro il 2050. L’obiettivo è infatti quello di scongiurare una concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera in grado di portare entro il 2100 a un aumento della temperatura media di due gradi centigradi, limite oltre il quale la dinamica del clima potrebbe impazzire.
Qualcosa è cambiato. Dall’altro lato, l’aria che si respira rispetto ad altre vigilie è quella di una maggiore consapevolezza della minaccia che incombe sull’umanità. Coscienza che ha conquistato spazio anche negli Stati Uniti, il paese maggiormente responsabile dei rischi (con circa il 5% di popolazione crea quasi il 25% delle emissioni), ma sinora il più ostinato nel negarli. Il presidente Bush formalmente resta un nemico giurato di Kyoto, ma intorno a lui tutto sta cambiando e negli Usa negli ultimi mesi è stato tutto un fiorire di iniziative di singole istituzioni o singole imprese volte a ridurre le emissioni come se il Protocollo fosse stato sottoscritto anche da Washington.
I costi economici. A metà tra auspici negativi e positivi, sta il rapporto commissionato dal governo britannico all’ex economista capo della Banca mondiale Nicholas Stern sulle ripercussioni economiche di un mondo con maggiori inondazioni, maggiore siccità, maggiori rischi di epidemie, e zone costiere fertili rese inaccessibili dall’innalzamento dei mari, con conseguenti maggiori flussi migratori. Il documento, reso pubblico qualche giorno fa, vede nero, prevedendo costi elevatissimi e un mondo alle prese con una crisi ben più dura di quella del 1929. Allo stesso tempo sembra però poter conquistare alla causa della lotta all’effetto serra anche vasti settori dell’economia. Intervenire ora, è il ragionamento di Stern, costa relativamente poco, farlo dopo avrebbe un prezzo esorbitante.
Consapevolezza europea. Il problema dei costi della lotta ai cambiamenti climatici è proprio uno dei nodi principali al centro delle trattative di Nairobi. Gli Stati Uniti rifiutano di sottoscrivere qualsiasi accordo che stabilisca limiti rigidi alle emissioni per due motivi. Il primo è il fatto che secondo l’amministrazione Bush l’economia americana sarebbe costretta a fronteggiare delle spese che ne frenerebbero la crescita. Ma se fino a qualche tempo fa c’erano solo gli ambientalisti a sostenere che passare a uno sviluppo sostenibile può essere un formidabile volano economico, ora affermano di pensarla così molti leader europei, Tony Blair e Angela Merkel su tutti.
Schwarzy contro Bush. Persino il governatore repubblicano della California Arnold Schwarzenegger, che ha fissato per il grande stato americano un ambiziosissimo piano che dovrebbe portare entro il 2020 a una riduzione delle emissioni del 25% rispetto a quelle del 1990, sembra essersi convertito a questo credo. Sorprendentemente, la motivazione di Terminator non è infatti solo di carattere ambientale ma anche economica, con la dichiarata intenzione di rendere le aziende californiane più competitive e di fare della Silicon Valley la nuova patria dell’energia solare.
Aspettando il ricambio. La previsione è quindi che da Nairobi arriveranno dei segnali importanti, ma ancora nulla di concreto perché se è vero che gli Usa sono di fatto avviati verso una politica di riduzione delle emissioni, questo non sarà sancito in maniera solenne fino a quando alla Casa Bianca ci sarà Bush. La vera discussione sul Kyoto dopo 2012 potrà decollare quindi solo nel 2009. E anche con un nuovo presidente americano fissare un nuovo accordo con obiettivi ambiziosi non sarà comunque semplice.
Il problema di Cina e India. Resta infatti aperto il secondo ostacolo all’adesione Usa, quello sul ruolo dei paesi in via di sviluppo. Cina, Brasile e India nella prima fase del Protocollo sono state esonerate dal tagliare i gas serra per non comprometterne la crescita. In questa fase le tre nazioni sono invece oggetto di grandi investimenti in tecnologie pulite e fonti rinnovabili da parte dei paesi occidentali che "pagano" così le riduzioni che non sono in grado di fare in casa propria. Un flusso di fondi e "know how" particolarmente apprezzato, soprattutto da Pechino, alle prese con devastanti problemi ambientali. Guai però a parlare a questi tre paesi di futuri tagli alle emissioni stabiliti per legge. I cambiamenti climatici, è il ragionamento di Cina, India e Brasile, sono responsabilità di chi ha inquinato sino ad ora e spetta quindi all’Occidente risolverli.
Un difficile compromesso. Secondo Washington concedere un’ulteriore deroga rappresenterebbe però dare ulteriori vantaggi alla concorrenza di tre temuti rivali economici. Alla conferenza di Nairobi spetterà quindi il difficile compito di gettare le basi per trovare un punto di possibile mediazione in grado di preparare un Kyoto post 2012 con a bordo gli Stati Uniti, ma anche con un coinvolgimento più stringente dei paesi in via di sviluppo. (6 novembre 2006)
Clima, summit di Nairobi: superato Kyoto, nuovo protocollo nel 2008 *
A forza di allarmi forse alla fine qualcosa si farà per ridurre l’effetto serra e le devastanti conseguenze che già l’inquinamento sta producendo sul clima. Alla conferenza internazionale di Nairobi venerdì si è deciso di iniziare il processo di revisione del protocollo di Kyoto nel 2008. I rappresentanti del mondo hanno deciso cioè di arrivare a un altro documento di regole e parametri per cercare di salvare il Pianeta. Ma che inizieranno a pensarci tra un anno.Gli ambientalisti speravano in qualcosa di più. Data anche la situazione di grave rischio planetario e la rinascita di una coscienza ecologista in paesi industrializzati finora tradizionalmenmte ostili a mettere freno e tasse al consumo inquinante di energia come la Gran Bretagna e la California negli Stati Uniti.
In pratica alla conferenza di Nairobi è stato stabilito che Kyoto è superato. Nel febbraio prossimo sarà pubblicato il nuovo rapporto scientifico sullo stato di salute della Terra e della sua atmosfera ad opera del Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico - in sigla il Giec - e sulla base di queste migliori previsioni e studi più dettagliati si inizierà a programmare il dafarsi. Il primo periodo di negoziati tra gli Stati sulle misure da adottare arriverà fino al 2012.
All’inizio del vertice, due settimane fa era stata sottolineata da più voci la necessità di affrontare con la massima urgenza la minaccia dei cambiamenti climatici in atto. Poi, come racconta la delegazione di Legambiente, si è messa in moto la macchina della diplomazia a frenare e a scavare tra cavilli e tatticismo sotto ogni seria proposta di intervento. Gli Usa e l’Australia, in particolare, si sono dimostrati contrari a qualsiasi target vincolante. Mentre la Cina e i paesi in via di sviluppo pur accettando l’invito a misurarsi con il problema del riscaldamento della Terra, non hanno dimostrato disponibilità a prendere impegni precisi sulla riduzione dei gas serra.
