Politica - Dibattito sulle posizioni della CEI
RESISTENZA E PACE
di Raniero La Valle *
La Chiesa in piazza
Se Gesù di Nazaret fosse stato così malevolo verso le convivenze di fatto, noi non avremmo una delle più belle pagine del Vangelo, quella della samaritana, che aveva avuto cinque mariti e quello con cui stava non era suo marito. Invece è proprio lei che attinge l’acqua dal pozzo per Gesù e ne ha in cambio l’acqua viva, e poi corre al villaggio ad annunziare a tutti, compresi i suoi compagni e mariti, di aver visto il messia.
Se il celibato di Gesù fosse stato tanto arcigno e schizzinoso, così da assurgere a insuperabile presidio della legge salica di successione nella Chiesa, per cui da Dio Padre al Figlio maschio unigenito ai successori degli apostoli si va per linea maschile fino all’ultimo degli accoliti, non avrebbe consentito che da lui si trasmettesse una forza all’emorroissa né si sarebbe fatto bagnare di pianto i piedi da una donna, né si sarebbe fatto cospargere di nardo né avrebbe avuto per loro parole di vita.
Se la Chiesa di Giovanni fosse stata così ansiosa e zelante come quella di Luca, che nel suo Vangelo non ha voluto includere l’episodio del perdono di Gesù all’adultera, per non indebolire il principio della fedeltà matrimoniale, noi non sapremmo, come invece sappiamo dal Vangelo di Giovanni che se n’è fatto carico, che le adultere non si uccidono, e che perfino la legge mosaica che lo prescriveva è scritta come col dito sulla sabbia, e basta una folata di vento, del vento della grazia, a spazzarla via.
Se la Chiesa che fu di Ruini non fosse così convinta che dove non basta la predicazione ci vuole il deterrente di una legge restrittiva, e che se i cattolici non obbediscono in casa sono tenuti ad obbedire almeno in Parlamento, non manderebbe le folle in piazza con preti e parroci in testa per dire “famiglia, famiglia”, e in realtà per cambiare la politica del Paese. Si rompe così l’unità del presbiterio, e si divide la Chiesa in fazioni. Per “supplicare” che essa non facesse un simile errore, Giuseppe Alberigo ci si è giocata la vita.
Ci fu un’altra volta in cui la Chiesa tentò un’operazione del genere, e fu quando fece scendere a Roma trecentomila militanti della Gioventù cattolica, con un uniforme berretto verde sul capo, perciò soprannominati “baschi verdi” (non c’era ancora la Lega), per una manifestazione di anticomunismo (che era il grande coagulante di allora). Quando De Gasperi li vide sfilare, disse: gridano per il papa, ma marciano contro di me. Da quel trauma la Chiesa si riebbe solo col Concilio, e Carretto andando nel deserto.
Certo, è molto umano che quando non ci si riesce da una parte, ci si provi dall’altra. Se non si riesce con la fede, proviamo col progetto culturale, con la politica, con la natura. E siccome la Chiesa sa cos’è la natura, non dice alla politica “segui me”, ma “segui la natura”: la famiglia naturale, la natura umana del materiale genetico che diventa uomo già sul vetrino, le relazioni naturali e perfino, com’è accaduto, la conformità alla natura della pena di morte, purché non dell’innocente. Tutte cose che varrebbero lo stesso, come diceva Grozio, “anche se Dio non ci fosse”.
Per l’appunto Dio ha fatto lo sforzo di incarnarsi quando ha visto che con la “natura” l’uomo non andava troppo lontano. Ci voleva dell’altro, ed è per quest’altro che è nata la Chiesa.
Del resto neanche alla politica basta seguire la natura. Questo lo credeva Aristotele, che pensava alla politica come all’attuazione di una scienza, di una verità, che “sta sopra” (l’epistéme), per cui sarebbe secondo natura, e necessario, che ci sia “chi comanda e chi è comandato” e che il maschio comandi sulla femmina, essendo “l’uno per natura superiore, l’altra inferiore” (vedi alla voce “politica” del Dizionario di teologia della pace, EDB). Invece la politica è un artificio, è un prodotto della cultura. Un artificio è la democrazia, e infatti rischiamo ogni momento di perderla. Ma un artificio è anche lo Stato: e perciò non può essere “perfetto”, cioè del tutto autosufficiente, come pretendeva lo Stagirita; anzi è proprio questa idea di avere per natura tutti i mezzi necessari e di non aver bisogno di nessuno, che ha fatto dello Stato un “sovrano” in guerra contro gli altri Stati.
