di Armando Torno (Corriere della Sera, 28 gennaio 2010)
Agostino di Ippona domenica e lunedì ritornerà sul piccolo schermo in due puntate (il Papa le ha viste in anteprima). Non soltanto: è già con tutti i suoi scritti in rete. La casa editrice Città Nuova, promotrice dell’iniziativa, ha da poco terminato la pubblicazione completa del testo e della traduzione in oltre 70 volumi; ora sono in corso gli indici e le opere attribuite. Ci saranno poi i complementi iconografici e altro che è allo studio. È una mole di oltre 50 mila pagine, che ha coinvolto più di ottanta studiosi. Per farsene un’idea, Agostino è come se avesse scritto 100 volte la Divina Commedia con le necessarie chiose e 300 volte I promessi sposi. In questo oceano di cultura le celebri Confessioni assomigliano a una capocchia di spillo.
Non è esagerato credere che Agostino sia il genio del cristianesimo: nei suoi scritti è passata quasi ogni idea della Chiesa e le sue pagine hanno filtrato il patrimonio antico. È altresì vero che l’immensa opera del santo ha lasciato traccia in Heidegger o Einstein, ha ispirato Lutero e anche molta Riforma cattolica; Voltaire lo compulsava minuziosamente per confutarlo (su una pagina di Agostino nasce la celebre battuta: «Avete letto i Padri della Chiesa? Sì, ma me la pagheranno!») e persino i libertini lo hanno utilizzato quale modello per conoscere meglio il proprio io, come sottolinea il fascinoso saggio di Laurence Tricoche-Rauline, Identité(s) libertine(s) (Honoré Champion, Parigi 2009). I mistici lo hanno venerato, i Papi studiato (in particolare Benedetto XVI), un romanziere quale Julien Green affermava: «Sant’Agostino non delude mai... è sempre in anticipo sui tempi in cui si legge». Karl Jaspers ne I grandi filosofi (Longanesi) lo colloca tra i creatori del pensiero occidentale, insieme a Platone e Kant.
Dunque, Agostino online. Abbiamo incontrato, per meglio focalizzare l’evento, Remo Piccolomini, attuale direttore della Nuova Biblioteca Agostiniana, Franco Monteverde, redattore dei volumi nonché artefice degli indici, e Lorenzo Boccanera, ingegnere elettronico di Tolentino, curatore tecnico del sito. All’indirizzo www.augustinus.it è possibile scegliere oltre l’italiano, l’inglese, il francese, lo spagnolo, il tedesco. Vi sono due motori di ricerca che consentono una navigazione nel testo simile a quella che Google propone con le notizie. Il tutto si va perfezionando e arricchendo di giorno in giorno: partì nel 2000 e nel 2005 si arrivò a 100 mila contatti; per quest’anno se ne prevedono 3 milioni (tra l’altro non si dimentichi che, sino al 1986, le opere di Agostino venivano ancora stampate dall’editrice Città Nuova di Roma in piombo).
Se Lorenzo Boccanera si considera un «amanuense moderno», Franco Monteverde legge e rilegge continuamente l’opera del santo. Ha cominciato a costruire gli indici con i mitici foglietti e gli schedari sul tavolo (come facevano i catalogatori sino a qualche lustro fa) e ora procede con gli strumenti più avanzati. Non ha dubbi: «Agostino sa spiegare le grandi verità della fede anche agli analfabeti. È sempre sorprendente, anche se lo si rilegge più volte. E poi attira e conduce con amore chi lo interroga, quasi prendendolo per mano».
Remo Piccolomini, che ha raccolto la grande eredità di Agostino Trapè - fondatore del progetto editoriale nel 1954 e uno dei grandi studiosi dell’opera del Padre della Chiesa - confida: «Agostino non è un autore qualsiasi. In lui si trova tutto: c’è il giovanotto che conosce un’esistenza brillante e c’è il santo; è un cittadino del mondo e non soltanto un colto, inoltre è moderno perché le sue pagine lo fanno sentire ancora vivo nelle idee. Papini sosteneva che è uno degli uomini che non riescono a morire».
Va anche detto che l’impresa di Città Nuova non ha eguali al mondo. Gli spagnoli hanno tentato qualcosa di analogo, ma l’edizione della Bac (Biblioteca de autores cristianos) manca di sussidi, indici, non prevede l’iconografia e la cura non può certo gareggiare con l’incredibile apparato di note che si trova nell’italiana.
Inoltre l’Agostino online sta offrendo suggerimenti: si può capire qual è l’argomento più cercato e quello che vale la pena approfondire per la sua attualità, si possono organizzare controlli sull’opera che mai furono possibili con la sola memoria umana e si riescono perciò a chiarire non pochi punti dell’immenso lascito. Che è importante per teologia, filosofia, storia e letteratura, senza contare che nemmeno la politica può permettersi il lusso di ignorarlo.
Agostino una vita da romanzo
di Roberta De Monticelli (la Repubblica, 28 gennaio 2010)
Una fiction è una fiction. E può toccare l’uno o l’altro polo dell’invenzione: vi porterà in casa un Agostino del tutto finto ma pieno di azioni ed emozioni, come si conviene a una fiction avvincente, oppure un Agostino soltanto possibile, ma più "verisimile" di un ritratto dal vero, se il possibile poetico, come pensa Aristotele, ha in sé una necessità che le storie vere, accidentali come sono, non hanno quasi mai. Di questa fiction giudicherà lo spettatore.
Noi vogliamo solo indicargli almeno due aspetti che fanno di quest’uomo vissuto più di mille e seicento anni fa un interlocutore contemporaneo per i nostri dubbi - certamente più di molti vescovi che vivono oggi. Perché Agostino, certo, oltre che il massimo padre della Chiesa d’Occidente, fu anche un vescovo, e dotato di un potere ben diverso da quello di un vescovo moderno, in quell’epoca di enormi rivolgimenti geopolitici, di crolli e rifusioni di tutte le strutture del governo materiale e morale delle società umane. Quanto grande fu il filosofo, e - come sempre è il pensiero - lontano da ogni violenza, luminoso nel dubitare e sereno nell’argomentare, contemplativo anche nella passione della ricerca, tanto sconcertante fu il vescovo. Fu un persecutore di "eretici", e fu spietato.
Chi legge le Confessioni ci troverà tutto l’essenziale della vita umana: l’infanzia e l’adolescenza, il livore e l’amore, il lutto, l’amicizia, l’ambizione, l’ebbrezza dell’intelligenza e i tormenti dell’anima, i viaggi, le strade e le città dell’Impero, le élite e il popolo, il conflitto interiore, la scelta radicale, il tempo, la memoria e Dio. Eppure dal punto di vista degli eventi e dell’azione in realtà non succede molto neppure nei libri della ricerca, prima della grande svolta della conversione e della breve primavera di una vita nuova, prima del ritorno nell’Africa natìa e dell’assunzione delle responsabilità ecclesiali.
Ma in quegli ultimi libri, autobiograficamente, possiamo dire, "pacificati", dove quanto a fatti ed eventi non succede più nulla, quanto al pensiero teologico e metafisico succede tutto. Là, dal X al XIII libro delle Confessioni si gettano insieme le fondamenta e gli archi portanti della nostra mente, o se preferite della civiltà e della cultura europea. E cristiana, certo.
Ma sono proprio gli aspetti sorprendenti e incredibilmente ancora tanto ignoti della teologia e della spiritualità agostiniana che vorremmo qui ricordare al lettore, e che troviamo tanto contemporanei ai nostri dubbi. Eccoli.
Il primo aspetto è la sovrana libertà con cui Agostino invita ognuno a leggere e interpretare la Bibbia. "Nutre la mente solo ciò che la rallegra", scrive Agostino. Questa frase si trova nel XIII libro delle Confessioni, il libro dedicato, precisamente, allo Spirito. Oggi, quando alcuni fondamentalisti non solo americani imperversano ancora, contro Darwin e per una curiosa lettura cosmogonica della Bibbia, è bene ricordarlo: il libro XIII, l’ultimo, delle Confessioni di Agostino è un’esegesi della Genesi che applica radicalmente il principio dello spirito che ravviva dove la lettera uccide, che cioè si presenta come un’esegesi "spirituale", e qui possiamo agevolmente sostituire questo termine con "simbolica" o "allegorica". La creazione vi viene interpretata come un’offerta di senso, ovvero come il mondo quale appare all’uomo nuovo, all’uomo rinnovato o "ricreato" - all’uomo "rinato dallo spirito". Ma appunto, la prospettiva che ci interpella è che in questa chiave la creazione viene letta come ri-creazione, come un rinascere dell’anima all’esperienza delle cose e degli uomini: dove ogni cosa appare più vicina alla sua essenza, e si ritrova un senso "trascendente" - cioè che va al di là di quello ovvio, scontato - a ogni azione, a ogni gesto quotidiano.
E le cose proseguono tutte nell’invisibile, oltre il senso logoro delle parole che le dicono. Direbbe un grande poeta contemporaneo, Mario Luzi: il mondo è dato come allo stato nascente, ogni cosa nel «presente pullulante dell’origine continua». Questo libro agostiniano si presenta in effetti come una grandiosa teoria dell’ispirazione. Nell’anima, è l’accensione amorosa in cui si incontrano la potenza della memoria e l’attualità dell’esperienza: l’incontro da cui nasce la parola viva. Il "frutto" dello spirito è allora la fioritura, la proliferazione quasi, di senso e di immagini, la "foresta di simboli" della nostra vita in cui il testo, la Scrittura, si trasforma sotto la penna di Agostino. Dante farà eco a questa teoria dell’ispirazione: Io mi son un, che quando/amore spira, noto, ed a quel modo/ch’ei ditta dentro vo’ significando.
Il secondo aspetto dell’attualità di Agostino riguarda le pagine più famose delle Confessioni: quelle sull’eternità e il tempo. Il tempo nasce col mondo, è solo una sua dimensione, come pensano i fisici oggi. «Non c’è mai stato un tempo in cui non c’era il tempo». Ancora una volta, ci volevano i fondamentalisti americani a fare della poesia dei sette giorni della creazione una sorta di primitiva cosmogonia. Il solido e quadratissimo Tommaso d’Aquino, invece, ben istruito da Agostino, ci avverte che la questione del quanto e del come dello spazio-tempo, quindi se siano finiti o infiniti, e come siano venuti a contenere ciò che contengono, non è certamente di pertinenza della teologia - e del resto la novità della scoperta scientifica, la novità rispetto all’ordinariamente concepibile, è uno degli aspetti del mondo visto come creazione.
GRECIA - Una sede della "Caritas greca". |
Sul tema, in rete, si cfr.:
PROBLEMI DI ESTETICA (E NON SOLO). I VOLTI DELLA GRAZIA.
COMUNICAZIONE AL SITO: WWW.AGUSTINUS.IT, RELATIVA AL TESTO LATINO DELLE OPERE DI SANT’AGOSTINO:
Da: Federico La Sala
Inviato: lunedì 1 febbraio 2010 18.23
A: ’info@augustinus.it’
Oggetto: Segnalazione errori su www.augustinus.it
Charissimus "AUGUSTINUS" ....
“Se poi vorrai darci dei consigli per migliorare la sostanza e la qualità del nostro sito, te ne saremo assai grati....”.
Ecco, alcune note.... Mi auguro che giungano gradite e accolte in spirito di carità:
http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4661
http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4662
M. cordiali saluti e buon-lavoro
Federico La Sala
SANT’AGOSTINO (Cattedrale di Nardò, sec. XV) |
GIORNATA MONDIALE DELLA LINGUA GRECA (2025): UNA QUESTIONE DI GRAZIA ("XAPIS"). DA ARIANNA E DA NASSO ("NAXOS"), UN FILO PER "RI-USCIRE" DAL LABIRINTO DEI "GIOCHI DI PAROLE", E DALLA "PLATONICA" #CAVERNA "POLIFEMICA", E ANDARE INCONTRO ALLE GRAZIE E ALLA #PRIMAVERA CHE SI AVVICINA...