Il Canada ha addirittura affermato di non essere in grado di fare di più. Più sensibilità ha dimostrato l’Europa, dove la Germania ha preso l’impegno di ridurre le emissioni di anidride carbonica del 40% entro il 2020, la Gran Bretagna e la Francia, per legge, ridurranno le proprie emissioni entro il 2050 del 60% e del 75%.Quanto all’Italia, Legambiente ha sottolineato il positivo lavoro del ministro Pecoraro Scanio qui a Nairobi: «L’Italia deve però rimboccarsi le maniche - conclude l’associazione ambientalista - il 2012 è vicino e il nostro target del -6,5% di emissioni di anidride carbonica è lontanissimo (siamo oggi quasi a +13% rispetto ai livelli del 1990). Trasporti ed energia, con il loro carico di gas serra, saranno un importante banco di prova del Governo».«Evidentemente - commenta Roberto Della Seta, presidente nazionale di Legambiente - non si è ancora capito che i cambiamenti climatici sono in atto ora, adesso, e interventi per evitare disastri a tutte le latitudini devono essere immediati. Alla prossima conferenza sarà bene che i capi di Governo prendano il posto dei ministri. Il cambio climatico - conclude - è un argomento troppo importante per essere discusso dai soli responsabili dei dicasteri ambientali, serve un coinvolgimento dei Paesi ad alto livello».
* www.unita.it, Pubblicato il: 17.11.06 Modificato il: 17.11.06 alle ore 19.21
Per lo studioso britannico, guru dell’ambientalismo, il clima è già al punto di non ritorno e per la civiltà umana non c’è futuro
"Troppo tardi per salvare la Terra". Allarme dello scienziato Lovelock *
LONDRA - "Prima della fine di questo secolo, miliardi di noi moriranno e le ultime persone che sopravvivranno si troveranno nell’Artico, dove il clima resterà tollerabile". Il catastrofico annuncio arriva da una fonte autorevole: James Lovelock. Il celebre scienziato inglese, guru dell’ambientalismo, negli anni ’70 concepì la teoria di Gaia, il sistema attraverso il quale la Terra si autoregolamenta in modo da continuare a fornire le condizioni adatte alle forme di vita che la abitano.
L’allarme lanciato dallo scienziato sulle pagine del quotidiano The Independent non potrebbe essere più inquietante: anticipando il contenuto del suo nuovo libro, che uscirà nelle librerie britanniche il 2 febbraio con il titolo ’The Revenge Of Gaia’ (’La vendetta di Gaia’), Lovelock afferma che ormai è troppo tardi per fermare il surriscaldamento globale e che sugli esseri umani si sta per abbattere una catastrofe di dimensioni peggiori di quanto finora si era previsto.
Il suo approccio olistico allo studio del ’sistema Terra’ è del tutto unico: anzichè studiare singoli fattori indicativi dei cambiamenti climatici, Lovelock analizza come l’intero sistema di controllo del nostro pianeta si comporta una volta messo sotto pressione. Grazie a questo approccio, lo scienziato è riuscito ad identificare una miriade di meccanismi di reazione e controreazione che finora sono serviti a mantenere la Terra ad una temperatura più o meno fresca. Ora che il delicato equilibrio di Gaia è stato spezzato, conclude Lovelock, questi stessi meccanismi serviranno invece a rendere la Terra insopportabilmente calda.
Nel suo articolo per l’Independent, lo scienziato si sofferma su due esempi. In primo luogo, i ghiacci dei Poli sono finora serviti a riflettere i raggi solari, deflettendo così il calore. Con il loro scioglimento, la scura superficie degli Oceani aumenterà immagazzinando così più calore.
Il secondo esempio riguarda invece le polveri prodotte dalle industrie, che ricoprono con un sottile velo tutto l’emisfero settentrionale. Queste producono un fenomeno noto come ’oscuramento globale’, che mantiene basse le temperature in maniera artificiale, impedendo che tutti i raggi solari raggiungano la superficie del pianeta. Ma con una riduzione dell’attività industriale e della produzione di gas inquinanti questa coltre potrebbe scomparire velocemente, causando un improvviso aumento delle temperature.
Secondo Lovelock è ormai troppo tardi per evitare la catastrofe. Anziché appellarsi ai governi mondiali affinchè si impegnino nella lotta all’effetto serra, lo scienziato consiglia invece di prepararsi al peggio e di cercare modi per assicurare la sopravvivenza della razza umana, prima che essa si trasformi in "una caotica calca governata da signori della guerra".
Tra le più scioccanti proposte contenute nel suo nuovo libro, vi è quella di "una guida per i superstiti dei cambiamenti climatici", per aiutarli a sopravvivere dopo il totale crollo della società umana. Scritta non in forma elettronica, ma "in forma cartacea e con inchiostro durevole", e dovrà contenere tutto il sapere scientifico basilare accumulato in migliaia di anni, come la posizione della Terra nel sistema solare ed il fatto che batteri e virus causano malattie infettive. Insomma un’ultima traccia dopo "la fine del mondo che conosciamo".
(16 gennaio 2006)
* (www.repubblica.it, 16.01.2006)
Il premier inglese ha presentato il rapporto sulle conseguenze economiche dei danni ambientali. "Ora sappiamo che investire oggi ci ripagherà in futuro, evitando la catastrofe"
Cambiamenti climatici, il monito di Blair: "Agiamo subito o sarà un disastro"
Londra pensa a una "tassa verde" sulla CO2 e preme per rinforzare il Protocollo di Kyoto *
LONDRA - E’ uno scenario fosco quello che dipinge Tony Blair presentando il rapporto commissionato dal governo britannico sulle ripercussioni economiche dei cambiamenti climatici. Il dossier, redatto dall’ex dirigente della Banca Mondiale Nicholas Stern, è già stato anticipato dalla stampa: il mondo rischia seriamente di andare incontro a un collasso economico molto peggiore di quello del 1929.
I costi degli interventi per risanare gli effetti di siccità, innalzamento del livello dei mari, fenomeni estremi come uragani e inondazioni (e le conseguenti emigrazioni di massa), nei prossimi decenni rischiano di costare fino al 20% del Pil mondiale.
Se non si fa nulla per fermare il riscaldamento globale, le conseguenze per il mondo, ha ribadito il premier britannico, saranno "disastrose e irreversibili". "Questo - ha aggiunto - è il documento sul futuro più importante pubblicato da questo governo da quando è al potere". "Il rapporto Stern - ha proseguito Blair - sbaraglia anche gli ultimi argomenti a sostegno dell’immobilismo: ora sappiamo che investire oggi nella lotta ai cambiamenti climatici ci ripagherà in futuro, evitando la catastrofe".
L’aspetto positivo in un quadro tanto allarmante è che le conoscenze scientifiche, le risorse e le tecnologie per innescare la retromarcia ci sono già. Quello che manca è la volontà politica. Il riferimento di Blair è infatti indirizzato in particolare alla posizione degli Stati Uniti, che si sono rifiutati di aderire al Protocollo di Kyoto sostenendo che avrebbe avuto un costo troppo alto per l’economia. Costo che l’Inghilterra ritiene piuttosto una via di mezzo tra un investimento e un’assicurazione sulla vita.
Per questo il premier britannico ha annunciato di voler portare avanti una strategia su due livelli. Sul piano internazionale Londra intende premere affinché la comunità mondiale ponga la questione ambientale in cima alla sua agenda gettando quanto prima le basi per un rinnovo del Protocollo di Kyoto. Il desiderio è quello di fissare obiettivi ancora più ambiziosi per la fase successiva al 2012 e modalità in grado di ottenere anche l’adesione degli Usa. Sul piano interno la politica ambientalista di Blair si dovrebbe tradurre invece in un’azione di contrasto alle emissioni di gas serra molto più stringente, senza escludere la possibilità di una "tassa verde" sull’anidride carbonica.
