[...] È vero, pratico il consiglio del poeta Cecil Day Lewis, alias il giallista Nicholas Blake: mai lasciarsi coinvolgere in una discussione con dei teologi. Faccio, però, un’eccezione per rispondere alle garbate critiche che dalle pagine di «Avvenire» (5 ottobre) Vittorio Possenti rivolge al mio libro Senza Dio, edito da Longanesi. In breve, non mi sarei occupato abbastanza dell’Altissimo, rischiando così di «confondere il Signore con il Dio Padrone». Ma non è «padrone» il primo significato di quel termine - dominus - cui tanta teologia ha consacrato i suoi sforzi d’intelletto e sentimento? [...]
DEPONIAMO LE ARMI, APRIAMO UN DIBATTITO
di Federico La Sala*
Bisogna cominciare a vaccinarsi: il conto alla rovescia è partito. L’allineamento dei “pianeti” si fa sempre più stretto e minaccioso (Usa, Uk, Spagna, Italia, Grecia, Turchia, Israele..) e il papa - accerchiato e costretto alla rassegnazione - lo ha detto con decisione e rassegnazione: “Dio sembra quasi disgustato dalle azioni dell’umanità”.
Io credo che non si riferisse solo e tanto all’umanità degli altri, ma anche e soprattutto delle sue stesse “truppe” che lavorano dietro le quinte e alacremente a tale progetto.
Come è già apparso chiaro in varie occasioni (ultima, plateale, nel Kazakistan nel 2001) la gerarchia della Chiesa Cattolico-Romana ha il cuore duro come quello dei consiglieri del faraone. Si è mantenuta a connivente distanza da Hitler, ha appoggiato Mussolini, sta appoggiando il governo Berlusconi, e non finirà per appoggiare Bush? Figuriamoci.
Lo sforzo di memoria e riconciliazione non è stato fatto per riprendere la strada della verità, ma per proseguire imperterrita sulla via della volontà di potenza... Non ha sentito e non vuole sentire ragioni - nemmeno quelle del cuore: la “risata” di Giuseppe (cfr. Luigi Pirandello, Un goj, 1918, “Novelle per un anno”) contro il suo modello-presepe di famiglia (e di società) continua e cresce sempre di più, ma fanno sempre e più orecchi da mercanti! Cosa vogliono che tutti e tutte puntino le armi non solo contro Betlemme (come già si è fatto) ma anche contro il Vaticano?
Credo con Zanotelli che "stiamo attraversando la più grave crisi che l’homo sapiens abbia mai vissuto: il genio della violenza è fuggito dalla bottiglia e non esiste più alcun potere che potrà rimettervelo dentro"; e credo - antropologicamente - che sia l’ora di smetterla con l’interpretazione greco-romana del messaggio evangelico!Bisogna invertire la rotta e lavorare a guarire le ferite, e proporre il modello-presepe correttamente.
Lo abbiamo sempre saputo, ma ora nessuno lo ignora più! Chi lo sa lo sa, chi non lo sa non lo sa, ma lo sanno tutti e tutte sulla terra, nessuno e nessuna è senza padre e senza madre! Dio “è amore” (1Gv.: 4,8) e Gesù (non Edipo, né tanto meno Romolo!) è figlio dell’amore di un uomo (Giuseppe, non Laio né tanto meno Marte, ma un nuovo Adamo) e una Donna (Maria) e non Giocasta né tanto meno Rea Silvia, ma una nuova Eva. Cerchiamo di sentire la “risata”. Deponiamo le armi: tutti e tutte siamo “terroni” - nativi del pianeta Terra, cittadini e cittadine d’Italia, d’Europa, degli Stati Uniti d’America, di Asia, di Africa ecc., come di Betlemme, come di Assisi e di Greccio... E non si può continuare con le menzogne e la violenza!
Non siamo più nella “fattoria degli animali”: fermiamo il gioco, facciamo tutti e tutte un passo indietro se vogliamo saltare innanzi e liberarci dalla volontà di potenza che ha segnato la storia dell’Occidente da duemila anni e più! Si tratta di avere il coraggio - quello di don Milani - di dire ai nostri e alle nostre giovani che sono tutti e tutte sovrani e sovrane o, che è lo stesso, figli e figlie dell’amore di D(ue)IO... dell’amore di "due Soli" esseri umani, come anche Dante aveva già intuito, sul piano politico ma anche sul piano antropologico.