E artificiali sono i regni. Non c’è niente di più innaturale di un re. Ma intanto, se gli uomini non si fossero inventati il re (e Dio non voleva, come disse a Samuele) Gesù non avrebbe potuto usare quella metafora per annunciare il “regno di Dio”: nella natura, oltre la natura, nonostante la natura.
* IL DIALOGO, Martedì, 17 aprile 2007
Riceviamo da Enrico Peyretti (per contatti: e.pey@libero.it) questo articolo che uscirà su Rocca, rocca@cittadella.org, nel n. del 1 maggio, nella rubrica di Raniero La Valle
PERCHE’ SONO SCAPPATO DA ROMA
di don Aldo Antonelli
Questa mattina ero a Roma. La città, soprattutto la zona di Viale Libia, era letteralmente fasciata da migliaia di manifesti di benvenuto al Falily Day, firmati da Azione Giovani, gruppo della destra fascista. Non ho accettato nemmeno l’invito a pranzo di mia sorella. Sono scappato. Faccio mio il comunicato stampa di "noi Siamo Chiesa" che vi incollo qui sotto. Aldo
“Noi Siamo Chiesa” non partecipa al Family Day. La Chiesa deve parlare alle coscienze e non organizzarle per premere sulle istituzioni.
Il movimento per la riforma della Chiesa cattolica “Noi Siamo Chiesa” non partecipa al Family Day e condivide il disagio diffuso in una parte del mondo cattolico italiano per questa iniziativa. Essa si presenta, aldilà di qualche affermazione puramente di immagine, come organizzata per contraddire le positive iniziative governative e parlamentari che vogliono dare una ragionevole regolamentazione ad un fenomeno socialmente rilevante, quello delle coppie di fatto di ogni tipo.
Sulla proposta dei DICO i parlamentari cattolici devono decidere con assoluta libertà , consapevoli che essa non intacca i diritti e i ruoli della famiglia tutelati dalla Costituzione, che ovviamente stanno a cuore anche a tutti i cattolici che esprimono posizioni critiche interne alla Chiesa e che si richiamano al Concilio Vaticano II.
“Noi Siamo Chiesa” constata che il manifesto di promozione della manifestazione di domani è del tutto carente di analisi e di proposte sui veri problemi che rendono difficile nel nostro paese la creazione di nuove famiglie e che rendono troppo faticosa la vita di moltissime di quelle esistenti : la precarietà del lavoro, il problema della casa, le pensioni al minimo, la condizione delle famiglie degli extracomunitari ecc..
Come poi non chiedere una esplicita e forte autocritica sulle gravemente insufficienti politiche sociali per la famiglia a chi ha governato l’Italia dal dopoguerra ad oggi ? Non sono stati forse, da allora, cattolici gran parte dei protagonisti della vita politica italiana ?
Inoltre, manifestazioni di massa di questo tipo, che vogliono organizzare le coscienze piuttosto che parlare alle coscienze, fanno nascere nuove ostilità nei confronti della fede, malamente fatta coincidere con l’immagine di tante iniziative mediatiche delle gerarchie della Chiesa cattolica piuttosto che con il Vangelo.
“Noi Siamo Chiesa”
(aderente all’International Movement We Are Church)
Roma, 11 maggio 2007
La piazza di Dio
di Bruno Ugolini *
Era ora. Non se ne poteva più di questo silenzio sociale. Tacciono I metalmeccanici, i tessili, gli alimentaristi, gli elettrici, i braccianti, i pensionati, gli invalidi, i parenti dei morti sul lavoro, quelli tartassati del fisco direttamente sulle buste-paga, quelli che non hanno diritti nemmeno quello di scioperare o andare in ferie. E’ da molto tempo che non manifestano. Forse si trovano bene così. Stanno zitti e buoni. Ora però tutto cambia. La Santa Madre Chiesa ha preso in mano le redini della protesta sociale. Scende in piazza.
