[...] occorre augurarsi che in caso di caduta del governo Berlusconi sia fatto ogni tentativo per dar vita ad un nuovo esecutivo che si presenti alle Camere per ricercarne la fiducia, e modificare una legge elettorale che grazie alle liste bloccate espropria i cittadini del diritto di scegliere i propri rappresentanti alterando irrimediabilmente l’autonomia del Parlamento e il suo ruolo di contrappeso del governo. In ogni caso, un nuovo esecutivo di garanzia, anche minoritario, sarebbe auspicabile per gestire le nuove elezioni.
È un’elementare regola democratica che le elezioni avvengano in condizioni di parità: opportuno dunque che esse non siano gestite da un governo sfiduciato guidato da chi, in assenza di un’efficace legge sul conflitto di interessi, vedrebbe confermata una posizione dominante nel sistema dell’informazione che gli consentirebbe di influenzare ulteriormente la libera formazione del consenso politico [...]
Il paradosso tra Quirinale e Palazzo Chigi
di STEFANO PASSIGLI*
Un paradosso caratterizza l’attuale confronto tra il Quirinale, che correttamente avverte che la Costituzione affida lo scioglimento delle Camere al solo Capo dello Stato, e Palazzo Chigi, che ispira minacce di un ricorso alla piazza al limite dell’eversione. Nella prima repubblica la presenza di un sistema partitico strutturato e di un partito dominante faceva sì che la composizione delle crisi avvenisse sostanzialmente in seno alla dialettica delle correnti Dc, limitando il ruolo del Quirinale.
Il bipolarismo spurio della seconda repubblica ha invece ridotto drasticamente gli spazi di mediazione all’interno del sistema partitico, rendendo così più sostanziale il ruolo di arbitro delle crisi che la Costituzione affida alla responsabilità del Presidente. Un ruolo che il Capo dello Stato assolve in solitudine, dato l’infausta prassi introdotta da Berlusconi nel 1994 di nominare entrambi i presidenti delle Camere all’interno della maggioranza anziché come in precedenza condividerli con l’opposizione.
Proprio questa solitudine del Capo dello Stato fa sì che mentre nella prima repubblica - grazie anche alla mancanza di alternanza conseguente alla situazione internazionale - le crisi quando non risolte attraverso la moratoria di governi balneari davano luogo a scioglimenti consensuali, nella seconda repubblica i precedenti acquistino maggiore importanza nella valutazione che il Presidente deve dare alle richieste di scioglimento che proprio il bipolarismo rende più conflittuali.
Ora, non vi è dubbio che i precedenti indichino - come suggerisce la forma di governo parlamentare voluta dalla nostra Costituzione e confermata dai cittadini nel referendum del 2006 - di rimettere alla valutazione del Parlamento l’opportunità o meno di uno scioglimento. Così è stato nel 1994 quando fu disattesa la richiesta di Berlusconi di tornare alle urne dopo il ritiro della Lega dalla maggioranza, e così nel 1998 quando fu respinta la richiesta di Prodi dopo l’abbandono di Bertinotti. Due precedenti inequivocabili - uno a carico di un governo di centrodestra, l’altro di un governo di centrosinistra - in entrambi i casi seguiti dalla formazione di governi retti da maggioranze diverse dalle precedenti.
Nel caso dunque che la crisi dell’attuale coalizione di centrodestra venisse certificata da un voto parlamentare, l’ipotesi di un governo che si reggesse su di una diversa maggioranza nulla avrebbe di nuovo e resterebbe pienamente nel solco delle democrazie parlamentari e del nostro dettato costituzionale.
Ma esiste una nuova e diversa maggioranza parlamentare sia pur per un governo limitato nella durata e al compito di riformare una legge elettorale viziata da evidenti profili di incostituzionalità? È lecito dubitarne: possibile alla Camera, una maggioranza per un governo di emergenza istituzionale sarebbe forse di difficile costruzione al Senato.