Cerchiamo finalmente di guardarci in faccia e intorno: apriamo il dibattito - o, perché no, un Concilio Vaticano III (come voleva già il cardinale Martini) tra credenti e non credenti - e teniamo presente che Amore non è forte come la morte, ma è più forte di Morte (Cantico dei cantici: 8,6, trad. di G. Garbini, non degli interpreti greco-romani della Chiesa Cattolica).
Caro La Sala,
ho letto, apprezzato e, ovviamente, condivido.
Gianni Vattimo
* Pubblicata su l’Unità del 29 dicembre 2002, p. 30.
Giorello senza Dio (infatti non ne parla)
di Vittorio Possenti (Avvenire, 05.10.2010)
Ateo non è «chi logora il proprio tempo nel cercare di dimostrare che Dio non c’è, ma chi decide di vivere senza e perfino contro Dio». Così Giulio Giorello che, preoccupato come Bertrand Russell (cui in parte si ispira) del decadere del liberalismo e del libero pensiero, eleva una veemente critica contro cinque «bestie»: la reverenza, la rassegnazione, l’autorità, la proibizione, la sottomissione.
Questi termini, preceduti dal «contro», formano il titolo dei capitoli del volume Senza Dio (Longanesi, pp. 230, euro 15). Ma la differenza con Russell è notevole, poiché Giorello, diversamente dal filosofo inglese, ritiene di scarso interesse il problema di Dio.
Da questo assunto il libro assume il suo carattere fortemente elusivo sul nucleo teologico, affrontato solo obliquamente attraverso la critica di vere o presunte deviazioni delle religioni, in specie del cristianesimo e della sua versione cattolica. La sostanziale omissione del «tema Dio», e delle scoperte sempre nuove che vi si possono fare, rende forse incongruo il titolo del volume.
«Senza religione» renderebbe meglio il punto. Giorello provvede a limitare il suo ateismo, definendolo come ateismo metodologico, che appunto non si attarda a mostrare che Dio non è. Se tale ateismo meriti questo nome rimane controverso: il problema in realtà non sta nel nome, ma nel fatto che l’ateismo metodologico può evolvere verso una vera ricerca di Dio oppure ritenere che Dio sia un pensiero inutile. Senza Dio, pur lasciando sussistere margini di ambiguità, sembra propendere per la seconda possibilità.
La sua posizione è riassunta così: «Vedo l’ateismo non come una rete di dogmi, ma come un repertorio di strumenti intellettuali e pratici, che riguardano il nostro modo di indagare l’universo e scegliere il nostro destino».
L’individualismo libertario, vera anima del volume, è assunto come metro di giudizio e di protesta: quella di Giorello è infatti una posizione «protestante» nel senso letterale del termine, e l’autore si definisce come un «ateo protestante» che all’occasione può anche criticare teologi che fanno a meno dell’elemento escatologico della fede.
La protesta è una parte importante della nostra libertà e sensibilità morale, e perciò mi guardo bene dal rifiutarla: anche il credente deve protestare, e il monopolio della protesta non sta da una parte sola. Semmai saranno la qualità e gli obiettivi della protesta a renderla fondata. Combattere l’intolleranza, il fanatismo, l’autoritarismo, la rassegnazione è bene, a patto di saper individuare il bersaglio in modo adeguato.
Il volume vi riesce? Forse non aiuta l’amplissima varietà di casi, autori, situazioni accumulati senza andare troppo per il sottile. La questione del male e del dolore innocente avrebbe richiesto un’istruzione più articolata e parimenti l’assunto dell’impossibile coesistenza in Dio dell’onnipotenza e della bontà. Sintomatico poi il «contro l’autorità» che non si ferma neppure un attimo a stabilirne il concetto.
Non c’è da scandalizzarsi oltre misura di ciò, dal momento che larga parte del pensiero contemporaneo non ha la minima idea dell’autorità. Sarebbe perciò vano attendersi dal volume un chiarimento sul suo compito e la sua differenza dal dogmatismo.