RICORDANDO CHE la parola "Naxos" va letta come "Nacsos", come la parola "Xenos", "Csenos", proprio per rispetto al suo etimo perché rimanda alla parola: ξένος «straniero, ospite». è bene non confondere "Nasso" con la parola "asso", e, la "Filo-xenia", con la Xeno-fobia"!
E’ BENE CHE IL SENSO E IL SUONO DELLA "ICS"("X") NON SIA CONFUSO CON QUELLO DEL "CHI" ("X"), ALTRIMENTI LA "Χαρά (#XAPA)" DIVENTA UNA "XAPA" (cioè, "CSARA") E... SI FINISCE PER PERDERE NON SOLO LA BUSSOLA, LA "XAPA" (cioè, "CHAPA"), E, ANCORA, "LEGGENDO" IN NAPOLETANO E "NEA-POLITANO" ("CHAPIS...ce a me"), PERSINO TUTTA LA PRIMAVERA CON LE SUE GRAZIE (#CHARITES) E LA STESSA GRAZIA!
MITO E #STORIA. "Naxos (detta anche Nasso), isola del mito di Arianna, è la più grande e la più fertile delle Cicladi. [...] Naxos (detta anche Hora, Chora o Naxos #Chora), capitale e porto principale dell’isola [...] Vi siete mai chiesti da dove deriva l’espressione “piantare in asso”? È una contrattura di “piantare in Nasso” e si riferisce alle vicende mitologiche di Arianna, la fanciulla che aiutò Teseo a fuggire dal labirinto del Minotauro.[...]" (v. NAXOS).
COSMOTEANDRIA "POLIFEMICA": #ANDROCENTRISMO, #GEOCENTRISMO ED #ETNOCENTRISMO DI UNA " CHIARA ED EVIDENTE" #CAVERNA PLANETARIA...
PIANETATERRA (2025). Nell’inizio dell’anno del "#Serpente del #legno #verde", per auguri e in omaggio al lavoro di #Stefano #Mancuso e #Alessandra #Viola, "#Verde brillante. Sensibilità e intelligenza del mondo vegetale" (Giunti Editore, 2013, p. 19), riprendo (e ripropongo all’attenzione)
LA "PIRAMIDE DEI VIVENTI" DI BOVILLUS ( CHARLES DE BOVELLES), TRATTA DAL "LIBER DE #SAPIENTE" (1509-1510).
La generale "nostra considerazione" non solo del mondo della #natura e del mondo dell’#uomo (antropologico, sociologico, economico, politico, e teologico) è, a ben vedere, "ancora molto simile".
ANTROPOLOGIA STORIA FILOSOFIA E FILOLOGIA.
LA SCOMPARSA DELLA "FANCIULLA STRANIERA" (F. Schiller, 1796) E DELL’AMORE (K. Marx, 1844) E IL DISAGIO DELLA CIVILTÀ (S. Freud, 1929: "Poi che l’apostolo Paolo ebbe posto l’amore universale tra gli uomini a fondamento della sua comunità [...]").
Una nota a margine di una memoria dell’antica commedia greca ...
"HOMO HOMINI LUPUS" (Freud, 1929). Formidabile questa riflessione di Andreas Katsouris sulla frase di Menandro! A ben riflettere sulle parole (e, in particolare, sul legame tra la "grazia" ("charis") del χαρίεν ("charien") e "l’anthropos), si dovrebbe tentare di capire su come e quando è stata persa la memoria delle Grazie (greco: Χάριτες - Charites) ed è stata persa anche la traccia di ogni umanità e l’orizzonte culturale dell’Europa (e del Pianeta Terra) è diventato sempre più cosmoteandrico, edipicamente, con la stessa connivenza della filosofia, della filologia, e della psicoanalisi!
CRITICA DELLA VIOLENZA: J.-J. ROUSSEAU, K. MARX, W. BENJAMIN. Una prima traccia della "caduta" è nell’atto logico-storico ("primordiale", che prima di essere materiale è linguistico) della recinzione: "Il primo che, dopo aver recintato un terreno, pensò di dire questo è mio, e trovò altri tanto ingenui da credergli, fu il fondatore della società civile"("Discorso sull’origine della disuguaglianza", 1754"); la seconda è nella denuncia marxiana (nella "Sacra Famiglia") dell’inversione soggetto-predicato (il problema della mele, delle pere, e delle fragole... del Mentitore) e della "fanciulla straniera e la civetta hegeliana" (cfr. Federico La Sala, "La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica", Antonio Pellicani editore, Roma 1991, pp. 190-197)"!
A quando il sorgere della Terra?
Le traduzioni che hanno cambiato la storia /
I funamboli della parola
di Franco Nasi (Doppiozero, 14 agosto 2021).
Come tutti gli antichi mestieri, anche l’arte del tradurre ha nella cultura cristiana occidentale il suo santo patrono: San Girolamo, autore nel V secolo di quella Vulgata oggetto di tante polemiche con Agostino, e diventata testo canonico della Chiesa cattolica più di mille anni dopo essere stata scritta, quando il Concilio di Trento decise di adottarla come versione latina ufficiale della Bibbia. Oltre al santo protettore, e nonostante le apparenze che potrebbero far pensare a un mestiere poco pericoloso, l’arte della traduzione ha anche una lunga serie di martiri e di caduti sul lavoro, a cominciare dall’umanista francese Étienne Dolet torturato, impiccato e bruciato sul rogo a Parigi nel 1546.
Dolet fu accusato di ateismo per avere aggiunto tre parole “rien du tout” (assolutamente nulla) a un passo sulla morte dell’Assioco attribuito a Platone, mettendo così in dubbio, almeno secondo i suoi carnefici, il dogma dell’immortalità dell’anima. Forse è stata solo la goccia che ha fatto traboccare il vaso di una vita vissuta sempre al limite dall’autore di uno dei testi canonici della storia della traduzione (La manière de bien traduire d’une langue en autre, 1540) che codificava alcuni dei capisaldi delle strategie traduttive dell’Umanesimo, già in parte descritte da Leonardo Bruni, un secolo prima: capire il contenuto del testo di partenza; avere un’ottima padronanza di entrambe le lingue coinvolte nel processo traduttivo; evitare di tradurre parola per parola; utilizzare la lingua quotidiana; produrre un testo in uno stile eloquente e armonico.
Ma l’elenco dei caduti sul lavoro è purtroppo lungo e comprende sia traduttori “eretici” sia interpreti che hanno prestato la loro opera di mediazione nel mondo della diplomazia o in zona di guerra, visti il più delle volte non come neutrali intermediari, ma come appartenenti a uno dei due schieramenti in conflitto, e quindi nemici, oppure unici testimoni, a volte scomodi, di trattative e patti segretissimi.
Fra gli ultimi caduti, il 32enne interprete delle truppe americane Sohail Pardis, decapitato il 12 maggio di quest’anno dai Talebani nel deserto afgano dopo che, pochi giorni prima, aveva ricevuto delle lettere di minaccia di morte per sé e per i suoi familiari con l’accusa di “essere un spia americana, di essere gli occhi degli americani e quindi un infedele”. E purtroppo quello di Sohail non è un caso sporadico se l’amministrazione di Joe Biden sta cercando di tutelare, dopo il ritiro delle forze americane dall’Afghanistan, i numerosi collaboratori afgani e le loro famiglie trasferendoli e ospitandoli in due basi dislocate in Kuwait e Qatar. Una vita, quella degli interpreti in zona di guerra, appesa a un filo, come su un filo si muove sempre il traduttore o l’interprete, anche quello meno esposto.
L’immagine del traduttore come funambolo è una delle tante metafore utilizzate per descrivere questo mestiere in cui si è pericolosamente sospesi tra diversi universi culturali, enciclopedie, religioni, lingue, tempi, luoghi. Già il poeta inglese John Dryden nella sua Prefazione alla versione delle Epistole di Ovidio (1680) aveva fatto ricorso alla metafora del traduttore che cammina sulla corda, sempre in equilibrio precario. Quando poi il testo è particolarmente ostico o strutturato, come nel caso di testi letterari o poetici, con vincoli metrici o rimici, la traversata diventa ancora più pericolosa. In questi casi, scrive Dryden: “è a tutti gli effetti come camminare sulla corda con le gambe legate”.
Alla stessa metafora fa ricorso la giornalista, traduttrice letteraria e interprete giudiziaria Anna Aslanyan nel suo Dancing on Ropes (2021), tradotto ora in italiano per Bollati e Boringhieri, da Enrico Griseri, con il titolo I funamboli della parola. Le traduzioni che hanno cambiato la storia. “Il funambolo - scrive Aslanyan - con ciò che di gioioso e di rischioso la sua figura suggerisce, è un simbolo appropriato del mestiere del traduttore. I traduttori devono lavorare a più obiettivi contemporaneamente: trasmettere il messaggio con efficacia e rispettare vincoli precisi, conservarsi integri e mantenersi flessibili. Per tenere tutto in equilibrio si muovono incessantemente fra queste quasi impossibilità, e il mondo insieme a loro” (p. 16). A questi funamboli della parola è dedicato questo libro, che non ha la pretesa di essere un trattato di teoria della traduzione né di entrare in conflitto con quella che l’autrice chiama la Translation police, ovvero i più dogmatici e astratti adepti della traduttologia, ma più semplicemente di offrire una galleria di personaggi, traduttori e interpreti che, con il loro lavoro, hanno influito in misura più o meno rilevante su qualche capitolo della storia, che si sono sporcati le mani cercando di trovare soluzioni a problemi concreti di traduzioni in situazioni particolari, che sono stati “flessibili”, magari forzando un po’ quello che una traduzione ortodossa, se mai ne esiste una, avrebbe richiesto.
Accanto alle vicende di una nutrita schiera di dragomanni, impegnati a mutuare fra le diplomazie occidentali e i tribunali e le istituzioni governative dell’Impero ottomano, Aslanyan descrive le disavventure di Adriaan Koerbagh, pensatore fra i più radicali del suo tempo, che nel 1668 pubblicò in Olanda un dizionario di termini tecnici, giuridici, medici e delle sacre scritture, suscitando scandalo, conseguente arresto e incarcerazione per blasfemia, o l’affascinante produzione di John Florio, amico di Giordano Bruno, traduttore in inglese degli influenti saggi di Montaigne e autore di A Worlde of Wordes, ricco e accurato dizionario italiano inglese contenente 44000 lemmi, oltre che di Florios Second Frutes, un’ampia raccolta di circa 6000 proverbi.
Proverbi ed espressioni idiomatiche sono spesso un banco di prova per interpreti e traduttori, che devono intervenire più di quanto di solito si pensa sia consentito a un semplice mediatore linguistico, per evitare che ciò che è alluso e implicito in modi di dire o metafore d’uso comune crei fraintendimenti gravi che potrebbero mettere seriamente a rischio rapporti diplomatici o trattative economiche. Ne sono testimonianza le memorie degli interpreti Oleg Trojanovsky e Viktor Suchodrev, che accompagnarono Nikita Chruščëv nei suoi viaggi negli Stati Uniti, memorie ampiamente riprese da Aslanyan. Il segretario generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, com’è noto, amava usare proverbi ed espressioni idiomatiche, ma era anche piuttosto impulsivo e irrefrenabilmente loquace nelle repliche ai suoi interlocutori, al punto che i suoi interpreti dovevano intervenire cercando di aggiustare certe esternazioni diplomaticamente rischiose. In modo simile il traduttore russo di Silvio Berlusconi, Ivan Melkumjan, fu costretto ripetutamente a piccoli salti mortali creativi per rendere “digeribili” agli interlocutori le barzellette dell’allora primo ministro italiano, convertendo l’umorismo nella valuta locale.