Il primo banco di prova per le ambizioni di Blair arriverà molto presto. In questi giorni sono in corso infatti a Bonn i lavori preparatori della Conferenza Internazionale sui cambiamenti climatici indetta annualmente dall’Onu e in programma a Nairobi dal 5 novembre. All’ordine del giorno c’è proprio la doppia sfida di convincere gli Stati Uniti ad aderire al Protocollo di Kyoto e di accelerare la messa a punto di regole per il dopo 2012.
Malgrado i risultati fissati per la prima fase dell’accordo internazionale siano piuttosto modesti (-5% delle emissioni di gas serra entro il 2012 rispetto ai livelli del 1990), la comunità mondiale fatica comunque a centrarli. Fra il 2000 e il 2004 le emissioni da parte dei Paesi industrializzati sono aumentate dell’11%. Al momento il Protocollo non prevede invece nessun limite alle emissioni dei Paesi di via di sviluppo come Cina e India, che però hanno ormai raggiunto quelle delle grandi potenze industriali.
Se i problemi sono dunque enormi, consola la crescente consapevolezza dell’emergenza rappresentata dai cambiamenti climatici e la crisi ambientale più in generale. Almeno a parole nella sua battaglia Blair infatti non è solo. La cancelliera tedesca Angela Merkel, che nei prossimi mesi assumerà sia la presidenza della Ue che quella del G8, ha già annunciato che tra i dossier economici che intende sottoporre ai partner internazionali figurano la trasparenza sui mercati finanziari (con la minaccia dei fondi speculativi), la lotta alla pirateria industriale, la dimensione sociale della globalizzazione, i cambiamenti climatici e l’attuazione del Protocollo di Kyoto, l’efficienza energetica, lo sfruttamento responsabile delle materia prime. (30 ottobre 2006)
* www.repubblica.it, 30.10.2006
Una "finanziaria" mondiale per l’emergenza del pianeta
di Giorgio Ruffolo (la Repubblica, 30.10.2006)
"Il secondo pianeta" era il titolo di un bel libro di Umberto Colombo e Giuseppe Turani pubblicato quattordici anni fa. Allora la popolazione mondiale era di 4 miliardi circa e si prevedeva che sarebbe raddoppiata entro il 2030. In effetti, una volta tanto le previsioni sono state confermate. Siamo oggi sei miliardi e mezzo sulla Terra, supereremo gli 8 previsti nel 2030 e raggiungeremo probabilmente 9-10 miliardi a metà del secolo. Insomma, quel secondo pianeta è qui, con noi.
Certo: non è la «bomba della popolazione» che Paul Erlich vaticinò nel 1986 (20 miliardi di uomini) ma è sempre un bel po’ di gente. E pesa sempre più sulle risorse del pianeta. Anche il recentissimo rapporto del Wwf (vedi Repubblica del 25 ottobre) parla di un altro pianeta in corso di allestimento, gettando un ennesimo allarme.
Ma quanto peserà quel «peso»? Lo si può calcolare all’incrocio di due curve: quella della domanda e quella dell’offerta di Natura. L’offerta è misurata dalla biocapacità: e cioè la produzione della terra in termini di specie, terrestri e marine. La domanda è rappresentata dalla quantità totale di natura: e cioè di terre e di acque utilizzate dall’Uomo. Che provvedono ai suoi bisogni e assorbono i suoi rifiuti.
Il rapporto tra domanda e offerta si chiama impronta ecologica. Se calcoliamo le due curve, ci accorgiamo che dal 1960 ad oggi l’indice della biocapacità è sceso del 30 per cento e l’impronta ecologica ha superato l’offerta del 25%. In altri termini stiamo intaccando rapidamente il capitale su cui viviamo. Ed aumentiamo quello che potremmo definire il nostro debito con la natura. Ma è un debito non rimborsabile. Forse ci sono i banchieri di Dio. Ma non c’è una Banca dell’Universo cui rivolgerci, se il capitale si azzera. E il capitale sta diminuendo al ritmo dell’1% all’anno.
L’imperativo dovrebbe essere chiaro. Promuovere un piano di «rientro» del debito. Proprio come noi italiani con la finanziaria, si licet. Il Wwf ne traccia tre, riguardanti la ripresa di controllo sui cinque fattori di squilibrio dell’impronta ecologica: la popolazione, il consumo pro capite, l’intensità produttiva in materie ed energia, l’estensione dell’area bioproduttiva, l’aumento della bioproduttività per ettaro. C’è un piano business as usual, il quale porterebbe entro il 2050 il debito con la natura dall’attuale 25 al 34%, con conseguenze disastrose in termini di riscaldamento del pianeta e di distruzione delle altre specie. C’è uno scenario di cambiamento lento, che prevede l’estinzione del debito per il 2100, e uno eroico che prevede la chiusura dei conti con la Natura entro il 2050. Basterà dire che questi due ultimi scenari comportano non soltanto un rallentamento decisivo della crescita dei paesi ricchi, che contribuiscono per l’80 per cento circa all’impronta ecologica; ma anche una formidabile redistribuzione di risorse (di conoscenze, soprattutto) verso i paesi poveri.
Qui non si tratta di ecologia. Ma di economia. E di economia molto politica.
Qualche breve osservazione.
Questi allarmi, sempre più frequenti, suscitano nei saggi di Salamanca i soliti sorrisi di scherno.
Il rapporto del Wwf ci dice che stiamo consumando risorse a un ritmo superiore a quello della loro produzione? La risposta convenzionale è semplicissima. Le sostituiremo con altre risorse. I prezzi di mercato ci segnaleranno la loro scarsità. Qualcuno alla fine del Settecento prevedeva che Londra sarebbe stata sommersa nei cinquanta anni successivi dallo sterco dei cavalli. Ma lo sterco fu sostituito dal vapore e il vapore dalla benzina. Elementare. La sostituzione, però, non è infinita. Non può sostituire la terza legge della termodinamica. E costa sempre di più. Qui i prezzi, però, non servono. I prezzi di mercato, gli economisti lo sanno bene, sono prezzi relativi (di una "merce" rispetto a un’altra) mentre il prezzo della natura, è assoluto (di una "merce" non rinnovabile). Se la progressione della "scala" rimane quella attuale, di un raddoppio della produzione ogni 7 anni, in 50 anni la produzione mondiale aumenterebbe di 32 volte: e davvero non basterebbero neppure due pianeti (viene in mente la storiella del Faraone che mette un chicco di grano sul primo scacco e poi raddoppia i chicchi in quelli successivi svuotando i suoi granai già alla quarta fila della scacchiera). Quel limite di scala, nessun mercato può definirlo, è necessaria una decisione consapevole, politica. E mondiale.
