L’occasione che perderemo
di LUCIO CARACCIOLO *
L’Egitto è un’occasione che perderemo. L’occasione è storica: spezzare nel più strategico paese arabo il circolo vizioso di miseria, frustrazione, regimi di polizia e terrorismo - spesso alimentato dai regimi stessi per ottenere soldi e status dall’Occidente - che destabilizza Nordafrica e Vicino Oriente fino al Golfo e oltre. Il successo della rivoluzione avvierebbe la transizione a un Egitto "normale", con un potere politico legittimato dal popolo.
Dopo la scintilla tunisina, il segno che la nostra frontiera sud-orientale può cambiare. In meglio. Avvicinandosi ai nostri standard di libertà e democrazia. Cogliendo le opportunità di sviluppo perse per l’avidità delle élite postcoloniali, impegnate a coltivare le proprie rendite, indifferenti a una società giovane, esigente.
L’Italia più di qualsiasi altra nazione europea dovrebbe appassionarsi al sommovimento in corso lungo la Quarta Sponda. Chi più di noi dovrebbe interessarsi alla ricostruzione del circuito mediterraneo, destinato a intercettare la quasi totalità dei flussi commerciali fra Asia ed Europa, di cui saremmo naturalmente il centro? A chi più che a noi conviene la graduale composizione della frattura tra le sponde Nord e Sud del "nostro mare"? O davvero pensiamo sia possibile erigere una barriera impenetrabile in mezzo al Mediterraneo? Qualcuno pensa ancora che lo sviluppo del Sud del mondo sia una minaccia e non una formidabile risorsa per il nostro stesso sviluppo - anzi, la condizione perché non si arresti?
Eppure Roma tace. Il nostro governo ha trovato modo di non esprimersi fino a sabato. Meglio così, forse, visto che quando ha parlato - via Frattini - nessuno se n’è accorto. Mentre tutto il mondo si preoccupa del dopo-Mubarak, noi ci dilaniamo sulla "nipote". Stiamo perdendo l’occasione di incidere in una svolta storica - stavolta l’aggettivo è pertinente - che riguarda molto da vicino la vita nostra, soprattutto dei nostri figli e nipoti.
Se anche i militari riuscissero ad affogare nel sangue le aspettative della piazza, la rivoluzione egiziana ha ormai sancito che il paradigma delle dinastie parassitarie, incentivato dai governi occidentali, non garantisce più nessuno. Certamente non i popoli che opprime. Ma nemmeno noi europei. Quei regimi significano solo caos, repressione e miseria. L’ambiente ideale per i jihadisti. I quali, non dimentichiamolo mai, sono incistati nelle nostre metropoli. Se sbagliamo politica in Egitto, in Tunisia o in altri paesi del nostro Sud, il prezzo lo paghiamo in casa.
Un sobrio accertamento dello stato delle cose dovrebbe indurre il nostro governo a mobilitare ogni risorsa a sostegno dei cambiamenti in atto sulla sponda africana del Mediterraneo. Se ciò non accade, non è solo colpa di Berlusconi o Frattini, ma della rimozione che l’Italia ha compiuto di se stessa. Della sua geografia e della sua storia. Nel centocinquantesimo anniversario dell’Unità è duro ammetterlo. Ma è un fatto: non sappiamo dove siamo né da dove veniamo.
Così abbiamo dimenticato che per secoli l’Egitto è stato fecondato dalla nostra diaspora. Come l’intero bacino del Sud Mediterraneo, dove un secolo fa viveva quasi un milione di connazionali. Operai, artigiani, ma anche banchieri, architetti e burocrati pubblici.
Nell’Egitto khedivale l’italiano era lingua franca, usata nell’amministrazione pubblica. Un tipografo di origine livornese, Pietro Michele Meratti, vi fondò nel 1828 il primo servizio di corrieri privati, la Posta Europea, poi assurto a monopolio pubblico. Le diciture delle prime serie di francobolli egiziani erano in italiano. Decine di migliaia di italiani, tra cui molti ebrei, abitavano il Cairo e Alessandria, dove i segni del "liberty alessandrino" sono ancora visibili. La nostra egittologia ha una lunga tradizione. Come in genere le nostre missioni archeologiche orientali, fra le principali fonti d’intelligence quando i servizi segreti erano ancora qualcosa di serio.
Di questo e delle nostre tradizioni levantine in genere cercheremmo vanamente una trattazione nei manuali scolastici. E’ storia rimossa. Eppure ancora oggi molto del residuo capitale di simpatia di cui godiamo nella regione si fonda su tali memorie. Basterebbe poco per ravvivarle. Nell’immediato, anche un gesto simbolico.
A Torino abbiamo il più importante museo di antichità egizie dopo quello del Cairo, oggetto di sospetti vandalismi nelle prime fasi dei disordini. Sarebbe forse utile uno sforzo sostenuto dai poteri pubblici e da fondazioni private per dare concreto seguito alla profezia di Jean-François Champollion, il decifratore della Stele di Rosetta: "La strada per Menfi e Tebe passa da Torino". Finanziare e sostenere la messa in sicurezza del Museo del Cairo e dei suoi reperti significa non solo salvare un giacimento culturale di valore universale, ma un atto di rispetto per la pietra angolare dell’identità egiziana. Quell’identità che i nostri levantini contribuirono a resuscitare e che le piazze egiziane oggi vogliono riscattare.
Eppure nell’immaginario collettivo (ossia televisivo) sembra che l’Egitto sia un qualsiasi pezzo d’Africa, un arcipelago di miserie e arretratezze. Più le piramidi e Sharm el-Sheikh. Ma da dove spuntano i giovani anglofoni che maneggiano twitter e Facebook - già ribattezzato Sawrabook, "libro della rivoluzione" - e rischiano la vita per la libertà?
Per anni abbiamo vissuto di verità ricevute. Un eterno fermo immagine. Intanto, la società civile egiziana cresceva, si strutturava. Ci sono certo i Fratelli musulmani, un arcipelago dalle mille ambiguità, che Mubarak ci ha rivenduto con successo come banda di terroristi. Ma ci sono anche laici, cristiani, nazionalisti, socialisti, gente che semplicemente non ne può più della "repubblica ereditaria". Quanto meno daremo ascolto e supporto alle loro istanze, tanto più il rischio di una deriva islamista diverrà concreto. E’ quanto sperano Suleiman e gli altri anziani ufficiali drogati da decenni di potere incontrastato. Per riproporre e rivenderci il muro contro muro.
Obama e alcuni leader europei forse cominciano a capirlo. Fra cautele ed esitazioni invitano a voltare pagina. Non noi italiani. Continuiamo ad aggrapparci a un Egitto che non c’è più. L’Egitto che prova a nascere non lo dimenticherà. La sua sconfitta sarà la nostra. La sua vittoria, solo sua.
* la Repubblica, 31 gennaio 2011
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
NEFERTITI. CHE LA REGINA POSSA TORNARE A CASA E RIVEDERE IL SUO SPOSO - AKHENATON!!!
IL SOLE, LE PIRAMIDI, E IL CERCHIO DELLA DEA GIUSTIZIA
TORINO: NEFER, LA DONNA NELL’ANTICO EGITTO - VIDEO.
SULL’IDEOLOGIA "FARAONICA" DI IERI E DI OGGI: L’ARCHIVIO DEGLI ERRORI: L’ "IO SONO" DI KANT E L’ "IO SONO" DELL’"UOMO SUPREMO" DEI "VISONARI" DELLA TEOLOGIA POLITICA ATEA E DEVOTA. Note per una rilettura della "Critica della Ragion pura".
ALESSANDRIA D’EGITTO. UN FARO ANTICO E NUOVO DEL MEDITERRANEO.
La madre e il generale
di Lucia Annunziata (L’Huffington Post, 29/03/2016)
Non è la prima volta che una madre piegata sul corpo del figlio si erge contro la morte, il dolore, l’ingiustizia. Dalle Madri di Plaza de Mayo in Argentina, alle madri degli studenti massacrati dal cartello della droga in Messico, fino a, più vicino a noi, alle madri di Ilaria Alpi e di Stefano Cucchi.
Ma è forse la prima volta che il legame tra una madre e un figlio si inserisce nel luogo dove può cambiare se non la storia almeno la relazione fra due paesi.
A occhi asciutti durante una conferenza stampa affollatissima la madre di Giulio Regeni ha agitato la sua leva contro un intero sistema, un governo, un Generale che guida una grande potenza , cui si inchinano, per bisogno e interesse, tutti i paesi occidentali. Una leva piccola, come tutte le leve: la foto del volto del figlio. Quel volto descritto da lei, sempre a occhi asciutti, "gli avevano fatto così tanto che era diventato piccolo, piccolo, piccolo. Io e il padre lo abbiamo riconosciuto solo dalla punta del naso". Quella immagine che è la prova delle bugie, della crudeltà, la madre Regeni sa quanta forza contiene, "non obbligatemi a pubblicarla", dice appunto al Generale.
Con questo gesto, la famiglia Regeni ha fatto qualcosa di nuovo. Invece di limitarsi alla usuale speranza, al solito appello alla verità, ha sfidato le autorità di un altro paese, accusando di nazifascismo il presidente di un altro paese: "Su mio figlio si è scaricato tanto male, tutto il male del mondo", ha detto, a sottolineare la grandezza della partita. "Non possiamo dire, come ha detto il governo egiziano, che è un caso isolato... Non questo. Giulio, cittadino italiano, è un cittadino del mondo. Quello che è successo a Giulio non è un caso isolato rispetto ad altri egiziani, e non solo. Per questo continuerò a dire per sempre verità per Giulio", ha detto la madre. Un discorso di attacco, senza una piega di autocommiserazione, alla luce di una analisi spietata: "E’ dal nazifascismo che non viviamo una morte sotto tortura".
A parte l’emozione (nostra) e la forza (di questa famiglia), questa sfida fra una madre e un generale è anche un suggerimento a tutti noi per capire i tempi in cui viviamo, le condizioni nuove che rendono possibile l’impatto di una sola vittima, di una sola madre su un universo così più grande. La storia della morte di Giulio non sarebbe oggi quel simbolo che è in un mondo senza la Rete, cioè senza la comunicazione vasta, immediata, semplice , emozionata, della comunicazione globale. Figlio di un mondo senza confini, come l’ha descritto la madre, Regeni è andato a lavorare in Egitto, un paese dove proprio la Rete ha avviato il maggiore e più turbolento processo di rivolta contro le dittature arabe, e sulla Rete, simbolica nemesi, è poi corsa la resistenza ad ogni silenzio sul suo omicidio, la ricerca di testimonianze, la verifica fatto su fatto di ogni versione ufficiale. È il "magico" del web questo unificare e riscattare ciascuno dalla massa amorfa, per dare a ciascuno dignità di cittadino, di persona, di voce udibile da tutti, e, nel nostro caso, voce di una madre portata su una platea globale.
Tanti, tantissimi uomini e donne, che nella Primavera di Piazza Tahir hanno creduto hanno trovato la loro voce sulla Rete e hanno perso quella voce oggi nelle galere o nei cimiteri egiziani, persi in una lotta religiosa e politica che non hanno mai voluto accettare come tale. L’Egitto oggi è dove è, non solo perché al Sisi ha riportato in voga (sono sempre stati usati) i metodi forti dei regimi militari di quel paese, ma anche perché dall’altra parte vive la intolleranza e la violenza dell’islamismo del movimento dei Fratelli Musulmani che nei brevi mesi del loro governo hanno ampiamente dimostrato la loro volontà di schiacciare ogni voglia e ogni desiderio di un nuovo Egitto.
Per questa umanità presa in mezzo, schiacciata in uno scontro immenso fra forze nemiche, quale quello che viviamo, la Rete, pur con tutti i suoi lati oscuri e manipolatori, rimane l’unico filo da cui dipanare un pò di verità e di giustizia per chi non ne ha. L’unico strumento che in questi turbolentissimi ultimi anni è stato l’onda su cui ha navigato fin a noi il terrorismo, ma è anche il filo su cui sono state comunicati al resto del mondo la resistenza a Raqqa, il dramma della fuga di milioni di migranti, la mobilitazione delle città europee contro le esplosioni.
Nel piccolissimo, è anche oggi l’onda su cui si muove la ribellione di una singola madre alla morte di un figlio . Nelle mani della signora Regeni c’è quella leva, una foto, che sulla Rete può valere quanto uno scontro fra Stati. E che fa oggi della famiglia Regeni, in attesa di "un segnale forte, ma molto forte da parte del nostro governo", lo strumento più efficace che ha il nostro paese per riflettere sulle, e cambiare, le sue relazioni con un (ex?) grande alleato.
Non costringeteli a mostrare la foto di Giulio
di Ilaria Cucchi (L’Huffington Post, 29/03/2016)
Un lutto è qualcosa di profondamente intimo.
L’elaborazione del lutto richiede del tempo: il tempo necessario per comprendere, fino ad arrivare al momento di capire dentro noi stessi che possiamo ’lasciarlo andare’.
Richiede dei modi, magari viverlo nel calore dei propri affetti.
Lottare per la verità non consente quasi mai nulla di tutto ciò. La ricerca della verità non dà la possibilità di elaborare quel lutto.
Battersi, giorno dopo giorno, per poter sapere significa rivivere in ogni singolo istante quello stesso identico dolore, senza mai completamente elaborarlo, quando ’sapere’ è il solo modo per poter provare ad andare avanti con la propria vita.
Così capita che una famiglia viva un dramma che non avrebbe immaginato nemmeno nel peggiore degli incubi. E capita che quella famiglia si ritrovi improvvisamente da sola, contro tutto e tutti.
Da sola, a dover tentare di dimostrare qualcosa che appare evidente. E così quel dolore va messo da parte, va congelato, messo in stand by. Non c’è tempo di piangere. Bisogna darsi da fare. Bisogna poter ’dimostrare’.
Così è capitato alla mia famiglia: dopo ore di riflessioni e discussioni siamo arrivati alla decisione sofferta di pubblicare le foto del corpo martoriato di mio fratello. Mia madre continuava a ripetere che Stefano non avrebbe mai voluto che qualcuno lo vedesse in quella maniera, ma non c’era altra scelta mentre chi avrebbe dovuto fare qualcosa continuava a parlare di caduta dalle scale.
È stata, la nostra, una scelta tanto sofferta quanto indispensabile.
La mia speranza è che non debba servire mai più.
La mia speranza è che per Giulio la giustizia possa seguire il suo percorso dovuto e regolare e che la sua famiglia non sia sottoposta ad un’ulteriore violenza.
Mi rasserena il fatto che, almeno in questo caso, nel nostro Paese non ci sarà un medico legale pronto a sostenere le tesi più bizzarre pur di affermare che tutto sommato non è successo niente, ma viceversa ci sarà una persona onesta che ha a cuore solo la verità. Senza se e senza ma.
Mi rasserena la certezza che la Procura di Roma non abbandonerà la famiglia Regeni.
Che i colpevoli paghino per la morte di quel ragazzo bello, positivo e che aveva tutta la vita da vivere. Che la sua famiglia non sia costretta a mostrare le foto di Giulio.
Ve lo chiedono gli egiziani: non chiamatelo golpe
di Marco Hamam (la Repubblica, 05.07.2013)
La deposizione di Morsi non è una rivoluzione tout court, dato il ruolo dei militari, ma non può neanche essere considerata un semplice colpo di Stato. Un problema geopolitico, oltre che semantico.
Tutta la stampa occidentale, con rare eccezioni, ha definito quello che è successo in Egitto negli ultimi giorni come golpe militare, colpo di Stato dell’esercito, putsch.
Persino Limes l’ha ribadito nell’articolo di Accorsi - con il quale, tra l’altro, sono sostanzialmente d’accordo rispetto all’analisi del futuro prossimo della Fratellanza e dell’Egitto - ma vanta un tale spirito pluralista da ammettere anche l’opinione opposta.
Smettiamola di chiamarlo golpe. Ve lo chiedono gli egiziani. Ve lo chiedono tutti quelli citati da Accorsi: i manifestanti, i militari, l’Azhar, i salafiti. Aggiungo da parte mia anche i cristiani e i fulul (i mubarakiani).
Se quello di ieri è stato un golpe militare, che cos’è allora una rivoluzione? Abbiamo assistito a manifestazioni pacifiche e ordinate di folle oceaniche stimate dai 13 ai 30 milioni. Se sommiamo i manifestanti nei quattro giorni di fila arriveremo a cifre che sfiorano il centinaio di milioni di persone, un numero molto superiore a quello totale degli aventi diritto al voto.
In mezzo a quelle masse erano rappresentati tutti gli egiziani, anche i salafiti che hanno divorziato dal governo fratellesco piuttosto rapidamente, anche chi ha votato i Fratelli musulmani e poi si è pentito.
Credo che non si sia mai visto niente di politicamente e pacificamente caratterizzato comparabile a questi numeri, perlomeno da quando esistono la fotografia, i satelliti e gli elicotteri. Probabilmente la sola vera concorrenza storica viene dal famoso pellegrinaggio induista Kumbh Mela (30 milioni di pellegrini nel 2013) e dal pellegrinaggio sciita alla tomba di Hussein a Karbala’, in Iraq (circa 20 milioni nel 2013). Ma, appunto, stiamo parlando di eventi religiosi e non politici. Queste persone hanno contemporaneamente invaso tutte le maggiori città e hanno chiesto, compatti: Morsi se ne deve andare.
Il presidente democraticamente eletto Morsi (e qui non voglio aprire la polemica sui probabili conteggi “affrettati” compiuti su pressione americana) ha perso la sua legittimità guadagnata con le urne. Dietro queste manifestazioni ci sono stati mesi di preparativi.
Dal 28 aprile 2013 Tamarrud, un movimento d’opposizione nato per destituire Morsi, ha lanciato una campagna di raccolta di firme. A metà di giugno le firme erano più di 20 milioni e questo ha certamente messo in allerta i militari che, prefigurando una riedizione del 2011, hanno dato una settimana di tempo perché si arrivasse a un accordo politico tra le parti. Il 29 giugno, un giorno prima delle annunciate manifestazioni, le firme erano 22 milioni. Morsi ha vinto con 13 milioni di voti.
Limitiamoci a definizioni molto larghe, da banco di scuola e da vocabolario. A scuola mi hanno insegnato che la rivoluzione avviene quando un popolo (senza specificare numeri) rovescia un governo o un regime, mentre colpo di Stato si dice quando a farlo sono i militari, di solito in maniera antidemocratica.
A giudicare da queste definizioni scolastiche, parrebbe che l’Egitto sia entrambe le cose, sovrapposte. Il vocabolario Treccani definisce rivoluzione, in senso politico, “il processo rapido, e per lo più violento, attraverso il quale ceti, classi o gruppi sociali, ovvero intere popolazioni, sentendosi non sufficientemente rappresentate dalle vigenti istituzioni, limitate nei diritti o nella distribuzione della ricchezza che hanno concorso a produrre, sovvertono tali istituzioni al fine di modificarle profondamente e di stabilire un nuovo ordinamento”.
Lo stesso dizionario definisce colpo di Stato: “atto con cui un gruppo ristretto di persone, anche se già investite di poteri costituzionali, mutano in modo violento, o quanto meno extralegale, l’ordine costituzionale vigente".
Di primo acchito, nessuna delle due definizioni di Treccani sembra perfettamente calzare con la situazione egiziana: “rivoluzione” non è, perché è pacifica; “colpo di Stato” neanche, perché non stiamo parlando di un gruppo ristretto di persone.
Tuttavia, il dizionario specifica, nel caso del golpe: “Per tale caratteristica il colpo di Stato si distingue dalla rivoluzione, in quanto questa è operata dal popolo o da organi non costituzionali”. Il popolo è la chiave di volta, è il discrimine tra golpe e rivoluzione.
Se, etimologicamente e, spesso costituzionalmente, nelle democrazie il potere appartiene al popolo (démos = popolo, cràtos = potere) [1], il popolo ha il diritto di esercitarla, a maggior ragione se pacificamente, anche se al di fuori del consueto percorso istituzionale.
Democrazia non equivale a urnocrazia. Certo non equivale neanche solo alle manifestazioni di piazza. Ma questo è un altro discorso, da fare in altra sede.