Da Alessandro Maurocordato, di origini greche, che dal 1673 svolse la funzione di gran dragomanno presso il governo ottomano, al reverendo inglese poliglotta Joseph Wolff, autore della traduzione di parti del Corano dall’arabo al persiano, a Richard Sonnenfeld, soldato semplice statunitense, ebreo tedesco fuggito dalla Germania nel 1938, che ebbe un ruolo centrale nel processo a Norimberga come interprete di Göring, Aslanyan ci offre una curiosa e godibile carrellata di personaggi che hanno saputo abilmente camminare sul filo della mediazione culturale e linguistica, contribuendo con il loro lavoro a cambiare a volte il corso della storia. Sono personaggi spesso eccentrici, che ricordano i protagonisti di certi fortunati film come Silvia Broome (Nicole Kidman) nell’Intepreter di Sydney Pollack, o di romanzi che hanno come tema la traduzione (uno fra tutti Corazón tan blanco di Javier Marías) che costituiscono una sorta di sottogenere utile anche alla riflessione sul tradurre, come ha mostrato Antonio Lavieri nel suo Translatio in Fabula (Editori Riuniti).
L’ultimo personaggio della galleria accuratamente documentata da Aslanyan è un interprete sui generis: la Machine translation. Nell’ultimo capitolo l’autrice descrive la vicenda di quest’ultimo arrivato, dalla sua nascita alla fine degli anni quaranta, con i primi tentativi del matematico Warren Weaver, alla traduzione automatica basata sulla statistica e i corpora linguistici degli anni ottanta, alle reti neurali e i cosiddetti word embeddings dell’ultimo decennio. Nell’ambito della traduzione automatica e, anche se in modo meno evidente, in quello delle tecnologie di interpretazione assistita sono stati fatti indubbiamente passi da gigante. C’è chi prevede che presto le professioni del traduttore e dell’interprete saranno un ricordo del passato, ipotesi di chi in genere ha un’idea piuttosto limitata non solo dell’atto del tradurre, ma dell’atto linguistico in generale. Quello che molti dei traduttori e degli interpreti presentati da Aslanyan hanno fatto è stato molto di più di quello che potrebbe fare una macchina: hanno mediato linguisticamente e culturalmente.
Provate a pensare a una macchina che traduce quanto dice un ginecologo italiano a una giovane donna marocchina in un ospedale. E pensate a quanto può essere decisivo invece l’intervento di un mediatore o una mediatrice capace di comprende la complessità di quanto c’è in gioco in quel momento. Ma così in qualunque situazione in cui il dialogo è, come dovrebbe essere, una interrelazione vera e vitale. Chiude Aslanyan con una nota di ottimismo sul futuro non solo per la professione dell’interprete e del traduttore ma dei parlanti in generale: “Fino a quando il linguaggio non si restringerà al compito di collocare delle parole più o meno corrette in un ordine più o meno corretto; finché continueremo a scherzare e a imprecare, a elogiare e a ironizzare, parlando e scrivendo schiettamente oppure no; fintantoché la comunicazione umana continuerà a includere tutto ciò e molto altro, parafrasando Mark Twain potremo affermare - senza tema di smentita - che le notizie sulla morte del traduttore sono state fortemente ingigantite” (p. 256). O almeno così spera chi ha a cuore la libertà di pensare, parlare e interpretare anche oltre gli algoritmi e le statistiche, illudendosi magari di potere ancora scegliere.
“La misura dell’amore è amare senza misura”? Sant’Agostino non l’ha mai detto!
di Giovanni Marcotullio (Aleteia Italia - pubblicato il 09/06/17)
Si può provare a fare una retroversione nella lingua originale e vedere cosa viene fuori dalla ripetizione della ricerca: nella fattispecie il compito è abbastanza semplice perché, malgrado il latino conosca diverse parole per dire “misura” e diverse per dire “amore”, la frase “mensura amoris sine mensura amare” è ancora una volta in testa alle chiavi di ricerca indicizzate da Google. Ciò non vuol dire che Agostino abbia mai scritto una cosa del genere (e neppure che in latino quella frase si scrivesse davvero in quel modo).
Qual è un forte indizio che deve insospettirci, su questi punti? Il fatto che una ricerca produca, sì, dei risultati, ma nessuno risalente a un libro stampato: ossia Google non conosce alcun libro in cui quella frase, in quel latino, venga riportata. Il che è molto strano, se si pensa che Agostino morì nel 430 d.C. e che da allora i suoi libri sono stati continuamente copiati, citati, interpolati e plagiati. E nessuno riporta questa citazione?
Come si svela l’arcano?
La frase in questione, in effetti, la scrisse Bernardo di Chiaravalle, non Agostino d’Ippona, ed è l’incipit del primo capitolo del trattato De diligendo Deo (sul dovere di amare Dio), composto dopo il 1126 ma non oltre gli anni ’30 del XII secolo. A leggerla tutta intera suona così:
Che strano: un fan di Prince non vorrebbe mai attribuire a Michael Jackson una canzone del suo beniamino, e appunto l’abate di Chiaravalle non è certo meno famoso del vescovo di Ippona. Come può essere andata la faccenda?
Verosimilmente così, ed è importante capirlo per comprendere come nascono certe pseudoepigrafie involontarie:
Ma non è colpa di nessuno di questi, come non aveva colpa Johann Amerbach, che nel 1506 a Basilea dava alle stampe (questa nuova tecnologia che prometteva meraviglie!) l’editio princeps delle opere di sant’Agostino, in 11 volumi. Non aveva avuto delle fonti eccellenti ma ce l’aveva messa tutta, per anni, per sfuggire alle pseudoepigrafie (e alcuni erano stati veramente bravi, tra il V e il VII secolo, a scrivere in modo molto simile a quello di Agostino...). -Nella prefazione al primo volume si indirizza al paziente lettore chiedendogli scusa se per caso gli fosse scappato ancora qualche falso di tra le grinfie:
Eh, sì, il problema di fake news e di misattributions è vecchio quanto la parola nella bocca degli uomini, e si è rinnovato ogni volta che i mezzi della parola umana si sono fatti più potenti. Altre volte, come per questa frase di Agostino, la confusione e l’errore saranno stati probabilmente accidentali. La cosa bella, in fin dei conti, è che anche in tutto questo confuso viavai si sia cercato di progredire nella conoscenza della verità. In fondo,
Lo diceva San Paolo, anche se qualcuno attribuisce la citazione a Mark Zuckerberg!
PS: E a proposito, un attento studioso di Agostino mi ha prontamente segnalato che un’espressione simile a quella ricercata si trova in una lettera che il Vescovo ricevette da un confratello suo corrispondente, Severo di Milevi. Se dunque san Bernardo avesse attinto anche lui a qualche autore precedente, con una citazione sottile ed erudita, questi sarebbe forse potuto essere il corrispondente del Doctor Gratiæ:
TRADUZIONE E DISTRUTTIVITA’ SEMANTICA. UNA LEZIONE DI GIANNI RODARI. L’Acca in fuga ... *
Letteratura.
Quando tradurre diventa creatività semantica
In un saggio Arduini interviene su una polemica antica relativa alla trasposizione dei libri in altra lingua. Dalle Scritture al caso Amanda Gorman
di Alberto Fraccacreta (Avvenire, martedì 13 aprile 2021)
La traduzione è un problema? Lo sono i traduttori. È quello che sta succedendo in Europa particolarmente, in Paesi Bassi e Spagna - per la versione del nuovo libro (in uscita a fine marzo) di Amanda Gorman, la ventitrenne poetessa afroamericana resa celebre dalla lettura di The Hill We Climb durante la cerimonia di insediamento del presidente Biden. La polemica si può sintetizzare in questi termini: i bianchi non possono comprendere a fondo (e quindi tradurre) testi afroamericani specificamente dedicati a questioni razziali. Al di là di accese diatribe, certo è che il processo di traduzione non coincide soltanto con un trasferimento di figure e immagini in una lingua differente, ma ha la capacità di entrare nel cuore delle idee e modificarle.
È l’ipotesi affascinante che emerge dal saggio di Stefano Arduini, Con gli occhi dell’altro. Tradurre ( Jaca Book, pagine 216, euro 18), ruotante attorno a dieci nuclei tematici (tra cui ’verità’, ’bellezza’, ’intraducibile’) intessuti di citazioni e rimandi dall’Antico e Nuovo Testamento, con uno sguardo ai Padri della Chiesa e alle versioni dei primi secoli del cristianesimo. «Se la traduzione riscrive le nostre configurazioni di conoscenze - commenta Arduini, ordinario di Linguistica all’università Lcu di Roma -, non può essere intesa come qualcosa che ripete il già detto in modo diverso, ma come un’operazione cognitiva che crea nuovi concetti ». Il tradurre diviene così un’«esperienza intellettuale » a livello estremamente creativo. Esempio lampante è il concetto di altro, transitato attraverso un estenuante tourbillon di variazioni semantiche: i termini greci hèteros e allos, i latini alter e alius, ma anche le nozioni di ospitalità nell’indoeuropeo segnalate da Benveniste e poi riformulate alla luce della filosofia di Ricoeur (la reciprocità e la sollecitudine), Lévinas (l’invocazione), Florenskij (la sophia e la costruzione del soggetto fuori da sé) e Meschonnic (la signifiance).
Tradurre vuol dire mettere in gioco costantemente l’identità e l’alterità, instaurare un’amicizia che pervade l’io nel rapporto col tu. Evitando di annettere a sé una cultura diversa, Arduini scrive: «Dobbiamo stare in silenziosa attesa di fronte all’alterità e in qualche modo rispettarla, accettare quello spazio vuoto». Solo così il traduttore, «figura emblematica della nostra contemporaneità multiculturale», può assolvere al compito di cogliere le diversità e accoglierle. Qui ci soccorre di nuovo Ricoeur col mirag- gio dell’«ospitalità linguistica »: «abitare la lingua dell’altro», guardare le cose con i suoi occhi, nel solco di quell’incontro a cui la traduzione ci educa.
L’indagine si sposta sul Prologo del Vangelo di Giovanni e in particolare su logos, divenuto verbum nella Vulgata. La sostanziale polisemia del sostantivo greco rende ardua un’adeguata trasposizione, ma ciò che più importa è che, sul piano linguistico e teologico, le speculazioni sorte attorno all’incipit giovanneo hanno modificato di fatto il corso della ricezione storica, configurandosi come «nuovi concetti per nuovi mondi».
Lo stesso accade in Esodo 3,14 con la notissima espressione «Io sono colui che sono» (dall’ebraico ehyeh asher ehyeh). Siamo di fronte a un passo nei limiti del traducibile perché la posizione aspettuale del predicato nella lingua d’origine tecnicamente si tratta di un imperfettivo - pone alcune insanabili ambiguità. Ecco le possibili traduzioni: «Io ero quello che ero, Io sarò quello che sarò, Io ero quello che sarò, Io sarò quello che ero». (E tuttavia non ne esce scalfita l’immutabilità di Dio.) Aquila, Filone, Origene e poi Agostino, Girolamo e Tommaso: l’innesto del pensiero greco e latino nel sostrato ebraico fa scintille e la catena di rivolgimenti aggiunge e perde qualcosa, generando però un’identità completamente inedita. Gli slittamenti semantici del termine parresia (dire tutto) sembrano invece riscrivere un’intera ’enciclopedia culturale’: dibattito e libertà di parola nel greco precristiano, apertura del cuore e trasparenza dell’anima in Dio sul versante veterotestamentario, rivelazione di Gesù e presenza dello Spirito in ambito neotestamentario. Ma nei primi secoli dopo Cristo - come suggerisce Michel Foucault - parresia diviene coraggio della verità, coraggio dei martiri nel testimoniare la fede.