Comunque, occorre augurarsi che in caso di caduta del governo Berlusconi sia fatto ogni tentativo per dar vita ad un nuovo esecutivo che si presenti alle Camere per ricercarne la fiducia, e modificare una legge elettorale che grazie alle liste bloccate espropria i cittadini del diritto di scegliere i propri rappresentanti alterando irrimediabilmente l’autonomia del Parlamento e il suo ruolo di contrappeso del governo. In ogni caso, un nuovo esecutivo di garanzia, anche minoritario, sarebbe auspicabile per gestire le nuove elezioni.
È un’elementare regola democratica che le elezioni avvengano in condizioni di parità: opportuno dunque che esse non siano gestite da un governo sfiduciato guidato da chi, in assenza di un’efficace legge sul conflitto di interessi, vedrebbe confermata una posizione dominante nel sistema dell’informazione che gli consentirebbe di influenzare ulteriormente la libera formazione del consenso politico.
*Docente universitario ed ex parlamentare
* La Stampa, 17/8/2010
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"Il presidente difende la Costituzione gli interessi politici sono altra cosa"
a cura di Liana Milella (la Repubblica, 17 agosto 2010)
«La Costituzione è ancora in vigore. E non esiste una costituzione materiale alternativa». Come vorrebbero invece quelli del Pdl. L’ex presidente della Consulta Gustavo Zagrebelsky mette in sequenza i fatti e sul Quirinale dice: «È pienamente nel solco della Costituzione». Come giurista prende le distanze dalle ultime mosse dei berlusconiani, ma come cittadino «è angosciato». E sull’ultima stagione dei dossier dice: «L’evocazione della piazza e il linciaggio giornalistico, quanto a violenza, sono paragonabili alla brutalità e alla volgarità dell’attacco al Quirinale». Mentre Napolitano chiede il rispetto della Costituzione, c’è chi, ministri e parlamentari del Pdl, avanzano dubbi, anzi accuse esplicite, d’intenzioni incostituzionali proprio da parte sua.
Ha detto Bianconi: «La Costituzione la puoi tradire non rispettandola, o fingendo di rispettarla». La sua impressione?
«Innanzitutto, si deve distinguere politica e interessi politici da Costituzione e sua applicazione. La confusione è molto pericolosa, anzi irresponsabile. Il partito del presidente del Consiglio e quello di Bossi chiedono le elezioni anticipate immediate, in caso di crisi di governo. Questa è una richiesta politica e, come tale, perfettamente legittima, così come altrettanto legittimo è che altri pensino a soluzioni diverse. Il capo dello Stato, come garante di tutte le legittime posizioni in campo, dovrà valutare le diverse possibilità alla luce della Costituzione che è in vigore, di cui è garante, non alla luce di una costituzione che qualcuno si è costruito nella sua testa, a proprio uso e vantaggio».
Perché? La richiesta di scioglimento delle Camere e del voto anticipato sono contro la Costituzione?
«È contro la Costituzione se la si presenta non come opzione possibile e auspicata, ma come soluzione obbligatoria della crisi di governo. Quest’ultima è la posizione dei critici del presidente Napolitano. Ma è una posizione insostenibile, anche se sostenuta da giuristi come i ministri Alfano e Maroni (del deputato Bianconi non saprei cosa dire)».
Può spiegare perché sarebbe «insostenibile»?
«Si dice: il popolo italiano ha votato e ha scelto un presidente del Consiglio e un programma. La legge elettorale prevede che i partiti che si candidano alle elezioni depositano il programma elettorale nel quale dichiarano il nome da loro indicato come capo della forza politica. Da qui, deriverebbe che non si può cambiare programma e capo del governo senza che il corpo elettorale abbia votato di nuovo. Spetterebbe agli elettori confermare o modificare programma e presidente del Consiglio. Questo è il ragionamento».
Sembrerebbe non fare una piega.