Molto prima del limite dell’esaurimento incontriamo comunque il limite del riscaldamento. Oggi le emissioni di energia di origine umana sono trascurabili rispetto a quella che riceviamo dal sole (un quindicimillesimo). Ma nei prossimi 150 anni, al ritmo attuale, provocherebbero un aumento del calore di tre gradi: già catastrofico. Non si dice dopo. Qui però la risposta c’è. Se riuscissimo a utilizzare una anche minima parte dell’energia del sole, senza aggiungervi la nostra, saremmo, per così, dire, a cavallo. Non è facile. Però non è impossibile. Ma quando? In ogni caso, le trasformazioni sociali necessarie per un utilizzo dell’energia solare sono rivoluzionarie e non compatibili con un’economia in crescita continua e squilibrata.
Sarebbe dunque necessario raggiungere, prima o poi, uno stadio stabilizzato (steady state) di crescita zero, anche se continuamente rinnovata nella sua composizione; e soprattutto un grado di consumi equilibrati nell’intero pianeta: il che comporterebbe una restrizione dei consumi (e degli sprechi) nei paesi ricchi e un aumento nei paesi poveri, ma con un tipo di sviluppo diverso da quello attuale dei paesi ricchi.
A chi obietta che i paesi poveri pretenderanno comunque di adottare le abitudini di consumo dei paesi ricchi, e che è impossibile negarglielo, bisogna rispondere che è impossibile raggiungerlo. Al tasso automobilistico americano, indiani e cinesi dovrebbero disporre di circa due miliardi di automobili. E così via per gli altri «beni». Piuttosto si pone, per tutto il mondo, un problema formidabile di redistribuzione dei beni (e dei mali) e di mutamenti fondamentali dei valori (dalla crescita quantitativa al progresso qualitativo).
Non si tratta dunque, soltanto, di un problema di sostenibilità fisica ed ecologica. Si tratta di un gigantesco problema di ristrutturazione sociale, di riorganizzazione politica e di ripensamento etico della civiltà umana. Purtroppo, è probabile che dopo qualche brusìo, ce ne occuperemo (per quanto mi riguarda se ne occuperanno) tra altri quattordici anni. In un altro pianeta.
E’ un allarme gravissimo: si rischia una rivoluzione del clima.
Corrente del Golfo in panne Notizia segreta per due anni
di Sabina Morandi (www.liberazione, 29.10.2006)
E così, alla fine, è successo davvero. Il peggior incubo dei climatologi, l’arresto della corrente che trasporta le acque calde del Golfo del Messico verso nord rendendo possibile la vita nei paesi affacciati sull’Atlantico settentrionale, si è verificato nel 2004, e per ben dieci giorni.
La notizia è stata pubblicata dal britannico Guardian che ha ripreso l’allarme lanciato da Lloyd Keigwin del Woods Hole Oceanographic Institute nel Massachusetts. Se l’informazione fosse una cosa seria, la notizia dovrebbe campeggiare, a caratteri cubitali, sulla prima pagina di tutti i giornali del pianeta perché dimostra che siamo approdati in quella che alcuni ambientalisti illustri avevano descritto come la “fase due” del riscaldamento globale, quando gli effetti immediati dell’aumento della temperatura innescano una reazione a catena dalle conseguenze non completamente prevedibili ma che, di certo, non fanno sperare niente di buono. Ne ha parlato uno che di clima se ne intende: Jeremy Leggett, vent’anni a studiare il riscaldamento globale e a cercare di portare la voce dell’ambientalismo nei negoziati per la formulazione del protocollo di Kyoto come direttore scientifico di Greenpeace international. Nel suo recentissimo “Fine corsa” (Einaudi 2006) Leggett dedica un capitolo alle conseguenze indirette dell’effetto serra, settore che i ricercatori hanno appena cominciato ad affrontare. Il clima, sottolinea Leggett, è una faccenda alquanto complicata. L’aumento degli uragani, l’estendersi dei deserti, l’innalzamento dei mari dovuto allo scioglimento dei ghiacci, sono conseguenze dirette dell’aumento della temperatura. Ma, per quanto possa già sembrare disastrosa una simile prospettiva, l’ecosistema è regolato da meccanismi delicati e complessi nei quali anche un modesto incremento di uno o due gradi può innescare una reazione a catena di proporzioni inimmaginabili. Inimmaginabili anche per la scienza, abituata ad avere a che fare con fenomeni lineari e non con la complessità del clima. E fra i fenomeni di regolazione climatica, la Corrente del Golfo è uno dei più complicati.
Immaginate una sorta di gigantesco nastro trasportatore tenuto in moto dalla differenza di densità fra l’acqua salata proveniente dai Tropici e quella, più dolce, che deriva dall’incontro della corrente calda con i ghiacci polari.
Vent’anni fa alcuni ricercatori puntarono il dito su questo fenomeno. Attenzione, dissero, se la temperatura aumenta e il ghiaccio dell’Artico comincia a squagliarsi più del normale, la salinità dell’acqua oceanica è destinata a cambiare con il rischio di bloccare quel nastro trasportatore che lambisce le coste settentrionali degli Stati Uniti e del Canada, sfiora la Groenlandia e ridiscende accarezzando i paesi scandinavi e la Gran Bretagna e rendendo di fatto possibile la vita nelle zone temperate. Un blocco della corrente, avvertirono gli scienziati, potrebbe far precipitare la temperatura anche di dieci gradi, con effetti facilmente immaginabili sull’agricoltura e sull’abitabilità di quei paesi.
Vent’anni fa l’ipotesi venne liquidata come allarmismo fantascientifico. Le grandi corporation degli idrocarburi, invece di investire una modica quantità dei loro ingenti profitti nel miglioramento tecnologico e nella prevenzione dell’inquinamento, decisero di riversare una montagna di soldi nella guerra al timido tentativo di rallentare l’effetto serra noto come Protocollo di Kyoto. Ebbero successo. La cortina fumogena riuscì a mettere sullo stesso piano il pool di eminenti scienziati riuniti dalle Nazioni Unite per compilare il trattato e una ventina di ricercatori prezzolati che prima negarono l’evidenza del riscaldamento globale e poi, una volta che la negazione era diventata impossibile, sostennero che si trattava di una normale fluttuazione climatica che nulla aveva a che fare con l’attività umana.
L’ipotesi che un alterazione del clima potesse causare conseguenze imprevedibili venne lasciata alla fantasia degli scrittori di fantascienza e dei registi di Hollywood. The show must go on, come si dice, ovvero lasciateci lavorare e non prestate orecchio agli uccelli del malaugurio.
Così, com’è noto, ben pochi paesi al mondo sono riusciti a rispettare le modeste riduzioni delle emissioni stabilite dal Protocollo di Kyoto - che, fra l’altro, lascia anche la possibilità di acquistare quote d’inquinamento dai paesi meno industrializzati, tanto per evitare il rischio che la trionfale marcia dello sviluppo rallenti anche solo di poco. Ed eccoci ai giorni nostri, al «cambiamento più brutale nell’intera storia dell’osservazione del clima», come il professor Keigwin ha definito l’arresto momentaneo della Corrente del Golfo. Secondo il climatologo, non solo il fenomeno potrebbe ripetersi in qualunque momento, ma può avere conseguenze drammatiche anche il semplice rallentamento di quel circuito virtuoso, un rallentamento che ormai sembra appurato. L’ha quantificato Harry Bryden, del National Oceanography Center di Southampton, calcolando che, fra il 1957 e il 1998, il flusso si è già ridotto di circa 6 milioni di tonnellate al secondo. In seguito, ben 16 stazioni di rilevamento distribuite sul fondo dell’Atlantico tra la Florida e il Nord Africa, hanno confermato che la tendenza persiste.