Universi concettuali affini o distanti sorgono anche nelle traduzioni dei presocratici e nelle variazioni dell’amore dall’ebraico ’ahavahfino alla diade inconciliabile di eros e agape, quest’ultimo forse non voce indoeuropea ma più probabilmente prestito di area semitica. Sulla scia di Cicerone, Girolamo traduce agape in caritas e attua così un’importante svolta nella conformazione del pensiero occidentale: nasce «qualcosa di nuovo che è stato creato dal movimento del linguaggio». Cognitivista di lunga data, esponente di spicco della traduzione biblica e dei Translation Studies, Arduini ci conduce nelle arcane radici delle lingue antiche (si pensi ai termini che in ebraico indicano bellezza, Jafeh, bello esteriore, e Tôb, lo spazio del bene della Genesi) lasciandoci, con la ’moltiplicazione degli sguardi’ data dal mito di Babele, alle soglie dell’Intraducibile. Il traducibile all’infinito.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
PER RATZINGER, PER IL PAPA E I CARDINALI, UNA LEZIONE DI GIANNI RODARI. L’Acca in fuga
Federico La Sala
Cei. Alla scuola della Buona Notizia. “Il Nuovo Testamento greco-latino-italiano”
“Il Nuovo Testamento greco-latino-italiano” pubblicato dalla Cei, strumento al servizio della Parola
Nell’opera il testo neotestamentario greco è presentato con a fronte quelli latino e italiano nelle loro edizioni autorevoli più recenti
di Riccardo Maccioni *
Nel segno dello studio, della conoscenza, del dialogo. Soprattutto nel segno della Parola, che diventa preghiera, vita spirituale, servizio, faro della comunità. La pubblicazione de “Il Nuovo Testamento greco latino italiano” non riguarda infatti solo gli specialisti ma, nella ricerca di una sempre maggiore fedeltà alle fonti, si propone anche come sostegno a un cammino di fede maturo.
Per tutti. Dal parroco che prepara l’omelia domenicale, al credente forse un po’ più preparato della media e desideroso di approfondire la Buona Notizia. Il volume (1854 pagine su carta Bibbia avoriata, 80 euro) è pubblicato dalla “Fondazione di religione Santi Francesco d’Assisi e Caterina da Siena” della Conferenza episcopale italiana. A curarlo il cardinale Giuseppe Betori arcivescovo di Firenze e Valdo Bertalot già segretario generale della Società Biblica in Italia.
Un’opera importante che riporta il testo del Nuovo Testamento greco con a fronte quelli latino e italiano nelle loro edizioni autorevoli più recenti: The Greek New Testament-5th Revised edition/GNT (Deutsche Bibelgesellschaft DBG, 2014, con relativo apparato critico-testuale), Nova Vulgata-Bibliorum Sacrorum Editio, Editio typica altera/NV (Libreria Editrice Vaticana 1986 con relative note), La Sacra Bibbia-Versione ufficiale della Conferenza episcopale italiana/Cei 2008 con relative note.
Il nostro lavoro - spiega Bertalot - si caratterizza per alcune significative novità. Sotto il profilo editoriale «rappresenta, fatta eccezione per quella della DBG, l’unica pubblicazione che riporta il testo greco insieme all’intero apparato di critica testuale del GNT frutto di un comitato editoriale internazionale e interconfessionale». Inoltre «è la prima volta che una Conferenza episcopale nazionale presenta ufficialmente il GNT e la propria versione ufficiale della Bibbia arricchita dal testo con valore normativo della Nova Vulgata». C’è poi da sottolineare l’aspetto più prettamente ecumenico del lavoro, nel solco di un percorso iniziato con la stagione conciliare. Una dimensione - prosegue Bertalot - che «investe pienamente la collaborazione fra le diverse confessioni cristiane per lo studio della Bibbia, per la sua traduzione e trasmissione nell’opera missionaria di annuncio della Parola di Dio». Ma c’è un altro aspetto da sottolineare, quantomeno da non sottovalutare, e riguarda il dato per così dire “temporale” della pubblicazione. Il Nuovo Testamento trilingue esce infatti in parallelo alla Lettera apostolica “Scripturae Sacrae affectus” scritta da papa Francesco per il XVI centenario della morte di san Girolamo cui si deve la celebre, fulminante espressione: «Ignoratio Scripturarum ignoratio Christi est». L’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo.
Un “monito” ricordato dal cardinale Betori durante la presentazione, il 29 ottobre scorso, dell’opera al Papa, nella speranza «che possa essere uno strumento per far crescere la conoscenza di Cristo, perché, come da lei auspicato, ciascuno diventi capace di aprire il libro sacro e di trarne i frutti inestimabili di sapienza, di speranza e di vita».
IL PADRE NOSTRO (Matteo 6,8-13)
9 Voi dunque pregate cosi: Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome,
10 venga il tuo regno, sia fatta la tua volonta, come in cielo cosi in terra.
11 Dacci oggi il nostro pane quotidiano,
12 e rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori,
13 e non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal male.
9 Sic ergo vos orabitis: Pater noster, qui es in caelis, sanctificetur nomen tuum,
10 adveniat regnum tuum, fiat voluntas tua, sicut in caelo, et in terra.
11 Panem nostrum supersubstantialem da nobis hodie;
12 et dimitte nobis debita nostra, sicut et nos dimittimus debitoribus nostris;
13 et ne inducas nos in tentationem, sed libera nos a Malo.
PIÙ GRANDE E’ LA CARITÀ
(1 Corinzi 13, 1-6)
Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita.
2 E se avessi il dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza, se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla.
3 E se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe.
4 La carità è magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio,
5 non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto,
6 non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità.
7 Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta.
Si linguis hominum loquar et angelorum, caritatem autem non habeam, factus sum velut aes sonans aut cymbalum tinniens.
2 Et si habuero prophetiam et noverim mysteria omnia et omnem scientiam, et si habuero omnem fidem, ita ut montes transferam, caritatem autem non habuero, nihil sum.
3 Et si distribuero in cibos omnes facultates meas et si tradidero corpus meum, ut glorier, caritatem autem non habuero, nihil mihi prodest.
4 Caritas patiens est, benigna est caritas, non aemulatur, non agit superbe, non inflatur,
5 non est ambitiosa, non quaerit, quae sua sunt, non irritatur, non cogitat malum,
6 non gaudet super iniquitatem, congaudet autem veritati;
7 omnia suffert, omnia credit, omnia sperat, omnia sustinet.
DA SAPERE Lo scorso 29 ottobre la consegna al Papa
Il “Nuovo Testamento greco latino italiano”, è pubblicato dalla Fondazione di religione Santi Francesco d’Assisi e Caterina da Siena della Conferenza episcopale italiana. Si tratta di un ampio volume (1854 pagine su carta avoriata) che presenta il testo greco con a fronte quello italiano e latino nelle recenti autorevoli edizioni: “The Greek New Testament-5th Revised edition” (Deutsche Bibelgesellschaft o DBG 2014), Nova Vulgata-Bibliorum Sacrorum Editio, Editio typica altera (Libreria editrice vaticana 1986), La Sacra Bibbia versione ufficiale della Cei (Fondazione di religione Santi Francesco d’Assisi e Caterina da Siena 2008)). La pubblicazione si apre con una ricca presentazione di A. Kurschus, praeses della Chiesa evangelica della Westfalia e presidente della DBG, del cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della cultura e del cardinale Giuseppe Betori arcivescovo di Firenze, quest’ultimo curatore dell’opera insieme a Valdo Bertalot, già segretario generale della Società Biblica in Italia che firma invece la prefazione.
A completare il libro anche introduzioni specifiche per ogni lingua del testo, sei diversi indici e quattro carte geografiche sul mondo biblico. Il Nuovo Testamento trilingue è stato consegnato il 29 ottobre scorso al Papa di cui richiama, nella presentazione, la Lettera apostolica “Scripturae Sacrae affectus” dedicata, nel XVI centenario della morte, a san Girolamo, definito dal Pontefice «infaticabile studioso, traduttore, esegeta, profondo conoscitore e appassionato divulgatore della Sacra Scrittura». Un amore alla Bibbia che Francesco sottolinea attraverso l’immagine spesso associata al santo di “Biblioteca di Cristo. Una biblioteca perenne - spiega Francesco - che continua a insegnarci che cosa significhi l’amore di Gesù, «indissociabile dall’incontro con la sua Parola». La distribuzione dell’opera è curata direttamente dalla Libreria Editrice Vaticana (Via della Posta, 00120 Città del Vaticano; email: commerciale.lev@spc.va; sito: https://www.libreriaeditricevaticana.va/it/).
* Avvenire, sabato 9 gennaio 2021 (ripresa parziale, senza immagini).
L’anima e la cetra /22.
La civiltà della cicogna
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 29 agosto 2020)
Gratitudine è una parola essenziale. È parola prima nella famiglia, nelle comunità, meno nelle imprese moderne, dove la gratitudine con le sue parole gemelle riconoscenza e ringraziamento non trova lo spazio che meriterebbe a causa della sua fragilità. Gratitudine - da gratia, charis - è molto imparentata con il "grazie", una parola che impariamo dai genitori da bambini e che poi non esce più dai nostri rapporti. Anche quei "grazie" che diciamo, più volte al giorno, per rispetto delle norme sociali, portano qualche traccia della gratitudine, che però si manifesta più pienamente in altri "grazie", quelli attesi e desiderati, non pretesi. Sono quelli decisivi nei rapporti più importanti, quelle gratitudini delicate, più femminili che maschili, più sussurrate che dette, che arrivano nei momenti cruciali della vita. Il grazie di quel collega nell’ultimo giorno di lavoro, uguale e diverso da tutti gli altri, scritto nel biglietto con il regalo di addio. Quello dello studente con più difficoltà, che nell’ultimo giorno di scuola ti lascia sulla cattedra un post-it: "Grazie prof"; o quello che nel giorno della partenza da casa, per seguire una voce, non siamo riusciti a dire ai genitori perché rimasto strozzato in gola, e che poi molti anni dopo abbiamo scoperto essere simile a quei grazie ineffabili che vengono sussurrati ogni giorno nei capezzali.
Questa gratitudine ha nella gratuità la sua bellezza e il suo dramma. Non essendo un contratto, la gratitudine ha valore solo se gratuita (gratitudine e gratuità sono quasi la stessa parola). Ma contiene anche una dimensione di dovere e di obbligo. Perché se da una parte le qualità più preziose della gratitudine sono libertà e dono, dall’altra ci sono alcune gratitudini che quando mancano generano ingratitudine, una delle passioni più forti e portatrici di sofferenza. La gratitudine è infatti una forma della reciprocità (ri-ngraziare, ri-conoscenza), e quindi c’è in essa anche una dimensione di restituzione di qualcosa che si è avuto prima. La presenza dell’ingratitudine accanto alla riconoscenza rende il ringraziare un’esperienza complessa. Perché con la gratitudine siamo al centro della paradossale semantica del dono e della reciprocità, quindi di quelle emozioni e azioni che sono un intreccio di attese e pretese, libertà e obbligo, gratuito e doveroso. Non possiamo pretendere che prima del trasloco la vicina di casa ci inviti e ci dica grazie per le piante annaffiate per lei nelle molti estati passate, ma se non lo fa non siamo contenti, e quella ingratitudine rovina qualcosa d’importante in quel rapporto. E forse pochissimi aggettivi più di "ingrato" ci fanno male, se pronunciati dalle persone cui teniamo.
Come è vero che noi conosciamo veramente, riconosciamo le persone solo alla fine di un rapporto, quando si manifesta la loro capacità di riconoscenza - che a volte si estende anche oltre la vita: mi colpisce sempre vedere la fedeltà grata di molti e soprattutto molte donne che per anni, decenni, curano la tomba dei loro cari. Noi soffriamo molto per l’ingratitudine, anche perché c’è in ognuno la tendenza a sovrastimare il credito di riconoscenza nei confronti degli altri (e a sottostimare il proprio debito), e così siamo accompagnati da una costante sensazione di non essere ringraziati abbastanza. La gratitudine, poi, è un sentimento che ha bisogno della durata. Non nasce se non dentro rapporti stabili e durevoli. Si manifesta oggi ma è maturata ieri, e quindi è un esercizio della memoria: ricordando ciò che sei stato per me mi nasce ora in cuore la gratitudine. Ecco perché l’icona che accompagnava nell’antichità classica la raffigurazione della gratitudine era la cicogna, perché aveva fama leggendaria di prendersi cura dei genitori diventati vecchi.