Ma che cosa inquieta questi uomini di preghiera trasformati in agitatori sociali? I contratti di lavoro che non vengono rinnovati? La media giornaliera dei morti in fabbriche e cantieri? No, l’obiettivo è impedire l’oscura e terribile minaccia dei Dico. Cardinali e monsignori sono preoccupati per questi poveri di spirito chiusi in coppie libertine. Non s’interessano dei poveri di pane e diritti. Sono i nuovi sindacalisti, in abito talare, contro il peccato dell’amore privo di tutti i crismi. Fra poco faranno staccare anche i peccaminosi lucchetti simbolici appesi dagli adolescenti a Ponte Milvio, in quel di Roma. Simboli del demonio.
Hanno scatenato una moderna crociata contro il dilagare delle convivenze, magari anche tra persone dello stesso sesso. Concubini senza ritegno che vorrebbero perfino tutele legali, senza nemmeno pagare le spese spesso spropositate delle cerimonie matrimoniali. Sarebbe anche un colpo per le finanze dei poveri parroci.
Non si meravigliano della mercificazione delle carni che imperversa in Vallettopoli o nel dilagare dell’affarismo politico. Oppure di situazioni imbarazzanti come quelle dei centri d’accoglienza dove si ammassano gli immigrati nelle metropoli. Dio non abita lì.
http://www.ugolini.blogspot.com/
* l’Unità, Pubblicato il: 04.04.07, Modificato il: 04.04.07 alle ore 13.16
Il segretario della Cei parla al convegno sulle Prospettive dei cattolici.
E ai media dice: "La stampa sbaglia quando considera la Chiesa una parte politica"
Betori: "Famiglia e matrimonio
unica salvezza per il futuro dell’Italia" *
ROMA - La famiglia fondata sul matrimonio "unica garanzia per il futuro dell’Italia". La Cei torna all’attacco su famiglia, diritti e dintorni. Con una premessa: "I media sbagliano - sottolinea monsignor Giuseppe Betori segretario della Conferenza dei vescovi - quando considerano la Chiesa una parte politica collocandola in uno schieramento politico". Anche se è stata proprio la Cei a rivolgersi direttamente ai politici invitandoli a non votare i Dico.
Betori ha parlato concludendo il convegno sulle Prospettive dei cattolici iniziato il 26 aprile e a cui hanno partecipato trecento delegati da tutta Italia. "La famiglia fondata sul matrimonio - ha detto - non è semplicemente il frutto di un contratto, ma è simbolo del passaggio tra le generazioni. Una coppia di sposi riassume nella propria unione la storia di due famiglie da cui ha preso vita, in vista di una nuova generazione: solo in quest’ottica è possibile immaginare un futuro per un popolo".
Un intervento lungo, quello di Betori, in cui ha sottolineato la necessità che la Chiesa italiana sappia parlare in una società di "cambiamento", un cambiamento che "non è solo questione di moda, ma segna in modo profondo la nostra cultura e la fase attuale della nostra civiltà".
La gente, credenti e non, desidera essere messa a contatto "con un nutrimento solido, con una parola che sia proposta come sensata e degna di fiducia, che non rifiuta e non teme l’argomentazione, che lasci trasparire una verità che sempre la sovrasta e la trascende e che, tuttavia, si mostra e si dona per arricchire e orientare le nostre vite".
A proposito dei stampa e media, Betori ha insistito sul fatto che il circuito dell’informazione "e la secolarizzazione stravolgono il fatto religioso sia che si tratti di cristianesimo che di islam". Il segretario della Cei parla di "atteggiamento bifronte dei commentatori alle prese con la religione, a seconda se questa sia caratterizzata come cristiana o islamica: nel primo caso si pensa ad un’opinione che non ha o non deve avere conseguenze pubbliche; nel secondo si pensa a qualcosa che fanaticamente tiene insieme pubblico e privato, politica e religione".