Ora, mentre va in scena la fine del mondo, sorgono spontanee alcune domande. La prima riguarda il fatto che la notiziola è vecchia di ben due anni, due anni durante i quali abbiamo allegramente continuato a bruciare petrolio, carbone e gas, a firmare protocolli e accordi economici, a stanziare fondi per nuovi oleodotti e nuovi giacimenti e, tanto per dare un contentino agli amanti della natura, a presenziare gli incontri della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti climatici con i rappresentanti dei 140 paesi che hanno firmato il protocollo di Kyoto. Possibile che questi signori non siano stati informati che nel novembre del 2004 la corrente del golfo si è fermata per dieci giorni? A cosa servono le Conferenze delle parti, solo a diramare appelli accorati e a fornire un palcoscenico per i candidati delle varie campagne elettorali planetarie? Oppure hanno saputo e non hanno informato nessuno? Anche questa prospettiva, non è certo incoraggiante.
La seconda considerazione riguarda il successo di quella magnifica idea che si chiama capitalismo capace di darci - a noi che siamo nati dal lato giusto del mondo - una certa sicurezza economica e tanti bei gadget più o meno utili al modico prezzo della catastrofe planetaria, una catastrofe sempre più vicina, sempre meno reversibile e che riesce ad andare oltre alle peggiori previsioni dei più pessimisti.
Nel suo “Collassi”(Einaudi, 2005) Jeremy Diamond cercava, analizzando gli esempi del passato, di capire perché alcune società sono riuscite a sopravvivere ai cambiamenti del loro ambiente mentre altre hanno scelto l’estinzione pur di non modificare il proprio modello sociale ed economico. Nel saggio colpiva più d’ogni altra la storia dell’Isola di Pasqua dove, invece di tentare di salvare le foreste che consentivano la sopravvivenza nella sperduta isola del Pacifico, gli abitanti originari continuarono a costruire le loro enormi sculture di pietra. Come è possibile, ci si chiede leggendo quelle pagine, che gli antichi abitanti abbiano tagliato tutti gli alberi inseguendo la speranza di una salvezza che sarebbe dovuta arrivare dal mare richiamata, appunto, dalle gigantesche statue? Possibile che gli esseri umani siano così stupidi da causare la propria autodistruzione? Ora abbiamo la risposta: sì, è decisamente possibile e, forse, tragicamente probabile.
Il rapporto sullo stato di salute della Terra indica un crollo della biodiversità e la riduzione vertiginosa delle risorse
Allarme del Wwf: "Un pianeta non basta
Entro il 2050 risorse insufficienti". "Bisogna cambiare, se non lo faremo conseguenze certe e terribili"
ROMA - Gli ecosistemi naturali si stanno degradando a un ritmo impressionate, senza precedenti nella storia della specie umana e la conseguenza più immediata è la perdita di biodiversità. Le conseguenze di questi processi sono catastrofiche già nel medio periodo: entro il 2050 le risorse della Terra non saranno più sufficienti, se continueremo a sfruttarle a questi ritmi. Sono le conclusioni del "Living Planet Report 2006", l’ultimo rapporto del WWF, giunto alla sua sesta edizione, presentato oggi a livello mondiale proprio da uno dei paesi a più rapido sviluppo, la Cina. "Fare dei cambiamenti che migliorino i nostri standard di vita e riducano il nostro impatto sulla natura non sarà facile - ha detto il direttore generale di Wwf International, James Leape - ma se non agiamo subito le conseguenze sono certe e terribili".
L’uomo distruttore. Secondo il rapporto, che è stato redatto dopo due anni di studi, la perdita di biodiversità già segnalata nelle precedenti edizioni è sempre più marcata e il consumo di acqua, suolo fertile, risorse forestali e specie animali ha raggiunto livelli intollerabili per il pianeta. Il rapporto dimostra che in 33 anni (dal 1970 al 2003) le popolazioni di vertebrati hanno subito un ’tracollo’ di almeno 1/3 e nello stesso tempo l’impronta ecologica dell’uomo - cioè quanto ’pesa’ la domanda di risorse naturali da parte delle attività umane - è aumentata tanto che la Terra non è più capace di rigenerare ciò che viene consumato.
Il ruolo dell’Italia. Il consumo incontrollato riguarda tutti i paesi e l’Italia, sebbene dietro al resto dell’Europa, è al 29esimo posto nella classifica mondiale delle nazioni scialacquatrici. E’ evidente, secondo il Wwf, che anche l’Italia deve cambiare rotta al più presto e imboccare la strada della sostenibilità del proprio sviluppo, integrando le politiche economiche con quelle ambientali.
Correre ai ripari. "Siamo in un debito ecologico estremamente preoccupante, considerato che i calcoli dell’impronta ecologica sono per difetto - ha spiegato Gianfranco Bologna, direttore scientifico del Wwf Italia - Consumiamo le risorse più velocemente di quanto la Terra sia capace di rigenerarle e di quanto la Terra sia capace di ’metabolizzare’ i nostri scarti. E questo porta a conseguenze estreme ed anche molto imprevedibili".
Per questo, secondo Bologna, "è tempo di assumere scelte radicali per quanto riguarda il mutamento dei nostri modelli di produzione e consumo. Il nostro futuro dipenderà da come impostiamo oggi la costruzione delle città, da come affrontiamo la pianificazione energetica, da come costruiamo le nostre abitazioni e da come tuteliamo e ripristiniamo la biodiversità".
I dati. Il rapporto del Wwf ha analizzato in tutto 695 specie terrestri, 344 di acqua dolce e 274 specie marine. Negli oltre trent’anni presi in considerazione le specie terrestri si sono ridotte del 31%, quelle di acqua dolce del 28% e quelle marine del 27%. Il secondo indice, l’Impronta Ecologica, misura la domanda in termini di consumo di risorse naturali da parte dell’umanità. Il "peso" dell’impatto umano sulla Terra è più che triplicato nel periodo tra il 1961 e il 2003. Questo rapporto mostra che la nostra impronta ha già superato nel 2003 del 25% la capacità bioproduttiva dei sistemi naturali da noi utilizzati per il nostro sostentamento. Nel rapporto precedente era del 21%.
In particolare, l’impronta relativa alla CO2, derivante dall’uso di combustibili fossili, è stata quella con il maggiore ritmo di crescita dell’intera impronta globale: il nostro "contributo" di CO2 in atmosfera è cresciuto di nove volte dal 1961 al 2003. L’Italia ha un’impronta ecologica (sui dati 2003) di 4,2 ettari globali pro capite con una biocapacità di 1 ettaro globale pro capite, dimostrando quindi un deficit ecologico di 3,1 ettaro globale pro capite. (24 ottobre 2006)
Entro fine secolo caldo estremo più frequente e siccità.
Riscaldamento globale: l’Italia a rischio.