«Invece la fa. Anzi, è un ragionamento giuridicamente del tutto infondato. La legge elettorale non dice che si indica il futuro capo del governo, ma i capi dei diversi partiti che si presentano alle elezioni. Se fosse come dicono Alfano e Maroni, saremmo in una repubblica presidenziale introdotta dalla legge elettorale. Ma non è così. Il legislatore che ha fatto quella legge sapeva benissimo che questo sarebbe stato impossibile, platealmente incostituzionale. Infatti, la stessa legge, subito dopo il passo che ho citato, aggiunge che "restano ferme le prerogative spettanti al Presidente della Repubblica previste dall’articolo 92 della Costituzione"».
E questa aggiunta è determinante ai fini del nostro caso?
«Sarebbe stata perfino superflua, l’aggiunta. Ma si è voluto evitare ogni equivoco. L’articolo 92 dice che è il presidente della Repubblica, non il corpo elettorale con investitura diretta e plebiscitaria, a scegliere il capo del Governo, tenendo conto della situazione parlamentare e della necessità che il governo ottenga la fiducia delle Camere. Siamo pur sempre una Repubblica parlamentare. Il presidenzialismo è solo un desiderio di alcuni e il timore di altri, dunque una questione controversa».
Il ministro Alfano ha perfino denunciato la violazione dell’articolo 1 della Costituzione, ove il presidente non ridesse subito la parola al popolo. Una denuncia pesante. L’articolo 1 è quello che stabilisce che la sovranità appartiene al popolo.
«L’accusa è pesante, ma consiglierei a chi dice queste cose di leggere un poco oltre. La sovranità appartiene al popolo il quale "la esercita nelle forme e nei limiti stabiliti dalla Costituzione". Quello che si è voluto evitare è, per l’appunto, la deriva populista in atto. La democrazia è una cosa seria e delicata, fatta di procedure, garanzie, pluralismo, rispetto delle minoranze, spirito di cooperazione. Tutte cose che la Costituzione richiede. L’appello al popolo in una sorta di giudizio di Dio non è propriamente l’idea di democrazia costituzionale».
E aver evocata la «costituzione materiale»?
«La costituzione materiale è il consenso di fondo che sorregge la Costituzione scritta. Si fa un uso politico strumentale di una nozione che ha una sua dignità scientifica. In poche parole: non c’è costituzione materiale se non c’è consenso generalizzato e sulla democrazia plebiscitaria, al contrario, c’è conflitto. Questa presunta "costituzione materiale" è solo un auspicio, un progetto politico di parte, ma certo non una "costituzione"».
Fin qui lei ha fatto considerazioni da giurista. Ma come cittadino è preoccupato?
«Sì, e molto. Anzi, angosciato. Vedo in corso un processo fatto non di discussioni serie, ma di argomenti pretestuosi che nascondono intenti che ogni tanto lasciano trasparire un fondo di violenza. La violenza di chi, avendo il potere, non è disposto a lasciarlo. L’evocazione della piazza e il linciaggio giornalistico, quanto a violenza, sono paragonabili alla brutalità e alla volgarità dell’attacco al Quirinale. Mi pare il momento in cui tutti coloro che hanno a cuore il confronto politico pacifico, come necessità primordiale della democrazia, devono far sentire la propria voce, per opporsi a questa deriva in fondo alla quale appare uno scenario catastrofico».
IL COMMENTO
Macelleria istituzionale
di MASSIMO GIANNINI *
La macelleria politica e costituzionale del tardo-berlusconismo ha infine obbligato il Quirinale a compiere un atto irrituale ed estremo. Solo nell’Italia di oggi, destabilizzata dalle pulsioni tecnicamente eversive del capo del governo e avvelenata dalle operazioni di killeraggio mediatico dei suoi sicari, può accadere che un presidente della Repubblica debba scrivere in una nota ufficiale che chi nutre dubbi sul suo operato ha il "dovere" di chiederne l’impeachment. Come prevede la stessa Carta del 1948, che all’articolo 90 indica le modalità e le procedure della messa "in stato d’accusa" del Presidente, nei casi specifici di "alto tradimento" e di "attentato alla Costituzione".