"In entrambi i casi - ha aggiunto - è l’ideologia della secolarizzazione a stravolgere il fatto religioso, trasformato in religione secolarizzata (e quindi innocua) oppure in fanatismo (necessariamente sanguinario). Ma nè il cristianesimo nè l’islam - ha concluso - possono essere capiti a partire dalla secolarizzazione"
* la Repubblica, 28 aprile 2007
Famiglia e pretesti
di BARBARA SPINELLI ( La Stampa, 13/5/2007)
Quel che toglie il respiro, nelle parole che Gesù pronuncia nei Vangeli, è il precipizio drammatico in cui getta la famiglia. È vero che l’uomo non può separare quel che Dio unisce, in Matteo la prescrizione è chiara, ma questo è l’unico punto fermo del suo messaggio. Intorno a questo punto ogni cosa trema a cominciare dalla famiglia, vista come tormento sempre imminente: al pari dell’appartenenza etnica, delle tradizioni, dei riti canonici, l’istituto familiare può trasformarsi in gabbia che incatena l’uomo alla natura, alla carne. Quando Nicodemo va a trovarlo, nel Vangelo di Giovanni, per sapere come sia possibile entrare una seconda volta nel grembo della madre e rinascere, Gesù gli dice che non è nel legame di sangue e nella natura che l’uomo rinasce cristiano ma in altro modo: dall’alto, dallo spirito.
Dalla famiglia naturale si deve uscire, per avvicinarsi a Dio. «Che ho da fare con te, o donna?», chiede alla madre. E fin da adolescente risponde ai genitori che lo cercano e s’angosciano: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?». E il giorno che madre e fratelli lo visitano insorge: «Chi è mia madre e chi i miei fratelli?», per poi volgere lo sguardo a chi gli sta intorno e dire: «Ecco mia madre e i miei fratelli». E in Luca: «Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo». Gli è discepolo chi «ascolta la parola di Dio e la mette in azione». Chi «beve il calice». Chi «porta la croce». Gesù è erede di Giobbe. Nella tribolazione nessun parente ama Giobbe, e meno di tutti la sposa che urla: «Rimani ancor fermo nella tua integrità?
Benedici Dio e muori!». Chi evoca le radici cristiane d’Europa non può non ricordare questa rottura profetica con ogni genealogia, che caratterizza il cristianesimo e che non promette a nessuno stabilità, durata naturale. Chi cerca stabilità ha bisogno della politica e di uno Stato autonomi da fedi, privati interessi e insurrezioni del cuore. Non è inutile ricordare le parole bibliche, all’indomani dell’immensa manifestazione cui è stato dato il nome, chissà perché inglese, di Family Day. Una manifestazione aperta ai laici ma che dalla Chiesa è stata suscitata, favorita, in opposizione alla legge che vuol tutelare i conviventi. Una manifestazione che ha difeso nei fatti un interesse privato, mettendo in concorrenza famiglie dette normali e unioni dette anormali, famiglie che s’avvalgono d’un supposto diritto naturale e unioni senza tutele. A Piazza Navona c’erano i laici e i cattolici che chiedevano diritti per tutti, matrimoni e Dico: non potevano vantare il successo numerico d’un Family Day che ha alle spalle la capacità organizzativa dell’associazionismo cattolico. Ma anche i dimostranti del Coraggio Laico erano lì a testimoniare una tradizione antica e forte.
Le parole dei Vangeli aiutano a separare il profondo dalla superficie, il profetico dai calcoli di potere. La famiglia come dramma costante, la predilezione di Gesù per il vincolo che non è quello del sangue e per l’amore del prossimo «messo in azione»: questo linguaggio profetico era assente nel Giorno della Famiglia. C’erano le masse oceaniche che hanno magnificato la famiglia come unica cellula naturale della società, e le masse oceaniche - la storia l’attesta - non sono profetiche. I propugnatori dicono d’aver voluto difendere una famiglia italiana poco protetta, e hanno ragione di dirlo. Ma la polemica contro i Dico era evidente. Come lo era la polemica contro una legge che, secondo gran parte del clero, infrange il sacramento coniugale. Altrimenti non sarebbe stato scelto il 12 maggio, anniversario del referendum sul divorzio.