Se non si modificano le attuali emissioni di gas serra pesanti ripercussionisocietà ed ecosistemi. Mediterraneo molto vulnerabile *
WASHINGTON - Se le attuali emissioni di gas serra non diminuiranno, entro la fine del secolo si andrà incontro a una escalation degli eventi climatici estremi. In particolare: aumento della durata media delle heat-waves (ondate di caldo) e del numero delle notti calde , aumento dell’intensità delle precipitazioni, allungamento dei periodi di siccità , riduzione dei periodi di freddo intenso. A formulare la previsione è una ricerca condotta da una ricercatrice italiana, Claudia Tebaldi e collaboratori del National Center for Atmospheric Research, che si fonda su una simulazione che si è avvalsa di ben nove supercomputer, tra i più potenti al mondo, all’interno dei quali sono stati immessi dati relativi a tutte le variabili che possono interferire sul clima.
EVENTI ESTREMI - «Sono gli eventi climatici estremi, e non i valori medi, che causano i maggiori danni alle società e agli ecosistemi», spiega la ricercatrice italiana. «Per esempio, sappiamo che le terribili heat-waves, o ondate di caldo, che hanno colpito Chicago nel 1995 hanno causato un drastico aumento della mortalità, soprattutto tra gli anziani e la classi sociali disagiate. La stessa cosa è accaduta in Italia durante l’estate del 2003. In base ai nostri risultati si prevede che le heat-waves, che ora si verificano una volta ogni dieci anni, potrebbero diventare molto più frequenti: fino una volta all’anno entro fine secolo» (una ricerca specifica della studiosa sulle heat-waves è stato pubblicato su Science due anni fa).
EQUILIBRIO SECOLARE - «In pratica - continua la ricercatrice - siamo di fronte alla rottura di un equilibrio rimasto immutato per secoli e le conseguenze possono essere disastrose sotto diversi punti di vista. Aumento dell’intensità delle precipitazioni vuol dire aumento del rischio di alluvioni e anche la riduzione dei periodi di gelo non è una buona notizia: questo infatti può comportare un drammatico cambiamento degli ecosistemi con ricadute negative come l’aumento dell’infestazione da insetti. I paesi del Mediterraneo, insieme agli Stati Uniti occidentali e al Brasile, risultano le aree più interessate da queste modificazioni climatiche». Lo studio, dal titolo «Going to the extremes», finanziato da National Science Foundation, US Department of Energy e EPA, apparirà sul numero di dicembre della rivista peer-reviewed «Climatic Change» 02 novembre 2006
* www.corriere.it, 02.11.2006
Lo statunitense Wolrdwatch Institute: eventi estremi triplicati in 20 anni. Tra i responsabili megalopoli industriali e riduzione dei terreni agricoli
"Clima in tilt: boom di disastri naturali". Studio spiega l’aumento di vittime e costi
di ANTONIO CIANCIULLO *
ROMA - Ormai l’uso delle virgolette è diventato obbligatorio. Basta un’occhiata al diagramma che mostra la crescita dei disastri "naturali" per convincersi che dietro quei lutti ci sono responsabilità umane: da una parte il sovraffollamento in condizioni spesso precarie, dall’altra l’abuso di petrolio che ha intossicato l’atmosfera e cambiato il clima. Lo State of the World 2007, il rapporto annuale del Worldwatch Institute appena uscito negli Stati Uniti, dedica un capitolo alla "riduzione dei disastri naturali". Negli anni Ottanta erano, in media, 173 all’anno; negli anni Novanta erano saliti a 236; solo nel 2005 sono stati 430 e hanno ucciso quasi 90 mila persone.
Una crescita esponenziale che ha una ragione molto chiara: "Sono il prodotto di una relazione in forte cambiamento tra gli eventi naturali, le condizioni sociali e fisiche e i sistemi di prevenzione del rischio organizzati - o più spesso non organizzati - per proteggerci". La situazione è ulteriormente esasperata dall’esplosione caotica degli slum delle megalopoli: otto delle 10 città più popolose del mondo sono in zona sismica e 6 sono esposte alla minaccia degli uragani. Non è solo un pericolo teorico. Il 2005 ha fatto registrare il record di uragani: 27 compreso Katrina che ha devastato New Orleans.
L’instabilità climatica rende sempre più precari i bilanci di molti settori chiave dell’economia. A cominciare dalle assicurazioni. Secondo i dati riassunti da Greenpeace, a livello mondiale le perdite del settore assicurativo sono passate da una media di 4 miliardi di dollari l’anno negli anni Ottanta, a 40 miliardi l’anno negli anni Novanta. Nel 2005 si è avuto il picco, sfiorando quota 225 miliardi.
Sempre nel 2005, dopo aver subito richieste di indennizzo da uragani per 2,1 miliardi di dollari, l’American Insurance Group ha messo a punto una serie di progetti per la riduzione dei gas serra. Anche perché prevenire è più conveniente: le perdite economiche da disastri "naturali" registrate negli anni Novanta - scrive Zoë Chafe sullo State of the World 2007 - avrebbero potuto essere ridotte di 280 miliardi di dollari se fossero stati investiti 40 miliardi in misure preventive.
Invece le città continuano a divorare le campagne senza preoccuparsi delle conseguenze. Le isole di calore prodotte dai megaconglomerati urbani - a iniziare da quelli asiatici in rapida espansione - producono una differenza di temperatura rispetto alle aree vicine che può arrivare a picchi di 10 gradi. Secondo le stime Unep (il Programma ambiente delle Nazioni Unite), l’onda di calore che ha colpito l’Europa nel 2003 ha portato i danni annuali prodotti dal cambiamento climatico a 60 miliardi di dollari.
E, se troveranno conferma le previsioni che ipotizzano a fine secolo un innalzamento di un metro del livello dei mari, il Bangladesh perderà il 17,5 per cento del suo territorio e dovrà trovare una casa a 13 milioni di persone, mentre sia l’Egitto che il Vietnam avranno a che fare con circa 9 milioni di rifugiati ambientali.
* la Repubblica, 20 gennaio 2007.
Una catastrofe a portata di click
«L’umanità al bivio» dello studioso Luigi Cortesi per Odradek. Un’appassionata e meditata analisi sul rapporto di causa ed effetto tra deregulation dell’attività economica e crisi ecologica
di Enrico Maria Massucci (il manifesto, 14.02.2007)
Il recente intensificarsi degli allarmi sulle incombenze climatiche che gettano ombre cupe sul destino dell’umanità è il segno inequivoco che anche all’interno di settori dell’establishment si fanno strada preoccupazioni non contingenti per lo stato fisico del pianeta. E anche se è evidente che lo zoccolo duro delle classi dirigenti continua imperterrito a perseguire una rotta di collisione mortale con gli interessi di lungo periodo dell’ecosistema (che sono quelli della comunità umana, se non si ragiona nell’ottica dell’individualismo neo-liberale), il ripetersi di lesioni ed eventi catastrofici nella biosfera sembra finalmente determinare nell’opinione più vasta un’attenzione meno superficiale ed episodica, facendo intravedere una volontà dal basso di porre argini all’uso irresponsabile di risorse e natura. Nella speranza, che si sia ancora in tempo per invertire pratiche e politiche, ma soprattutto, che l’interesse per la salvezza dell’ambiente esca dai minimalismi «emendativi» e dalle genericità «compatibiliste» (che si condensano nella risibile formula dello «sviluppo sostenibile»), per entrare nel merito dei dispositivi macroeconomici di produzione del rischio ambientale.