La Bibbia insegna a coltivare ed esprimere la gratitudine anche verso Dio: «Rendete grazie al Signore perché è buono, perché il suo amore è per sempre» (Salmo 107,1). La comunità dei credenti è anche comunità di grati, perché comunità di salvati. Il Salmo 107 è infatti un canto di rendimento di grazie (ce ne sono molti nel Salterio) che nasce dall’esperienza della salvezza. Sono quattro i paradigmi di salvezza del salmo: dalla fame e sete («vagavano nel deserto su strade perdute... Erano affamati e assetati, veniva meno la loro vita»: 107,4-5), dalla prigione («Altri abitavano nelle tenebre e nell’ombra di morte, prigionieri della miseria e dei ferri... perché ha spezzato le sbarre di ferro»: 10-16), da malattie mortali («rifiutavano ogni sorta di cibo e già toccavano le soglie della morte. Nell’angustia gridarono al Signore, ed egli li salvò dalle loro angosce»: 18-19), dai pericoli in mare: «Altri, che scendevano in mare sulle navi e commerciavano sulle grandi acque... La tempesta fu ridotta al silenzio, tacquero le onde del mare» (23-29). E dopo ogni scena, quattro volte il ritornello di ringraziamento: «Ringrazino il Signore per il suo amore, per le sue meraviglie a favore degli uomini» (15). È l’esperienza concreta della salvezza che genera il rendimento di grazie, che fa fiorire la gratitudine. Una salvezza concreta, da mali del corpo, che ricorda le salvezze del Gesù storico, che mentre annunciava una salvezza spirituale liberava le persone da mali concreti, sfamava e guariva. La salvezza che produce gratitudine è sempre puntuale, è sempre una resurrezione concreta.
La salvezza, parola decisiva nella Bibbia e poi nel cristianesimo, ha molto a che fare con la dinamica paradossale della gratitudine. Da una parte, sul lato di Dio, è tutta dono, non è spiegabile dentro un registro di condizionalità, di do-ut-des. No: siamo salvati e basta. La salvezza non è guadagnata dalle nostre virtù e meriti - forse dal nostro grido: «Nell’angustia gridarono al Signore, ed egli li salvò dalle loro angosce» (107,13). La salvezza è risposta a un grido, ma non è risposta a un’azione che la giustifica: il grido è espressione di fede, e la giustificazione per quella salvezza è la fede (qui si vede, tra l’altro, quanto la teologia di san Paolo fosse ancorata nell’Antico Testamento). Ma è molto bello e consolante che in tutto questo Salmo gli uomini salvati non sono il popolo di Israele, non sono gli eletti: sono uomini e basta.
Questa salvezza è universale: basta gridare - e forse lo facciamo troppo poco. Al tempo stesso la Bibbia chiede al salvato la riconoscenza, lo invita a ringraziare Dio per la salvezza. Sta qui un altro grande senso della preghiera: non si prega solo (né tanto) per ottenere la salvezza (il grido biblico è una strana forma di preghiera), ma si deve pregare soprattutto per ringraziare. Lo stesso Gesù si mostra sensibile alla gratitudine e all’ingratitudine. Spesso le persone hanno imparato a pregare per dire grazie: non avevano chiesto nulla, hanno sperimentato una salvezza, e hanno ringraziato. E da quel ringraziamento è nata la preghiera.
La nascita più bella, tutta gratuità, liberata da ogni residuo di fede commerciale.
È difficile restare nella gratitudine, è arduo rimanere nella condi-zione di chi ringrazia perché sa che ciò che possiede è tutto dono, che la salvezza che sperimenta ogni giorno è tutta gratuità. È difficile soprattutto per l’uomo di fede. Perché, una volta sperimentata una salvezza e imparata la gratitudine, negli uomini (meno nelle donne) nasce progressivamente e naturalmente l’esigenza di volersi meritare le salvezze future, di sentire che nella salvezza che ci arriva ogni mattina c’è anche qualcosa di nostro, che abbiamo contribuito anche noi, che c’è una quota di co-finanziamento in quel mutuo dal valore infinito che ci viene offerto, che quella misericordia, quell’amore fedele (hesed) un poco ce lo siamo meritato. Così l’esperienza dell’"essere salvati" si trasforma, poco alla volta e senza rendersene conto, nel "salvarsi". E ogni volta che il salvarsi ruba terreno all’essere salvati si riduce inevitabilmente il valore della gratitudine.
È umano, è umanissimo. Perché a noi uomini non piace dipendere interamente dalla gratuità degli altri, ci piace conquistarci con il nostro sudore e i nostri meriti le nostre salvezze, amiamo troppo quella reciprocità dove ci si alterna nei movimenti del dare e dell’avere. Anche perché abbiamo visto quanta ingiustizia ha prodotto la mancanza di reciprocità, quanta diseguaglianza, quanti poveri tenuti in una condizione di perenne sudditanza per il fatto di dipendere interamente dai loro padroni.
L’idea di un Dio che ci dona tutto e da cui dipendiamo totalmente ha prodotto anche una teologia politica-economica che non ha certo aiutato i poveri a liberarsi dalla loro condizione di inferiorità, e una gratitudine sbagliata, unidirezionale e obbligatoria, che ha lasciato sull’Europa e sul mondo una sofferenza infinita. I riscatti dei popoli sono stati anche riscatti da queste teologie che avevano usato una certa idea di Dio per legittimare, sacralizzandole, strutture ingiuste di potere. Da qui il meraviglioso movimento civile, economico e politico che negli ultimi secoli ha voluto legare i diritti alla natura o a un patto sociale ugualitario originario, e gli stipendi al lavoro.
E mentre si svolgeva, e continua a svolgersi, questo grande movimento etico dei popoli, la Bibbia sta lì, fedele a se stessa, a ricordarci che queste logiche, essenziali e benedette nei rapporti inter-umani, non vanno applicate a Dio, che va tenuto al di sopra dai nostri meriti. Perché se manca un principio di gratuità assoluta nella fondazione della nostra vita a ricordarci che prima e dopo i meriti c’è un dono infinito, ogni meritocrazia diventa dittatura dei più forti sui deboli.
Il Dio biblico non ci ama perché ce lo meritiamo - o perché ce lo meritiamo più degli altri - ma perché siamo, semplicemente, suoi figli e figlie, e la figliolanza non è una relazione meritocratica, nonostante le proteste del figlio maggiore della parabola. Dobbiamo ringraziare, è questo il nostro dovere, ma il nostro dire grazie oggi non è la pre-condizione meritoria per essere salvati domani: Dio ci salverebbe ancora anche se fossimo ingrati. Sapere e ricordare questa gratuità assoluta di Dio ci dice, poi, che da qualche parte del nostro essere, fatto a sua immagine, siamo più grandi della reciprocità, e anche noi, almeno una volta, possiamo amare chi non non se lo merita, possiamo amare un ingrato.
La cicogna è anche colei che ci porta i bambini. Le civiltà della cicogna sono quelle che hanno saputo tenere insieme la gratitudine verso i vecchi e l’amore per i bambini. Questo lo sapeva bene il Quarto comandamento, che associa l’onora il padre e la madre al "prolungamento dei nostri giorni sulla terra". Solo i bambini sanno allungarci la vita.
L’AMORE ("CHARITAS") NON E’ LO ZIMBELLO NE’ DEL TEMPO NE’ DELLA FILOLOGIA. IL SONNAMBULISMO DI HANNAH ARENDT E MARTIN HEIDEGGER (e dell’intera storiografia filosofica, teologica, e filologica):
Martin Heidegger e Hannah Arendt: la storia della fedeltà all’amore
A cura di bea *
Negli anni in cui Martin Heidegger andava elaborando "Essere e tempo" (1927) ebbe un’intensa avventura amorosa con una sua studentessa: Hannah Arendt aveva solo diciotto anni, ed era una giovane donna di un’ intelligenza vivace e profonda. Diventò a poco a poco una vera musa ispiratrice per il pensatore tedesco: tra i due, già dal 1925, ci furono intensi scambi epistolari, grazie ai quali è possibile non solo ricostruire il loro silenzioso amore, ma anche riflessioni più intime su temi profondi, quali il rapporto “verità-amore” e “fedeltà”.
Nel paragrafo 29 di “Essere e tempo”, l’opera più famosa di Martin Heidegger, troviamo due citazioni: la prima è di Pascal
La seconda, più incisiva, è di Agostino di Ippona
Anche se non sono citazioni dell’autore, queste prove bastano ad annullare quanto sostenne K. Jaspers, ovvero che la filosofia di Heidegger fosse “senza amore”.
Se da un lato possiamo capire la sua posizione, in quanto nell’opera i temi principali ruotano attorno all’essere, il Dasein, il tempo e la morte, dall’altra è fondamentale chiedersi il perchè di quelle due citazioni.
La spiegazione la troviamo nella vita reale del filosofo. Negli anni in cui andava elaborando Essere e tempo (1927) ebbe un’intensa avventura amorosa con una sua studentessa: Hannah Arendt aveva solo diciotto anni ed era una giovane donna di un’ intelligenza vivace e profonda.
Diventò a poco a poco una vera musa ispiratrice per il pensatore tedesco: tra i due, già dal 1925, ci furono intensi scambi epistolari, grazie ai quali è possibile non solo ricostruire il loro silenzioso amore, ma anche riflessioni più intime su temi profondi, quali il rapporto “verità-amore” e “fedeltà”.
Nelle ultime lezioni che Heidegger tenne a Marburgo nel semestre estivo del 1928 si fa riferimento alle due citazioni: egli riprende delle riflessioni che aveva scambiato con Max Scheler, per il quale amore e odio fondano la conoscenza, e sulla scia di una frase dell’Ordo Amoris “L’uomo, prima di essere un ente pensante o volente è un ente amante”, costruisce il motore immobile e invisibile che dà vita al suo Dasein, l’essere-nel-mondo.
Se Heidegger si appella ad Agostino e a Scheler, significa che l’amore è per lui un modo di apertura più originario di ogni conoscenza.
In riposta alla teoria delle passioni, la Arendt scrive nel 1953
Essere-nell’amore significa fare in primis esperienza dell’esistenza più “propria” e poi scoprire, in due, che l’essere nell’esistenza significa anche volere l’esistenza dell’altro. Amo, come dice Agostino, significa volo ut sis, ti amo, voglio che tu sia ciò che sei.
scriveva Heidegger alla sua studentessa.
Amare è anche lasciare libero l’altro, amare è cogliere il “tu” pur lasciandolo essere, senza cercare di possederlo: “... lasciar essere l’essere”
scrive il filosofo circa il concetto di libertà ne Lettere sull’umanismo.
Secondo la Arendt l’amore non consiste propriamente solo nei sentimenti verso l’ altro, ma prende una forma propria, che chiede qualcosa a entrambi gli amanti.
Se è fuori da ogni dubbio che Heidegger la amò, spingendola ad essere libera, resta tuttavia il fatto che rifiutò ostinatamente di cambiare per lei il corso della propria vita: non avrebbe mai lasciato il suo “punto fisso”, Elfride.
La concretizzazione del loro amore non avvenne mai. Avevano sì un mondo loro, ma era pur sempre circoscritto a qualche momento fuggitivo.
Hannah decise di chiudere la clandestina relazione, e lui, nonostante l’avesse ritenuta da sempre “molto più di una stella cadente”, non la trattenne, conservando però la speranza di riconquistarla.
In realtà tra i due ci fu sempre un collegamento, una sintonia che si riflette nelle numerose lettere che i due si spedirono anche dopo il primo matrimonio -poi fallito- della Arendt con G.Stern. Qualcosa cambiò nel 1933, quando Heidegger aderì al partito nazionalsocialista.
Nel frattempo la giovane Hannah si era trasferita a Parigi, dove sposò “il suo grande amore”, il filosofo tedesco H.Blucher, con il quale si imbarcò per gli Stati Uniti, lasciandosi alle spalle i ricordi del tormentato amore con quella “volpe” di Heidegger. Come un vero Don Giovanni, egli passa di donna in donna alla ricerca della Donna, vale a dire una “verità della Donna”, rifacendosi alle teorie filosofiche di Proust e Sartre:
Alla ricerca di questa verità, passa da graziose dottorande a giovani signore eleganti. Inoltre, si può notare che il suo Amore non si mostra affatto platonico, anzi l’amore si manifesta principalmente nell’effervescenza sessuale.
Non è dunque un caso che dedichi un libro su Platone alla sua “moglie-rifugio” Elfride, né che mandi alla Arendt alcuni versi dell’Antigone di Sofocle in cui il coro evoca il dio Eros.