Quindi: in Egitto l’esercito ha deposto, con un atto di forza straordinario, un governante, democraticamente eletto, contro il quale il popolo ha manifestato in massa.
Se usiamo il termine golpe stiamo definitivamente cancellando la parola rivoluzione dal dizionario politico. Nessuna sommossa popolare della storia può più considerarsi una rivoluzione ma sempre e solamente un golpe perché si presuppone che ci sia sempre un burattinaio - militare, paramilitare, extraparlamentare o istituzionale - che muova le masse.
Ma forse dobbiamo liberarci di certe immagini preconcette: che cos’è, infatti, nell’immaginario comune una rivoluzione? Quando un gruppo di rivoluzionari entra violentemente nei palazzi del potere, uccidendo o imprigionando i governanti, bypassando un esercito immobile? Forse che non si può più parlare di rivoluzione quando milioni di persone che pretendono la defenestrazione di un presidente (quindi tecnicamente rivoluzionarie) chiedono la protezione dell’esercito regolare, senza, dunque, imbracciare le armi? Siamo sicuri che l’esercito non ha avuto alcun ruolo nelle altre rivoluzioni? Rivoluzione si può dire solo quando la protesta viene soffocata nel sangue? Se Morsi si fosse dimesso, la stampa avrebbe comunque parlato di golpe? Sono domande che pongo per primo a me stesso: questi fatti egiziani mi hanno messo linguisticamente in crisi.
Non possiamo parlare di golpe tout court. Storicamente, secondo Varol, la gran parte dei golpe militari è stata perpetrata da ufficiali affamati di potere, principalmente in Sud America e in Africa, che hanno cercato di deporre regimi esistenti (militari o civili), sostituendosi a essi, al fine di ottenere potere e ricchezza.
L’esercito egiziano è sfavillante, ha tutto, è uno dei più ricchi e rigogliosi del pianeta ed era arrivato a un accordo politico-economico con i Fratelli musulmani. Che interesse avrebbe avuto a fare un golpe, sapendo di andare incontro alla violenza dei sostenitori della Fratellanza? Se vogliamo dirla tutta, poi, la repubblica egiziana è stata fondata sul colpo di Stato del 1952 (quello sì un golpe, fatto da pochi ufficiali) e guidata da militari fino al 2011.
Il fatto ironico è che nel 2011 le dinamiche furono simili: i militari presero in mano le redini del paese dopo estenuanti, gigantesche manifestazioni che forzarono l’ex presidente Mubarak a rassegnare le dimissioni. Eppure molti di quelli che oggi gridano al colpo di Stato, tra cui la stessa amministrazione americana, chiamarono quel “fatto” “la più grande rivoluzione degli ultimi tempi”.
Stavolta, tra l’altro, rispettando la costituzione del 1971, la presidenza è passata nelle mani del presidente della Suprema Corte Costituzionale, ‘Adli Mansur e non all’esercito, che sembra - i prossimi mesi potrebbero smentirmi - non aver voglia di stare in primo piano dopo la tremenda esperienza del biennio 2011-2012.
Lo stesso comunicato rivoluzionario del 3 luglio e la road map per i prossimi mesi sono stati redatti dopo una riunione con le più importanti istituzioni/movimenti politici nazionali: Tamarrud, l’opposizione laicista, la polizia, l’Azhar, la Chiesa copta. La road map coincide largamente con le richieste di Tamarrud.
Avete mai visto voi un golpe così democratico? A mio parere, in un solo, unico caso, si potrebbe parlare tecnicamente di golpe, o meglio, di golpe mascherato: nel momento in cui, documentazione alla mano, si dimostri che dietro Tamarrud e le manifestazioni di piazza si celino i militari.
In fondo, a ben pensarci, i due termini golpe e rivoluzione nascono e si diffondono per descrivere fatti storici: rivoluzione, perlomeno nel significato moderno, si è diffuso per definire quello che è successo in una determinata regione, Inghilterra, in un determinato periodo storico, il XVII secolo.
Gli eventi egiziani mettono tremendamente in discussione definizioni ormai obsolete e inadatte a spiegare fatti estremamente più complessi e liquidi del passato. C’è chi propone una locuzione interessante: “colpi di Stato democratici”.
A voler essere onesti, gli unici a insistere sulla parola golpe sono i Fratelli musulmani, i loro seguaci interni e i loro sponsor esterni (Stati Uniti e alcuni paesi europei, tra cui l’Italia, insieme a Turchia e Iran). Ed eccoci forse arrivati al busillis.
Non ci troviamo più solo nell’ambito della semantica o della politologia.
Siamo sul terreno, nudo e crudo, della geopolitica: se il tuo leader mi sta antipatico e tu lo cacci (facendomi anche un piacere), è rivoluzione; se il tuo leader mi sta simpatico (e magari l’ho aiutato a vincere) e tu lo mandi via, allora è un golpe. Con tutte le conseguenze nefaste a cui questo può portare.
Ma alla fine è veramente una semplice questione di punti di vista?
Note:
[1] Nella Costituzione egiziana del 2011, sospesa il 3 luglio scorso, all’articolo 3 si legge: “La sovranità appartiene al popolo soltanto, fonte dei poteri, il quale la esercita e protegge, preservando l’unità nazionale”.
Il rischio egiziano e l’assordante silenzio dell’Europa
di Rocco Cangelosi (l’Unità, 06.07.2013)
LA SITUAZIONE IN EGITTO STA DRAMMATICAMENTE PRECIPITANDO. L’APPELLO ALLA RICONCILIAZIONE nazionale lanciato dal Consiglio supremo delle forze armate dopo la caduta del presidente Morsi è destinato a cadere nel vuoto e ieri ci sono stati i primi morti in piazza. L’arresto dei più alti responsabili dei Fratelli musulmani, in particolare di Mohamed Badie, guida suprema della confraternita e del suo vice Khairat al Chater ha fatto temere arresti di massa e ha scatenato le reazioni della folla fedele al presidente deposto. D’altra parte anche i sostenitori della rivoluzione vedono con preoccupazione le azioni di forza che potrebbero essere condotte da parte dell’esercito per reprimere i tumulti e evitare una saldatura tra il fronte islamista e il fronte rivoluzionario. I precedenti sono significativi. Nel 1981 Sadat fece arrestare 1500 persone e Mubarak lo superò largamente negli anni 90 . Anche questa volta i militari potrebbero fare ricorso alla forza se posti alle strette.Intanto le reazioni internazionali sono estremamente imbarazzate.
Lo strano golpe, con il quale i militari hanno rimosso a furor di popolo il presidente Morsi, legittimamente eletto, viene seguito con estrema prudenza, in attesa delle mosse americane. Non è un mistero il rapporto stretto che da decenni lega l’esercito egiziano agli Stati Uniti sulla base di ingenti aiuti militari che alimentano la più importante lobby affaristica dell’Egitto, di cui gli alti gradi dell’esercito sono i principali attori e beneficiari. Il sostegno americano è stato finora ripagato dalla fedeltà e dal ruolo svolto dal Cairo per tenere a bada gli estremismi di Hamas e svolgere un ruolo di moderazione e stabilizzazione nell’area.
L’avvento di Morsi e dei fratelli musulmani aveva in qualche modo rimesso in discussione questo patto tacito e gli Usa non hanno mancato di far conoscere discretamente il loro punto di vista alla gerarchia militare, che aveva mantenuto saldamente in mano il potere reale. Il golpe ha sancito la situazione di fatto esistente, tant’è che il generale Al Sissi si è affrettato a dire che l’esercito non vuole sostituirsi al potere civile, affidando al presidente della Corte Costituzionale Mansour il traghettamento del Paese verso nuove elezioni. In tal modo i militari conservano saldamente nelle loro mani le leve del potere ed evitano di metterci la faccia.
In questo contesto il silenzio dell’Europa è assordante, come se la questione non la riguardasse. Dopo essere stata sorpresa dallo scoppio della primavera araba, che ha spazzato i dittatori sui quali la sua politica mediterranea aveva fatto affidamento, l’Unione europea e i Paesi membri maggiormente proiettati verso il Mediterraneo, rimangono in attesa degli eventi e delle decisioni statunitensi. L’Egitto è un tassello fondamentale per tutto il medio-oriente e la situazione è talmente complessa che nemmeno i militari possono essere sicuri di dominare gli eventi e impedire lo scoppio di una guerra civile di religione, con il rischio di infiammare tutta la regione mediterranea ancora in ebollizione.
L’Europa avrebbe tutto l’interesse a prendere l’iniziativa facendosi promotrice di un articolato programma di sviluppo e sostegno alle riforme per dare ai Paesi dell’area e soprattutto ai giovani, che sono stati gli artefici della primavera araba, una reale prospettiva di cambiamento che non sia affidata nè al fondamentalismo islamico nè alla dittatura strisciante dei militari. La situazione dell’Egitto è infatti sull’orlo del collasso. Il crollo di valuta estera proveniente dal turismo, la crisi del sistema bancario e un’inflazione selvaggia possono aprire la strada agli scenari più preoccupanti spingendo i salafisti a riprendere la strada della violenza e i movimenti terroristici, come Al Quaeda, a riproporsi come interlocutori credibili.
Egitto, è golpe. Arrestato Morsi. I militari marciano sul Cairo
Le forze di sicurezza hanno imposto il divieto di espatrio al presidente che dopo aver rifiutato di dimettersi ha lanciato la proposta di un governo di coalizione. L’esercito in marcia, schierato davanti a presidenza. Il ministro della Difesa: "Militari pronti a morire per il popolo"
Il faraone è rimasto solo
di Bernardo Valli (la Repubblica, 03.07.2013)
QUEL che accade in Egitto in queste ore è un disastro e una grande lezione. Da un lato c’è il rischio di un dissenso prolungato. Con un aggravamento della crisi economica e sociale; e dall’altro si è arrivati a una tappa inevitabile, a un appuntamento previsto, nel processo avviato dalla primavera araba.
Il fallimento degli islamisti, usciti vittoriosi dalle urne ma rivelatisi incapaci di gestire la cosa pubblica, è infatti la scontata dimostrazione che lo zelo religioso non abilita a governare. L’illusione su un possibile passaggio dalla moschea al potere non è svanito del tutto, ma è senz’altro appassita. I Fratelli musulmani non sono stati capaci di rispondere alle aspirazioni di piazza Tahrir, che si è riempita di nuovo per recuperare la rivoluzione tradita.
Dopo avere votato lo scorso anno per Mohammed Morsi molti egiziani chiedono adesso le sue dimissioni, la formazione di un governo provvisorio e nuove elezioni. Più che un presidente dimezzato Morsi è un presidente via via spennato. Perde un ministro dopo l’altro. Il quinto ad abbandonarlo è stato quello degli esteri, Mohammed Kamel Amr. Persino il procuratore generale Talaat Abdallah, appena nominato, è stato rimosso dall’Alta Corte, che ha ridato l’incarico al predecessore. E per Morsi è stato uno schiaffo. Come non è stato piacevole ricevere le brutali dimissioni di Alaa el-Hadidi, il suo portavoce, passato all’opposizione.
Il dramma investe il palazzo presidenziale, dove si moltiplicano le diserzioni. Il ministero degli interni non è neppure in grado di fornire uomini per difendere i luoghi pubblici perché i poliziotti non ubbidiscono agli ordini. In quanto all’esercito non sembra ansioso di ritornare al governo, dopo la pessima prova che ha dato di sé nell’anno successivo alla destituzione di Hosni Mubarak. Vuole esercitare il potere ma stando tra le quinte. Un privilegio non facile da imporre. Il quiz politico egiziano, così come si presenta in questi giorni, non è di facile soluzione.
Per ora non è tanto evidente la lezione di realismo, sull’impossibilità di governare col Corano, quanto il disastro politico, sociale ed economico. Con l’annesso rischio di uno scontro frontale tra le forze in campo. Entro oggi Mohammed Morsi, stando all’ultimatum delle Forze armate, dovrebbe allacciare un dialogo, se non proprio raggiungere un’intesa, con l’opposizione, raccolta sotto il nome di “tamarod”, la ribellione. Ma quest’ultima rifiuta. Dice: né fratelli musulmani, né ritorno al vecchio regime, né esercito. In realtà le forze laiche non sono insensibili all’atteggiamento dei militari giudicato favorevole a una rapida rinuncia di Mohammed Morsi alla presidenza.
Dopo avere denunciato a lungo il potere dei generali, l’opposizione applaude gli elicotteri militari che sventolano la bandiera egiziana. Il generale Abdul Fattah el-Sisi, capo del Consiglio supremo delle Forze Armate, si è lanciato in dichiarazioni che hanno suscitato l’approvazione di piazza Tahrir. Ma in queste ore egli deve comportarsi più da diplomatico che da militare.
I generali, che gestiscono direttamente più di un terzo dell’economia nazionale (dal turismo al petrolio), sono coscienti dell’incapacità di governare degli islamisti. Ma scartando dal potere i Fratelli musulmani rischiano di far precipitare la situazione. Per quanto spennato, con le dimissioni che gli piovono addosso da tutte le parti, Mohammed Morsi resta il leader, sia pur provvisorio della confraternita, la quale continua a rappresentare la più importante forza politica dell’Egitto.
I comizi dei partigiani di Morsi si moltiplicano. Mohammed Baltagy, un esponente di rango, ha difeso davanti a un pubblico armato di bastoni e spranghe di ferro, la legittimità del presidente eletto e ha detto che gli oppositori dovranno passare sui corpi dei suoi sostenitori.
I Fratelli musulmani non possono rinunciare a un potere conquistato dopo ottant’anni di lotta. Guardano con diffidenza le incerte, ambigue prese di posizione dei generali e denunciano il “colpo militare”. Si sentono assediati anche dagli islamisti radicali del partito Nur, unitisi ai laici nel chiedere le elezioni anticipate. L’impressione è che il fronte religioso stia franando. I militari sono la sola forza stabile, da cui dipende l’immediato futuro del paese. Ma essi si trovano davanti a un’equazione in apparenza insolubile: salvare la legittimità rappresentativa, di cui Morsi è l’espressione, e rispondere al tempo stesso alle richieste di un’opposizione imponente, le cui radici affondano nella rivoluzione del 2011, che ne chiede le dimissioni.
È l’impossibile formula evocata anche da Barack Obama, trasformatosi in una Sfinge americana. Come salvare il risultato del suffragio universale, quindi Morsi, e soddisfare i manifestanti che non lo vogliono? Se la situazione dovesse precipitare, e gli scontri si trasformassero in qualcosa di simile a una guerra civile, l’esercito dovrà assumersi, sia pur riluttante, le responsabilità di governo, imponendo l’ordine. Un’uscita di scena di Morsi, con il consenso degli stessi responsabili dei Fratelli musulmani, potrebbe essere una soluzione provvisoria. La più opportuna ma non la più facile. Il generale Abdul Fattah el - Sisi punta probabilmente su questo. Spetta a lui trovare il compromesso per far ripartireuna primavera araba bloccata.
Egitto, assedio al palazzo presidenziale
Morsi scappa, scontri e feriti in piazza
Cresce la protesta anti-referendum
La folla sfonda il cordone di agenti *
Le marce dell’«ultimo avvertimento» dei movimenti liberali laici e pro rivoluzione egiziani sono arrivate fin sotto il palazzo del presidente egiziano Mohamed Morsi, al grido di «vattene vattene» costringendo le forze dell’ordine schierate in massa a ritirarsi e spingendo anche il presidente a lasciare il palazzo. Secondo un comunicato ufficiale del ministero dell’interno, il presidente ha lasciato la residenza «dopo avere concluso tutte le sue riunioni ufficiali».
Migliaia di persone hanno partecipato oggi anche ad una manifestazione parallela a piazza Tahrir per invocare «la caduta del regime» e per accusare la guida spirituale de Fratelli musulmani Mohamed el Badie di avere «svenduto la rivoluzione».
Al palazzo di Ittahadeya scontri hanno contrapposto i manifestanti e le forze di polizia che hanno lanciato lacrimogeni prima di ritirarsi consentendo ai manifestanti di scavalcare le barricate di filo spinato che erano state predisposte per tenerli lontano e di arrivare fino al muro di cinta del palazzo. In serata alcuni manifestanti stavano scrivendo graffiti sul muro: «Sei responsabile del sangue di Gika», diceva uno, a proposito del giovane attivista del movimento 6 aprile ucciso due settimane fa nei tafferugli accaduti nei pressi del ministero dell’interno e diventato nuovo simbolo della protesta.
I fratelli musulmani, attraverso il loro segretario generale, Mahmoud Hussein, hanno criticato i manifestanti per i tafferugli. «Tutti hanno il diritto di manifestare senza violenza, ma attaccare la polizia davanti al palazzo presidenziale significa che i manifestanti non conoscono il senso della libertà’, ha affermato Mahmoud Hussein citato dal website della Confraternita. Un invito a tenere pacifiche le manifestazioni è venuto anche da Washington, riferendosi al Cairo, ma anche alle numerose altre proteste che si sono tenute in varie città egiziane come Alessandria, Luxor e Assiut.
Nell’ennesimo show down fra le forze dell’opposizione organizzate dal Fronte di salvezza nazionale e il primo presidente egiziano eletto democraticamente e proveniente dalle fila dei Fratelli musulmani, i manifestanti hanno rinnovato il loro no al decreto col quale Morsi si è accresciuto i poteri, a danno della magistratura. No anche alla costituzione approvata venerdì scorso in tutta fretta da un’assemblea costituente che le opposizioni accusano di non avere legittimità perché boicottata dalle forze liberali e laiche e sulla quale Morsi ha indetto un referendum consultivo per il 15 dicembre.
Migliaia di manifestanti, molti col tricolore rosso bianco e nero egiziano in mano, sono sfilati per le vie della città prima di arrivare davanti al palazzo di Ittahadeya dove, dopo il ritiro delle forze dell’ordine, hanno invaso il grande viale di El Mirghani, una delle principali arterie del quartiere di Heliopolis a sud della capitale egiziana e dove, secondo alcune fonti, intendono rimanere tutta la notte.
Alle proteste si sono uniti anche i giornalisti dei quotidiani di opposizione e indipendenti che oggi hanno scioperato a sostegno delle manifestazioni di piazza. Un loro corteo diretto a piazza Tahrir ha attraversato il centro del Cairo con uno striscione con la scritta «La costituzione è un’aggressione contro la libertà degli egiziani che hanno diritto ad avere stampa e media indipendenti».
Mohammed El Baradei, ex direttore dell’Aiea, Premio Nobel per la Pace, candidato alla presidenza in Egitto, guarda con estrema preoccupazione al futuro del suo Paese
«Piazza Tahrir tradita da militari e islamisti. Ma io non mi arrendo»
Il premio Nobel: «La lotta per la libertà in questa transizione è stata calpestata Ora il rischio è che la delusione e la rabbia degenerino in violenza inarrestabile»
di Umberto di Giovannangeli (l’Unità, 08.12.2011)
Il simbolo dell’Egitto laico e progressista non si arrende. Ed anzi rilancia la sua duplice sfida: ai militari e al fronte islamico, uscito vincitore dalla prima tornata elettorale dell’«era» post-Mubarak: Mohammed El Baradei, ex direttore dell’Aiea, Premio Nobel per la Pace, candidato alla presidenza in Egitto, guarda con estrema preoccupazione al futuro del suo Paese. «Alla base della rivolta che ha portato alla caduta del regime di Hosni Mubarak dice a l’Unità El Baradei vi era una istanza di libertà, di giustizia che in questi mesi di transizione tradita è stata svilita, calpestata. Il rischio aggiunge il Premio Nobel per la Pace è che la delusione si trasformi in rabbia e la rabbia inneschi una spirale di violenza inarrestabile. Se ciò dovesse accadere, i primi responsabili andranno ricercati in coloro che nel nome dell’emergenza continua a far funzionare a pieno regime i tribunali militari, uno strumento degno di regimi fascisti. Una cosa è certa: io non mi arrendo».
E alla Guida generale dei Fratelli Musulmani, Mohammed Badie, che in una intervista a l’Unità aveva affermato: «Siamo i vincitori ma non i padroni dell’Egitto», El Baradei risponde così: «Per governare il Paese non bastano gli slogan e le belle parole. Non sarò certo io a criminalizzare il voto, ma il banco di prova per quanti si proclamano vincitori è dimostrare di saper governare».