La maggioranza che governa è divisa su questo punto. Un partito sta nascendo - il partito democratico - che vorrebbe essere egemonico a sinistra ma che non ha trovato un accordo sull’autonomia della politica, cioè sull’essenziale. È stato detto che la sinistra è prigioniera di tradizioni troppo libertarie, allo stesso modo in cui è insensibile ai temi della sicurezza. Cosa solo in parte vera: la famiglia esaltata dai comunisti era un collettivo castigatore di costumi, la sicurezza repressiva fu un fondamento nel comunismo. Non è con la sinistra storica che oggi si regolano i conti ma con le metamorfosi sociali e dei diritti individuali inaugurate dal Sessantotto. È quel che oggi accomuna le destre in Italia e Francia. Queste destre usano la religione e il clero, quando invocano il ritorno a autorità forti e a un ordine naturale. Quando proclamano, come ieri Berlusconi, che «un cattolico non può esser di sinistra». Il dibattito su natura contro cultura, su diritto naturale contro diritto positivo è una trappola per il legislatore. La famiglia non è diritto naturale: è figlia di una tradizione, non della natura. E il matrimonio è un sacramento a partire dal XIII secolo, non è iscritto nella Bibbia e non è condiviso da tutti i cristiani. Dice giustamente Gustavo Zagrebelsky che ci si aggrappa al diritto naturale come a un’assicurazione, che «non c’è nulla di meno produttivo e di più pericoloso che collocare i drammatici problemi dell’esistenza nel nostro tempo sul terreno della natura. A partire dal momento in cui in nome di questa natura e del sacramento si incita a disobbedire alle leggi non solo i cittadini, non solo categorie di esercenti funzioni pubbliche (medici, paramedici, farmacisti) ma addirittura i giudici, cioè proprio i garanti della convivenza civile, la Chiesa diventa elemento di confusione e nei fatti sovversiva, ponendosi unilateralmente al di sopra delle leggi e della Costituzione» (la Repubblica, 4 aprile 2007).
Le divisioni nel governo e la maniera in cui i vertici ecclesiastici ne profittano hanno oscurato quel che sta accadendo nelle nostre società, e che ha portato anche l’Italia - dopo più di dieci Paesi europei - a legiferare sulle unioni di fatto. Non è un estendersi dei mali moderni paventati in Vaticano: del relativismo, dell’edonismo. Quel che vivono i cittadini è una trasformazione e una crisi profonda della famiglia, ed è l’aumento di unioni che si formano fuori dal matrimonio anche perché la famiglia è tanto degradata. Le unioni di fatto oggi non reclamano solo diritti, né sono corrotte da edonismo: nel duro mondo del lavoro precario, delle abitazioni introvabili, dei figli squattrinati costretti a restare in famiglia, c’è una sete immensa di legge, di norme, che rendano salde e durevoli unioni timidamente sperimentate. C’è domanda di diritti, sì, ma anche di doveri: ad esempio il dovere di non lasciare soli in ospedale l’amico o l’amica, o di donar loro un’eredità. Quel diritto-dovere di stare accanto al convivente senza esser cacciati dall’ospedale non distrugge la famiglia classica, e dirlo è molto crudele. I matrimoni si degradano da soli, non per colpa di chi pensa, vive, ama, muore in modo diverso.
L’opposizione ai Dico, compresa l’opposizione alla convivenza fra persone dello stesso sesso, non può pretendere a incarnare una civiltà. Viene presentata come tale, ma quel che esprime è piuttosto spirito del tempo, parere categorico d’una maggioranza, difesa d’un interesse privato fatta propria da una parte della popolazione che si sente minacciata dalla concorrenza di altri interessi. Così come sono ingredienti dello spirito del tempo alcuni valori etici chiamati non negoziabili perché qualcuno, fuori dalla politica, pretende imporli d’autorità. Il mainstream o spirito del tempo è descritto come legge di natura: in realtà è una corrente di pensiero che senza più complessi ignora i patimenti di minoranze. Non ci sono più doveri di solidarietà verso queste ultime, non ci sono errori o offese da riparare. È parte dello spirito del tempo anche l’offensiva, generalizzata, contro la «cultura del pentimento». Nicolas Sarkozy l’ha addirittura messa al centro del proprio programma presidenziale. Un’epoca è finita: quella degli Stati europei che riesaminavano con una certa vergogna la propria storia; quella di Giovanni Paolo II fondata sul mea culpa. Oggi si passa alla controffensiva, il ministro Mastella si proclama fieramente guelfo, e la Chiesa partecipa non senza slancio a questo pentirsi della penitenza, a questo diffuso fascino del risentimento: anche il risentimento verso quel che in passato si è pensato, detto. La Chiesa spagnola che insorge contro i matrimoni omosessuali non ha nulla da rimproverarsi, ma è tanto più cieca: gli anni di connivenza con il familismo oppressivo di Franco non le spiegano nulla. La battaglia sui valori è assertiva e rancorosa, non aspira a spiegare né a capire. In un’intervista a Michel Onfray, Sarkozy dice: «Non ho mai udito una frase assurda come il Conosci te stesso di Socrate». Il Family Day gli fa eco: il suo punto di forza non è la profezia, ma la privatizzazione-confessionalizzazione della politica.