Il 1950 è un anno di crisi per Hannah: se da una parte il secondo matrimonio sembra crollare a causa di un tradimento da parte del marito, dall’altra è un momento di riflessione feconda su un tema molto delicato, la fedeltà. Tra i due non c’erano più segreti, Blucher era al corrente delle lettere che mandava ancora al suo professore-amante, e addirittura la incoraggiava a riallacciare i rapporti.
Ma è nel suo Diario intellettuale che la filosofa trae le conclusioni dei vari episodi della sua vita.
Rispondere all’infedeltà - come è abitualmente intesa - con la gelosia equivale quindi a una perversione della fedeltà. L’infedeltà più grave e terribile che possa esistere, il peccato più grande è per la Arendt l’oblio, poiché spegne la Verità, la verità che è stata.
È per questo motivo che, pur con tutto l’orrore provato per l’adesione di Heidegger al partito nazista, decise di restare sempre in contatto, mentale e non, con lui. Un’affinità elettiva non priva di tormenti e sofferenze, incomprensioni e oscurità.
Più che di perdono, bisognerebbe parlare di una volontà di non rinnegare ciò che era stato “l’evento dell’amore”.
* A cura di bea - 30 Luglio 2014
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
"LEZIONE SU KANT" A GERUSALEMME: PARLA EICHMANN "PILATO", IL SUDDITO DELL’"IMPERATORE-DIO". Il ’sonnambulismo’ di Hannah Arendt prima e di Emil Fackenheim dopo.
DANTE 2021: DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica.
Federico La Sala
HANNAH ARENDT E MARTIN HEIDEGGER: VITA E FILOSOFIA. IL PROBLEMA DELLA NASCITA... *
Arendt, sempre al di là del dove, e ora stretta in una striscia
Questioni tedesche/Graphic. Dall’infanzia prussiana, all’università con Strauss, Löwith, Marcuse, Lévinas, alla bohème berlinese, all’esilio parigino, a N.Y. «Le tre fughe di Hannah Arendt» di Krim Krimstein, da Guanda
di Alessandro Dal Lago (il manifesto, Alias Domenica, 13.10.2019)
Nell’opinione comune, i filosofi sono gente reclusa in studi foderati di libri e priva, in sostanza, di biografia e accessi al mondo. Fu Hannah Arendt, per esempio a citare una frase di Heidegger su Aristotele, secondo cui lo stagirita «visse, lavorò e morì». L’immagine del filosofo come essere estraneo alla vita e alla realtà è stata formata nell’Ottocento da un libretto divertente e maligno di Thomas de Quincey, Gli ultimi giorni di Immanuel Kant, in cui il gran saggio è mostrato come un vecchio un po’ rimbambito che vaga per le vie di Königsberg e si sbrodola a tavola.
In realtà, un buon numero di pensatori ebbe una vita turbolenta e attiva. Pitagora esaltava le pratiche sportive e Platone, oltre che essere esperto di lotta, tentò a più riprese di influenzare il governo di Siracusa, per essere infine venduto come schiavo dal vendicativo tiranno Dionisio il vecchio, con cui era entrato in conflitto. Quanto a Cartesio, si sa che prima di chiudersi in una capanna a meditare sul cogito era stato soldato nella guerra dei trent’anni. E non parliamo di Leibniz, matematico, diplomatico ed esperto di miniere, o di Voltaire che corrispondeva con i principi di tutta Europa e interveniva pubblicamente contro la tortura e la pena di morte.
La rinuncia alla filosofia
È forse pensando alla leggenda grigia dei filosofi maldestri e appartati che il cartoonist Krim Krimstein ha dedicato una storia a fumetti o graphic novel a Hannah Arendt, la filosofa che meno corrisponde all’immagine del pensiero solitario ed estraneo al mondo. In Le tre fughe di Hannah Arendt. La tirannia della verità (traduzione di Antonella Bisogno, Guanda, pp. 233, e 20,00) Krimstein realizza il singolare tentativo di fondere la biografia di Arendt con il suo pensiero. L’aspetto più interessante in questa vicenda è l’estraneità di Arendt alla filosofia in senso stretto. Come si legge nel prologo («Umano troppo umano. Introduzione a una vita»): «Come mai questa persona, probabilmente la più grande filosofa del ventesimo secolo, ha rinunciato alla filosofia, e, nonostante questo, il suo pensiero rimane per l’umanità una via praticabile per progredire?».
La domanda rimane senza risposta, nel romanzo a fumetti, e non poteva essere diversamente. Dagli anni Ottanta in poi, la critica, in centinaia di libri e saggi, si è sbizzarrita sulla questione, cercando la soluzione nel tormentato romance di Arendt con Heidegger, il filosofo che cedette al nazismo, nell’incapacità della filosofia contemporanea di pensare la politica e, spiegazione che mi sembra la più ragionevole, in una personalità poliedrica, che cercava la spiegazione dei problemi che la assillavano nella filosofia, certamente, ma anche nella teoria politica, nella storia, nella letteratura e nella poesia. Più che rinunciare alla filosofia, come certamente la stessa Arendt ha affermato, si può dire che la nostra filosofa si sentiva stretta nella galleria soffocante di pensatori accademici, che pure aveva frequentato e variamente apprezzato, da Husserl a Jaspers e allo stesso Heidegger.
Krimstein riversa in immagini la storia di questo personaggio eccentrico, sempre al di là di dove si cerca di fissarla: ebrea, ma affascinata dal pensiero cristiano, allieva dei tre massimi pensatori di area tedesca, ma soprattutto affine al cugino acquisito Walter Benjamin, l’irregolare per eccellenza, attratta dalla dimensione della politica, ma impossibile da classificare in uno schieramento (anarchica e per certi versi tradizionalista, aristocratica e profondamente democratica, sionista in gioventù e critica di Israele e così via).
Tutta questa complessità, d’altronde era giù iscritta nella biografia, che la vede intellettuale a Berlino e studentessa di filosofia a Marburg, perseguitata dai nazisti e fuggiasca in Francia, esule negli Stati Uniti, accademica onorata e infine rigettata dagli intellettuali ebrei e ignorata dagli amici per avere scritto in modo non convenzionale e assai penetrante del processo a Eichmann nel 1961.
Pensatrice fuggiasca per definizione, può Arendt essere inquadrata in modo appropriato da un romanzo a fumetti? Come può il suo pensiero paradossale, ovvero la supremazia dell’azione rispetto al pensiero, che appare nelle sue opere fondamentali (Vita activa e La vita della mente), essere tradotto in vignette?
Krimstein sceglie di privilegiare la biografia rispetto alla teoria, come è inevitabile. E così ci scorrono davanti le immagini dell’infanzia in Prussia, dell’università - in cui frequentò compagni destinati a diventare famosi (Leo Strauss, Karl Löwith, Herbert Marcuse, Emmanuel Lévinas), della bohème berlinese, dell’esilio parigino, della vita intellettuale di New York e infine della solitudine che precedette la morte. Ecco allora che, attraverso la vita di questa filosofa per certi versi inafferrabile, un pezzo di Novecento, con le sue tragedie immani e le sue illusioni scorre davanti agli occhi (si spera) di gente giovane, curiosa e insoddisfatta delle categorie e dei pregiudizi dell’opinione corrente.
Tra le lenzuola di Heidegger
Resta, nell’operazione di Krimstein, qualcosa che probabilmente Arendt non avrebbe troppo apprezzato, e cioè il rilievo eccessivo attribuito alla sua vita intima e sentimentale. Se c’è un aspetto sul quale Arendt rompe con quasi tutta la filosofia del Novecento è la sua critica radicale dell’interiorità. In Vita activa, appare quasi un gesto di disprezzo nei confronti di una certa filosofia, che pretende di chiudersi nella contemplazione della vita soggettiva e dell’anima, invece che del mondo. In questo Arendt si distacca radicalmente dalla fenomenologia e dal suo amato Agostino (Noli foras ire! In interiore homine habitat veritas). Forse Krimstein avrebbe dovuto rammentarlo mentre si accingeva a disegnare Arendt e Heidegger che si scambiano effusioni a letto discettando di morte e verità...
Ma non dovremmo fargliene una colpa. A un periodo di critica, giusta o sbagliata, aspra o apologetica, del pensiero di Arendt è seguita una serie di libri che, in nome della verità biografica, si soffermano sulla sua relazione con Heidegger, ai limiti del gossip filosofico. È mettendo da parte questo genere letterario francamente scadente che il discorso su Arendt può ripartire.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
"LA VITA DELLA MENTE. Conclusioni" (H. ARENDT): AUGUSTO, LA SIBILLA TIBURTINA, E LA "MADONNA DI FOLIGNO"
"NICODEMO O DELLA NASCITA": LA ’LEZIONE’ DI ENZO PACI AI METAFISICI VISIONARI (ATEI E DEVOTI) DI IERI (E DI OGGI).
VITA E FILOSOFIA: METTERSI IN GIOCO, CORAGGIOSAMENTE. PIER ALDO ROVATTI INCONTRA ELVIO FACHINELLI.
Federico La Sala
FILOSOFIA E FILOLOGIA. IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS: CHARITAS....
Tesi di Laurea
IL PRINCIPIO DI CARITÀ [2016]
Definizione e analisi critica tra ermeneutica e logica
a cura di Francesco Gandellini **
SOMMARIO Introduzione .................................................................................................................
1 Sezione 1: il versante ermeneutico ....................................................................... 5
1.1 La genesi agostiniana del principio .................................................................... 7
1.2 L’illuminismo tedesco e il nesso linguaggio-mondo ................................. 23
1.2.1 Wilhelm von Humboldt: “Sprachansicht als Weltansicht” ................................................................... 27 -APPENDICE Georg Friedrich Meier e il “Versuch einer allgemeinen Auslegungkunst” .................................. 43
1.3 La linea ontologica dell’ermeneutica contemporanea .............................. 53
1.3.1 Martin Heidegger e l’analitica esistenziale di “Sein und Zeit” ................................................ 55
1.3.2 Hans-Georg Gadamer e l’ermeneutica ontologica di “Warheit und Methode“ ........................ 69
Sezione 2: la riflessione logica .............................................................................. 85
2.1 Fondamenti teorici della carità in logica ....................................................... 87
α ) La riflessione filosofica di Ludwig Wittgenstein ......................................... 89
β) L’ipotesi della relatività linguistica............................................................ 100
2.2 Willard van Orman Quine e l’argomento di “traduzione radicale” ............................................................... 113
2.3 Donald Davidson e l’interpretazione radicale ..................................................................................... 137
Conclusione .............................................................................................................. 157
Bibliografia ............................................................................................................... 161 -Sitografia................................................................................................................... 163
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INTRODUZIONE
Il termine “carità” deriva etimologicamente dal latino caritas (acc. caritatem, «benevolenza», «amore», questo da
carus, «caro», «costoso», «diletto», «amato»), e a sua volta dal greco χάρις, «grazia». Dal punto di vista dell’etimo, la parola cattura l’idea dell’amore disinteressato ma prezioso verso qualcuno, della benevolenza gratuitamente concessa al destinatario, senza riserve rispetto alla sua condizione.
Gli etimologisti latini derivavano il lemma carus
dalla prima persona singolare del presente del verbo carēre, ovverocareo, «manco», «sono privo di», e ritenevano di giustificare il valore di una cosa sul metro della mancanza della cosa stessa, in modo tale che tanto più se ne avverte l’assenza, tanto più essa acquista valore e pregio.
Passando per il greco χάριςe dal verbo χαίρω, «rallegrarsi», «provare piacere», si arriva alla radice sanscrita ka = ca (sscr. ka, kan, kam), presente in parole quali kâma, «amore», kamana, «desiderabile», «bello»,kamara, «amoroso», kam-e, «desiderò», «amò». Si possono, inoltre, trovare affinità nel lettone kahrs, «cupido», nel gotico hors, da cui il tedesco Hure, «meretrice», ma che si riallaccia al latino quaero, «cercare», «ricercare», «bramare» ciò che è desiderato. Il termine “carità” afferisce, dunque, anche alla sfera dell’amore desiderato, del richiesto perché bramosamente bello e capace di dare piacere e rallegrare.