Cosa la preoccupa maggiormente in questa fase cruciale nella storia dell’Egitto? «Più ancora che il successo registrato dalle forze islamiche più conservatrici, come Al-Nour, ciò che m’inquieta è il profondo senso di delusione che ho riscontrato tra i giovani di Piazza Tahrir. La delusione è forte poiché nulla è cambiato». Di chi la responsabilità di questa situazione?
«Di chi si era fatto garante della transizione...».
I militari, dunque..
«Ciò che dovrebbe essere chiaro a tutti è che i militari hanno fallito nella gestione della transizione. Fallito perché in nome dell’emergenza hanno continuato a far funzionare i tribunali speciali, degni di un regime fascista e non di una democrazia in formazione, e perché hanno pensato di poter riconquistare la piazza attraverso un patto di potere con le forze islamiste».
In una recente intervista a l’Unità, la Guida generale della Fratellanza Musulmana, Mohammed Badie ha sostenuto che non è intenzione della Fratellanza realizzare una «dittatura della sharia», dichiarandosi disponibile a lavorare per un governo di coesione nazionale...
«Per governare non bastano gli slogan né affermazioni che dovrebbero suonare rassicuranti. Il banco di prova per chi si candida a governare è dimostrare di essere in grado di farlo. Di esserne all’altezza. Per quanto mi riguarda, cambiamento per me significa democrazia, libertà, giustizia sociale, rispetto delle minoranze. Principi non negoziabili. Sia chiaro: la mia non è una sentenza senza appello. Ritengo che nel fronte islamico vi siano posizioni moderate che spero possano prevalere. Sono certamente preoccupato per alcune delle prese di posizione estreme, inaccettabili, di alcuni salafiti, sentendo che la letteratura di personalità che hanno dato lustro all’Egitto, come Naguib Mahfouz, viene paragonata alla prostituzione, vedendo che stiamo ancora discutendo se le donne debbano guidare le loro auto, che ancora ci chiediamo se la democrazia sia contro la Sharia».
In un nostro precedente colloquio, prima dell’esplosione della rivolta in Egitto, lei aveva sottolineato l’importanza dei giovani, il loro protagonismo. È ancora di questo avviso?
«Certo che sì. Il motore del cambiamento continuano ad essere i giovani. Alla base della rivolta egiziana vi erano ragioni che si ritrovano anche in altre realtà, come quella tunisina: la mancanza di prospettive di lavoro per le giovani generazioni, l’ingiustizia sociale elevata alla massima potenza, una rivendicazione di libertà e di diritti che si scontra con le chiusure di un potere incapace di rinnovarsi. Per le giovani generazioni la rivolta è stata anche un investimento sul futuro. Futuro che si chiama lavoro, innanzitutto, istruzione, possibilità di realizzarsi. Libertà e giustizia sociale sono le due facce di una stessa medaglia: in Egitto il 42% della popolazione vive con un dollaro al giorno, il 30% non sa leggere e scrivere, la disoccupazione è dilagante, la corruzione ovunque. L’uscita di scena di Hosni Mubarak non ha determinato la messa a punto di politiche che affrontassero queste problematiche. La situazione è andata di male in peggio dopo il fallimento del Consiglio militare nella gestione del processo di transizione».
Alla vigilia del voto, lei si era detto pronto a guidare un governo di unione nazionale...
«Ma avevo sottolineato che non mi sarei prestato ad un’operazione di facciata, non sarei stato un primo ministro sotto tutela. Per questo i militari hanno preferito rivolgersi altrove».
C’è ancora spazio per la «Primavera egiziana»?
«C’è, se sapremo serrare i ranghi e privilegiare le ragioni dell’unità a personalismi e logiche di fazione. Questo spazio va difeso puntando sui giovani che hanno fatto di Piazza Tahrir il luogo della libertà. Sono convinto che saranno loro a dirigere il Paese in futuro. Un futuro che sta a noi trasformare in presente».
Piazza Tahrir in rivolta contro i militari: in tre giorni oltre quaranta morti e 1.800 feriti
Il premier Essam Sharaf rimette il mandato ma il Consiglio supremo prende tempo
Un bagno di sangue
La giunta dei generali presenta le dimissioni
La Piazza resiste. Nonostante la repressione e i morti che sono oltre 40. Piazza Tahrir rilancia la sfida per oggi. Dimissioni annunciate in serata del premier. La protesta si allarga, l’Egitto è nel caos.
di Umberto De Giovannangeli (l’Unità, 22.11.2011)
La Piazza sfida i militari. Il governo di Essam Sharaf annuncia le sue dimissioni che però il Consiglio supremo militare «congela» invitando le forze politiche egiziane a un« dialogo urgente». Però la tragica conta dei morti cresce. È il caos. Un caos che rischia di trasformarsi in una tragedia nazionale. Al centro c’è una Piazza trasformata in un campo di battaglia. Il cuore di una rivoluzione minacciata, tradita, ma che non si dà per vinta.
BILANCIO DI MORTE
Piazza Tahrir ha ripreso l’aspetto dei giorni seguiti al 25 gennaio, quando sbocciò la «rivoluzione del giovani» che portò alla caduta del regime Mubarak. Centinaia di migliaia di persone, se non un milione, sono assiepate in modo inverosimile da ieri sera, dopo che nel pomeriggio si era temuto il peggio per l’approssimarsi dei carri armati destinati è stato poi chiarito solo a proteggere il ministero dell’Interno. Si erano subito alzate barricate metalliche nelle strade interessate ed erano stati incendiati copertoni, in falò spenti poco dopo. «È la seconda rivoluzione», dice una parola d’ordine raccolta sui blog in Internet, «dopo il tentativo di militari e governo di far fallire la prima». Di questo fallimento verso la democratizzazione del Paese ed il rispetto dei diritti umani i militari sono stati accusati anche in un rapporto diffuso ieri da Amnesty International. E la denuncia non sembra infondata, specie dopo la proposta nei giorni scorsi del vice primo ministro, Ali Selmi, per una modifica alla costituzione che aveva irritato tutte le forze politiche, specie i Fratelli Musulmani, candidati a raccogliere ampi consensi nelle elezioni legislative in calendario dal 28 novembre. La proposta, che prevede di dare una speciale immunità ai militari e di sottrarre i loro bilanci ai controlli del Parlamento, aveva provocato il grande raduno di venerdì scorso, il venerdì «per la protezione della democrazia», come al solito nell’arcinota piazza Tahrir.
La tensione è alle stelle. Man mano che le ore passavano si sono susseguite le notizie di bilanci di vittime di sabato e domenica progressivamente più alti. Dalla morgue lo stillicidio di informazioni ha portato prima il numero di oltre 40 vittime e poi la richiesta di auto e di bare perché non ce n’erano abbastanza. Più tardi i medici degli ospedali da campo intorno a piazza Tahrir hanno chiesto ai loro colleghi di arrivare in forza, dato l’alto numero di feriti e hanno invitato a donare sangue ed a portare generi di conforto a chi si prepara a passare la notte in piazza. Canti e balli si sono alternati a momenti di preghiera collettiva, mentre dagli ambienti del potere e da quelli dei manifestanti sono arrivati messaggi opposti. Un generale arrivato in piazza dichiara che è diritto dei manifestanti quello di fare sit-in, purchè non sia danneggiata la proprietà pubblica, e rassicura che i generali non intendono rimanere al potere, vogliono cederlo a civili appena possibile. Ma nessuno gli crede. «Chiedono di rimanere intoccabili proprio a noi che abbiamo mandato a casa il vecchio regime del militare Mubarak?» chiede insistentemente un gruppo di giovani manifestanti vicino alla sede della Lega Araba, sottolineando che comunque i militari hanno le loro responsabilità nelle morti dei «martiri di piazza Tahrir». Anche per questo per oggi i giovani hanno sollecitato un nuovo maxi raduno, ancora nella «piazza della rivoluzione». Un portavoce dei Fratelli musulmani annuncia: «I membri di 35 partiti e movimenti saranno scudi umani».
In serata, il primo contraccolpo politico: il premier egiziano, Essam Sharaf, e il suo governo presentano le dimissioni, rimettendo il proprio mandato a disposizione del Consiglio Supremo delle Forze Armate. Sharaf aveva già presentato le dimissioni del suo governo ai militari il 10 settembre scorso, dopo l’assalto all’ambasciata israeliana del Cairo, invasa e demolita da manifestanti che il servizio d’ordine intorno al palazzo non era riuscito a bloccare. Anche in quel caso il suo addio non fu accettato dal Consiglio supremo presieduto dal generale Tantawi.
El Baradei: «Basta con l’esercito. Ora un governo civile»
Il capo del Movimento 6 Aprile: «Le forze armate sono incapaci di gestire la transizione». L’ex direttore Aiea a l’Unità: -«Ignorano le richieste della rivoluzione. Usano le stesse parole di Mubarak»
di U.D.G. (l’Unità, 22.11.2011)
Voci da una Piazza inr ivolta. Voci che denunciano una repressione brutale, voci che reclamano giustizia e verità. E che rifiutano di subire un «mubarakismo senza Mubarak». Cronaca di una battaglia senza fine. «Il numero dei morti negli scontri a piazza Tahrir supera le 40 vittime, mentre i feriti sono più di mille», dice a l’Unità Mahmoud Afifi, portavoce del Movimento egiziano del 6 Aprile. «Il Consiglio militare (al governo in Egitto dalle dimissioni Mubarak a febbraio, ndr) sta trattando i giovani della rivoluzione con estrema violenza», afferma Afifi, precisando che gli attivisti del Movimento «sono presenti in piazza in gran numero». La crisi degli ultimi giorni, sottolinea, è il risultato del «fallimento del Consiglio supremo delle Forze armate nel gestire la fase di transizione».
Quanto alle istanze degli attivisti, questi ultimi chiedono di «fissare un’agenda per la consegna del potere a un presidente, un civile, al massimo entro il prossimo aprile, le dimissioni del governo di Essam Sharaf e la nomina di un governo di salvezza nazionale che goda del consenso delle forze politiche e che abbia piena competenza nel gestire quel che resta della fase di transizione, oltre - ricorda Afifi - alla formazione di una commissione d’inchiesta sugli ultimi incidenti per perseguirne i responsabili».
Duro contro i vertici militari e la polizia è anche il candidato alla Presidenza dell’Egitto Mohamed El Baradei. «Non vi può essere alcun dubbio su chi è responsabile di una situazione che rischia di precipitare da un momento all’altro dice a l’Unità il Premio Nobel per la Pace: il responsabile di questa situazione è il Consiglio supremo delle Forze Armate, che sta dimostrando, oltre ad averlo ammesso, che non può governare il Paese», rileva l’ex Direttore dell’Agenzia internazionale per l’Energia atomica (Aiea). «Il Consiglio supremo delle Forze Armate continua a ignorare alcune delle richieste principali della Rivoluzione, come la fine dei processi militari per i civili e la cancellazione della Legge d’emergenza, ma anche la domanda di un welfare sociale e di sicurezza pubblica incalza El Baradei. Non molto aggiunge è cambiato dalla Rivoluzione del 25 gennaio e in molti casi il Consiglio supremo delle Forze Armate ha semplicemente assunto il ruolo del deposto presidente Hosni Mubarak, usando anche lo stesso linguaggio. Parlare di manifestanti eterodiretti da potenze straniere e di criminali comuni, per esempio, è esattamente quello che Mubarak usava dire per screditare alcuni movimenti. Alcune dichiarazioni del Consiglio supremo delle Forze Armate sono identici a quelli dell’era Mubarak», denuncia ancora El Baradei.
Una denuncia rilanciata da Amnesty International: «Chi sfida o critica il Consiglio militare, come i manifestanti, i giornalisti, i blogger o i lavoratori in sciopero, viene represso senza pietà, nel tentativo di sopprimerne la voce», denuncia Philip Luther, direttore ad interim di Amnesty International per il Medio Oriente e l’Africa del Nord.
Il bilancio dello Scaf (il Consiglio supremo delle forze armate che governa l’Egitto dalla caduta del presidente Hosni Mubarak a febbraio, ndr) in materia di diritti umani e civili dopo nove mesi mostra che gli scopi e le aspirazioni della rivoluzione del 25 gennaio sono stati fatti a pezzi». «Le forze armate egiziane conclude Philip Luther non possono continuare a usare la sicurezza come una scusa per mantenere in vigore le stesse vecchie pratiche viste sotto la presidenza di Mubarak».
Piazza Tahrir umilia l’8 marzo, la rivoluzione caccia le donne
di Francesca Caferri (la Repubblica, 9 marzo 2011)
Il tradimento, quello vero, c’era stato nelle settimane scorse, quando nel consiglio incaricato di riscrivere la Costituzione e delineare il futuro del nuovo Egitto non era stata chiamata nessuna donna. Lo schiaffo in faccia è arrivato proprio nel giorno della festa della donna: un migliaio di egiziane hanno tentato ieri di marciare verso Tahrir square, la piazza simbolo della rivoluzione, quella dove per settimane avevano protestato, gridato, combattuto, dormito, pianto, mandato tweet. Lo scopo era rivendicare il loro ruolo nella protesta e nel futuro del Paese. Ma hanno fallito.
La marcia è stata fermata da gruppi di uomini, che hanno bloccato le manifestanti, strappando loro i cartelli, spintonandole e costringendole a tornare indietro: «Non è il momento giusto per le vostre manifestazioni», avrebbero detto alle donne.
E così la marcia che doveva portare in piazza un milione di egiziane è fallita. Due volte: perché in strada si sono ritrovate in un migliaio e perché alcuni di quelli con cui avevano lottato fianco a fianco per settimane hanno volute relegarle a quel ruolo secondario da cui pensavano di essere riuscite ad emergere.
«Il nuovo Egitto lascia indietro le donne» titolava ieri Al Jazeera. Parecchie, dal Cairo ad Alessandria, condividono questa opinione: «Il sangue delle donne che sono state uccise nella protesta è ancora fresco: e già ci stanno tradendo», ha detto al New Yorker Nawal Al Saadawi, la più famosa femminista egiziana, la madrina della rivoluzione, 71 anni di cui parecchi passati in carcere ma in prima fila, con i suoi capelli bianchi, a Tahrir dal primo giorno. Ieri al Saadawi non era al Cairo: ma nel futuro le egiziane avranno ancora bisogno di lei, come questo 8 marzo ha dimostrato.
Sempre ieri al Cairo è morto un cristiano copto, ferito nei giorni scorsi negli scontri con i musulmani seguiti all’incendio di una chiesa: un altro segnale preoccupante per il nuovo Egitto.
La primavera araba è in rosa
Organizzata via Facebook per oggi al Cairo la “marcia di un milione di donne”
di Francesca Paci (La Stampa, 08.03.2011)
Quando domenica 27 febbraio il premier tunisino Ghannouchi ha ceduto alla pressione popolare e s’è dimesso, Amal Shamel stava preparando la piccante zuppa «shorba» per i suoi quattro figli. «È stato come il giorno in cui Ben Ali se n’è andato: appena ho sentito la notizia in tv ho chiesto a Said, il maggiore, di occuparsi per poche ore dei fratelli e con un taxi ho raggiunto mio marito in avenue Bourguiba» racconta al telefono. Una settimana dopo, nella cairota piazza Tahrir, decine di casalinghe hanno affiancato le rivoluzionarie a tempo pieno come Isra Abdelfatah, in prima linea dal 25 gennaio, per inneggiare al nuovo capo del governo egiziano Isam Sharaf, subentrato a grande richiesta dei manifestanti all’inviso «mubarakiano» Ahmad Shafiq.
Chi avesse tralasciato il contributo muliebre al terremoto mediorientale e magrebino può rifarsi oggi con la «Million women march», il corteo organizzato via Facebook per archiviare con la dittatura l’annesso sistema patriarcale di potere, e che conta di portare nelle vie del Cairo un milione di mamme, mogli, figlie, studentesse disinibite e colleghe velate, la quota rosa della primavera araba.
La partecipazione femminile è la cartina di tornasole della democrazia. «Le donne sono la chiave di quanto sta accadendo nelle piazze arabe» osserva il libanese Nadim Houry, analista di Human Rights Watch. Secondo la direttrice dell’associazione egiziana Nazra for Feminist Studies, Mozn Hassan, lungi dall’unirsi alla protesta, le donne l’hanno concepita: «Prima ancora che cambiassero le cose, sono cambiate loro, noi, e siamo solo all’inizio». Si calcola che almeno tre dimostranti su dieci fossero ragazze.
Il percorso è accidentato. Nessuno lo sa meglio delle protagoniste che al Cairo come a Tunisi, ma anche a Bengasi, Manama, Algeri, Sana’a, Casablanca, sfidano da decenni, nell’indifferenza occidentale, la centralità dell’uomo, covata nel conservatorismo familiare e troppo spesso sublimata dall’opportunismo politico. «Non posso più accettare la legittimità di una storia che mi consente di restare viva solo distogliendo l’attenzione da ciò che sono» scrive la giovane giornalista tunisina Fawzia Zouari nel racconto «Sherazad ha i giorni contati». Il mondo delle Mille e una notte, con la fascinosa fanciulla che evita la morte ammaliando il sovrano, è per le donne arabe il corrispettivo del reggiseno bruciato dalle femministe nel ‘68. Prova ne sia il nuovo libro dell’autrice libanese Joumana Haddad, «Ho ucciso Shahrazad, Confessioni di una donna araba arrabbiata».
Certo ci sono Paesi più emancipati come la Tunisia, in cui la poligamia è vietata dal 1957 e la direttrice della Biblioteca Nazionale Olfa Youssef discetta regolarmente di teologia islamica in saggi a dir poco polemici con l’ortodossia, o il Marocco, che si è dotato di un codice di famiglia all’insegna della parità dei sessi. Ma, sebbene in misura minore, le cittadine del Bahrein avvolte nell’abaya, quelle yemenite pudicamente a distanza dai cortei degli uomini e le libiche nelle trincee sotto il tiro di Gheddafi, hanno partecipato e partecipano alle proteste per la democrazia mostrando voglia di vivere anziché di morireda martiri.
In Egitto, dove il 42% delle donne è quasi analfabeta e nel parlamento del 2010 ce n’erano appena 8 su 454 deputati, piazza Tahrir ha annullato le differenze di genere. «Le casalinghe c’erano e ci sono, eccome, paradossalmente hanno più tempo delle altre» insiste Dalia, blogger attivissima come Asma Mahfouz, Leil Zahra Mortada, Sanaa el Seif, le firme rosa della controcultura digitale. Da tempo, più o meno platealmente, hanno riscoperto il nome di Huda Shaarawi, la celebre femminista egiziana del primo Novecento: oggi una su quattro lavora fuori casa. Una nuova centralità sociale di cui si sono accorti i Fratelli Musulmani che, seppur mantenendo nel proprio statuto il divieto per copti e donne di accedere alla presidenza dello Stato, accettano volentieri il contributo femminile negli ospedali, nei centri di assistenza, nei gruppi di base su cui fondano la formidabile penetrazione nella comunità.
La rivoluzione politica della primavera araba sovvertirà anche l’ordine sociale, spazzando via con l’autoritarismo il sessismo che sovente l’accompagna? «È presto per parlare di un movimento femminista separato» nota l’accademica del Bahrein Munira Fakhro, candidata alle elezioni del 2006. Vorrà però dire qualcosa se la monarchia saudita, terrorizzata dall’effetto domino e dalla giornata della rabbia indetta per venerdì, si è affrettata a promettere il voto alle donne. Ed è un segno dei tempi che il più agguerrito blog di Gaza, fustigatore della triplice occupazione dei palestinesi da parte di Hamas, Fatah e Israele, sia firmato da una ragazza, Asmaa Aghoul, irriducibile nonostante l’arresto di un mese fa, al punto da aver convocato via Facebook una nuova manifestazione per il 15 marzo.
