IL CASO
Le "violenze" di oggi rischiano di far dimenticare la tradizione di "dialogo" con l’Occidente, come dimostra l’opera del grande poeta.
Indù e cristiani: il "modello" è Tagore
Dal "Subcontinente" non proviene solo la via del "vuoto cosmico", ma anche quella "mistica", capace di attingere senza "gelosie" al patrimonio del Vangelo.
di Roberto Mussapi*
La terribile "escalation" di violenza verso i cristiani da parte di "fondamentalisti" dell’induismo colpisce come un evento sorprendente e "spettrale": non siamo abituati, intendo nel nostro "inconscio", ad associare la violenza a quel mondo religioso.
Non siamo abituati poi ad abbinare a tutto ciò che è indiano, anche "rigorosamente" indiano, alcuna "valenza" aggressiva e crudele. Comprensibile: l’immagine dominante dell’India è quella di Gandhi, uno dei più grandi uomini di pace dell’età moderna, e lo spirito religioso indiano ci appare marcato semmai da un eccesso di "sopportazione" della sofferenza piuttosto che da un minimo "conato" di ribellione.
Questo sano e positivo "pregiudizio" è fondato, ripeto, oltre che auspicabile: è sempre meglio pensare bene degli altri, a priori, che "condannarli" in anticipo. Ma la realtà storica è più complessa.
Salgari aveva capito alcune cose dell’India, che Gandhi col suo "carisma" fece dimenticare. Esistono però precedenti positivi, ricchi, a cui fare riferimento. L’incontro tra i due "mondi", quello indiano e quello occidentale, quello induista e quello cristiano, ha conosciuto momenti di grande felicità: non si parla di "sintesi", ma di "dialogo", non di "fusione" ma di reciproco "abbraccio", come si abbracciano due esseri diversi ma spinti dallo stesso "impulso".
Uno di questi momenti è non a caso espresso nell’opera di un poeta, il più famoso dell’India "moderna", e suona quasi naturale che la poesia si faccia carico della "coincidenza" degli opposti, dell’accostamento altrimenti arduo se non impossibile, del "bacio" che supera le distinzioni che il pensiero astratto tende, necessariamente, a ribadire.
Rabindranath Tagore (1861-1941) fu un grande poeta, uno scrittore e pensatore "versatile" e completo, un "mistico" capace di una visione "monoteista" e "riformista" nell’orizzonte dell’induismo, nel quale espresse una forma di poesia amorosa di straordinaria "effusività".
"Premio Nobel per la Letteratura" nel 1913, leggendario "lirico" d’amore e natura, autore di Saggi su "Dante e Beatrice", "Petrarca e Laura", Tagore entra nel cuore della "lirica" d’amore occidentale e ne sviluppa le profonde implicazioni "mistiche". Il grande "cosmo" dell’eternità induista vibra di passioni attinte tanto a quella tradizione spirituale quanto al nostro patrimonio occidentale.
Il grande "storico delle religioni" Mircea Eliade, nel primo viaggio che lo portò ai misteri e alle conoscenze dell’India, chiese a Tagore che cosa quel mondo poteva insegnare a noi, e il poeta rispose che poteva aiutarci a capire come vivere, come opporsi alla morte. L’India poteva insegnare una "via", non una "verità".
Così, il poeta che aveva accanitamente studiato i versi inglesi di Shelley e Keats, e che sarebbe stato amato e pubblicato dall’irlandese W. B. Yeats, riassumeva un incontro tra due "mondi" nella semplicità "inarrivabile" della poesia: la suprema espressione umana della necessità di amore. La tradizione indiana, dominata dalla percezione dell’"immateriale", e quella cristiana, segnata dall’"incarnazione", si fondono nei suoi versi in un ulteriore, felice "paradosso":
È difficile percepire in questa poesia di "commiato" dalla vita terrena uno "spirito" esclusivamente induista: impossibile non cogliere nel "timoniere" una presenza "cristica", che fu "incarnata", lontana dal potere "svuotante" di un "nulla" assoluto.
Il riferimento a Cristo dell’induista Tagore non è "metaforico", "allusivo", ma diretto:
Straordinarie "affinità" con un altro grande poeta del nostro tempo. Mario Luzi, occidentale e cattolico, che trovò nell’induismo e nell’India forti temi di riflessione e di ispirazione "mistica". Di fronte a ogni morto, in India, in questi giorni, domandiamoci se la poesia sia - come ci insegnano scuola, "mass media" e "cultura televisiva" - un "optional", o qualcosa di potenzialmente simile a una "medicina".
*Fonte: Avvenire, 05.09.2008 (ripresa parziale).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Cultura e religiosità. Scritti di metapsicologia...