Qualcosa di analogo capita per la sottomissione su cui l’individualismo libertario dice con forza: non serviam, «non sarò servo». Un tale individualismo protesta contro Dio-Padrone, confondendo il Signore con il Padrone.
Certo, espressioni religiose deviate possono aver dato occasione per questo equivoco, che rimane comunque tale se non si intende l’enorme differenza tra servire un padrone duro e servire nell’amore. Una certa mancanza di grandezza nel comprendere la grandezza del servire sembra costituire un serio limite dell’individualismo libertario. L’atteggiamento contrario si ritrova nella figura di Hammarskjöld che scrisse: «Una volta risposi sì a qualcuno - o a qualcosa. A quel momento risale la certezza che l’esistenza ha un senso e che perciò la mia vita, nella sottomissione, ha un fine».
Nonostante l’esteso ricorso al fallibilismo epistemologico che, applicato al di là delle scienze, occulta l’esistenza di acquisti per sempre, Giorello non è uno scientista. Il suo schierarsi per la scienza, la conoscenza che ne viene, la libertà di ricerca, la tolleranza è un atteggiamento sano. Kierkegaard avrebbe aggiunto: sano ma incompleto, poiché per stare in equilibrio fecondo gli manca il lato della costruzione positiva. Da dove partire per questo?
L’assunto del libro è netto: «Nessuno venga a dettar legge alla nostra coscienza». Accettiamo la sfida e domandiamo dove e come l’individualista libertario trovi un canone per agire. Se non ci deve essere una legge imposta alla coscienza, bisognerà pur dire che o non vi è legge, oppure che la coscienza la trova in sé come dato sorgivo: ed allora il libertario deve chiedersi dove si fondi.
Protestare contro Dio-padrone, il papa-re, il soggetto subordinato può essere necessario, ma non è sufficiente. Noi dobbiamo ad ogni istante nutrirci di liberazione dal male (fisico e morale), e per questo occorre mettere in campo una coscienza che sappia dove richiedere luce per l’azione, e che sia in grado di compiere un atto originario di libertà per il bene, il vero, la giustizia.
Ateismo, una via per arrivare a Dio
di Giulio Giorello (Corriere della Sera, 06.10.2010) *
È vero, pratico il consiglio del poeta Cecil Day Lewis, alias il giallista Nicholas Blake: mai lasciarsi coinvolgere in una discussione con dei teologi. Faccio, però, un’eccezione per rispondere alle garbate critiche che dalle pagine di «Avvenire» (5 ottobre) Vittorio Possenti rivolge al mio libro Senza Dio, edito da Longanesi. In breve, non mi sarei occupato abbastanza dell’Altissimo, rischiando così di «confondere il Signore con il Dio Padrone». Ma non è «padrone» il primo significato di quel termine - dominus - cui tanta teologia ha consacrato i suoi sforzi d’intelletto e sentimento?
Possenti mostra così che ho colpito nel segno, poiché la mia idea di ateismo è quella di una provocazione continua ai credenti e ai praticanti di qualsiasi religione a chiarire i loro presupposti, nella convinzione che questo lavoro serva a tutti, credenti o non credenti: l’ateismo è soprattutto un metodo.
Possenti mi chiede: per arrivare a che cosa? Potrei ribattere con le parole di un mio «lettore»: magari per «arrivare a Dio prescindendo da Dio». Ossia da tutte le gabbie in cui i signori della teologia e della morale hanno imprigionato il Dio che ci parla in grandi testi come i Vangeli o il Corano, facendone semplicemente un pretesto per giustificare coazione o gerarchia.
Concordo con Possenti che solo nella coscienza può sorgere l’esigenza della legge morale e civile, ma non vedo proprio perché io o qualsiasi altro «libertario» dobbiamo indicarne un qualche «fondamento» a cui sottometterci con spirito di «servizio».
La possibilità di costruire un’autentica solidarietà senza «fondarla come su solida roccia» (cioè, detto senza retorica, senza imporla a chi la pensa diversamente) non è un dettaglio accademico, ma una questione cruciale per qualsiasi democrazia matura. Proposta per gli amici di «Avvenire» (e per tutti i cattolici aperti al confronto delle idee): perché non proviamo a rispondere insieme?