Le donne arabe stanche del paternalismo patrio quanto della compassione occidentale per la condizione impari imposta dall’islam chiedono rispetto. A tutti, a cominciare dai propri mariti, dai genitori, dai figli. Nella Cairo che, infaticabile, si accinge a scendere di nuovo in piazza nel nome della rivoluzione incompiuta la gallerista Loulia sorseggia un cappuccino nel cuore del quartiere Zamalek e distribuisce agli altri avventori i volantini con i quindici comandamenti della rivoluzione del 25 gennaio: mi impegno a non gettare cartacce in terra,a rispettare il semaforo rosso, a non molestare le donne...
Il grande filosofo ha creduto nell’espansione della democrazia e dell’emancipazione
Kant, la rivolta dei giovani arabi e l’inganno dello scontro di civiltà
Nessuno ha previsto le rivoluzioni democratiche del Nordafrica. I servizi di intelligence sono stati spiazzati In questi decenni ha dominato la paura dell’Islam. Ma le forze della pace hanno continuato ad operare
di Pino Arlacchi (l’Unità, 08.03.2011)
Sono in molti a chiedersi in questi giorni come mai le rivoluzioni democratiche del Nordafrica non sono state previste da nessuno, e perché i centri di intelligence, soprattutto americani, nonostante i loro enormi budget, siano rimasti così clamorosamente spiazzati davanti ai cambiamenti epocali in corso.
Questo fallimento ha una spiegazione. Non solo gli analisti dei servizi di sicurezza, ma anche la maggior parte degli studiosi di scienze sociali non sono stati capaci di anticipare nulla di ciò che sta accadendo nel mondo arabo semplicemente perché vittime e autori, allo stesso tempo, di un grande inganno. Parlo di un colossale offuscamento delle coscienze durato quasi due decenni, e basato sull’idea che viviamo in un epoca catastrofica, dove la nostra sicurezza corre un pericolo mortale a causa di una serie di minacce, la prima delle quali è l’ Islam, seguita da altre quali gli stati canaglia, l’ immigrazione, l’ espansione della Cina, il riarmo, i conflitti e le guerre.
Il primo decennio del nuovo secolo, dall’ elezione di Bush II all’ inizio del 2011, è stato dominato dall’inganno e dalla paura, cioè dal mito del caos globale. Una visione negativa delle cose che ha avuto conseguenze politiche rilevanti, perché ha abbassato le nostre aspettative, ci ha costretti sulla difensiva, e ci ha tolto la fiducia in un mondo più decente. Eppure, non ci sarebbe voluto molto per cogliere i segnali di una potente forza contraria: quella del progresso umano e della pace. Una forza che ha continuato ad agire sotto la superficie degli eventi e a dispetto della propaganda della destra globale trionfante, e al potere negli Usa ed altrove.
Una potenza benefica, che ha fatto decrescere la violenza grande e piccola, ridotto o azzerato minacce, accresciuto la sicurezza individuale e collettiva, allargato democrazie e diritti.
La transizione democratica del Nordafrica, allora, non è altro che un tassello del mosaico che le forze della pace hanno continuato a comporre sotto i nostri occhi, e con la nostra partecipazione, sia pure poco convinta.
Al tema dell’ inganno e della paura ho dedicato lo studio più importante della mia vita, scritto nel 2008, prima dell’ elezione di Obama, e pensato nei dieci anni precedenti. In esso ho criticato la visione sbagliata della sicurezza internazionale ancora oggi dominante, ed ho richiamato il pensiero di un grande europeo, Emanuele Kant, il filosofo che più ha creduto nell’ espansione della democrazia e dell’ emancipazione umana.
Sarebbe bastato rileggere qualche pagina di un libretto pubblicato da Kant nel 1795, «La pace perpetua» per non stupirsi di fronte al tramonto dei tiranni Nordafricani. In esso il filosofo tedesco ha disegnato un mondo governato dalle democrazie e dalle organizzazioni internazionali, dove la guerra diventa sempre più rara, obsoleta ed assurda. Un mondo dove i cittadini daranno il loro consenso all’ uso della forza solo per autodifesa, e dove la diffusione dei regimi democratici ha instaurato un metodo della nonviolenza che ha finito con l’ estendersi anche ai rapporti tra gli Stati.
Queste dinamiche hanno continuato ad operare in realtà anche dopo l’ 11 settembre 2001. Le forze della pace kantiana hanno continuato il loro lavoro. Fino a sfociare nella «storia che si è dischiusa» all’ alba di quest’anno, secondo la bella definizione di Obama.
Tutto ciò si è verificato nonostante le idee di un pensatore reazionario, Samuel Huntington, il capofila della teoria dello scontro di civiltà con l’ Islam, fossero diventate un pensiero unico che ha ingannato molte persone in buona fede. La bandiera dello scontro di civiltà ha riportato in auge una legione di profeti di sventura, che hanno vaticinato disastri e guerre che esistevano in realtà solo nei loro desideri. Non ne hanno azzeccata una. Ma le loro errate previsioni hanno svolto la funzione di far crescere le paure collettive che hanno gonfiato a loro volta le spese militari.
Le idee di Kant ci hanno invece aiutato a rafforzare le istituzioni del dialogo e dei diritti universali: le Nazione Unite, il Parlamento e l’ Unione europea, e quella panoplia di trattati e di agenzie internazionali che formano come una rete che scoraggia la guerra e incoraggia la democrazia e la giustizia in ogni angolo del pianeta.
L’ imbroglio dello scontro di civiltà (con annessa teoria della superiorità etico-politica dell’ Occidente) è oggi nella polvere, sconfitto dai giovani arabi che manifestano per i diritti universali. Adesso dobbiamo fare attenzione a non cadere in una trappola.
Quella del trionfalismo progressista, che vede una crescita lineare ed ineluttabile della democrazia. Il catastrofismo di Huntington non va sostituito da una fede ingenua e dogmatica nello sviluppo umano. Da una specie di inganno al rovescio che ci porta ad ignorare le potenze distruttive della violenza e dell’ oppressione.
La continuità del processo in corso dipende da noi. Dalle mosse che saremo in grado di fare per tutelare le conquiste appena ottenute, e per espanderle ancora. Anche qui Kant ci può essere utile. Per lui il progresso etico-politico non era scontato, e poteva conoscere fasi anche molto lunghe di regresso e stagnazione. Per evitare le quali occorreva riflettere bene sugli errori passati, ed imparare a non ripeterli: il celebre learning process kantiano.
Se la rivoluzione democratica del Nordafrica sfocerà in un congiungimento politico di quei paesi all’ Europa e in un passo avanti verso la democrazia universale, invece di ripiegarsi su se stessa ed arretrare verso regimi semi-tirannici o verso situazioni di «stati falliti», dipende in primo luogo dalle azioni di chi combatte in loco. Ma dipende anche da noi. Dal sostegno che sapremo dare alle forze della nonviolenza e della solidarietà. Battiamoci, allora, perchè questo secondo decennio del ventunesimo secolo si svolga all’ insegna della profezia kantiana sulla pace democratica.
Le rivoluzioni che l’Occidente non ha capito
di Kurt Volker (La Stampa, 26.02.2011) *
Una delle grandi sfide delle analisi nel lavoro di intelligence è la previsione dei grandi cambiamenti. L’analisi più sicura è quasi sempre che le forze che hanno plasmato le cose fino a oggi continueranno. Il mantenimento dello status quo è dunque il risultato più probabile almeno fino al momento in cui lo status quo scompare.
Questo rende cauti i politici. Anche nel pieno di nuovi sviluppi dimostrazioni, crisi economiche, guerre l’aspettativa è che la nave corregga la rotta e le cose tornino alla normalità. Vale la pena quindi aspettare, essere cauti, per vedere chi prende il potere, per tentare di salvaguardare altri interessi di sicurezza nazionale. Perché invischiarsi in una situazione per sostenere una parte, se c’è una buona probabilità che l’altra prevalga?
E tuttavia i grandi cambiamenti inaspettati accadono. La caduta del muro di Berlino. Il crollo dell’Unione Sovietica. E trovarsi dalla parte sbagliata del cambiamento ha i suoi costi. Inoltre, quando il cambiamento è inevitabile, la cautela può prolungare una crisi, mentre l’azione potrebbe portare a una soluzione più rapida, pacifica e benefica.
Il trucco sta nel capire quando è in corso un grande cambiamento e quando è business as usual. Questo è proprio il punto su cui l’Occidente ha costantemente sbagliato riguardo alle rivoluzioni che stanno esplodendo in Medio Oriente. Prima c’è stata la Tunisia, dove la maggior parte degli osservatori riteneva che le manifestazioni non potessero rovesciare un dittatore. Poi c’è stata la presunta unicità della Tunisia, la maggior parte degli osservatori non credeva possibile che il cambio di regime lì potesse significare un cambio di regime altrove. In Egitto, la maggior parte degli osservatori non credeva che le proteste potessero davvero far cadere Mubarak. La maggior parte degli osservatori non credeva che in Libia, con un regime pronto a usare la forza bruta, il cambiamento fosse possibileOgni volta abbiamo sbagliato l’analisi.
Ogni volta siamo stati lenti nel parlare, lenti nel sostenere il cambiamento, lenti nell’agire. Quelli che sono stati disposti a rischiare la vita per la propria libertà in Medio Oriente possono essere perdonati se pensano che gli Stati Uniti e l’Occidente siano stati contro di loro.
Perché abbiamo sbagliato?
Primo per la convinzione che i regimi alla fine avrebbero prevalso e allora perché bruciare i ponti?
In secondo luogo, soprattutto in Europa, per la paura che ogni cambiamento porti a massicci esodi di rifugiati e flussi migratori.
Terzo, per il timore che gli estremisti islamici si impadroniscano delle rivoluzioni e impongano un regime peggiore di quello precedente
Quarto, per la preoccupazione che i nuovi regimi potrebbero non onorare gli accordi esistenti con Israele.
Quinto per il paternalistico luogo comune che ritiene gli arabi non ancora pronti per la democrazia.
E sesto e ultimo punto forse il più significativo perché i governi occidentali semplicemente non capiscono che questa è una rivoluzione basata sui valori umani e su ideali di trasformazione.
Autoritari leader arabi per anni ci hanno detto che l’Islam radicale era l’unica alternativa al loro governo. Hanno usato il conflitto israelo-palestinese come una cortina di fumo per mascherare i loro feroci regimi. Hanno soppresso l’accesso pubblico alle informazioni e alle fonti del pensiero arabo alternativo. Come risultato, noi in Occidente ci siamo convinti che un cambiamento democratico fosse davvero impossibile nonostante i nostri stessi valori.
La maggior parte dei funzionari governativi non legge i messaggi su Twitter. Molti di quelli che li leggono li considerano insignificanti divagazioni popolari rispetto alle posizioni ufficiali e alle azioni del governoEppure, basta leggere i messaggi dei partecipanti e degli osservatori in Medio Oriente per capire che ciò che sta accadendo ora è diverso. La gente sta spazzando via i miti proposti per anni da questi leader autoritari.
Questa onda di marea non ha a che fare con l’Islam, né con Israele o l’Occidente. Si tratta di una richiesta di diritti e libertà che arriva dall’interno, da una nuova generazione di arabi che vedono come le loro società sono state depredate dai propri governanti. Per quanto le istituzioni della democrazia siano state negate per decenni, l’aspirazione dello spirito umano alla libertà rimane universale e intatta. Questo è ciò che la nostra prudente politica e le analisi di intelligence non sono riuscite a capire.
Il bisogno di cambiamento nella regione non sparirà nel nulla. E poiché è in linea con i nostri valori più profondi, l’Occidente avrebbe dovuto sostenerlo dall’inizio.
Per quanto sia difficile fare queste previsioni ora dobbiamo capire che questo non è business as usual questo è il grande cambiamento. I nostri timori per la stabilità, la sicurezza dell’area e l’estremismo islamico hanno più probabilità di avverarsi se resistiamo a questi cambiamenti piuttosto che se li appoggiamo. E le opportunità per un reale progresso su questi stessi temi la stabilità, la pace regionale, la sicurezza globale, la lotta all’estremismo sono di gran lunga maggiori in un Medio Oriente democratico. Le conseguenze ridimensioneranno sia la guerra in Afghanistan sia quella in Iraq.
* Ex ambasciatore americano alla Nato è senior fellow e direttore del Centro per le relazioni transatlantiche presso la Johns Hopkins University School of Advanced International Studies e consulente senior presso McLarty Associates (Traduzione di Carla Reschia)
Dal punto di vista culturale e filosofico, nel sito, si cfr.:
Occidente cieco
di Pino Arlacchi (l’Unità, 22.02.2011)
Dalla Libia giungono notizie drammatiche e contraddittorie. Il dittatore ha deciso di concludere nel sangue la sua avventura quarantennale e, mentre scrivo, il quadro cambia di ora in ora. Ma quali che siano i tempi e gli esiti della rivolta del popolo libico, è chiara e consolidata la direzione dei processi in atto nel mondo arabo: siamo in presenza di un’ondata paragonabile a quella che, negli anni Ottanta, portò la democrazia in America latina e, negli anni Novanta, nell’Europa dell’Est. Siamo in presenza di eventi di portata storica.
Come Occidente ci siamo arrivati impreparati. Alcuni governi attribuiscono la responsabilità di ciò agli organismi di intelligence. In effetti i precedenti non mancano. È noto che la Cia non riuscì a vedere il crollo del comunismo e che non si è stati capaci di avvertire lo shock petrolifero, l’ascesa della Cina, l’odierna virata a sinistra dell’America Latina. Potremmo compilare una lista molto lunga.
Ma non includeremmo la sorpresa di queste ultime settimane. No, questa volta la colpa non è di 007 incapaci, ma di un errore di prospettiva culturale. Abbiamo vissuto nell’idea dello scontro di civiltà con l’Islam e col suo inevitabile corollario: l’incompatibilità tra l’Islam e la democrazia. Ci siamo cullati nella presuntuosa convinzione d’essere, noi occidentali, i monopolisti della democrazia fino a escludere, nelle scelte di politica internazionale, quella che continuavamo a predicare: la sua universalità. E ora siamo qua, a bocca aperta, a guardare eventi enormi che, in realtà, non sono affatto sorprendenti.
E non è finita. Perché un po’ per cinismo, ma probabilmente anche per stupidità, c’è chi si ostina a trasferire quel pregiudizio di “incompatibilità” tra democrazia e Islam al presente: minimizza quanto è accaduto in Tunisia, in Egitto, e sta accadendo in Libia, e sostiene che questi processi alla fine consegneranno quei paesi ai Fratelli musulmani e al fondamentalismo islamico.
È la parola d’ordine della destra internazionale adottata con passiva disciplina dal nostro governo che fa breccia anche tra commentatori prudenti e moderati. Alcuni giorni fa sul Corriere della sera c’era chi si domandava se in fondo non era meglio la “stabilità” garantita dai governi autoritari di queste potenziali “democrazie estremiste” governate da partiti islamici.
C’è da chiedersi di quale “stabilità” parlino. Il Medio Oriente è da cinquant’anni l’area più instabile e conflittuale del mondo. La guerra internazionale più sanguinosa degli ultimi trent’anni si è combattuta tra Iran e Iraq con un milione di morti. E abbiamo forse dimenticato gli eventi tragici che si sono prodotti in Iran prima sotto lo Shah e poi sotto Komeini? E le ripetute invasioni del Libano? E le guerre in Afghanistan e in Iraq con l’annessa invasione del Kuwait?
Dobbiamo opporci con fermezza a questo mix di cecità e colpevole oblio che produce alla fine gli imbarazzanti balbettii del ministro Frattini, ancora una volta l’ultimo a capire. La democrazia è il piu grande fattore di stabilità e di pace di lungo periodo. Le democrazie riducono i budget militari, cioè gli strumenti della guerra. Sono il metodo della non violenza applicato ai rapporti interni e internazionali. È stato così in passato e sarà così anche nel mondo arabo.
La «rivoluzione» laica del Maghreb «Unisce imam e vescovi»
di Roberto Monteforte (l’Unità, 24 febbraio 2011)
«È chi distrugge che ha paura. È ingenuo chi spara. Invece è sapiente e non ingenuo chi ha il coraggio di dialogare. Di scavare in profondità nelle ragioni dell’altro. Troverà tante cose in comune». Non ha dubbi monsignor Vincenzo Paglia, il vescovo di Terni che fa gli onori di casa all’incontro «Agenda di convivenza. Cristiani e musulmani per un futuro insieme» promosso a Roma dalla Comunità di sant’Egidio.
È l’occasione per un confronto ravvicinato tra uomini di fede e studiosi, testimoni diretti della rivoluzione, per tanti imprevedibile, che sta sconvolgendo gli assetti del Nord Africa. «È il momento di una riflessione seria da fare insieme, cristiani e musulmani, a partire da temi concreti come la cittadinanza e l’identità religiosa; il ruolo delle radici spirituali; la cultura del convivere» spiega il professore Andrea Riccardi, fondatore della comunità di Trastevere, aprendo i lavori ai quali interviene anche il ministro degli Esteri, Frattini.
PARLANO I TESTIMONI
Emerge una certezza: non è sul petrolio, sul gas o sugli interessi che si costruiscono veri rapporti tra Occidente e quel mondo. Avere rapporti solo con le oligarchie ed essere identificati con queste e con i loro regimi corrotti, non aiuta l’Occidente a costruire un rapporto con chi domanda democrazia, in particolare giovani. «Una generazione - osserva il patriarca di Alessandria d’Egitto, cardinale Naguib - che, grazie ai social network, si sono ritrovati in piazza per gridare la loro voglia di valori come giustizia, libertà, pace e uguaglianza».
«Sono giovani che hanno fame e sete di libertà, di diritto, di dignità» osserva l’arcivescovo di Algeri, monsignor Bader. «Noi come vescovi nordafricani - aggiunge - sosteniamo le loro istanze di libertà e di futuro». Quello che preoccupa non è tanto la possibile deriva islamista delle proteste, quanto «la libertà che i futuri governi lasceranno al popolo, nelle Costituzioni che redigeranno, nell’applicazione dei diritti, compreso quello della libertà religiosa». Il pericolo è se alla fine sarà applicata la Sharia.
LAICITÀ E SHARIA
È questo, infatti, uno dei nodi su cui si gioca il futuro di questa variegata «rivoluzione». Per ora in Egitto, si osserva, il movimento è laico. L’elemento religioso è presente, ma come ricchezza dell’identità nazionale di popoli. Non ha dubbi il teologo sunnita Mohammed Esslimani che ha vissuto attimo per attimo i giorni della protesta di «piazza della Liberazione» al Cairo. Ha raccontato di una giovane cristiana che ha disteso in terra il suo prezioso foulard per consentire ad un giovane islamico di poter pregare. O del giovane copto anche lui in piazza malgrado l’appoggio del Papa dei copti Shenuda III al presidente Mubarak. Gesti semplici, ma significativi.
A Tahtawi, già ambasciatore egiziano in Libia e portavoce dell’Università di al Azhar che si è dimesso per unirsi alla protesta di piazza Tahrir per il futuro vede due rischi: un confronto che può farsi duro con i militari e un tentativo di imbrigliare il processo democratico. Sulla Libia e sui destini di Gheddaffi il giudizio è unanime: chi ha ordinato di uccidere il suo popolo inerme, non ha un futuro.
Quando la denuncia del papa?
di Roberto Monteforte (l’Unità, 25 febbraio 2011)
«È urgente risolvere i conflitti nei Paesi arabi». Lo ha affermato Papa Benedetto XVI ricevendo ieri in udienza il presidente libanese Sleiman. L’incontro, come pure quello seguente del presidente del paese dei Cedri con il segretario di Stato, cardinale Tarcisio Bertone e i suoi collaboratori, è stato dedicato alla situazione del Libano, alla formazione del nuovo governo, alla stabilità della Nazione che ancora rappresenta - osserva il pontefice - «un messaggio di libertà e di rispettosa convivenza non solo per la Regione ma per il mondo intero». È il paese del Medio Oriente dove la comunità cristiana gioca ancora un suo ruolo. Il Papa valorizza «la collaborazione e il dialogo fra le confessioni religiose», come pure «l’importanza dell’impegno delle autorità civili e religiose per educare le coscienze alla pace e alla riconciliazione». Ma è tutto qui.