Il Papa parla Conferenza degli alti prelati del continente, denunciando i rischi della globalizzazione e rilegittimando "l’opzione preferenziale per i poveri"
Benedetto XVI ai vescovi latinoamericani
"Falliti Marx e capitalismo, serve Gesù" *
APARECIDA - Da più di cinque secoli il cristianesimo, integrandosi con le etnie indigene, ha creato in America latina "una grande sintonia pur nella diversità di culture e lingue". E oggi, anche se "l’identità cattolica" del continente è minacciata, il cristianesimo resta decisivo per la dignità e lo sviluppo integrale di uomini e donne. E questo tanto più davanti al fallimento di marxismo e capitalismo, con la loro promessa di creare strutture sociali "giuste" che avrebbero automaticamente "promosso la moralità comune".
E’ il messaggio di Benedetto XVI ai vescovi latinoamericani, riuniti nel santuario di Aparecida per la loro quinta Conferenza generale. Il Papa dichiara la "continuità" tra questa e le precedenti riunioni, parla di situazione cambiata in questi anni, a causa dei risvolti negativi della globalizzazione, e denuncia il "rischio" che i grandi monopoli trasformino "il lucro in valore supremo". Rilegittima inoltre la "opzione preferenziale per i poveri", cara alla Teologia della liberazione, dichiarandola "implicita nella fede cristologica in quel Dio che si è fatto povero per noi".
Davanti a 266 vescovi - 162 membri effettivi, 81 invitati, 8 osservatori e 15 periti - che da domani e fino al 31 maggio si interrogheranno su come costruire il futuro della Chiesa, insidiata da secolarizzazione e sette, nel più grande continente cattolico del mondo - Benedetto XVI si pone in una prospettiva diversa rispetto a Giovanni Paolo II, che parlò di luci e ombre dell’introduzione del cristianesimo in America latina, riconoscendo che alcuni cristiani portarono la fede, ma anche forme di crudele colonizzazione. Il cristianesimo, sottolinea invece il papa-teologo, si è integrato nelle etnie, ha creato unità e non è estraneo a nessuna cultura e persona.
Non hanno dunque senso certe tendenze indigeniste: "L’utopia di tornare a dare vita alle religioni precolombiane, separandole da Cristo e dalla Chiesa universale, non sarebbe un progresso, bensì un regresso, una involuzione". Il cristianesimo sa invece affermare che "i popoli latinoamericani e dei Caraibi hanno diritto a una vita piena", "con alcune condizioni più umane", senza "fame e ogni forma di violenza".
Benedetto Xvi spiega inoltre che "la Chiesa non fa proselitismo. Si sviluppa per attrazione": probabilmente, un modo per sottolineare in maniera indiretta le differenze, rispetto alle sette pentecostali molto presenti in America Latina.
E con la presenza ad Aparecida, il viaggio in Brasile del Pontefice volge alla fine. Nella notte italiana, è previsto il volo di ritorno, verso il Vaticano.