IDENTIFICARSI CON CRISTO PER SUPERARE EDIPO. "Frammento inedito" (1931) di Sigmund Freud
USCIRE DALLA PREISTORIA, E DALLA "COSMOTEANDRIA"! In principio era il Logos ("Deus charitas") - non il "Logo" ("Deus caritas est": Benedetto XVI, 2006) dell’Imperatore cattolico-romano!!!
IL GRANDE PERICOLO E’ IL MONOTEISMO. RAIMON PANIKKAR DENUNCIA LA DIMENSIONE PREISTORICA DEL DISCORSO SULLA "VERITA’ ASSOLUTA" E SUL "DIO" DELLE GERARCHIE DELLE RELIGIONI RIVELATE - a partire dalla gerarchia della chiesa cattolico-romana.
FLS
INDIA
"Stop alle violenze"
di Agenzia NEV del 5-9-2008
Lo chiedono al Primo ministro indiano i leader cristiani Samuel Kobia e Ishmael Noko.
Adesione alla Giornata di preghiera e digiuno
indetta per il 7 settembre dal Forum nazionale cristiano unito dell’India.
Roma, 5 settembre 2008 (NEV-CS59) - "Un’immediata cessazione delle violenze, il ripristino dello stato di diritto, e rifugio per gli sfollati" in Orissa (India). È quanto hanno chiesto in una lettera al Premier indiano Manmohan Singh, due tra i massimi leader religiosi cristiani i cui organismi hanno sede a Ginevra (CH): Samuel Kobia, segretario generale del Consiglio ecumenico delle chiese (CEC), e Ishmael Noko, segretario generale della Federazione luterana mondiale (FLM).
Secondo informazioni pervenute da chiese membro in India appartenenti ai due organismi, sembrerebbero continuare indiscriminatamente uccisioni di persone e incendi di chiese soprattutto nei distretti di Gajapati e Khandamal, e in altre parti di Orissa.
Secondo quanto riferito dal segretario esecutivo della Chiesa evangelica luterana unita in India, il pastore Augustine Jeyakumar, "gruppi fondamentalisti passano al setaccio i villaggi distruggendo chiese, incendiando case, attaccando ed uccidendo cristiani".
Intanto Kobia e Noko hanno invitato tutte le chiese membro nel mondo a partecipare alla giornata di preghiera e digiuno in solidarietà con le vittime di Orissa indetta dal Forum nazionale cristiano unito dell’India per domenica 7 settembre.
I cristiani in India sono tra il 3% e il 6% della popolazione. Tra i gruppi maggiormente rappresentati quelli appartenenti al Consiglio nazionale delle chiese (evangelici, anglicani, ortodossi), alla Chiesa cattolica, e ai gruppi e alle comunità facenti riferimento alla Comunione evangelicale dell’India. In anni recenti questi tre gruppi hanno aumentato significativamente la collaborazione tra loro.
Contro i teocon
Un pamphlet di Michele Martelli accusa la gerarchia ecclesiastica di voler dettare legge in ogni settore della vita pubblica
Se anche Dio entra in politica
La Chiesa e la democrazia: un relativismo che si vergogna di se stesso
di Giulio Giorello (Corriere della Sera, 06.09.2008)
S’intitola Quando Dio entra in politica (Fazi, pp. 228, e 16) il libro in cui Michele Martelli, studioso di filosofia e docente dell’Università di Urbino, critica le tendenze clericali che si manifestano nella vita italiana. Il testo di Giulio Giorello qui pubblicato è la prefazione al volume.
La Chiesa? «Non è democratica, ma sacramentale, dunque gerarchica», scriveva a suo tempo Joseph Ratzinger, allora Prefetto della Fede. E oggi, con Joseph ormai salito al Soglio di Pietro, sotto il nome di Benedetto XVI? Mi pare notevole merito del volume di Michele Martelli Quando Dio entra in politica il fatto che l’autore, fin dal primo capitolo, metta a fuoco il nocciolo della questione. «La fallibilità, l’incertezza, l’errore, l’umile e incessante ricerca della verità, il dialogo, il dubbio socratico e scettico, l’autocorrezione e l’autocritica», si chiede Martelli, sarebbero dunque «estranei a chi la verità definitiva la possiede in Cristo, di cui è sostituto terreno»? Attenzione a rispondere Sì o No immediatamente. Una notevole tradizione di pensiero - da Charles Sanders Peirce a Ernst Mach, per non dire di Karl Popper e Willard Van Orman Quine, pur con le più diverse sfumature - ha messo in luce come quei tratti di «fallibilismo» (il termine è di Peirce), ovvero quell’impasto di «conoscenze ed errore» (l’endiade è di Mach), scandiscono tanto la crescita della scienza moderna quanto l’articolarsi della democrazia. La tensione principale non si situa allora tra fede e ragione, tra scienza e religione, tra credenti e non credenti, ma tra chi fa ricerca - non solo circa «la natura delle cose», poniamo in fisica o in biologia, ma persino circa la propria «salute spirituale» - con un atteggiamento che insiste sul carattere fallibile e provvisorio delle proprie conquiste e chi invece non esita a presentarle come dogmi irrinunciabili, ormai immuni a qualsiasi spirito critico. So bene che, se ci si esprime così, si rischia - al solito - di essere tacciati di «relativismo», il genio maligno dell’Occidente, la cui «dittatura» è stata autorevolmente denunciata dallo stesso Ratzinger poco prima di essere eletto Papa. Ma anche qui, cautela: la posta in gioco non è epistemologica (o lo è solo in parte), ma (soprattutto) politica.