Mentre in Libia il rais Gheddafi fa massacrare il suo popolo, ci si aspettava di più. Anche se è alta la preoccupazione per i destini delle comunità cristiane in Medio Oriente. Oggi è il destino di interi popoli, il loro stesso futuro, non solo quello dei cristiani, ad essere messo in discussione.
Nelle piazze giovani musulmani e cristiani lottano insieme per la democrazia, per la giustizia e il rispetto delle libertà, per la domanda di futuro. Ne dà conto con professionalità l’Osservatore Romano che non ha incertezze a titolare «Senza pietà», denunciando Gheddafi che ordina di bombardare il suo popolo. Con i suoi approfondimenti Radio Vaticana aiuta a capire le situazioni reali di quelle società complesse. Da Benedetto XVI ci si sarebbe aspettato di più. Un appello per fermare la mano agli assassini. È vero che le parole del pontefice potrebbero scatenare l’estremismo islamico. Ma la domanda di futuro e di democrazia accomuna giovani cristiani, islamici e semplicemente laici. Su cosa, allora, costruire un vero confronto, se non sul futuro comune?
Rivoluzione di giovani per la dignità
di Vittorio Cristelli (vita trentina”, 27 febbraio 2011)
L’Africa settentrionale è in fiamme. L’insurrezione, partita dalla Tunisi dove è sparito nel nulla il dittatore Ben Ali, ha infiammato l’Egitto mettendo in fuga Mubarak. E si è estesa poi allo Yemen e negli ultimi giorni sta mettendo sotto sopra la Libia di Gheddafi.
Quello che è importante precisare è che non si tratta di una ribellione di massa per il pane - anche se effettivamente il pane manca -, bensì per la dignità umana, la libertà e la democrazia. Tant’è vero che protagonisti e attori sono i giovani tra i 25 e i 35 anni, anche con un lavoro, seppure precario.
Questo è emerso da una riunione del Cipax (Centro interconfessionale per la pace) a Roma il 3 febbraio scorso. Il teologo tunisino Adnane Mokrani, che insegna all’Università Gregoriana di Roma, ha segnalato che si tratta di rivendicazione di “dignità, fiducia e speranza”. Tant’è vero che lo slogan dell’insurrezione scoppiata a Tunisi recitava: “Siamo pronti a mangiare anche solo pane e acqua, ma vogliamo libertà e dignità”.
La prima scintilla è apparsa già in ottobre nel deserto marocchino del Sahara, dove 20 mila persone si erano asserragliate in un distretto chiamato “il campo della dignità”. Una rivolta soffocata nel sangue e nel silenzio dei mass media l’8 novembre. Il teologo Mokrani ha individuato la “novità” nel gesto disperato del giovane 26enne tunisino Mohammed Bou’azizi, che il 17 dicembre si è dato fuoco per protestare contro la requisizione del suo banchetto di frutta e verdura. Non quindi per fame, ma per sete di dignità e giustizia.
La conferma è venuta da un comunicato della Conferenza episcopale del Nord Africa, emanato il 3 febbraio scorso. In esso i vescovi affermano che le manifestazioni rappresentano una rivendicazione di libertà e di dignità e nascono dalle “generazioni più giovani della nostra regione, che si traducono nella volontà che tutti siano riconosciuti come cittadini e cittadini responsabili”. Precisano inoltre che la rivolta non è mossa da vessilli di una fede dominante, ma unisce nella piazze cittadini di appartenenze diverse attorno ad obiettivi di cittadinanza ed è dunque una grande occasione laica di dialogo e convergenza.
Fa loro eco il gesuita egiziano p. Henry Boudlad dicendo che il vero protagonista è il popolo e specificando che “non è il popolo vissuto sempre nella paura e nella sottomissione, ma una categoria molto precisa: i giovani appena diplomati e tuttavia disoccupati, frustrati, senza impiego, senza alloggio, senza prospettive di un avvenire”.
Il teologo Mukrani ammonisce anche l’Occidente e segnatamente l’Italia perché “se pensa di lottare contro l’immigrazione clandestina sostenendo dittature che producono povertà e quindi emigrazione, è fuori strada”.
Il nostro ministro degli Interni Maroni ha pienamente ragione e diritto di sollecitare un maggiore coinvolgimento dell’Europa nell’affrontare l’emergenza di migliaia di maghrebini che fuggono dai loro paesi in crisi per rifugiarsi sulle coste italiane. Ma dovrà pur chiedersi se non è stato un errore madornale affidarsi ai dittatori per fermarli. E come spiegare l’uscita del premier Berlusconi che, a chi lo invitava a telefonare a Gheddafi, ha risposto di non volerlo “disturbare in questo momento”? Disturbare, mentre sta facendo che cosa? La risposta è rintracciabile nei comunicati quotidiani che parlano di centinaia tra morti e feriti nella repressione.
Ma un altro dato deve risvegliare i politici. I giovani anche in quei paesi non si informano attraverso i comunicati ufficiali dei governi in carica, ma attraverso Internet, You-Tube, Facebook e Twitter. Attraverso quei canali si parlano e organizzano le manifestazioni., Spero bene che non si procede a oscurare anche quei canali, perché allora si verificherebbe un trapianto di dittatura. E se quei canali fossero gli stessi che hanno fatto scendere in piazza i nostri giovani - studenti, ricercatori, diplomati e laureati, ma precari? La domanda è retorica.
Un ultimo rilievo. Dice nulla che a far scendere in piazza masse di donne e di giovani sia la parola “Dignità”?
Accadde domani: se da noi finisse come in Egitto
di Dario Fo (il Fatto, 20.02.2011)
Chi l’avrebbe mai detto che i moti d’Africa e il ribaltone politico iniziato nei paesi della costa mediterranea, sarebbe sfociato in un cataclisma a effetto domino del genere? Eppure è successo: ci troviamo alla metà del 2012, soltanto un anno e mezzo dopo la prima grande ribellione avvenuta in Tunisia, con la cosiddetta “Rivolta del Pane”: migliaia di cittadini di tutte le classi sociali hanno manifestato per settimane. Ci sono stati numerosi morti e feriti.
Subito appresso è esplosa la rivolta in Algeria, altri morti, altri feriti, poi a catena l’Egitto, Iran, Libia, Bahrein e Yemen e anche se apparentemente sembrava non entrarci nulla con le rivolte d’Africa, anche l’Albania.
C’è un fatto molto curioso da sottolineare: tutti i presidenti, in verità bisognerebbe chiamarli dittatori, che uno dietro l’altro si son trovati scacciati dal potere o costretti a fuggire con tutta la famiglia, affaticati nei loro gesti dal peso di lingotti d’oro rubati negli anni, risultano amici carissimi, quasi fraterni di Berlusconi. Tutti costoro sono stati per anni pubblicamente sostenuti e difesi, abbracciati, baciati davanti alle telecamere dal nostro presidente del Consiglio e nel momento stesso in cui la popolazione urlava “vattene” egli, Berlusconi, ha dichiarato che quei tiranni erano da ritenersi saggi e onesti governanti. Nello stesso istante centinaia di cittadini venivano falciati e trucidati dalla polizia organizzata dai sommi rais in questione. Queste rivolte a valanga sono, nella cultura islamica, segni di una tragica profezia che si va immancabilmente realizzando per tutti coloro che hanno fatto parte di questa corvé di sostegno reciproco. Ma Berlusconi non lo sapeva, altrimenti avrebbe cominciato a farsela addosso fin da allora.
Appresso, nella primavera del 2011, cioè circa un anno fa, esplode la cosiddetta diaspora dei disperati: prima mille al giorno sono i profughi che sbarcano a Lampedusa e su altre coste della Sicilia, Calabria, Puglia eccetera. Il numero aumenta quadruplicando ogni settimana finché si raggiunge una vera e propria invasione con centinaia di migliaia di disperati che si rovesciano sulle coste di tutta la penisola.
La polizia italiana, così come la Marina e le Forze armate, non sanno come arginare quella frana. Qualche scellerato del governo ordina un atto spietato di repressione: morti a volontà, più di un cittadino italiano reagisce indignato a quella strage, e molti dei soldati e marinai si rifiutano di eseguire. Anche la polizia è allo sbando, il governo ordina lo stato di emergenza. La destra e in particolare alcuni gruppi di scalmanati fascio-razzisti arrivano ad attaccare il palazzo del governo colpevole di non prendere decisioni drastiche. Nelle città si assiste a scontri senza quartiere. L’esercito si rifiuta di prender parte a quella buriana senza senso, ma intervengono i corpi speciali e di nuovo sono scontri sanguinosi.
Il governo si sfascia, molti senatori e deputati si dimettono seguiti dalla gran parte dei ministri e sottosegretari e a questo punto sorpassiamo tutti i vari stadi della rivolta e arriviamo al momento in cui si forma un governo popolare, al quale partecipano molti cittadini che niente hanno a che vedere coi governi e coi rispettivi partiti. Si indice un grande referendum col quale si chiede di cancellare tutte le leggi, i decreti ad personam istituiti per favorire il presidente del Consiglio nei suoi processi.
Il referendum ha un enorme successo ed ecco che in poche settimane vengono annullati, in quanto ritenuti anticostituzionali, il lodo Alfano, la Cirami, la legge Gasparri e tutte le varie leggi-scudo imposte dal governo Berlusconi. Inoltre questa legge è decretata retroattiva, per cui tutti i processi annullati per decorrenza dei termini e prescrizione, per archiviazione e amnistia vengono immediatamente riaperti. Si evince che Berlusconi dovrà presenziare ad almeno tre diverse sedute ogni settimana per cinque anni consecutivi.
Ma ecco che ci si rende conto all’immediata che Berlusconi non c’è, non si trova: ogni cittadino è coinvolto nella caccia al presidente nascosto. Vengono coinvolti anche i bambini e le suore, che si dimostrano le più accanite fra tutti i segugi. Nella caccia viene trovato Gasparri rintanato in un centro di prima accoglienza a Lampedusa e con lui c’è anche Maroni; in un convento di trappisti viene scoperto La Russa; Brunetta e Bondi vengono rintracciati in una comunità di recupero per tossicodipendenti, la Santanchè e la Meloni sono rintracciate in un circo equestre nelle vesti di domatrici di iene, e finalmente anche Berlusconi viene ritrovato... a giocare a carte con altri vecchi in un circolo dell’Arci alla Bovisa.
Ha inizio il primo processo, ma non si trovano i suoi avvocati: né Ghedini, né Longo, né Pecorella, e perfino Previti non si fa trovare. Gli incaricati dell’arma dei carabinieri si danno subito alla ricerca. I legali dell’ex presidente deposto sono tutti fuggiti all’estero, più di cinquanta avvocati che all’unisono si rifiutano di difendere il Cavaliere, anche per la ragione che un ordine della Finanza ha bloccato tutti gli averi del loro assistito e i beni privati, anche quelli a nome dei figli e parenti più o meno prossimi.
Moltissimi sono i cittadini che vogliono assistere a quel giudizio. I responsabili del Palazzo di Giustizia hanno ritenuto di trasferire il processo al palazzetto dello sport, ma ecco che alla prima seduta la presenza della folla risulta incontenibile, quindi il processo verrà ripreso e riproiettato a reti unificate in Italia e all’estero. Berlusconi ha battuto tutti i record di popolarità, per non parlare degli indici d’ascolto. Peccato che non potrà godere delle quote pubblicitarie!
*Premio Nobel per la Letteratura
L’esercito scioglie il Parlamento e congela la Costituzione
Il potere sarà gestito dai militari per i prossimi sei mesi. La nuova Costituzione verrà sottoposta a referendum popolare. Il capo della polizia militare chiede di smontare le tende delle circa duemila persone che sono ancora accampate nel centro del Cairo. Rubati reperti archeologici, tra cui la statua di Tutankhamon *
IL CAIRO - I militari egiziani hanno deciso lo scioglimento del Parlamento e hanno sospeso la Costituzione. Il Consiglio supremo delle Forze armate gestirà il paese per i prossimi sei mesi o fino allo svolgimento delle elezioni legislative e presidenziali. Lo afferma il comunicato numero 5 diffuso questa mattina dal quale si afferma anche che la Costituzionale è stata congelata. Lo stesso Consiglio ha annunciato in un comunicato trasmesso dalla tv di Stato di aver formato una Commissione per emendare la Costituzione. Il testo della nuova Costituzione che sarà varato dalla commissione verrà sottoposto a referendum popolare. I militari egiziani hanno inoltre sottolineato che continueranno nell’esercizio del potere ricevuto dal dimissionario presidente Hosni Mubarak fino alle elezioni. Nessuna indicazione, invece, sull’abolizione della controversa legge dello stato di emergenza in vigore da quasi 30 anni. Una abolizione che era tra le principali richieste dei manifestanti in piazza che hanno insistito anche per la rimessa in libertà dei prigionieri politici.
Con una "dichiarazione costituzionale" in nove punti, e non più con un comunicato numerato, come quelli dei giorni precedenti, il Consiglio Supremo delle Forze Armate egiziano ha dato la notizia tramite la tv di stato. Ecco il testo della dichiarazione, che è stata letta da un’annunciatrice della tv e non dal portavoce militare che ha letto i comunicati precedenti: "Il Consiglio Supremo delle Forze Armate ha deciso di: 1) Sospendere la Costituzione; 2) Gestire provvisoriamente il Paese per 6 mesi o fino alla fine delle elezioni legislative e presidenziali; 3) Il presidente del Consiglio Supremo (maresciallo Hussein Tantawi, ndr) assumerà la rappresentanza del paese all’interno e all’estero; 4) Sciogliere l’Assemblea del Popolo ed il Consiglio Consultivo; 5) Il Consiglio Supremo ha l’autorità di pubblicare leggi per decreto; 6) Formare una commissione per le modifiche di alcuni articoli della Costituzione e per fissare le regole del referendum che dovrà approvarle; 7) Il primo ministro Ahmed Shafiq assume la direzione del Consiglio dei Ministri fino alla formazione di un nuovo gabinetto; 8) Garantire lo svolgimento di elezioni legislative e presidenziali 9) L’Egitto si impegna a mettere in applicazione i Trattati e gli accordi regionali e internazionali".
Intanto, Il premier egiziano, Ahmed Shafiq, ha assicurato che la situazione economica in Egitto "è stabile". E ha aggiunto: "La nostra situazione economica interna è solida e coesa. Abbiamo abbastanza riserve e la situazione è confortante, molto confortante". Tuttavia, se l’instabilità dovesse continuare "potrebbero sopravvenire alcuni ostacoli ed esserci rinvii". Il premier ha anche confermato che Mubarak si trova a Sharm el Sheikh, nella sua residenza sul Mar Rosso. Il primo ministro ha dichiarato che saranno i militari a stabilire il ruolo di Omar Suleiman, il capo dei servizi segreti nominato vicepresidente da Hosni Mubarak prima di dimettersi da Capo dello Stato.
Nella mattinata, il capo della polizia militare egiziana ha detto ai manifestanti di smontare le tende che da oltre quindici giorni sono diventate uno dei simboli delle proteste in piazza Tahrir. "Non vogliamo nessun sit in nella piazza oggi", ha detto Mohamed Ibrahim Moustafa Ali, parlando con manifestanti e giornalisti mentre i soldati rimuovevano le tende dalla piazza epicentro delle manifestazioni di questi giorni.
Le azioni del Consiglio supremo delle forze armate dovrebbero soddisfare le richieste della piazza. Lo ha affermato Ayman Nour, fondatore del partito d’opposizione egiziana el-Ghad, dopo che la leadership militare aveva annunciato che scioglierà il Parlamento e modificherà la Costituzione. "E’ la vittoria della rivoluzione", ha commentato Nour.
Si riunisce il governo. Sul fronte politico l’attuale governo egiziano terrà oggi la sua prima riunione dalle dimissioni di Mubarak. Secondo l’agenzia di stampa Mena la decisione è stata presa dopo il comunicato del consiglio supremo delle forze armante che ha annunciato che il governo, nominato da mubarak alcuni giorni prima delle sue dimissioni, restava in carica per assumere la gestione degli affari correnti "fino alla formazione di un nuovo esecutivo"
Il consiglio dei ministri discuterà delle misure per garantire i prodotti alimentari di base ai cittadini, la sicurezza e la stabilità", precisa Mena. L’esercito egiziano, incaricato di guidare il paese dalle dimissioni di mubarak, ha promesso una "transizione pacifica" verso "un potere civile eletto" e ha assicurato che l’egitto rispetterà i trattati "regionali e internazionali" che ha firmato.
Reperti trafugati. Otto preziosi reperti archeologici, tra cui una statua del re Tutankhamon, sono stati trafugati dal Museo egizio. Lo ha reso noto il ministro delle antichità, Zahi Hawas. Tra gli oggetti scomparsi, una statua in legno dorato del re Tuntankhamon, che viene trasportato da una divinità, e parti di un’altra statua, anch’essa in legno dorato, che raffigura il giovane re della XVIII dinastia, mentre pesca con l’arpione su una barca di papiro. Ignoti saccheggiatori avevano fatto irruzione nel museo del Cairo, prospiciente piazza Tahrir, il 28 gennaio, in una delle giornate più violente della protesta contro il regime di Hosni Mubarak.
* la Repubblica, 13 febbraio 2011
EGITTO
Dopo le dimissioni di Mubarak
"il mondo non sarà più lo stesso"
Da Obama all’Unione europea la consapevolezza dello "storico evento". Washington chiede il rispetto degli accordi di pace con Israele e promette: "Aiuteremo in ogni modo". Esultano Teheran e Hamas: "Una grande vittoria" *
ROMA - Le dimissioni di Hosni Mubarak 1 rappresentano un evento "storico" che muta lo scenario del Medio Oriente e più in generale quello planetario. Questo il senso dei commenti all’uscita di scena del rais egiziano, spodestato dalla piazza dopo 30 anni di potere incontrastato, come già era accaduto quattro settimane fa al tunisino Zine al-Abidine Ben Ali.
La portata storica della svolta è stata sottolineata in modo molto netto dal presidente degli Stati Uniti Barack Obama: da oggi non solo l’Egitto "non sarà più lo stesso", ma anche "il mondo intero". Per questo il popolo americano "guarda commosso" a quanto ottenuto con la non violenza dal popolo d’Egitto, e dice "grazie", citando Martin Luther King, facendo riferimento a Gandhi e a quella "forza dell’anima" che ha abbattuto il Muro di Berlino. "La giornata di oggi appartiene al popolo egiziano - ha affermato il capo della Casa Bianca - e il popolo americano è commosso dalle scene di piazza Tahrir. La parola ’tahrir’ significa liberazione. E’ una parola che, come diceva Martin Luther King, arriva direttamente all’anima. Per sempre ricorderà agli egiziani di come loro hanno cambiato il loro Paese, e il mondo".
Quanto avvenuto in Egitto è una lezione per il mondo intero, che rafforza tutti coloro che credono nella pace, tanto in Medio Oriente quanto nel mondo intero, ha proseguito Obama. Per questo gli Stati Uniti sono pronti "ad aiutare l’Egitto in ogni modo" e continueranno ad essere un "alleato forte". Consapevoli, però, che la transizione "è solo all’inizio". Spetta ora all’esercito assicurare che il passaggio di poteri avvenga in modo "credibile" e "pacifico": "L’esercito ha il dovere di tutelare i diritti dei propri cittadini".
Nella sua dichiarazione, il presidente americano ha utilizzato alcuni passaggi identici a quelli del discorso che lui stesso pronunciò all’Università del Cairo il 4 giugno del 2009: "Nell’arco della vita ci sono pochi momenti in cui possiamo avere il privilegio di essere testimoni della storia nel suo svolgersi. Questo è uno di quei momenti. Questa è una di quelle volte. L’Egitto non sarà mai più lo stesso".
La Casa Bianca, tramite il portavoce Robert Gibbs, ha quindi rivolto un appello ai militari che hanno assunto il potere affinché rispettino gli accordi di pace con Israele.