A tanto, dunque, è stato costretto Giorgio Napolitano, per fermare "le gratuite insinuazioni e le indebite pressioni" che, nell’avvitarsi di una crisi sempre più drammatica del centrodestra, colpiscono da giorni la più alta carica dello Stato. Il suo comunicato dà la misura di quanto sia grave e pericoloso il conflitto istituzionale in atto. E solo una lettura ipocrita e riduttiva del monito lanciato dal Colle può ridimensionarne la genesi alla necessità di rispondere all’intervista che due giorni fa il vicecapogruppo del Pdl alla Camera ha rilasciato al "Giornale".
Maurizio Bianconi ha trattato Napolitano come un nemico, che "tradisce la Costituzione fingendo di rispettarla". L’ha accusato di "incoerenza gravissima", perché colpevole di dire "no al voto anticipato e sì alla ricerca di un governo tecnico". Parole inconsulte e irresponsabili, scagliate come pietre contro il massimo organo di garanzia della nazione. Ma chi ora definisce Bianconi un semplice "peone", o un "golpista da operetta", non rende un buon servizio alla verità. Non si può non vedere come questi vaneggiamenti riflettano un "sentire comune" che, nella disperata trincea del Popolo della Libertà, accomuna più o meno tutti gli esponenti dell’armata forzaleghista.
Da Alfano a Maroni, da Gasparri a Cicchitto: in queste settimane l’intera batteria dei luogotenenti del premier, sproloquiando di "ribaltoni" e di "congiure di palazzo", non fa altro che sfidare il Capo dello Stato, cercando di mettere in discussione il suo ruolo, di snaturare le sue prerogative, di condizionare le sue scelte. E non si può non vedere come queste urla riecheggino nel silenzio assordante e colpevole dello stesso presidente del Consiglio. Berlusconi tace, e dunque acconsente. Lasciando le ridicole precisazioni di prammatica ai Capezzone e ai Rotondi: tocca a loro riempire il tragico vuoto politico dell’agosto berlusconiano, replicando le intimidazioni ma rinnovando al presidente della Repubblica una "stima" e un "affetto" che suonano paurosamente vuoti, retorici e perciò falsi.
Siamo arrivati al limite estremo, alla rottura di tutti gli equilibri istituzionali. Dunque, quando Napolitano denuncia "interpretazioni arbitrarie" e "processi alle intenzioni", non è certo a Bianconi che si riferisce. Il Capo dello Stato parla a tutto il centrodestra, e rilancia la sfida al leader che ne incarna l’anima "rivoluzionaria" e ormai palesemente anti-statuale. In vista dell’ormai inevitabile showdown d’autunno, il comunicato del Colle suona quasi come una "chiamata finale", dalla quale si possono e si devono trarre alcune lezioni. La prima lezione: le istituzioni appartengono alla Repubblica, e non al Cavaliere, e dunque vivono nella reciproca autonomia e nel mutuo rispetto delle norme sancite dalla Costituzione.
La seconda lezione: la Costituzione è la casa di tutti gli italiani, e dunque non può essere piegata all’ermeneutica di parte o alla logica di partito. La Carta assegna prerogative precise e compiti tassativi al Capo dello Stato, che li esercita con la massima indipendenza e la massima responsabilità, nella normale dialettica tra i poteri e nella leale collaborazione tra gli organi di garanzia. Tutto questo vale sempre: nella fisiologia della vita politica, quando si tratta di promulgare o rinviare una legge al Parlamento, come nella patologia di una crisi, quando si tratta di sciogliere le Camere o di verificare se esistano maggioranze alternative. Questo dice la Costituzione, di cui il presidente della Repubblica è il custode e il garante.
Di qui la terza ed ultima lezione: quando rivendica le sue prerogative costituzionali, Napolitano tutela la Costituzione formale, che non può essere stravolta da una costituzione materiale introdotta surrettiziamente con la semplice iscrizione della parola "Berlusconi" su una scheda elettorale, come fosse la formula magica della modernità politica. Il premier farà bene a ricordarselo, in vista della battaglia di settembre. Per quanto svilita, la democrazia ha le sue regole. E le regole sono una garanzia per tutto il popolo italiano, non un appannaggio del solo Popolo delle Libertà.
* la Repubblica, 17 agosto 2010