Il principio di carità rappresenta un criterio prezioso, disinteressato ma richiesto nella logica del dialogo. Esso fornisce una norma fondante, sebbene implicita, per la costruzione di un confronto fecondo e esente da appropriazioni o strumentalizzazioni di qualunque sorta. Il valore apportato dal principio di carità consiste, forse banalmente, nel rendersi disponibile all’ascolto dell’altro e nell’attribuire pregnanza di senso alle sue parole, almeno fino a un evidente punto di non ritorno.
La scelta di trattare il principio di carità come argomento di tesi va incontro alla necessità di indagare l’implicito, il sottinteso, il banale che sovente viene trascurato e passato sotto silenzio, col rischio di dimenticarne la validità e l’utilità concreta e portante nell’ambito dell’umano. Si tratta, perciò, di far riermegere agli occhi della coscienza i fondamenti troppo spesso dati per scontato e, proprio per questo, dimenticati, abbandonati e relegati a relitti a margine dell’edificio del sapere.
È compito primario della filosofia conferire dignità conoscitiva a quanto viene accolto come evidente, ovvio, lapalissiano perché in ciò, e nel suo oblio, si possono rinvenire “proprio quei problemi che sono i più scottanti per l’uomo, il quale, nei nostri tempi tormentati, si sente in balìa del destino”1, ossia quegli interrogativi umani centrali in cui ne va della quotidianità tanto quanto dell’esistenza intera, oltre che di una convivenza pacifica. Spingendo la riflessione in direzione di ciò che pare assodato e fuori di dubbio ai fini della riflessione stessa, si giunge a capire e a rendere ragione di una complessità nuova, nella quale si gioca qualcosa come la comprensione o il fraintendimento tra gli individui.
Il principio di carità è una guida rimasta finora col capo coperto. Esso ha condotto e conduce gli uomini nei meandri tortuosi della comunicazione, del rapporto dialogante e dell’interpretazione reciproca. Può pregiudicare il buon andamento di una discussione, rimanendo nell’anonimato e nell’ombra. Determina e garantisce lo spazio minimo per l’intesa e l’accordo, ma può anche sancirne il definitivo naufragio.
Lo scopo della presente trattazione è di portarne alla luce, in un percorso storico e tematico, le caratteristiche principali, in modo da scoprirne il capo e segnalarne i lineamenti distintivi. La filosofia, nel suo decorso storico, si è raramente rivolta in modo esplicito al principio di carità. Fatta eccezione per Agostino, per il caso isolato dell’illuminista tedesco Georg Meier (che lo chiama principio di equità ermeneutica) e per la riflessione dei logici contemporanei (Wilson, Quine, Davidson), esso non viene pressoché mai menzionato o, almeno, non con questo appellativo con cui, soprattutto recentemente, è tornato alla ribalta.
Si tratta, quindi, e questo è l’intento del lavoro, di rimarcarne gli aspetti costituivi, laddove il criterio sia stato suggerito dagli autori, oppure di ricercare ed enucleare possibili edizioni, implicitamente consegnate dai filosofi alla riflessione sul principio in questione. Per questo la tesi potrebbe soffrire di discontinuità più o meno consistenti, dettate appunto dall’esigenza di scandagliare le profondità del pensiero filosofico, anche mediante salti temporali e concettuali rilevanti, in quei punti ritenuti significativi per una trattazione ampia e pregnante, ma filtrata sempre nel setaccio della carità ermeneutica e logica.
1 E. HUSSERL, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Milano, il Saggiatore 2008, pag. 35
** UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRENTO
Dipartimento Lettere e Filosofia
Corso di Laurea in FILOSOFIA. Supervisore: Prof. Varzi Achille Carlo, Co-Supervisore: Prof. Ghia Francesco, Laureando: GANDELLINI Francesco.
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
SANT’AGOSTINO, DOTTORE DELLA GRAZIA ("CHARIS"): "ECCO DA DOVE COMINCIA L’AMORE" ("ECCE UNDE INCIPIT CHARITAS").
IL NOME DI DIO, SENZA GRAZIA ("CHARIS")! L’ERRORE FILOLOGICO E TEOLOGICO DI PAPA BENEDETTO XVI, NEL TITOLO DELLA SUA PRIMA ENCICLICA. Nel nome della "Tradizione"
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
IL "POLEMOS" DI ERACLITO, "LA SANTA VIOLENZA" DEL CARDINALE RAVASI, E IL "PADRE NOSTRO" ("CHARITAS") DEL MESSAGGIO EVANGELICO....*
Il nuovo libro di Ravasi.
Quando il sacro fa i conti con la violenza
Un orizzonte cupo, segnato da conquiste e lotte, sembra essere il basso continuo della storia umana: la Bibbia non ignora questa realtà, fino al radicale rovesciamento operato da Cristo
di Gianfranco Ravasi (Avvenire, giovedì 17 ottobre 2019)
Sembra una ripresa cinematografica; è, invece, la descrizione di un poeta ebreo, il profeta Nahum, che nel 612 a.C. sta “sceneggiando” quasi in presa diretta la caduta di Ninive, la detestata capitale della superpotenza orientale, l’Assiria, sotto l’irruzione congiunta di Ciassare, re dei Medi, e di Nabopolassar, re della dinastia neobabilonese. Ecco la scena affidata a una sequenza impressionistica di azioni militari, costruita sulla secchezza di un elenco: «Sibilo di frusta, fracasso di ruote, scalpitìo di cavalli, cigolìo di carri, cavalieri incalzanti, lampeggiare di spade, scintillare di lance, feriti in quantità, cumuli di morti, cadaveri senza fine, s’inciampa nei cadaveri». Le pagine dell’Antico Testamento sono spesso striate dal sangue delle battaglie e si affacciano su rovine e devastazioni causate da eventi bellici. Una lingua lessicalmente povera come l’ebraico classico (5.750 vocaboli in tutto) si mostra sorprendentemente ricca quando deve designare la violenza
Tanto per esemplificare, ecco la radice hms «fare violenza» (donde hamas «violenza»), o šddhrm «sterminare » (donde herem, la strage sacra), hrg «uccidere», rsh «assassinare», ‘nh «violentare, opprimere», hrs «distruggere », lhm «combattere » (donde milhamah «guerra»), nqm «vendicare», mhs «abbattere, fracassare», šht «mandare in rovina» e altri ancora.
Un orizzonte cupo, segnato da conquiste e lotte, che per altro sembrano essere il basso continuo della storia umana, come pessimisticamente dichiarava Eraclito nel suo frammento 53: «La guerra (pólemos) è madre di tutte le cose e di tutte la regina (basiléus). Gli uni rende dèi, gli altri uomini; gli uni fa schiavi, gli altri liberi».
Anche il Nuovo Testamento, che pure inalbera il vessillo dell’amore ed eredita l’aspirazione messianica biblica allo shalôm «pace», non ignora questa realtà aspra che costella le strade della vita dei popoli.
Lo stesso Gesù, ad esempio, ricorrerà a un modello di strategia militare applicandolo all’esistenza cristiana da vivere con intelligenza e sapienza: «Quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda un’ambasceria per chiedere pace».
La scelta radicale per il Regno di Dio, vero Leitmotiv della predicazione di Cristo, sarà da lui espressa con una dichiarazione paradossale, anche se evidentemente metaforica per indicare la natura “esplosiva” del suo messaggio: «Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; sono venuto a portare non pace, ma spada» [...].
È indubbio che, sia a livello biblico sia nella storia della cristianità, questo intreccio tra guerra e religione è paradossalmente forte. Per stare alla Bibbia, basti solo pensare alle stragi sante - il cosiddetto herem o «sterminio sacro» - che accompagnano la conquista della Terra pro- messa da parte del popolo ebraico, oppure alle centinaia di testi violenti presenti nelle Scritture e alla stessa simbologia bellica usata per rappresentare il «Dio degli eserciti» (che, però, era originariamente un rimando all’armata astrale del Creatore, anche se poi applicata alle battaglie di Israele col palladio dell’Arca santa) [...]. Ci sono alcuni elementi di natura ermeneutica che dovremo costantemente ribadire [...]. Innanzitutto è da sottolineare la qualità storica della Rivelazione ebraico-cristiana, che nella Bibbia si presenta non come un’astratta serie di tesi teologiche speculative ma appunto come una concreta «storia di salvezza». All’interno degli eventi umani, spesso segnati dal peccato, dall’ingiustizia, dalla violenza, dal male, passa la presenza e l’opera di Dio che progressivamente e pazientemente cerca di condurre l’umanità verso un livello più puro, giusto e pacifico di vita. Il vertice è proprio - tenendo conto dell’unità «canonica » (cioè nell’unico Canone cristiano) dei due Testamenti - nella proclamazione: «Beati gli operatori di pace», formulata secondo lo spirito della citata «pace» messianica anticotestamentaria. La stessa tradizione giudaica successiva con rabbì Meir di Gher dichiarerà che «Dio non ha creato nulla di più bello della pace» [...].
Gesù, poi, nella sua proposta procederà fino alla scelta radicale dell’amore per il nemico così da trasformare quasi l’hostis in hospes e da introdurre il principio della non-violenza: «Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano».
L’apostolo Paolo, in un passo della Lettera agli Efesini, ove elenca una completa attrezzatura militare (cinturone, corazza, calzature, scudo, frecce, elmo, spada), la trasfigura in una simbologia spirituale: «Attorno ai fianchi, la verità; indosso, la corazza della giustizia; i piedi, calzati e pronti a propagare il vangelo della pace; afferrando lo scudo della fede col quale si possono spegnere tutte le frecce infuocate del Maligno, prendendo l’elmo della salvezza e la spada dello Spirito, che è la parola di Dio». Introduce, dunque, nel cuore dell’apparato militare, evocato già in chiave metaforica, il «vangelo della pace» come meta da raggiungere. Egli parla per due volte della panoplía, cioè dell’«armatura » di Dio che non è aggressiva contro gli altri ma solo contro il male diabolico: «Indossate l’armatura di Dio per poter resistere alle insidie del diavolo [...]. Prendete l’armatura di Dio, perché possiate resistere nel giorno cattivo e restare saldi dopo aver superato tutte le prove».
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
COME IL "PADRE" E’ ALL’ORIGINE ("URSPRUNG") DEL BAMBINO, COSI’ IL "POLEMOS" E’ ALL’ORIGINE DI TUTTE LE COSE: HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
SANT’AGOSTINO, DOTTORE DELLA GRAZIA ("CHARIS"): "ECCO DA DOVE COMINCIA L’AMORE" ("ECCE UNDE INCIPIT CHARITAS").
MONSIGNOR RAVASI, MA NON E’ POSSIBILE FARE CHIAREZZA? SI TRATTA DELLA PAROLA FONDANTE E DISTINTIVA DELLA FEDE CRISTIANA!!! DIO E’ AMORE ("Charitas") O MAMMONA ("Caritas")?!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
NON SAPEVO CHE DIO È SPIRITO....*
Lutto.
Addio a Maria Bettetini, filosofa e studiosa di sant’Agostino
È morta domenica 13 ottobre a Milano la filosofa Maria Bettetini, docente di Estetica, Retorica e Filosofia delle immagini. Il suo nome è però legato in particolare agli studi agostiniani-
di Francesco Ognibene (Avvenire, lunedì 14 ottobre 2019)
È morta domenica 13 ottobre a Milano la filosofa Maria Bettetini, studiosa di sant’Agostino, docente all’Università Iulm di Milano. 57 anni, milanese, figlia di Gianfranco, che fu pioniere all’Università Cattolica degli studi semiotici in Italia, Maria Bettetini ha insegnato dapprima Storia della filosofia medioevale all’Università Ca’ Foscari di Venezia e poi alla Iulm Estetica, Retorica e Filosofia delle immagini approfondendo in particolare lo statuto della finzione e dell’inganno, studi che hanno dato vita a uno dei suoi libri più noti, “Breve storia della bugia” (Cortina, 2001).