* Sul tema, nel sito, si cfr. anche:
"ORCOD...", URBI ET ORBI. LA "NUOVA" TEOLOGIA DEI "DUE PAPI"
PER RATZINGER, PER IL PAPA E I CARDINALI, UNA LEZIONE DI GIANNI RODARI. L’Acca in fuga
LA PROVETTA DI ROBERT EDWARDS, BENEDETTO XVI, E LA LEGGE MORALE DEL CONCILIO VATICANO II.
Papa Luciani e la bimba in provetta
di Alberto Melloni (Corriere della Sera, 08.10.2010)
La discussione sui bimbi in provetta riaccesasi in questi giorni attorno alla assegnazione del Nobel, potrebbe indurre molti a pensare che la Chiesa cattolica sia una Chiesa che o è «contro» ciò che per tanti è un dono o deve esserlo per adempiere la propria missione.
Contro il rischio che questo stereotipo del «no» si consolidi come una accusa o come un orgoglio val la pena di rileggere l’intervista di Albino Luciani. La consegnò ai primi d’agosto del 1978 alla rivista Prospettive nel mondo ed era dedicata alla «prima» bambina venuta al mondo con una fecondazione in vitro. Il futuro Giovanni Paolo I in questa specie di lettera augurale - che non venne pubblicata perché l’autore diventò papa e venne resa nota anni dopo la sua morte - argomentava con prudenza e a titolo personale, «in attesa di quanto l’autentico magistero» avrebbe dichiarato. Ma sviluppava quattro punti significativi per il loro ordine e la loro relazione interna.
Luciani condivideva «solo in parte l’entusiasmo di chi plaude al progresso della scienza e della tecnica»: cosa sarebbe accaduto quanto quella tecnica si fosse trovata davanti a «figli malformati? Lo scienziato non farà la figura dell’apprendista stregone che scatena forze poderose senza poi poterle arginare e dominare?» E inoltre, davanti al rischio di un «mercato dei figli» la famiglia e la società «non sarebbero state in gran regresso più che in progresso?»
Il futuro Papa, dunque, «in parte» sollevava dubbi che sotto Giovanni Paolo II si sarebbero distesi in una dottrina: ma non si fermava lì. Proseguiva col fare «a seguito di Dio, che vuole e ama la vita degli uomini, i più cordiali auguri alla bambina. Quanto ai suoi "genitori" non ho alcun diritto di condannarli: soggettivamente se hanno operato con retta intenzione e in buona fede essi possono avere perfino un gran merito davanti a Dio per quanto hanno deciso e chiesto ai medici di eseguire».
Il futuro pontefice esaminava la questione della liceità morale dell’accaduto, in linea col magistero di Pio XII (se l’atto medico facilita o continua l’atto coniugale è lecito, se lo sostituisce o lo esclude no).
E a chi negava si dovessero porre problemi morali alla scienza, l’allora patriarca scriveva in conclusione: «la morale non si occupa delle conquiste della scienza; si occupa delle azioni umane, mediante le quali le persone possono usare sia in bene sia in male delle conquiste scientifiche. Quanto alla coscienza individuale, siamo d’accordo: essa va sempre seguita, sia che comandi, sia che proibisca; l’individuo deve però sforzarsi di avere una coscienza ben formata. La coscienza, infatti, non ha il compito di creare la legge. Ha due altri compiti: di informarsi prima cosa dice la legge di Dio; di giudicare poi se c’è sintonia tra questa legge e una nostra determinata azione. In altre parole: la coscienza deve comandare all’uomo, non ubbidire all’uomo».
Come si vede un atteggiamento che sul piano dottrinale non era facilone: ma che teneva in gran conto la delicatezza delle situazioni, il valore della coscienza come tale, l’oggettività di una esistenza che, per quanto venuta al mondo in modo moralmente deprecato a rigor di magistero, non sfuggiva all’amore di Dio; e quell’amore attraeva le intenzioni della famiglia e perfino il ministero apostolico che nella magnanimità di Dio ha la sua misura. Non era una astuzia o un gesto di marketing, quello di Albino Luciani: era una forma di amore alla verità del ministero pastorale che forse dovrebbe essere tenuta nello stesso conto nel quale si tiene, giustamente, il ministero della verità.