E questa è la principale preoccupazione del governo israeliano che teme l’affermarsi di forze integraliste. Negli ambienti politici di Gerusalemme c’è una atmosfera di apprensione e la consegna del silenzio. Fonti governative, dietro anonimato, si limitano ad auspicare che il passaggio di potere si svolga nella stabilità e che non vi siano ripercussioni negative per gli accordi di pace. Per 30 anni Mubarak ne ha garantito il rispetto meticoloso e anche oggi Israele prova, nei suoi confronti, un profondo senso di gratitudine. Mentre i dirigenti israeliani si trincerano dietro il silenzio obbligato del ’riposo sabbatico’, l’ex ambasciatore israeliano al Cairo Zvi Mazel ha espresso ciò che molti ministri sembrano pensare: "Gli Stati Uniti hanno perso oggi la maggior parte della loro influenza nella regione".
Nella Striscia di Gaza Hamas ha festeggiato "l’inizio della vittoria della rivoluzione" chiedendo alla nuova leadership egiziana di "disporre immediatamente la revoca dell’assedio di Gaza e l’apertura del terminal egiziano". In Cisgiordania centinaia di persone hanno festeggiato in strada le dimissioni di Mubarak, mentre l’Autorità nazionale palestinese del presidente laico-moderato Abu Mazen, che ha perso un alleato di lunga data, si è limitata ad augurarsi "stabilità e sicurezza per l’Egitto" e soprattutto "continuità nel sostegno alla causa palestinese".
La tv di stato siriana ha interrotto le trasmissioni per mostrare in diretta le immagini di Al Jazeera da piazza Tahrir, al Cairo. "Con le dimissioni di Mubarak cade il regime traditore di Camp David", ha detto l’annunciatrice della tv del regime di Damasco, da anni ai ferri corti con la dirigenza del Cairo e da sempre contrario a ogni accordo di pace incondizionato con Israele.
Di "grande vittoria" del popolo egiziano ha parlato il portavoce del ministero degli Esteri di Teheran, Ramin Mehman-Parast.
L’Unione europea guarda ai nuovi scenari con speranza. Dimettendosi, Mubarak "ha ascoltato la voce del popolo egiziano", ha dichiarato il capo della diplomazia europea Catherine Ashton, e ha "aperto la strada a riforme più rapide e più profonde". Dopo aver elogiato sia la scelta del vecchio presidente sia il coraggio delle migliaia e migliaia di egiziani, soprattutto giovani, che hanno manifestato pacificamente ma con grande determinazione e alla fine "hanno ottenuto ciò che chiedevano", Ashton ha affermato: "Ora è importante che il dialogo venga accelerato verso la costituzione di un governo di ampio consenso che rispetti e dia risposte alle aspirazioni del popolo". "Una transizione ordinata e irreversibile verso libere e giuste elezioni è l’obiettivo condiviso della Ue e del popolo egiziano", ha proseguito auspicando che l’esercito "mostri che vuole veramente portare a buon fine la transizione democratica".
Il ministro degli Esteri italiano Franco Frattini ha parlato di "uno sviluppo importante per il popolo egiziano e le sue legittime aspirazioni democratiche". "Auspico che attraverso il dialogo costruttivo tra le istituzioni e la società civile, la transizione continui in maniera pacifica, ordinata, per un nuovo assetto democratico e nel rispetto degli impegni internazionali dell’Egitto il cui ruolo per la stabilità regionale l’Italia considera cruciale", ha aggiunto.
Per il cancelliere tedesco Angela Merkel le dimissioni di Mubarak rappresentano un "cambiamento storico" e ora bisogna sperare che i futuri governi egiziani rispettino "la sicurezza di Israele" e "osservino" il trattato di pace.
Secondo il premier britannico David Cameron, l’uscita di scena di Mubarak è "solo il primo passo" e"quelli che oggi governano l’Egitto hanno il dovere di riflettere sui desideri del popolo egiziano". Il presidente francese Nicolas Sarkozy ha detto che la "Francia desidera ardentemente che le nuove autorità egiziane facciano i passi necessari che conducano a stabilire istituzioni democratiche attraverso elezioni libere e trasparenti".
Il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon ha espresso la sua soddisfazione, rilevando che "la voce dei cittadini egiziani, specialmente i giovani, è stata ascoltata: spetta a loro determinare il futuro dell’Egitto" e ha chiesto alle autorità egiziane ora al potere "di tracciare un cammino chiaro su quello che accadrà adesso". "Sarà vitale che i diritti umani e le libertà civili siano pienamente rispettati", ha aggiunto.
Di "momento storico per il popolo egiziano" ha parlato anche il nunzio apostolico al Cairo, monsignor Michael Fitzgerald. "Speriamo e preghiamo che tutto questo porti frutti per il Paese", ha detto.
* la Repubblica, 11 febbraio 2011
LA SVOLTA
Mubarak si arrende: "Mi dimetto"
In Egitto il potere passa ai militari
L’annuncio del vicepresidente Suleiman.
E la piazza festeggia *
CAIRO. Il vicepresidente egiziano Omar Suleiman ha annunciato in televisione che il presidente Hosni Mubarak ha rinunciato al suo mandato presidenziale e ha incaricato le forze armate di gestire gli affari dello stato.
Scene di giubilo e di gioia sono scoppiate a Medan Tahrir al Cairo subito dopo l’annuncio da parte di Suleiman. Decine di migliaia di persone che affollano la piazza del centro della capitale egiziana, sventolano esultanti la bandiera egiziana. La folla ha reagito con un immenso boato.
«Solo la Storia potrà giudicare il nostro presidente Mohammad Hosni Mubarak», ha commentato la tv di Stato egiziana. «Il presidente Mubarak si è dimesso e questa è stata la principale richiesta dei manifestanti», ha aggiunto l’annunciatore. «Fino alla fine il nostro rais si è dimostrato saggio e lungimirante nel fare la scelta migliore per la nostra cara patria», ha detto, mentre una voce in sottofondo proveniente dal suo auricolare gli dettava le frasi da ripetere ai telespettatori.
Mubarak ha lasciato questa mattina il Cairo per recarsi, insieme alla famiglia, nella sua residenza di Sharm-el-Sheikh. L’aereo del presidente egiziano è atterrato all’aeroporto mentre era in corso la preghiera del venerdì islamico. Il capo di stato si è recato «sotto un ingente dispiegamento di uomini della sicurezza verso il palazzo presidenziale di Sharm, a pochi passi da un importante hotel della zona. Poco dopo è atterrato nell’aeroporto locale anche un elicottero carico di bagagli che sono stati portati con l’ausilio di 3 auto verso il palazzo presidenziale». Fonti sostengono che Mubarak era accompagnato da un alto ufficiale dell’esercito ma non dai suoi familiari. Secondo il sito «il fatto che abbia portato molte valigie può voler dire che dovrebbe espatriare direttamente dall’aeroporto di Sharm».
* La Stampa, 11/02/2011
Egitto, manifestanti tentano svolta per cacciare Mubarak *
IL CAIRO (Reuters) - I manifestanti ostili al presidente Hosni Mubarak hanno lanciato oggi un appello per intensificare gli sforzi per ottenere le sue dimissioni, dopo che il suo governo ha concesso poco spazio ai colloqui con l’opposizione e punta a far lasciare ai dimostranti il centro del Cairo.
I manifestanti barricati in un accampamento nella centrale piazza Tahrir hanno minacciato di rimanerci fino a quando Mubarak non lascerà e sperano di portare la loro protesta che dura da due settimane nelle strade, con più grandi manifestazioni di massa oggi e venerdì.
La manifestazione di oggi sarà un banco di prova per la capacità dei contestatori di tener alta la pressione sul governo dopo Mubarak, che a 82 anni, da 30 al potere, ha rifiutato di lasciare il suo posto dicendo di voler restare sino alle elezioni di settembre, in cui non si ricandiderà.
Esponenti dell’opposizione hanno affermato che i colloqui con il governo hanno compiuto scarsi progressi, mentre il presidente Usa Barak Obama ha affermato che "sono stati compiuti passi avanti".
Gli Usa adottando un approccio prudente sulla crisi hanno esortato le parti a concedere tempo per una "transizione ordinata" ad un nuovo ordine politico in Egitto, per decenni un alleato strategico. Ma gli oppositori del regime temono che Mubarak lasciando possa essere sostituito non dalla democrazia ma da un altro governante autoritario.
Ieri i Fratelli musulmani hanno detto che potrebbero abbandonare i colloqui con il governo se non verranno accolte le richieste dell’opposizione, tra cui le dimissioni immediate di Mubarak.
Sempre ieri, l’esercito ha cercato di sgomberare la zona occupata dai manifestanti che però sono usciti dagli accampamenti per circondare i soldati che stavano cercando di spingerli in una zona più ristretta.
Il ruolo dell’esercito nelle prossime settimane viene considerato fondamentale per il futuro dell’Egitto.
Il movimento di rivolta, che alcuni attivisti hanno ribattezzato "Rivoluzione del Nilo", è costato la vita finora a circa 300 persone, secondo le Nazioni Unite.
L’opposizione chiede che la Costituzione venga riscritta per consentire elezioni presidenziali libere e regolari, un limite ai mandati presidenziali, lo scioglimento del Parlamento, la liberazione dei detenuti politici e l’eliminazione delle norme di emergenza.
*
www.reuters.it - martedì 8 febbraio 2011 08:47
Egitto. Una partita cruciale per tutti noi
di Marta Dassù (La Stampa, 05.02.2011)
A giudicare dal Consiglio europeo, l’Ue sembra rimuovere la realtà: ciò che è in gioco, nella sollevazione delle piazze arabe, non è solo il futuro dell’Egitto e dei suoi cittadini. E’ anche il nostro futuro. Non perché Silvio Berlusconi sia l’ultimo Faraone Mediterraneo, come si ostina a sostenere qualcuno.Né perché la protesta dei giovani arabi, come sostengono altri, «faccia parte» di un ciclo di tensioni connesse alla disoccupazione e alle frustrazioni delle nuove generazioni che si estenderà progressivamente in Europa. La ragione mi sembra un’altra, più netta: è un interesse vitale delle democrazie europee - in cui includo Israele - che la crisi delle vecchie satrapie arabe non prepari future dittature islamiche. Come ha scritto giustamente Tim Garton Ash, «se questo non è un interesse vitale europeo, non è chiaro cosa lo sia».
L’illusione, anche italiana, è che questo scenario possa essere evitato affidandosi a un passato che sta crollando: perché non tenersi Hosni Mubarak? Perché, risponde anche per noi l’amministrazione americana, il prezzo da pagare sarebbe di avallare una repressione sanguinosa e violenta nel nostro cortile di casa. Un’Europa che pretenda di fondarsi su principi e valori democratici non è più in grado di farlo, neanche se lo volesse.
Quali altri scenari restano, allora? Il primo è che l’esercito egiziano - l’unica vera forza organizzata del Paese - sia in grado di gestire il dopo Mubarak mettendo al potere un volto nuovo ma in sostanza controllato dalle Forze Armate. La rivolta d’Egitto, innescando una successione forzata, sfocerebbe così in una modernizzazione autoritaria, più accettabile di quella precedente. Se l’economia riprendesse e se ci fossero passi verso una redistribuzione sociale, la cosa potrebbe riuscire. Anche perché ciò che ha veramente motivato la protesta egiziana è l’emarginazione di larga parte della popolazione dai benefici della crescita: l’apartheid economico dell’Egitto, per riprendere il termine utilizzato da Hernando De Soto.
Il secondo scenario è che la protesta egiziana produca una democrazia di facciata, illiberale. Questa è la ragione per cui Israele avverte Barack Obama che l’analogia vera non è con le rivoluzioni democratiche europee ma con il 1979 iraniano: in Egitto, come in Iran, una protesta popolare con molte anime potrebbe essere alla fine scippata dalla sola struttura politica consistente nell’opposizione, i Fratelli Musulmani. Qui il dilemma, naturalmente, è di decidere cosa vogliano realmente i Fratelli Musulmani. Ha ragione chi sottolinea la loro netta distanza dagli ayatollah persiani o chi insiste sul rischio di una deriva iraniana? Io propenderei per la prima di queste due ipotesi; e ci sono molte ragioni per cui è difficile pensare che l’Egitto, Paese che si considera il «primo Stato arabo moderno», possa mai diventare uno Stato islamico. Ma è un’ipotesi da dimostrare. E va evitato un ragionamento troppo semplice: il fatto che il regime di Mubarak abbia usato strumentalmente la lotta al fondamentalismo islamico, non significa che un rischio del genere non esista.
Il terzo scenario è che il 2011 possa davvero segnare un primo passo verso le aspirazioni democratiche del principale Paese arabo. E’ una grande occasione per il Medio Oriente, che George W. Bush avrebbe voluto imporre dall’esterno partendo dall’Iraq; e che si verificherebbe, invece, come effetto della scossa interna egiziana. Ma come tutte le occasioni della storia, contiene dei rischi evidenti. Anche per Barack Obama. Il quale viene accusato, alternativamente, di essere un G. W. Bush riciclato (di puntare anche lui sull’esportazione della democrazia, rinunciando al realismo) o un Jimmy Carter di ritorno, con le stesse debolezze e con lo stesso problema di fondo: il rischio di perdere l’Egitto - alleato essenziale degli Stati Uniti e unico Paese in pace con Israele - come Carter perse l’Iran nel 1979.
Esiste un modo per sostenere le aspirazioni degli egiziani senza perdere l’Egitto? Questa è la partita essenziale: per i giovani egiziani, per l’America, per la sicurezza di Israele e per noi europei. L’Europa, se non riuscirà a parlare in nome del proprio interesse vitale, dovrebbe almeno aiutare Barack Obama a sottrarsi al dilemma di Carter: non per tornare a una «real-politica» fuori tempo massimo o per riciclarsi come nuovo Bush. Ma per riuscire, con un mix di realismo e idealismo, a vincere una partita cruciale e che riguarda anche noi.
La corruzione ha logorato il mio popolo
di Ahmed Zewail (La Stampa, 04.02.2011)
La rivolta scoppiata in Egitto è per molti aspetti storica. Inatteso, anche dagli stessi egiziani, è poi il fatto che questa Intifada sia guidata dai giovani, i cosiddetti figli di Facebook, senza agende religiose o ideologiche, ma con un unico programma: un futuro migliore per tutti. In questo momento difficile, l’esercito si è guadagnato il rispetto delle masse agendo in maniera professionale per mantenere la sicurezza e la stabilità. Reclamando il futuro e contemporaneamente mantenendo la stabilità, queste due forze - la gioventù e l’esercito - offrono la speranza di una transizione ordinata al nuovo Egitto.
Chiaramente, è ora che in Egitto avvenga un cambiamento radicale, i ritocchi cosmetici non bastano più. Ci sono diverse ragioni per l’attuale sollevazione, e devono essere tenute ben presenti per capire la direzione da prendere. Gli egiziani hanno finalmente perso la pazienza con i giochi di potere per garantire la successione al figlio di Mubarak, Gamal; con la mancanza di trasparenza tra chi detiene il potere; con i brogli elettorali che hanno portato in parlamento la maggioranza del partito di Mubarak, praticamente senza opposizione.
Sebbene l’Egitto negli ultimi anni abbia visto qualche progresso economico, le masse dei poveri sono state lasciate indietro e la classe media è di fatto retrocessa. Solo l’élite al vertice ha avuto benefici - esagerati - sfruttando il matrimonio tra la loro influenza politica e il capitale. La corruzione che ne è risultata e le continue richieste di bustarelle da parte dei funzionari hanno esaurito la pazienza della gente. Infine, il sistema educativo, che è centrale per le speranze di progresso sociale di ogni famiglia egiziana, si è deteriorato fino a raggiungere un livello ben al di sotto del rango dell’Egitto nel mondo.
E adesso, dove andiamo? Ci sono quattro passi importante da fare. Primo: mettere insieme un consiglio di saggi, uomini e donne, che elabori una nuova visione nazionale e abbozzi una nuova costituzione basata sulla libertà, i diritti umani e un ordinato trasferimento di potere. Secondo: garantire l’indipendenza dei giudici. Terzo: organizzare elezioni libere e corrette per le due Camere del Parlamento e per la presidenza, su cui sovraintenda il potere giudiziario indipendente. Quarto: un nuovo governo di transizione dell’università nazionale da formare al più presto. Ma perché questo piano abbia successo, il presidente deve ritirarsi. Adesso. Mubarak è arrivato al potere come eroe delle guerre d’Egitto. Può agire di nuovo eroicamente lasciando subito il potere.
VIOLENZE TRA GRUPPI PRO E CONTRO MUBARAK
Guerra al Cairo, spari sulla folla
Nel mirino i giornalisti stranieri
Almeno 13 morti, decine di feriti.
Al Jazeera: "In azione i cecchini"
Gli scontri fra i manifestanti anti Mubarak e i suoi sostenitori sono ripresi in piazza Tahrir dopo una notte di violenze.
Complessivamente le vittime sono almeno tredici e decine i feriti. *
La tv Al Jazira ha riferito che «cecchini» appostati su tetti sparano sulla folla a piazza Tahrir al Cairo. L’esercito è intervenuto con i carri armati per far arretrare i sostenitori del Presidente egiziano Hosni Mubarak, che questa mattina avevano superato il cordone di sicurezza creato dalle forze armate per tenerli a distanza dai manifestanti ostili al regime presenti in piazza Tahrir, al Cairo.
I sostenitori del rais sono scatenati: fermano i simpatizzanti della rivolta contro il regime e minacciano i giornalisti e i cittadini stranieri. Secondo fonti locali uno straniero è stato picchiato a morte in Piazza Tahrir. L’identità e la nazionalità della vittima non sono ancora noti. Migliaia di manifestanti che si oppongono al regime sono riuniti da stamani a piazza Tahrir, teatro dal pomeriggio di ieri di scontri fra i sostenitori di Mubarak e gli oppositori.
In mattinata il primo ministro Ahmed Shafiq ha annunciato l’apertura di una inchiesta sulle violenze di ieri mentre il vicepresidente Omar Soliman, che ieri sera aveva detto che non ci sarebbe stato nessun dialogo con le opposizioni finchè i manifestanti rimanevano in piazza, ha annunciato una ripresa di contatti con le opposizioni. L’apertura è però stata seccamente respinta da Mohamed El Baradei e dai fratelli musulmani il quali hanno ribadito la richiesta di sempre e cioè che prima di sedersi la tavolo se ne deve andare il rais. Anche il partito liberale Wafd, che secondo alcune fonti, avrebbe partecipato ai colloqui ha smentito. In un comunicato ha spiegato di avere disertato i colloqui per protesta con gli scontri violenti in piazza.
Nel frattempo si è diffusa la notizia che una una ventina di esponenti di Hezbollah detenuti in un carcere al Cairo sono riusciti ad evadere ed hanno già raggiunto il Libano. Continuano le aggressioni nei confronti dei giornalisti stranieri, da ieri obbiettivo di aggressioni da parte dei sostenitori di Mubarak che cercano di impedire a cameraman e fotografi di riprendere quanto sta avvenendo su piazza Tahrir.
L’Europa intanto fa sentire la propria voce. «Assistiamo con estrema preoccupazione al deterioramento della situazione in Egitto. Il popolo egiziano deve poter esercitare il proprio diritto a manifestare pacificamente, e beneficiare della protezione delle forze di sicurezza. Le aggressioni contro i giornalisti sono inaccettabili». Lo scrivono in una nota congiunta il Presidente della Repubblica francese, Nicolas Sarkozy, il premier italiano, Silvio Berlusconi, il Cancelliere tedesco, Angela Merkel, il primo ministro britannico, David Cameron e il Presidente del Governo spagnolo, Jos‚ Luis Zapatero. Nella nota vi è la condanna per «tutti coloro che usano o incoraggiano la violenza, la quale non potrà che aggravare la crisi politica che attraversa l’Egitto. Solo una transizione rapida e ordinata verso un Governo che goda di ampio sostegno consentirà di superare le grandi sfide che l’Egitto si trova ad affrontare. Il processo di transizione - concludono i leader Ue - deve cominciare adesso».
* La Stampa, 03/02/2011
Nessun incubo islamico.
In piazza Tahrir ho visto l’Egitto laico
Martedì scorso hanno sfilato insieme donne con il niqab e ragazze con i capelli lunghi, poveri e ricchi.