Una biosfera al limite
È infatti chiaro che il modello economico vigente ha intaccato in profondità le capacità «omeostatiche» della natura, cioè la sua attitudine ad assorbire in modo indolore le quantità esorbitanti di veleni prodotti, e che lo «scambio» con le attività umane vede infliggere all’ambiente «perdite secche» che comprometteranno irreversibilmente il futuro delle specie, quella umana inclusa, questa volta.
Proprio per queste ragioni, è doveroso segnalare attori e soggetti precoci della riflessione ecologistica, per i quali l’«emergenza ambientale» non è una scoperta occasionale o postuma, ma il terreno di un professionale approfondimento storico-scientifico di lunga lena. È il caso dello storico Luigi Cortesi, già impegnato nell’ambito della peace-research, da quando con l’installazione degli «euromissili» nel 1979, sviluppò un percorso di analisi sulla «condizione atomica» e sulla drammatica novità planetaria da essa imposta, sulla scia delle appassionate, «visionarie» e inascoltate meditazioni del Günther Anders di Diario di Hiroshima.
Studioso del movimento operaio, Cortesi individuava allora nella «nuova guerra fredda» reaganiana l’occasione per un ripensamento delle categorie della liberazione alla luce dello shifting globale del rischio di «distruzione totale», e ne deduceva la priorità assoluta della lotta per la pace. Beninteso, non nel senso querimonioso e flebile di una generica ed ecumenica composizione del conflitto tout-court, ma di un coinvolgimento critico nella denuncia dei dispositivi di produzione della guerra, nella varietà delle sue componenti, politiche e materiali.
Niente irenismi o piagnistei, dunque, ma un più forte impegno di lotta, di «pacifismo realista», che integrasse nei «vecchi» disegni di emancipazione di matrice socialista e comunista le nuove prospettive storico-politiche aperte dalle implicazioni distruttive dell’escalation nucleare (e dalla prepotenza e pervasività del complesso militar-industriale).
Ne era il frutto la fondazione della rivista «Giano» (1989), cui il contributo di Sebastiano Timpanaro (altro «solitario» della sinistra nostrana) avrebbe in seguito apportato (secondo le parole dello stesso Cortesi) un nuovo prezioso input ideale ed euristico, nel quale la lotta per la pace intercettava la novità assoluta del paradigma ecologico, colto ormai come il fronte decisivo di una riflessione e di una pratica che coniughi «liberazione» e «salvezza» . Ma anche come creativo recupero delle forti ragioni umanistiche di una sinistra in verticale crisi egemonica, contro il dilagare delle pulsioni più distruttive del capitalismo, che proprio nella sinergia «ecocida» ed «umanicida» esibisce l’anima più profonda e feroce.
Fecondissimo e drammaticamente urgente orizzonte di ricerca, oggi riproposto nell’ultimo libro dello storico (L’umanità al bivio. Il Pianeta a rischio e l’avvenire dell’uomo, Odradek, pp. 223, € 16,00), contenente anche una selezione dei principali «editoriali» della rivista, riflessioni sui più recenti eventi politici internazionali (a cominciare da quelli mediorientali) e un’appendice, che richiama l’altro, importante libro dell’autore, Storia e catastrofe, del 1984, ripubblicato da manifestolibri nel 2004. La cui coerenza e drammatica attualità possono anche positivamente impressionare, nella lucida e precoce individuazione delle tendenze di medio-lungo periodo e delle radici «eziologiche» della deriva attuale. Ma rappresentano la conferma della vitalità di alcuni strumenti d’analisi di «critica del presente», applicati a quel cruciale «rapporto tra prassi umana e natura», che solo oggi la grande stampa confusamente incorpora, dopo averlo stolidamente rimosso, ancora tuttavia glissando sulla sostanza del problema, come sulle sue ragioni causali.
Deregulation nichilista
Si tratta di una messa a punto del pensiero di Cortesi, che non deflette dalla denuncia del carattere sistemico del precipizio ambientale odierno, né pensa ingenuamente che esso sia contenibile e gestibile entro le coordinate di una governance continuista, implicando, al contrario, la rimessa in campo e l’attualizzazione di un’istanza trasformativa radicale. Forse risibile alle orecchie di chi si è riconciliato e comodamente installato nel cuore di questa modernità, ma non nelle coscienze di quanti percepiscono il carattere ultimativo e finale dei segnali più recenti della natura e la scelleratezza delle scelte autistiche dei gruppi dominanti, avvertendo l’urgenza della ribellione alla marxiana «comune rovina delle classi in lotta». Sono i frutti, avverte Cortesi, «di una rottura del patto con la natura (...) entro il quale si è svolta tutta la storia umana», della «potenza terribile di una prassi sregolata che ha come riferimenti il profitto e la crescita, l’avere e non l’essere».
Alla quale afferiscono parecchie complicità, non ultime quelle dei media che «non hanno comunque messo in chiaro la relazione tra deregulation dell’attività economica e deregulation dei rapporti con l’ambiente». E nella quale viene a tragica evidenza una costituiva e amorale attitudine ad un «uso inumano degli esseri umani» come della natura, dispiegata come rifiuto di qualsivoglia cultura del limite e cieca disponibilità ad un esito distruttivo generale.
E’ contro questo esito nichilista che occorre mobilitare l’altra parte dell’umanità, Ed è qui che «l’etica della responsabilità di Max Weber deve cedere il passo al "principio responsabilità" di Hans Jonas». Perché, come dice Cortesi, «l’uomo che si salva non è lo yesman del sistema, ma un ’apocalittico consapevole’ e quindi un ribelle».
L’altro mondo di Gore
di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 14/10/2007)
È significativo che Al Gore abbia fatto rinascere la politica e le abbia dato un nuovo tema oltre che un diverso modo di farla creandosi una specie di seconda patria nella rete internet: una patria-mondo, visto che il territorio internet è il mondo. Alle spalle aveva quel giorno infausto in cui vinse le presidenziali contro Bush, nel 2000, e che perse a seguito del verdetto di una Corte Suprema «eticamente compromessa», come scrive Michael Tomasky sul New York Review of Books dello scorso settembre. Molti narrano l’abbattimento che afflisse per mesi il candidato, ma pochi percepirono l’eccezionale itinerario che egli cominciò a percorrere: forte - sembrerebbe - di una sua segreta convinzione riguardante la nobiltà delle sconfitte. Fu un itinerario di esilio interiore e anche di conversione, di discussione e riscoperta di sé. Fu un distaccarsi dalla politica e al tempo stesso un riattaccarsi ad essa, un ripensarla da capo. Tale fu il suo migrare in altre patrie e nel mondo.
Una sua antica passione era tornata in superficie, sette anni fa: la cura dell’ambiente, la protezione della Terra come questione di pace e di guerra, l’idea di una responsabilità politica che oltrepassa non solo i confini della nazioni ma anche quelli delle generazioni, divenendo quella che Hans Jonas chiama responsabilità per il futuro dell’uomo. Era una passione che non trovava posto nello spazio pubblico, né in America né altrove. Fu allora che emigrò nel world wide web, allo stesso modo in cui De Gaulle scelse di incarnare la Francia migliore standosene fuori, a Londra, per combattere i collaborazionisti di Vichy. Così Al Gore: ritrovare la fortezza della politica non era possibile nello spazio pubblico esistente.