* la Repubblica, 13 maggio 2007
LA FAMIGLIA, IL DIVORZIO, L’ABORTO E LA POLITICA CON LA P. MAIUSCOLA
Ida Dominijanni (il manifesto,15.05.2007)
«Non dimentichiamo che nel nostro paese due leggi come quelle sul divorzio e sull’aborto sono passate perché la Politica, quella con la P maiuscola, ha creato un ampio consenso in parlamento ma anche nel paese, al di là degli schieramenti ideologici. Ecco, mi pare che la lezione delle battaglie per il divorzio e l’aborto sia stata dimenticata». Così Nicola Latorre, vicecapogruppo (ds) dell’Ulivo a palazzo Madama, intervistato da Maria Teresa Meli sul Corsera di ieri. Com’è vero che la memoria divide: a me viene da replicare con le stesse parole, «mi pare che la lezione delle battaglie per il divorzio e l’aborto sia stata dimenticata», per ragioni esattamente opposte a quelle addotte da Latorre, il quale invoca «la politica con la P maiuscola» contro «il minoritarismo» che a suo giudizio marchiava sabato scorso la risposta dell’«orgoglio laico» di piazza Navona al Family Day di piazza San Giovanni.
Ora. Nel nostro paese né la legge sul divorzio né quella sull’aborto sarebbero mai state approvate (e confermate con i relativi referendum) senza l’apporto politico e culturale non laterale ma determinante di minoranze quali: un signore socialista che si chiamava Loris Fortuna e presentò con grande scandalo il primo progetto di legge sul divorzio nel ’65, i radicali che sia del divorzio sia dell’aborto fecero due bandiere irrinunciabili, i gruppi della nuova sinistra post-sessantottina che ne fecero due terreni di scontro con la cultura del Pci, e soprattutto il movimento delle donne che interpretò l’una e l’altra battaglia in modo inedito cioè rispondente all’esperienza (e all’elettorato) femminile.
Può darsi che tutti costoro abbiano - abbiamo - fatto una politica con la p minuscola, il che ci fa onore visto lo stato di salute non proprio eccellente di quella con la P maiuscola; di certo non era una politica minoritaria, essendosi rivelata anzi nell’uno e nell’altro caso nettamente maggioritaria, cioè in grado di interpretare un mutamento sociale e di mentalità che nell’uno e nell’altro caso i partiti maggiori, cioè la Dc e il Pci, temevano e negavano con tutte le loro forze, rivelandosi nettamente minoritari. Ai tempi del referendum sul divorzio, il Pci temette fino alla sera dei risultati un voto femminile conservatore, senza percepire neanche vagamente che le donne stavano diventando la punta più avanzata del mutamento sociale.
Ai tempi dell’aborto, non smise mai - mai, e i suoi epigoni non smettono tutt’ora -di rubricarlo come «piaga sociale» invece che come esperienza femminile, complessa e difficile e spesso drammatica, connessa alla sfera della sessualità. Nell’un caso e nell’altro, si trattava di due questioni di libertà, che la politica con la P maiuscola tentò in tutti i modi (e nel caso della legge sull’aborto purtroppo ci riuscì) di risolvere al livello più basso di mediazione fra laici e cattolici, i quali nell’un caso e nell’altro dialogavano molto più produttivamente fuori da Montecitorio che dentro.
La manifestazione di piazza Navona sarà stata inadeguata - grazie soprattutto alla brillante assenza dei Ds - a contrastare la geometrica potenza di piazza San Giovanni, ma sarebbe il caso di raccoglierne precisamente lo spunto per un onesto paragone fra il conflitto di oggi sulla famiglia e quelli del passato sul divorzio (cioè sempre sulla famiglia) e sull’aborto. Oggi come allora, infatti, è sempre della stessa sindrome che la sinistra con la S maiuscola soffre, cioè di un’allergia rispetto alle questioni di libertà. Sul divorzio come sull’aborto come sui conviventi e gli/le omosessuali, la sinistra con la S maiuscola che dal Pci discende per li rami al futuro Pd non è mai riuscita e non riesce ad andare oltre una timida strategia di riduzione del danno (il danno del tradimento coniugale, il danno della piaga sociale, il danno del convivente senza garanzie previdenziali) e a impostarne una sulla scommessa, e i rischi, della libertà. Me se si tratta solo di ridurre danni e sanare ferite, c’è da stupirsi se i più ricorrono alla medicina della tradizione?