Non è un popolo anti-occidentale o anti-americano
di Robert Fisk (l’Unità e The Independent, 03.02.3011)
IL CAIRO Quella di martedì è stata la parata della vittoria, ma senza la vittoria. Il solo dispiacere che al calar delle tenebre Hosni Mubarak si autodefiniva ancora «presidente» dell’Egitto. Mubarak ha concluso la giornata come previsto, apparendo in televisione per annunciare che bisognerà aspettare fino alle prossime elezioni. Sulle prime agli egiziani avevano detto che questa doveva essere la marcia di un milione di persone fino al Palazzo di Kuba, residenza ufficiale di Mubarak a Heliopolis. Ma la folla era tale che gli organizzatori, che facevano capo a circa 24 gruppi di opposizione, hanno deciso che era troppo pericoloso esporsi alle cariche della polizia segreta. In seguito hanno detto di aver scoperto un furgone con a bordo uomini armati nei pressi di piazza Tahrir. Io ho visto solamente 30 sostenitori di Mubarak che urlavano a squarciagola il loro amore per l’Egitto davanti alla sede della radio sotto lo sguardo vigile di oltre 40 soldati.
Le urla di odio per Mubarak stanno diventando familiari e gli striscioni sempre piu’ interessanti. «Né Mubarak né Suleiman; non abbiamo bisogno di Obama - ma non ce l’abbiamo con gli Usa», diceva generosamente uno striscione. «Via tutti, compresi i vostri schiavi», diceva un altro. In un cortile sporco e malridotto ho visto dei ragazzi che con lo spray scrivevano su candide lenzuola rettangolari gli slogan politici per pochi centesimi. Le sale da te dietro la statua di Talat Harb erano affollate di gente che parlava di politica con la stessa passione che si vede nei dipinti orientalisti di Delacroix. Ma cosa era? L’inizio di una rivoluzione? O una rivolta? O una «esplosione» di rabbia come l’ha descritta un giornalista egiziano con il quale ho parlato? Questo avvenimento politico senza precedenti aveva alcuni elementi peculiari. Anzitutto lo spirito laico della manifestazione. Donne col chador, il niqab o il fazzoletto marciavano allegramente accanto a ragazze con i capelli lunghi sulle spalle, gli studenti camminavano accanto agli imam e ad uomini con barbe che avrebbero fatto morire di invidia Osama bin Laden. I poveri con i sandali logori e i ricchi vestiti da uomini d’affari si confondevano nella folla multicolore dando una rappresentazione grafica dell’Egitto diviso in classi e facendo pensare all’invidia sociale incoraggiata dal regime. Avevano fatto l’impossibile e, in un certo senso, la loro personale rivoluzione sociale l’avevano già fatta con pieno successo.
Poi c’era l’assenza dell’«islamismo» vero e proprio incubo dell’Occidente, incoraggiato ovviamente dall’America e da Israele. Mentre il mio cellulare continuava a squillare andava in onda la solita, vecchia storia. Tutti - giornalisti radiofonici, televisivi, redazioni - volevano sapere se dietro l’oceanica dimostrazione c’era la Fratellanza Musulmana. La Fratellanza avrebbe preso il potere in Egitto? Ho detto la verità. Erano scemenze. La «Fratellanza Musulmana» alle ultime elezioni ha preso il 20% dei voti e i membri dell’organizzazione sono 145.000 su una popolazione di oltre 80 milioni.
Una folla di egiziani che parlavano inglese si è raccolta intorno a me durante uno di questi imperdibili colloqui telefonici. Sono quasi caduti a terra dalle risate al punto che ho dovuto troncare la conversazione. Naturalmente non è servito a nulla spiegare intervenendo in diretta che il gentile e umanissimo ministro degli Esteri di Israele, Avigdor Lieberman - che una volta ha detto che “Mubarak puo’ andare all’inferno” - può finalmente ritirarsi dalla scena, politicamente intendo. La gente era travolta dagli eventi. E anche io. Mi trovavo all’incrocio dietro il Museo Egizio dove appena cinque giorni prima - mi sembravano passati cinque mesi - sono quasi morto soffocato per lacrimogeni. Fino ad allora nessuna parola di lode e sostegno da parte dell’Occidente per queste donne e questi uomini coraggiosi. E anche l’altro ieri non si è levata una voce per ringraziarli.
Sorprendentemente erano pochissimi i segni di ostilità nei confronti degli Stati Uniti malgrado le espressioni infelici di Obama e di Hillary Clinton negli otto giorni precedenti. Quasi dispiaceva per Obama. Se avesse sostenuto il tipo di democrazia che aveva predicato al Cairo sei mesi dopo la sua investitura, se avesse chiesto qualche giorno prima l’uscita di scena di questo dittatore di Serie C, la folla oltre alla bandiera egiziana avrebbe sventolato quella degli Stati Uniti e Washington avrebbe realizzato la missione impossibile: trasformare l’odio contro l’America (Afghanistan, Iraq, «guerra al terrore» e via dicendo) nel rapporto più disteso e amichevole che gli Usa ebbero negli anni ’20 e ’30 e, malgrado l’appoggio dato alla nascita di Israele, nel calore che caratterizzava le relazioni tra arabi e americani fino agli anni ’60.
Ma no. Queste possibilità’ sono andate perse in appena sette giorni di debolezza e codardia come quelli vissuti a Washington e che stridevano con il coraggio di milioni di egiziani che cercavano di fare quello che noi occidentali gli chiediamo sempre: trasformare una dittatura in democrazia. Loro volevano la democrazia. Noi volevamo la «stabilità», la «moderazione», la «misura», la leadership «forte», le «riforme» caute e i musulmani ubbidienti.
Il fallimento della leadership morale occidentale potrebbe rivelarsi una delle principali tragedie del Medio Oriente. L’Egitto non è anti-occidentale. Non è nemmeno particolarmente anti-israeliano anche se le cose potrebbero cambiare. La tragedia è che un presidente americano ha teso la mano al mondo islamico e poi ha mostrato il pugno quando quello stesso mondo islamico è sceso in piazza per combattere una dittatura e chiedere la democrazia.
Questa tragedia potrebbe proseguire nei giorni a venire nel caso in cui Stati Uniti e Unione Europea decidessero di appoggiare il successore designato di Mubarak, vale a dire il vicepresidente Omar Suleiman, capo dei servizi segreti e negoziatore con Israele. Suleiman ha detto di voler aprire un tavolo negoziale con «tutte le fazioni» - ha persino tentato di imitare Obama. Ma in Egitto tutti sanno che un suo eventuale governo sarebbe l’ennesima giunta militare che gli egiziani sarebbero chiamati ad ossequiare per ottenere quelle elezioni veramente libere che Mubarak non ha mai concesso. È possibile, è concepibile che il migliore amico di Israele in Egitto dia a questi milioni di egiziani la libertà e la democrazia che chiedono? È possibile che l’esercito appoggi acriticamente quella democrazia considerato che riceve da Washington la bella somma di 1,3 miliardi di dollari l’anno? Questa macchina militare, che non combatte una guerra da 38 anni, è sotto-addestrata e super-armata con armamenti per lo più obsoleti - anche se l’altro ieri si potevano ammirare i nuovi carri M1A1 - e vanta legami inestricabili con il giro degli alberghi e dei complessi residenziali di lusso, graziosi regali del regime Mubarak ai generali per premiare la loro fedelta».
E cosa facevano gli americani? Correva voce che i diplomatici americani fossero in viaggio per l’Egitto per presiedere il negoziato tra il futuro presidente Suleiman e i gruppi dell’opposizione. Correva anche voce che diversi soldati del corpo dei Marines fossero stati inviati in Egitto per difendere l’ambasciata americana da eventuali attacchi. Certo è che Obama alla fine ha detto a Mubarak di togliere il disturbo. Certo è che le famiglie americane sono state evacuate dal Marriott Hotel del Cairo e scortate da soldati e poliziotti egiziani all’aeroporto abbandonando un popolo che poteva benissimo essere amico dell’America.
(c) The Independent Traduzione di Carlo Antonio Biscotto
«S’avvera infine il sogno dei lunghi giorni di prigionia»
Parla la scrittrice rientrata in patria durante la rivolta contro l’oppressione. «Sono commossa Stiamo riscattando la nostra dignità calpestata»
di U.D.G.(l’Unità, 02.02.2011)
Questa Piazza piena di rabbia e di dignità l’avevo sognata da una vita. La speranza di una rivolta morale del mio popolo mi aveva tenuto compagnia nei lunghi giorni di carceri e nelle mie peregrinazioni all’estero. Non è la paura il sentimento predominante, ma la felicità. Sì, la felicità di poter vedere una rivoluzione, esserne una piccola parte, per questo non mi sono persa una manifestazione. Ora questa speranza si è fatta realtà. L’Egitto si è ribellato al despota, riscattando se stesso e una dignità calpestata da un regime che ha fallito sotto tutti i punti di vista. Per questo sono tornata in patria, per essere vicina alle donne e agli uomini che stanno scrivendo la storia dell’Egitto riappropriandosi del loro futuro».
Non trattiene la commozione Nawal El Saadawi, l’autrice egiziana femminista più conosciuta e premiata. I suoi scritti sono tradotti in più di trenta lingue in tutto il mondo. Per le sue battaglie in difesa dei diritti delle donne e per la democrazia nel mondo arabo, la scrittrice egiziana, 80 anni, fiera oppositrice del regime al potere, compare su una lista di condannati a morte emanata da alcune organizzazioni integraliste. L’Unità l’ha raggiunta telefonicamente al Cairo poco prima che la scrittrice si unisse alla marea umana che ha invaso le strade della capitale egiziana.
Come definirebbe ciò che sta scuotendo il suo Paese, l’Egitto?
«Una rivoluzione di popolo. Un popolo che si ribella al despota, che trasforma la rabbia accumulata in trent’anni di regime autoritario in energia positiva, in volontà di cambiamento. La piazza è unita. Non c’è distinzione tra laici e musulmani, destra o sinistra. Ora tutte le forze politiche di opposizione fanno a gara per essere alla guida del movimento, ma la verità è che si tratta di un movimento spontaneo, scaturito dalla ribellione della gente che si è unita insieme per chiedere la libertà, la giustizia sociale, la fine della corruzione, l’indipendenza e l’uguaglianza. Leggo che in Occidente ci si appassiona a individuare un leader, a indicare il possibile anti-Mubarak. È un approccio sbagliato che non tiene conto del vero dato di novità di questa rivoluzione popolare».
Quale sarebbe questo dato di novità?
«Sono i giovani. Sono loro i veri protagonisti. Scendendo in piazza si stanno riappropriando del loro futuro e di quello del Paese».
C’è chi teme una deriva integralista della rivolta...
«Sono gli stessi che hanno sempre difeso il regime di Mubarak come tutte le altre gerontocrazie arabe. L’America, l’Europa sapevano bene che il regime di Mubarak, come quello di Ben Ali o la satrapia oscurantista saudita facevano scempio dei diritti, affossavano ogni istanza di libertà, ma non importava, perché questi regimi “facevano argine al fondamentalismo”. Una visione miope, che ora si vorrebbe rilanciare facendo credere che chi si sta battendo per la libertà non fa che il gioco dei Fratelli musulmani. Si sbagliano e di grosso. Certo, tra i manifestanti c’è chi simpatizza per loro, ma la verità è che all’inizio la Fratellanza Musulmana vedeva con diffidenza questo movimento, che aveva imposto priorità che si discostano totalmente da quelle dei fondamentalisti. La gente lo sa e per questo saprà custodire gelosamente la sua rivoluzione».
Quale ruolo hanno le donne egiziane in questa rivoluzione?
«Ne sono parte attiva, soprattutto le ragazze. Ed è l’altro aspetto incoraggiante di questa rivolta. ll regime ci ha tolto molti diritti dopo l’ultima rivoluzione egiziana. A loro e a me stessa dico di restare vigili e imparare la lezione del passato. Abbattere una tirannia è importante ma lo è altrettanto edificare sulle sue macerie qualcosa di diverso anche in termini di superamento di una società patriarcale. Il nuovo Egitto potrà definirsi compiutamente tale se realizzerà una vera parità tra i sessi».
Quale contributo può venire dall’Europa?
«Più che i governi è importante oggi che si manifesti l’opinione pubblica. È importante dimostrare una vicinanza alla gente egiziana, far vedere che non è sola, che in Europa si è compresa la portata storica di questa rivoluzione e si sta dalla sua parte».
Cosa rappresenta oggi Hosni Mubarak?
«Il passato che non vuol passare, restando legato al potere con ogni mezzo. Ma la sua uscita di scena è ormai nelle cose. L’Egitto non lo rimpiangerà. Il suo regno sta sprofondando».
EGITTO
Obama duro con Mubarak "La transizione cominci ora"
Telefonata del presidente Usa all’omologo egiziano poi il discorso in tv in cui si è rivolto ai giovani del Cairo: "Noi ascoltiamo la vostra voce" *
NEW YORK - "La transizione comici ora": non è stato un appello, è stato un ordine quello che il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha dato oggi da Washington al presidente dell’Egitto, Hosni Mubarak. In un intervento attesissimo, e durato solo quattro minuti, Obama ha pesato con estrema cautela ogni singola parola della sua dichiarazione. Ma nei confronti di Mubarak è stato chiarissimo: il suo discorso televisivo per quanto importante non è stato sufficiente, e gli Stati Uniti si aspettano che "la transizione cominci ora, subito".
"Anche il presidente Mubarak ha riconosciuto che lo status quo (in Egitto) non è sostenibile e che serve un cambiamento - ha affermato Obama -. Per l’Egitto si è aperto un capitolo nuovo", Mubarak deve prenderne atto e garantire "subito" una transizione ordinata e pacifica. Per gli Usa non è una questione di mesi, come lasciato intendere da Mubarak nel suo intervento, è una questione di settimane, di giorni.
Obama aveva seguito il discorso di Mubarak dalla Situation Room della Casa Bianca, dove aveva convocato una riunione speciale del suo consiglio di sicurezza per valutare la situazione in Egitto, presenti tra gli altri il segretario di Stato, Hillary Clinton. Dopo aver assistito al discorso di Mubarak, Obama ha avuto con lui un discorso di mezz’ora. Poi si è presentato in tv, e ha parlato in primo luogo all’America, ma ben consapevole che il suo pubblico in quel momento non era solo l’Egitto, ma l’intero Medio oriente. Il presidente Usa non ha riferito cosa i due leader si siano detti. Ma ha riferito che "lo stesso Mubarak ha riconosciuto che lo staus quo non è sostenibile e che serve un cambiamento". L’unica via d’uscita per lui è una iniziativa "immediata".
Non spetta agli Stati Uniti indicare quale "il cambiamento" possa essere, ha precisato Obama. Ma di certo deve essere chiaro a tutti, tanto all’Egitto quanto a tutto il Medio Oriente, che gli Stati Uniti sono schierati a difesa "di tutti i diritti universali" e contro i violenti. Obama si è congratulato per la professionalità dimostrata finora dall’esercito egiziano, e ha auspicato che "continui così". Poi ha così concluso: "ai tanti giovani che sono in piazza in Egitto in questi giorni vorrei dire che noi americani ascoltiamo la vostra voce".
È stata Hillary Clinton, che fino a una settimana fa aveva sostenuto che Mubarak era "stabile", a proporre a Obama l’invio in Egitto di Wisner risolvi-problemi, il diplomatico che già per Bush aveva negoziato l’indipendenza del Kosovo. Solo Wisner, amico di Mubarak e con molti agganci in Egitto, poteva recapitare il messaggio del presidente Nobel per la pace, che teme una Tienanmen araba: "Per gli Usa" ha detto "la tua presidenza è finita". Qualche ora prima, anche Benjamin Netanyahu aveva dato il benservito al vicino più prezioso, esortando la "la comunità internazionale a esigere il rispetto della pace con Israele da qualsiasi governo egiziano".
* la Repubblica, 02 febbraio 2011
Mubarak: "Non mi ricandiderò" Due milioni in piazza al Cairo
Il rais parla al Paese e annuncia che resterà in carica fino alle prossime elezioni e poi non si presenterà. In tal senso è arrivata anche una richiesta di Obama. El Baradei gli chiede di lasciare il potere entro venerdì e offre un salvacondotto. Centinaia di migliaia di manifestanti a piazza Tahrir, l’esercito non interviene. Per l’Onu il bilancio dei morti dall’inizio dei disordini è di 300 persone *
IL CAIRO - Al termine di una giornata di proteste massicce e pacifiche, con le piazze del Cairo piene di centinaia di migliaia di egiziani che hanno risposto all’appello per la "marcia del milione", il presidente Hosni Mubarak cede alle pressioni e annuncia in un discorso al Paese che rimarrà in carica fino alle prossime elezioni e poi non si ricandiderà. Il successo della manifestazione ha spinto il premio Nobel Mohammed El Baradei a chiedere al presidente di lasciare il potere al massimo entro venerdì. Nonostante le misure prese dalle autorità per impedire le mobilitazioni di massa - interruzione dei collegamenti ferroviari e aerei, e dei servizi internet - piazza Tahrir al Cairo era completamente piena. Secondo fonti locali nel luogo simbolo della sollevazione popolare contro il regime di Mubarak si sono radunate oggi due milioni di persone. E a migliaia gli egiziani sono scesi in piazza anche ad Alessandria e Suez. Si aggrava intanto il bilancio delle vittime: sono almeno 300 i morti dall’inizio dei disordini secondo Navi Pillay, alto commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani.
Obama a Mubarak: "Non si ricandidi". Il presidente degli Stati Uniti Barack Obama avrebbe chiesto a Mubarak di non ripresentarsi alla guida del Paese e di preparare il terreno per una "transizione ordinata". Un invito che toglierebbe ufficialmente il sostegno Usa al suo alleato arabo. Lo ha reso noto il New York Times, citando fonti diplomatiche americane di Washington e del Cairo. Secondo il NYT, il messaggio di Obama non sarebbe stata "una richiesta perentoria" ma un "fermo consiglio", per avviare un processo di riforme in Egitto che porti a elezioni "libere e giuste" entro il prossimo settembre. Il messaggio del presidente USA è stato portato personalmente al presidente egiziano dall’inviato speciale americano al Cairo, l’ambasciatore Frank G. Wisner.
El Baradei: "Stiamo per voltare pagina". E’ da piazza Tahrir, al Cairo, che arriva l’ultimatum al raìs: "Se non oggi, se ne vada al massimo venerdì" ha chiesto l’ex capo dell’Aiea a cui la frammentata opposizione egiziana ha dato il ruolo di portavoce. El Baradei ha invitato Mubarak a "lasciare" il Paese offrendogli un salvacondotto. "Stiamo per voltare pagina, possiamo perdonare il passato", ha chiarito. L’esercito ha mantenuto l’impegno annunciato ieri di non voler utilizzare la forza contro i manifestanti, ritenendo legittime le rivendicazioni, e non si sono avuti incidenti. Anche i magistrati sono scesi a manifestare "per chiedere un nuovo Egitto e reclamare uguali diritti per cristiani e musulmani". Slogan di protesta scanditi ovunque a gran voce, sovrastati dal rumore degli elicotteri che hanno sorvolato le vie del centro della capitale. Anche il resto del Paese si è mobilitato: ad Alessandria, la seconda città più grande dell’Egitto, migliaia di persone si sono raccolte alla stazione ferroviaria per cercare di raggiungere il Cairo. Ad al-Arish, 250mila persone che volevano partire per la capitale sono state bloccate. Nuove proteste si sono registrate anche a Mansura, Demiat, Damenhur, Menia e Al Kubra. A sostegno dei manifestanti in Egitto si è espresso il premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi: "Siamo con voi" ha detto la leader dell’opposizione birmana.
Opposizione rifiuta il dialogo con Mubarak. Forte del sostegno popolare, il Comitato che raccoglie i movimenti di opposizione ha rifiutato le aperture al dialogo del governo e ha rimandato qualsiasi negoziato al dopo-Mubarak, di fatto abbandonato da Stati Uniti ed esercito, i due principali pilastri del suo regime. Nella mattinata si è svolto anche un vertice dei principali gruppi dell’opposizione che ha bocciato la proposta di dialogo avanzata dal presidente. I Fratelli Musulmani, la principale forza islamista, hanno chiesto al presidente della Corte Costituzionale, Faruk Sultan, di destituire Mubarak. La roadmap immaginata dalle opposizioni, dopo la partenza di Mubarak e lo scioglimento del Parlamento, prevede una serie di tappe serrate: la formazione di un governo di unità nazionale poi il voto, la riforma della Costituzione, e nuove elezioni presidenziali.