Non era possibile per il semplice fatto che tale spazio a suo parere s’è oggi striminzito, occupato com’è da poteri manipolatori che screditano l’arte del politico e la sua vocazione.
Le verità scomode, che son divenute l’emblema di Al Gore, possono esser dette solo allontanandosi da questi centri di potere (politici, mediatici) e riparando nelle terre del web. Senza quest’altra patria, estesa alla Terra, la sua influenza non sarebbe cresciuta sino a fare di lui un mito; il suo film sulla catastrofe climatica non avrebbe scosso i popoli; la giuria del Nobel non l’avrebbe nominato campione della pace assieme a quella straordinaria istituzione (l’Ipcc, Panel intergovernativo sul cambiamento climatico) che l’Onu creò nell’88, che è composta di 2500 scienziati non retribuiti, e che ha influenzato Al Gore.
Non importa sapere se il premiato profitterà del Nobel per rientrare in politica, armato di questi sette anni di esilio-resistenza. Molti ammiratori lo desiderano, invocando sul web la sua candidatura. Il blog più militante - www.draftgore.com - lo scrive ogni giorno e aggiunge una canzone di Paul Kaplan per incoraggiarlo, «Run Al Run», Corri Al, corri, che riprende il titolo di un libro (Run Boy Run) sulla fuga d’un ragazzo dal ghetto in fiamme di Varsavia. Al Gore è visto così: un ragazzo, con le sue cadute e metamorfosi. Un adolescente che continuamente muore e rinasce, come usano gli adolescenti. È l’intreccio che l’ha trasformato in politico-profeta, e non è detto che abbandoni questa sua immagine inusitata candidandosi come tanti altri.
Occuparsi prioritariamente del clima gli ha fatto scoprire un gran numero di cose, sulla malattia profonda della democrazia e dell’America. Una malattia che preesiste a Bush ma che Bush ha acuito enormemente. Gli ha fatto capire che la potenza Usa ha perduto con gli anni ogni attrattiva morale, che è forte solo della violenza, che la sua leadership globale è in frantumi dopo l’11 settembre. Ed è in frantumi perché imbacuccata nell’illusione di poter fronteggiare da sola, col vecchio Stato-nazione, mali comuni al pianeta come quello delle temperature in aumento. Il clima gli ha fatto scoprire che urge una coscienza collettiva per rispondere a minacce come il riscaldamento della Terra, l’innalzamento dei mari, la prospettiva di inondazioni e di milioni di rifugiati, le guerre già cominciate (l’Iraq è esemplare) attorno a risorse come acqua e petrolio, che sperperiamo o da cui perniciosamente dipendiamo.
Per questo è essenziale il web, che questa coscienza può accenderla più di altri mezzi, resuscitando al contempo la politica: il web e i blog che non disseminano verità - come fanno i giornali e soprattutto la televisione - ma la cercano instancabilmente (la distinzione tra disseminare e cercare è nell’ultimo libro di Al Gore, L’Assalto alla Ragione, che Feltrinelli pubblicherà in autunno).
La battaglia di Al Gore non è solo contro Bush, o contro politici che hanno supinamente accettato l’idea di una guerra «di più generazioni» contro il terrorismo, con l’abnorme accrescimento dei poteri presidenziali che tale guerra comporta, a scapito di libertà individuali e stato di diritto. Nell’Assalto alla Ragione l’ex candidato democratico dice che questi sono sintomi della malattia democratica e che le vere cause sono altrove: sono la scomparsa di un’autentica conversazione democratica pubblica, che crei nei cittadini fiducia nella politica e attaccamento a essa (il riferimento è esplicito alle teorie dell’attaccamento, sviluppate dagli psichiatri John Bowlby e Mary Ainsworth). Televisione e grandi giornali uccidono quotidianamente la conversazione, propinando dall’alto verità convenienti che nessuno lettore o telespettatore può mettere in questione, generando in questi ultimi un crescente senso d’impotenza, nascondendo i crudi fatti dietro velami ideologici.
La messa in questione è consentita tuttavia nei blog, nuovi strumenti di attaccamento alla politica e di conversazione «non a senso unico». Solo in internet si può entrare senza appartenere a lobby o corporazioni, senza titoli speciali e sovente abusati: dicendo la propria, e facendo della democrazia qualcosa di condiviso. Internet ha certo i suoi pericoli, che Al Gore enumera: insidiato dall’approssimazione, anch’esso può manipolare. Ma introdurre regole nel web ed evitare che le corporazioni se ne impossessino non è impossibile.
Le peripezie del dibattito sul clima sono significative. Giornali e tv si sforzano ogni volta di dare l’opinione contraria, quando espongono i dati a disposizione sui disastri della biosfera. Pretendono di farlo in nome del pluralismo, ma in realtà trasformano i fatti rivelati in opinioni, e falsano il dibattito mettendo tutto sullo stesso piano: idee e cifre, ideologie cucite sugli interessi e dati scientifici. Nel suo libro Una scomoda verità (Rizzoli), Al Gore lo spiega bene: giornali e tv danno alle opinioni contrarie un eguale peso, mentre praticamente nessun articolo scientifico sulla stampa specializzata contesta ormai i dati forniti da istituzioni come Ipcc e le responsabilità umane nel clima degradato.
Al Gore restituisce alla politica il primato che sta perdendo, reinventandola e riempiendo un vuoto come fece la socialdemocrazia nella seconda parte del XX secolo. In un primo tempo, il ’900 fu letale perché il conflitto fra mercato e democrazia era stato sottovalutato, e vinsero dottrine che fecero tesoro del risentimento e della paura nati dal conflitto. Oggi siamo a un bivio simile, e non a caso Al Gore cita quel che Churchill disse nel ’36: «Il periodo dei rinvii e delle mezze misure è finito (...) Adesso inizia il periodo delle conseguenze». E ancora: «Questo è un momento morale (...). Quando viene meno la visione, la gente perisce».
Anche oggi le forze del mercato tendono a ignorare il clima, mettendo da parte la politica, le regole, la visione. Molti politici son succubi di tali forze - anche a sinistra, dove son chiamati coraggiosi - e giungono sino a disfarsi dell’innovativo principio di precauzione, che impone cautela quando l’economia cresce in offesa alla terra (è il caso del francese Attali, cooptato da Sarkozy, che propone di eliminare il principio incorporato da Chirac nella costituzione). Ma i politici sono particolarmente succubi in Stati-nazione come l’America, e non a caso Jeremy Rifkin è del parere che l’Europa sia, su numerosi temi, più avanzata (la Repubblica, 13-10-07).
Ma anche in Europa occorrono figure profetiche, che escano dalla politica fossilizzata per rientrare in essa con idee non ortodosse. Rifkin cita Prodi, quando alla presidenza della Commissione europea si batté per il clima sfidando l’ottusa sordità di Washington. Anche lui, a suo modo, era un emigrato della politica italiana. Al Gore con le sue iniziative rifonda la politica, superando i limiti dello Stato-nazione e guardando il mondo con occhi spesso più europei che americani. Ripensa il rapporto fra informazione e partecipazione, fra monologo dei media dominanti e inedite pratiche di conversazione cittadina. È sperabile che il suo sguardo resti profetico, quale che sia il suo avvenire politico.