Lo avevano intuito, ai tempi della contrapposizione di Riforma e Controriforma, ancor prima dei «filosofi naturali» (noi oggi diremmo «scienziati ») quei teologi insofferenti alla costellazione dei pregiudizi stabiliti, che avevano rivendicato diritto all’amore e alla tolleranza per le forme di vita (religiosa, ma non solo) più diverse. Figure come - a metà del Seicento - John Milton, che aveva dichiarato che «la verità ha più di una faccia», o come John Goodwin, che aveva sostenuto che reprimere le differenze può rivelarsi la forma più perversa di «lotta contro Dio». Particolare non trascurabile: si trattava di protestanti (anche se, assai spesso, devianti rispetto al mainstream del protestantesimo: eretici nell’eresia, agli occhi di quei cattolici che avevano dimenticato che eresia vuol dire solamente scelta e che a sua volta ragionare non è che un sinonimo di scegliere).
Karl Popper, in un bellissimo intervento del lontano 1958, riconosceva quanto debbano le attuali società aperte e democratiche a questo tipo di protestantesimo. Ma non stiamo cercando qui delle più o meno fondate «radici»! Il gusto per la disputa, la pregnanza dell’argomentazione, il valore della competenza tecnica, il considerare una differenza di opinioni o di stile di vita non un disastro ma un’occasione sono elementi che possiamo ritrovare nelle più svariate civiltà, dalla grande cultura sumerica e accadica della Mesopotamia alla Grecia dei Sofisti e di Socrate, dall’India capace di logiche (al plurale) di estrema raffinatezza al mondo «arabo- islamico» così attento, prima dell’epoca della sua chiusura che coincide con la sua decadenza, alla valorizzazione degli esperimenti intellettuali e morali più disparati... Siamo disposti a sacrificare tutto questo per la «verità dell’Uno» di cui la Chiesa Cattolica Romana pretende di avere il monopolio? Michele Martelli ci ripropone un interrogativo che in passato è più volte emerso nelle tormentate vicende dell’Occidente.
Il «ritorno di Dio nella politica» vuol dire proprio questo. Di mio, non sono così drastico come alcuni che ritengono di poter liquidare la stessa esperienza del cattolicesimo come antiscientifica e antidemocratica. Il fatto è che non penso che le varie tradizioni religiose - e in particolare le diverse denominations cristiane, e dunque la stessa confessione cattolica - costituiscano delle «essenze» date una volta per tutte come idee immutabili dell’iperuranio di Platone. Piuttosto, mi paiono simili a organismi viventi, in continuo mutamento, soggette quindi sia alla pressione dell’ambiente sia alle decisioni degli individui che in tali tradizioni si riconoscono.
Così, sono disposto a riconoscere che persino una Chiesa «non democratica, ma sacramentale » possa evolvere, dando prova nella pratica di quel relativismo di cui in teoria si vergogna. Dopotutto, il «relativismo» è il contrario dell’«assolutismo » - e tutto possono essere i dittatori, tranne che dei relativisti! Pensiero debole - come ci ripetono teocon, teodem e atei devoti, così nostalgici della «forza del fondamento»? Niente affatto: il relativismo non è una dottrina, ma una scelta personale e politica per un tipo di struttura in cui ogni idea o forma di vita abbia il diritto a una difesa pubblica - in questo sta tutto il suo coraggio!
Michele Martelli non risparmia i suoi strali polemici a pretese teoriche e morali avanzate in nome delle più diverse religioni, pur concentrandosi soprattutto su quelle che ci vengono dal cattolicesimo romano. Non possiamo che augurarci che coloro che si sentono colpiti dalla sua vis polemica sappiano rispondergli con altrettanta decisione sul piano dell’argomentazione. Di nuovo, questo tipo di conflitto è un’occasione di crescere per tutti «i litiganti».