Amr Moussa e Zewail possibili candidati alla successione. Alla rosa dei possibili candidati per guidare la transizione "ordinata e pacifica" auspicata dalla Casa Bianca si aggiunge anche il segretario uscente della Lega Araba, Amr Moussa, il cui mandato scade fra due mesi; l’ex ministro degli Esteri si è detto disposto a "servire il Paese in qualunque capacità", pur non sbilanciandosi sull’uscita di scena di Mubarak e sottolineando di non "aspirare alla leadership". Per domani è atteso anche l’arrivo in Egitto di Ahmed Zewail, premio Nobel per la chimica, ed altro possibile candidato alla successione del rais. I fratelli musulmani, il gruppo più numeroso dell’opposizione, hanno sottolineato come la priorità del dopo-Mubarak debba essere data all’organizzazione di nuove elezioni legislative, rimandando a una data successiva i negoziati sulla successione del rais. Rimane da vedere quale sarà l’effettiva posizione politica dell’esercito, di fatto al potere dai tempi di Nasser e difficilmente disposto a cedere il passo all’opposizione islamica, anche per timore di perdere i consistenti aiuti militari statunitensi.
Farnesina: Emergenza non è finita. Rimane alto l’allarme sicurezza nel Paese. L’ambasciatore italiano Claudio Pacifico sconsiglia vivamente i viaggi in Egitto e ricorda che anche nelle zone che in questo momento appaiono più tranquille, grazie all’intervento dell’esercito, "la situazione potrebbe cambiare" nel giro di poche ore. Nel Mar Rosso, altra popolarissima destinazione turistica, la situazione appare più tranquilla, ha sottolineato il capo dell’unità di crisi della Farnesina Fabrizio Romano, ricordando agli italiani che si trovano in Egitto la necessità di prestare la "massima prudenza e di tenersi in contatto con l’ambasciata al Cairo e l’unità di crisi". L’emergenza è tutt’altro che finita, ribadisce anche la Farnesina.
Unesco: Proteggere i tesori artistici. L’Unesco lancia un sos per i tesori artistici, l’inestimabile patrimonio custodito nel Paese, che va protetto. Il direttore generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per la Scienza, l’Educazione e la Cultura (Unesco) Irina Bokova ha chiesto oggi l’adozione di tutte le misure di sicurezza necessarie a garantire la tutela dei tesori egizi custoditi al museo del Cairo e di quelli che si trovano a Luxor e negli altri luoghi d’arte del paese. "Il valore dei 120mila pezzi del museo è incalcolabile, non solo dal punto di vista scientifico ed economico", ha sottolineato la Bokova. "Chiedo espressamente che vengano adottate tutte le misure necessarie a tutelare tutti i tesori egizi del Cairo, Luxor e delle altre città storiche".
Rete bloccata ma Google supera la censura. Comunicare con internet e social network nel Paese è molto difficile, a tratti impossibile, ma Google ha ideato un modo per aggirare la censura, collaborando con Twitter. E’ stato organizzato un sistema che permette agli egiziani di inviare messaggi nel sito di microblog attraverso i telefoni cellulari, aggirando il blocco di internet. Messaggi che vengono lasciati registrati su una segreteria telefonica e poi trascritti in post su Twitter, permettendo così di aggiornare sulla situazione nel Paese in tempo reale, senza dover usare la rete.
Proteste si allargano a Siria, Yemen e Giordania. La pressione della piazza si fa sentire anche fuori dei confini egiziani. Il re di Giordania, Abdallah II, ha nominato un nuovo premier con l’incarico di realizzare "vere riforme", dopo le proteste svoltesi nel regno hascemita sull’onda lunga delle rivolte nei Paesi nordafricani. Alla guida del governo è stato chiamato Marouf Bakhit. Per giovedì è stata indetta in Yemen una "giornata della collera" analoga a quelle egiziane, mentre su Facebook si moltiplicano gli appelli a manifestare in Siria venerdì prossimo dopo la preghiera settimanale islamica contro "la monocrazia, la corruzione e la tirannia".
* la Repubblica, 01 febbraio 2011
IL REGIME SOTTO ASSEDIO
L’Egitto in marcia: due milioni
per l’ultima spallata a Mubarak
La fuga degli stranieri dal Cairo.
L’Onu: "Trecento morti da inizio
protesta".
El Baradei sfida il Rais:
"Entro venerdì si deve dimettere" *
L’opposizione egiziana tenta la spallata finale al regime di Mubarak. Per le vie del Cairo due milioni di persone sono scese in strada (anche se altre fonti fornisconoi numeri inferiori). Mohamed El Baradei ha detto che il dialogo sarà possibile solo dopo che il presidente Hosni Mubarak avrà abbandonato il potere. E ha ribadito, deve andarsene entro venerdì.
L’assembramento a piazza Tahrir è tale che non c’è quasi angolo nel quale ci si possa fermare senza essere spinti da flussi di uomini e donne che si muovono per raggiungere amici o gruppi fermi per ascoltare comizi improvvisati di varia natura. Da quello di giovani che continuano a chiedere libertà e caduta del regime di Mubarak, ad altri secondo i quali quello che è successo in questi giorni non può non convincere i potenti del mondo che Mubarak e i suoi uomini devono andarsene; al piccolo gruppo di shelkh dell’università-moschea Al Azhar, il maggior centro teologico dell’islam sunnita, riconoscibili per i loro camicioni marroni, che scandiscono slogan contro il presidente egiziano.
Nel cielo un elicottero Ghazelle bianco, meno rumoroso di quelli militari russi dei giorni scorsi, sorvola la piazza ripetutamente. L’esercito che regola l’afflusso delle persone sembra abbia cominciato a cercare di convincere i manifestanti ad evitare una marcia annunciata verso il palazzo presidenziale di Heliopolis perchè un così gran numero di persone - qualcuno suggerisce la cifra di 800 mila - creerebbe grande difficoltà in città. Il bilancio delle vittime intanto si aggrava. L’Onu fa la conta dei morti dall’inizio della protesta. Navi Pillay si è dichiarata «profondamente allarmata dal numero crescente delle vittime» in Egitto, in preda a manifestazioni senza precedenti. «Il numero di vittime aumenta ogni giorno e alcune relazioni non confermate suggeriscono che 300 persone potrebbero essere state uccise, più di 3mila persone ferite e centinaia arrestate» ha precisato, citata in un comunicato «Chiedo con urgenza alle autorità egiziane di assicurarsi che la polizia e le altre forze di sicurezza evitino scrupolosamente l’impiego della forza».
Intanto continua la fuga dei cittadini stranieri dalle localita turistiche dell’Egitto, dei tanti dipendenti con famiglie di aziende straniere ma anche di cittadini egiziani impauriti. Ieri Mubarak ha annunciato la composizione di un nuovo governo, con la sostituzione del ministro degli Interni, Habib el-Adli, fra i politici più contestati dai manifestanti. Del nuovo gabinetto non fanno parte ministri provenienti dal mondo degli affari, considerati troppo vicini al figlio del capo di stato, Gamal Moubarak, figura particolarmente invisa al popolo egiziano. I fratelli Musulmani, la più influente forza di opposizione, ha bocciato il nuovo esecutivo e chiesto alla gente di manifestare «perché tutto il regime - presidente, partiti, ministri e parlamento - lascino il potere». Nel corso della notte ancora migliaia di persone hanno sfidato il freddo e il coprifuoco e sono rimaste accampate nella principale piazza del Cairo, piazza Tahrir, divenuta il fulcro della protesta. Il traffico ferroviario ieri è stato sospeso, rendendo impossibile viaggiare verso la capitale. Per diffondere l’invito alla marcia del milione, si conta sul passaparola, poiché sia internet che i messaggi sui cellulari sono ancora fortemente perturbati.
Per aiutare gli egiziani «a restare connessi in questo periodo molto difficile», Google e Twitter hanno deciso di collaborare per mettere in funzione un sistema che permetta di inviare messaggi sui siti di microblog per telefono, senza connessione a internet. Sul fronte internazionale, ieri i capi delle diplomazie dei Ventisette, riuniti nel Consiglio Affari esteri dell’Ue, hanno raggiunto un accordo sul testo di una dichiarazione comune sulla situazione in Egitto, in cui si chiede con urgenza alle autorità del Cairo di "intraprendere una transizione ordinata verso un governo con base ampia, che conduca a un processo di riforme democratiche, con il pieno rispetto dei diritti umani, delle libertà fondamentali e dello stato di diritto, che spiani la strada a elezioni libere ed eque " Da oltreatlantico, la posizione della Casa Bianca espressa dal portavoce Robert Gibbs rimane ufficialemente equidistante: «Non sta a noi decidere se il governo ha raccolto le richieste del popolo egiziano». Ma mentre Gibbs parlava fonti della Casa Bianca riferivano che l’amministrazione Usa stava facendo pressione su Mubarak perché non si candidi alle elezioni presidenziali già in programma per settembre.
* La Stampa, 01/02/2011
Emma Bonino: «L’Occidente parla di democrazia ma appoggia i regimi autoritari»
di Cecilia Zecchinelli (Corriere della Sera, 01.02.2011)
«La libertà e i diritti civili e politici sono valori universali a cui tutti i popoli, senza distinzioni, legittimamente aspirano. E se la prima responsabilità di quanto avviene in Egitto e Tunisia e potrebbe accadere in Algeria, Giordania o Sudan è di quei regimi, la seconda è delle democrazie occidentali per il loro sostegno acritico ai governi più autoritari, in nome della "stabilità"» . E’ su questo punto che insiste Emma Bonino, vicepresidente del Senato, radicale, attivista per i diritti umani, che ha vissuto a lungo al Cairo e ha poi continuato a seguire l’evoluzione (involuzione) della società egiziana.
Come si è arrivati a queste sollevazioni?
«Era impossibile prevedere il giorno esatto, ma una pentola a pressione senza valvola di sfogo per forza esplode. La stragrande maggioranza dei nostri diplomatici, politici, esperti, giornalisti non l’avevano capito perché non conoscono l’arabo, in missione incontrano solo l’establishment, pensano che democrazia e stato di diritto siano esclusive dell’Occidente, il che è stato ed è una forma di paternalismo deleterio e di razzismo. Ce lo ricordava Amartya Sen nel suo libro "Libertà come sviluppo", troppo presto dimenticato. Lo sosteneva Kofi Annan, e veniva preso per pazzo» .
Come spiega questa posizione?
«L’Occidente ha sempre sostenuto dittatori corrotti e sanguinari, da Amin Dada a Bokassa, prima in chiave anti-comunista, poi in quella anti-terrorismo e anti-qaedista. Ora siamo tornati alla Realpolitik tradizionale, basta essere pro libero mercato per essere "affidabili". Una politica miope che ha spianato la strada agli estremismi e paradossalmente sacrificato una stabilità più durevole in cambio di una a corto respiro. E poi noi occidentali abbiamo questa malattia congenita di preferire l’uomo forte a forti istituzioni» .
Vale per Usa, Europa, Italia?
«Ancora in questi giorni abbiamo sentito dalla Clinton ai francesi, con particolare cinismo, puntare sulla sopravvivenza dei vari raìs, invocando magari la loro "saggezza e lungimiranza", come ha fatto Frattini, senza prendere minimamente in considerazione le legittime rivendicazioni di quei popoli. Ma l’America di Obama è impegnata a uscire dalla crisi economica e dall’eredità di Bush, guarda all’Asia. Per l’Europa è diverso» .
Cosa rimprovera all’Europa? E all’Italia?
«Di continuare a chiudere la porta in faccia alla Turchia, di essere disattenti verso la sponda Sud del Mediterraneo, nonostante iniziative grandiose e velleitarie come il Processo di Barcellona e l’Unione per il Mediterraneo, di rinunciare a ogni iniziativa in Medio Oriente per "due popoli, una democrazia...", magari favorendo l’entrata di Israele nell’Ue, di predicare mentre calpesta i diritti delle minoranze e degli immigrati ed è in corso una vera crisi della e delle democrazie. E l’Italia non fa nemmeno una scelta europea, ma preferisce i Putin e i Gheddafi. Vuole la Turchia nell’Ue ma è poco determinata nel promuoverlo, anche se questo governo appoggia le nostre lotte, ad esempio, contro la pena di morte e le mutilazioni delle bambine» .
In questa lotta lei ha lavorato con Suzanne Mubarak.
«Perché non ho paura di dialogare con chicchessia per promuovere aperture, difendere i diritti delle donne, portare avanti i valori di democrazia. In Egitto, ad esempio, la lotta contro le mutilazioni ha successo perché le donne hanno una grandissima vitalità che molti da noi non vedono. La leadership resta maschile, non è la Svezia, ma soprattutto le giovani partecipano alle proteste, si fanno sentire» .
Come vede la transizione in Egitto e Tunisia?
«Difficile, complessa, piena di rischi: tutto farei tranne elezioni rapide, non dobbiamo ripetere gli errori fatti in Afghanistan pensando di esportare la democrazia sui missili cruise e dopo la distruzione andando alle urne. Poco importa la persona, ElBaradei o un altro, prima va attuata una vera trasformazione. Ci sono molti rischi ma anche opportunità» . E in sintesi cosa chiede a Europa e Usa? «Di ripensare le loro politiche, tenendo sempre in mente che la democrazia sta sempre dalla parte giusta della Storia» .
IL REGIME SOTTO ASSEDIO
Egitto in marcia per l’ultima spallata
L’obiettivo: un milione in piazza *
L’Egitto si prepara oggi allo sciopero generale e alla "marcia del milione". L’obiettivo dichiarato è quello di far scendere in strada un milione di persone al Cairo, ad Alessandria e nella altre città egiziane, per esigere la fine del regime di Hosni Mubarak. Ieri l’esercito in un comunicato ha definito "legittime" le richieste dei manifestanti e ha promesso che non userà la violenza per reprimere le manifestazioni. Il vicepresidente Omar Suleiman ha detto di aver ricevuto dal presidente l’incarico di avviare un dialogo immediato con l’opposizione "in merito a tutte le questioni legate alle riforme costituzionali e legislative".
Intanto continua la fuga dei cittadini stranieri dalle localita turistiche dell’Egitto, dei tanti dipendenti con famiglie di aziende straniere ma anche di cittadini egiziani impauriti. Ieri Mubarak ha annunciato la composizione di un nuovo governo, con la sostituzione del ministro degli Interni, Habib el-Adli, fra i politici più contestati dai manifestanti. Del nuovo gabinetto non fanno parte ministri provenienti dal mondo degli affari, considerati troppo vicini al figlio del capo di stato, Gamal Moubarak, figura particolarmente invisa al popolo egiziano. I fratelli Musulmani, la più influente forza di opposizione, ha bocciato il nuovo esecutivo e chiesto alla gente di manifestare "perché tutto il regime - presidente, partiti, ministri e parlamento - lascino il potere". Nel corso della notte ancora migliaia di persone hanno sfidato il freddo e il coprifuoco e sono rimaste accampate nella principale piazza del Cairo, piazza Tahrir, divenuta il fulcro della protesta. Il traffico ferroviario ieri è stato sospeso, rendendo impossibile viaggiare verso la capitale. Per diffondere l’invito alla "marcia del milione, si conta sul passaparola, poiché sia internet che i messaggi sui cellulari sono ancora fortemente perturbati.
Per aiutare gli egiziani "a restare connessi in questo periodo molto difficile", Google e Twitter hanno deciso di collaborare per mettere in funzione un sistema che permetta di inviare messaggi sui siti di microblog per telefono, senza connessione a internet. Sul fronte internazionale, ieri i capi delle diplomazie dei Ventisette, riuniti nel Consiglio Affari esteri dell’Ue, hanno raggiunto un accordo sul testo di una dichiarazione comune sulla situazione in Egitto, in cui si chiede con urgenza alle autorità del Cairo di "intraprendere una transizione ordinata verso un governo con base ampia, che conduca a un processo di riforme democratiche, con il pieno rispetto dei diritti umani, delle libertà fondamentali e dello stato di diritto, che spiani la strada a elezioni libere ed eque " Da oltreatlantico, la posizione della Casa Bianca espressa dal portavoce Robert Gibbs rimane ufficialemente equidistante: "Non sta a noi decidere se il governo ha raccolto le richieste del popolo egiziano". Ma mentre Gibbs parlava fonti della Casa Bianca riferivano che l’amministrazione Usa stava facendo pressione su Mubarak perché non si candidi alle elezioni presidenziali già in programma per settembre.
* La Stampa, 01/02/2011
Egitto, da oggi sciopero generale
E Mubarak apre alle opposizioni
Nuovo appello per una marcia
di protesta contro il regime:
"Domani un milione in piazza" *
Nel settimo giorno delle proteste contro il presidente egiziano, Hosni Mubarak, i manifestanti che anche questa notte hanno presidiato piazza Tahrir invocano uno «sciopero generale» a tempo determinato a partire da oggi e una «marcia di milioni di persone» per domani. Secondo il giornale governativo al Ahram, Mubarak avrebbe chiesto al primo ministro Ahmed Shafik di mettersi in contatto con le opposizioni.
Dopo la presa di distanze di Obama Israele ha inviato un messaggio confidenziale agli Stati Uniti e ad alcuni Paesi membri dell’Unione europea affinchè frenino le loro critiche al presidente egiziano Hosni Mubarak per preservare la stabilità della regione. L’obiettivo di Gerusalemme è quello di convincere i suoi alleati che è nell’interesse dell’Occidente mantenere la stabilità del regime egiziano. Una presa di posizione, quella del governo di Benjamin Netanyahu, che segue la svolta di Washington, con il presidente Barak Obama che ha chiesto al Cairo una «transizione ordinata verso la democrazia» e spinto Mubarak a lasciare il potere. Israele ha mantenuto un basso profilo riguardo agli eventi egiziani, tanto che Netanyahu ha ordinato ai suoi ministri di evitare commenti pubblici in merito.
Oggi i ministri degli Esteri dell’Unione europea discuteranno la questione dell’Egitto in una sessione speciale a Bruxelles. «Gli americani e gli europei sono stati trascinati dalla loro opinione pubblica e non stanno considerando gli inetressi reali», ha detto un alto funzionario egiziano citato da Haaretz. «Anche se sono critici nei confronti di Mubarak, devono far sentire ai loro amici che non sono soli. La Giordania e l’Arabia Saudita vedono le reazioni in Occidente, dove tutti stanno abbandonando Mubarak, e questo avrà conseguenze serie».
Intanto sono diversi i Paesi che si stanno adoperando per evacuare i loro connazionali dall’Egitto, dove oggi si tiene il settimo giorno di protesta contro il governo di Hosni Mubarak. Canada, Cina, Giappone, Iraq, Kuwait, Turchia e altri Stati hanno annunciato che invieranno voli charter per portare i propri cittadini fuori dall’Egitto, dove oltre 150 persone sono rimaste vittime della rivolta e migliaia di altre sono state ferite. Il ministro degli Esteri del Canada, Lawrence Cannon, ha detto che il suo «governo raccomanda ai canadesi di andarsene. Il governo ha piani di evacuazione per i cittadini canadesi in Egitto che vogliono partire». Il ministro canadese ha anche chiesto a Mubarak di «ascoltare le aspirazioni del popolo egiziano». Oggi la stazione centrale della tv cinese ha detto che anche Pechino ha inviato un volo della Air China al Cairo «per riportare a casa i turisti cinesi che si trovano all’aeroporto».
Il Giappone ha invece deciso di inviare oggi tre voli charter per portare i propri concittadini dal Cairo a Roma, come ha spiegato un funzionario del ministero degli Esteri di Tokyo. Sono circa cinquecento i giapponesi rifugiati all’aeroporto internazionale del Cairo da quando sono iniziate le proteste anti Mubarak. Il governo turco ha inviati ieri tre aerei al Cairo e due ad Alessandria per far rientrare i suoi connazionali. Intanto, negli scali aeroportuali del Cairo, restano numerosi cittadini in attesa di partire per l’Europa o per altre destinazioni.
* La Stampa, 31.01.2011