Una cosa, però, dev’essere chiara. Mai mai mai saremo disposti a cedere - in cambio delle nebbiose consolazioni di questa o quella religione - il libero cielo dell’Illuminismo, quello della tolleranza comprensiva e simpatetica di John Toland, o dell’appassionata mitezza di Voltaire, o dello «scetticismo spensierato» di David Hume, o dell’elogio di Immanuel Kant dell’autogoverno di cui è capace la persona «uscita dallo stato di minorità» in cui i dogmatici di ogni risma vorrebbero ricacciarla. A scanso di equivoci: questi non sono vincoli che ci legano al passato, sono premesse che ci indirizzano al futuro.
PERSECUZIONI ANTICATTOLICHE
Il silenzio sui cristiani
di Angelo Panebianco *
Con l’eccezione della stampa cattolica, i mezzi di comunicazione non hanno dato risalto al fatto che ieri la Conferenza episcopale ha indetto una giornata di solidarietà con i cristiani perseguitati dai fondamentalisti indù (e una fiaccolata con l’appoggio di «Liberal» è prevista per mercoledì prossimo). Come se fosse una faccenda interna della Chiesa. Le notizie sulle uccisioni di cristiani che si verificano da alcune settimane nello Stato indiano di Orissa vengono naturalmente pubblicate (ieri sono state aggredite quattro suore dell’ordine di Madre Teresa di Calcutta). Così come vengono (di solito) pubblicate le notizie sui periodici massacri di cristiani in certi Paesi islamici.
Ma quando queste cose accadono ci si limita a registrare i fatti, per lo più senza commenti. Eccezionalmente, fece scalpore, nel 2006, l’uccisione di un sacerdote italiano in Turchia ma la causa è da attribuire, oltre che alla nazionalità del sacerdote, al fatto che la Turchia ha chiesto di entrare nell’Unione Europea. Sembra che per noi, e per l’Europa, il fatto che in tante parti del mondo persone di fede cristiana vengano perseguitate e, con frequenza, uccise, non sia un problema sul quale occorra sensibilizzare l’opinione pubblica. Eppure i fatti sono chiari. In un’epoca di risveglio religioso generalizzato sono ricominciate in molti luoghi le guerre di religione ma con una particolarità: in queste guerre i cristiani sono solo vittime, mai carnefici.
Da dove deriva tanto disinteresse per la loro sorte? Sono all’opera diverse cause. La prima è data da quell’atteggiamento farisaico secondo il quale non conviene parlare troppo delle persecuzioni dei cristiani se non si vuole alimentare lo «scontro di civiltà ». Come se ignorare il fatto che nel mondo vari gruppi di fanatici usino la loro religione (musulmana, indù o altro) per ammazzarsi a vicenda e per ammazzare cristiani ci convenisse. D’altra parte, basta rammentare le reazioni europee al discorso di Ratisbona di Benedetto XVI. Venne biasimato il Papa, non i fanatici che usarono quel discorso per tentare di incendiare il mondo islamico. C’è anche una seconda causa. Sotto sotto, c’è l’idea che se uno è cristiano in Pakistan, in Iraq, in India o in Nigeria, e gli succede qualcosa, in fondo se l’è cercata. La tesi dei fondamentalisti islamici o indù secondo cui il cristianesimo altro non è se non uno strumento ideologico al servizio della volontà di dominio occidentale sui mondi extra occidentali sembra condivisa, qui da noi, da un bel po’ di persone.
Persone che credono che l’Europa debba ancora fare la penitenza per le colpe (alcune reali e altre no) accumulate nei suoi secolari rapporti col mondo extra occidentale. Ne derivano il silenzio sulla libertà religiosa negata ai cristiani, soprattutto nel mondo islamico, e il disinteresse per le persecuzioni che in tanti luoghi, islamici e no, subiscono. Ne deriva anche una sorta di illusione ottica che a molti fa temere di più i segnali di risveglio cristiano (del tutto pacifico) in Italia che tante manifestazioni di barbarie religiosa altrove. Nel frattempo, le religioni «altre», con l’immigrazione, acquistano qui da noi un peso crescente. È difficile che si riesca a fare «patti chiari» con gli adepti di quelle religioni. Almeno finché non avremo capito che il mondo è cambiato e che le nostre reazioni, per lo più automatiche, irriflesse, a quei cambiamenti, sono datate e inadeguate.
* Corriere della Sera, 07 settembre 2008