Il suo nome è però legato in particolare agli studi agostiniani, dal classico “Introduzione a Agostino” (Laterza, 2008) a un’edizione delle “Confessioni” da lei curata nel 2000 per Einaudi. Tra gli altri filoni dei quali è stata apprezzata studiosa va ricordato in particolare quello sull’iconoclastia, da “Contro le immagini” (Laterza, 2006) a “Distruggere il passato” (Cortina, 2016).
Nel 2015 aveva pubblicato un suo omaggio alla filosofia, “La bellezza e il peccato” (Bompiani), una “piccola scuola” - come l’aveva definita - nata da una domanda: “Chi se non la buona filosofia può insegnare a cogliere la bellezza in questo mondo da salvare?”. Con i “Quattro modi dell’amore” (Laterza, 2012) aveva invece proposto un singolare itinerario filosofico e letterario attraverso amicizia, passione, amori folli o ideali e falsi amori.
La sua intelligenza viva e penetrante, la spontanea disposizione a creare e mantenere relazioni profonde, la libertà di pensiero, la fede sempre intensamente vissuta hanno fatto di lei una figura di pensatrice originale e apprezzata e l’hanno resa naturalmente prossima al pensiero del vescovo di Ippona, del quale è stata instancabile divulgatrice, fino agli ultimi giorni prima di una morte prematura.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
FREUD, KANT, E I SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA -- FILOLOGIA E "ARCHEOLOGIA". Considerazioni a margine dell’affresco di sant’Agostino nella cattedrale di Nardò (Lecce).
Federico La Sala
Chi è effettivamente l’ospite
Chi è effettivamente l’ospite
Come si legge in tutti i vocabolari dell’italiano contemporaneo, ospite ha un duplice significato: è sia chi dà ospitalità (un ospite premuroso) sia, più comunemente, chi la riceve (un ospite gradito). Con il primo significato si ritrova soprattutto in contesti formali e letterari (nel GDLI si riscontrano esempi a partire dalla prima metà del XIV secolo fino ad autori quali Foscolo, Manzoni, Pascoli ecc.).
La parola ospite deriva dal latino hospes, -ĭtis, che aveva già il doppio significato di ‘colui che ospita e quindi albergatore’ e di ‘colui che è ospitato e quindi forestiero’, significato - comune alla parola greca xénos - che si è tramandato in quasi tutte le lingue romanze (antico francese (h)oste; francese moderno hôte; occitano e catalano oste; spagnolo huésped; portoghese hóspede). Ed è dunque proprio alla storia della lingua latina che dovremo guardare per rispondere alla curiosità che questa parola suscita.
L’etimologia del termine latino hospes risulta spesso incerta nei più comuni dizionari della lingua italiana e, se vengono date delle spiegazioni, esse risultano parziali e non rispondono pienamente alla nostra domanda. Ad esempio, il Devoto-Oli 2012 e il Sabatini-Coletti 2008 fanno risalire la voce a un più antico *hostipotis, composto da hŏstis ‘straniero’ e pŏtis ‘signore, padrone’, cioè ‘signore dello straniero’, ma non dicono niente di più. Il Vocabolario Treccani scrive sinteticamente che il termine ha “tutti e due i significati fondamentali, in quanto la parola alludeva soprattutto ai reciproci doveri dell’ospitalità”, in accordo con il Dir Dizionario italiano ragionato (D’Anna, 1988).
Tra gli etimologici, il DELI riconosce il doppio significato del termine, ma aggiunge “senza etimologia evidente”. L’etimologico di Nocentini approfondisce invece la questione e rimanda all’indoeuropeo *ghos(ti)-potis ‘signore dello straniero’ cioè il padrone di casa che esercitava il diritto di ospitalità nei confronti del forestiero, composto da *ghostis ‘straniero’ e *potis ‘signore’. A favore di tale ipotesi cita i corrispettivi gospodĭ ‘padrone, signore’ in antico slavo e gospodín ‘signore’ in russo.
Hospesin origine è dunque il “padrone di casa” che dà ospitalità al forestiero; i rapporti che si istauravano tra chi accoglieva e chi era accolto erano così stretti - legati anche al fatto che chi era ospitato si impegnava a sua volta a ricambiare l’ospitalità - che, sin dai tempi più antichi, hospes ha indicato anche la persona accolta in casa d’altri. La reciprocità del patto di ospitalità è dunque all’origine del doppio significato della parola ospite. Riconoscendo questa “squisita umanità degli antichi”, anche Leopardi nello Zibaldone scriveva: “di tal genere è ancora quella tanta ospitalità esercitata dagli antichi con tanto scrupolo, e protetta da tanto severe leggi, opinioni religiose ecc. quei diritti d’ospizio ecc. affinità d’ospizio ecc. Ben diversi in ciò dai moderni” (5 luglio 1827).
Vale la pena soffermarsi un po’ di più sulla parola hostis che, insieme a potis ‘signore’, è all’origine di hospes. Emile Benveniste introduce così la questione:
Benveniste ricorda, infatti, che hostis è usato nella Legge delle XII tavole con il valore arcaico di ‘straniero’, ma riporta anche un’interessante testimonianza di Sesto Pompeo Festo (II secolo d.C.) da cui si ricava che il termine hostis indicava colui a cui erano riconosciuti gli stessi diritti del popolo Romano (quod erant pari iure cum populo Romano). A conferma di ciò Festo ricorda anche che il verbo hostire aveva lo stesso significato di aequare (con valore simile si trovano hostire in Plauto, hostus in Varrone e il nome della dea Hostilina in sant’Agostino). Il legame di hostis con i concetti di uguaglianza e di reciprocità è confermato anche da una parola più conosciuta, hostia, che nel rituale romano indica propriamente ‘la vittima che serve a compensare l’ira degli dei’ (l’offerta è considerata quindi di un valore tale da bilanciare l’offesa), in contrapposizione con il termine meno specifico victima che indica un semplice ‘animale offerto in sacrificio’ (cioè senza nessun intento riparatorio).
Si ricava dunque che il significato originario di hostis non era quello di ‘straniero’ in generale, né tanto meno di ‘nemico’, ma quello di ‘straniero a cui si riconoscono dei diritti uguali a quelli dei cittadini romani’, a differenza del peregrinus che indica invece ‘colui che abita al di fuori del territorio’.
Il legame di uguaglianza e reciprocità che si stabilisce tra un hostis e un cittadino di Roma conduce alla nozione di ospitalità.
In un dato momento dunque hostis ha indicato ‘colui che è in relazione di compenso’ e di scambio nei confronti del civis e quindi, in ultima analisi, l’ospite. Di questo erano ben consapevoli gli scrittori classici, come scrive Cicerone nel De officiis: “hostis enim apud maiores nostros is dicebatur, quem nunc peregrinum dicimus” [infatti i nostri antenati chiamavano hostis quello che noi oggi chiamiamo peregrinus (‘forestiero’)].
Più tardi, quando alle relazioni di scambio tra clan e clan sono subentrate le relazioni di inclusione o di esclusione dalla civitas, hostis ha assunto un’accezione negativa e ha preso il significato classico di ‘nemico’ (da cui deriva, per esempio, la parola italiana ostile), e in tal senso la storia di hostis riassume il cambiamento che le istituzioni romane hanno attraversato nei secoli.
In conseguenza del vuoto semantico lasciato da hostis si è dovuto pertanto ricorrere a un nuovo termine per indicare la nozione di ospitalità e si è creato, come già detto, partendo dalla stessa parola hostis, il termine hospes. Hospes dunque eredita e conserva in sé il valore intrinseco di reciprocità e di mutuo scambio: è forse anche per questo che la stessa parola nelle lingue derivate dal latino ha facilmente continuato a indicare sia chi ospita sia chi è ospitato.
Un’ultima osservazione. Un lettore, un po’ infastidito dalla polisemia di ospite e preoccupato che nella lingua comune non ci sia una parola per indicare ‘colui che ospita’, propone di usare due termini diversi come nella lingua inglese, che ha host per ‘ospitante’ e guest per ‘ospitato’ (da notare che entrambi i termini derivano dalla stessa radice indoeuropea *ghostis, anche se host passa attraverso il francese antico (h)oste). Ci suggerisce, come sostantivo per indicare chi ospita, il termine ospitante (o addirittura trimalcione). Ma in realtà, come spesso accade nei fatti di lingua, sarà probabilmente l’uso alla fine a trovare da solo la soluzione. E a ben guardare, quando è necessario distinguere tra i due significati di ospite, l’italiano ha già preso delle decisioni e mette a disposizione un ventaglio di scelte. Se per ospite ormai si intende comunemente ‘colui che è ospitato’, per indicare ‘colui che ospita’ invece, in relazione al contesto e al grado di formalità, si può oggi già scegliere tra: il forse troppo letterario ospitatore (cfr. GDLI), il padrone di casa o semplicemente l’amico che mi ospita. Infine, il termine ospitante con il valore di ‘chi dà ospitalità’ esiste già in italiano, ad esempio nelle espressioni squadra ospitante e famiglia ospitante, e può darsi che prima o poi riuscirà a imporsi pienamente sul termine ospite con lo stesso valore.
Per approfondimenti:
E. Benveniste, Il vocabolario della istituzioni indoeuropee. Economia, parentela, società, I, edizione italiana a cura di Mariantonia Liborio, Torino, Einaudi, 1976, pp. 64-75
Dictionnaire Étymologique de la langue latine, a cura di A. Ernout e A. Meillet, Parigi, Librairie C. Klincksieck, 1967, s.v. hospes
E. Forcellini, Lexicon Totius Latinitatis, Padova, Tipografia del Seminario, 1771, s.v. hospes
Thesaurus linguae Latinae, Leipzig, Teubner, 1900 e sgg.,.s.v. hospes
F. Venier, La corrente di Humboldt. Una lettura di La lingua franca di Hugo Schuchardt; Roma, Carocci, 2012
*
A cura di Angela Frati e Stefania Iannizzotto
Redazione Consulenza Linguistica
Accademia della Crusca (13 luglio 2012).
IL "LOGOS" E LA "CHARITAS". Sul Vaticano, e su Roma, il "Logo" del Grande Mercante.Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
Il motto dello stemma episcopale del Vescovo Ausiliare di Roma, S.E.R. Mons. Angelo De Donatis
Le parole scelte da Don Angelo per il proprio motto episcopale sono tratte dal “De officiis ministrorum” di Sant’Ambrogio laddove dice
“Sit inter vos pax, quae superat omnem sensum. Amate vos invicem. Nihil caritate dulcius,nihil pace gratius...”
(“Sia tra di voi la pace che supera ogni sentimento. Amatevi gli uni gli altri. Nulla è più dolce dell’amore, nulla più gradevole della pace”) *
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Fonte: http://www.sanmarcoevangelista.it (ripresa parziale).
Federico La Sala
SANT’AGOSTINO, DOTTORE DELLA GRAZIA ("CHARIS"): "ECCO DA DOVE COMINCIA L’AMORE" ("ECCE UNDE INCIPIT CHARITAS")....
In S. Pietro in Ciel d’oro il cardinal Ravasi parla di carità
Mercoledì 28 febbraio la nuova tappa del progetto “L’Arca delle Virtù: da Agostino al XXI secolo” voluto dal rettore Rugge
di MARIA GRAZIA PICCALUGA (la Provincia Pavese, 27 febbraio 2018)
PAVIA. Dopo la Speranza, la Carità. Ma la virtù cantata da San Paolo - paziente e benigna - mostra ancora lo stesso volto agli uomini del nostro secolo? Rappresenta ancora la ricchezza dei poveri e la forza della scienza come riteneva Sant’Agostino? Il progetto “L’Arca delle Virtù: da Agostino al XXI secolo” - concepito e avviato lo scorso anno dal rettore dell’Università di Pavia Fabio Rugge con il sostegno di molte realtà cittadine - la mette al centro della sua seconda edizione.
Mercoledì 28 febbraio alle 20.45, nella basilica di San Pietro in Ciel d’Oro, la riflessione sarà affidata al cardinale Gianfranco Ravasi (insigne biblista e teologo, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura) e a un dialogo in poesia e musica tra Vivian Lamarque e I Solisti di Pavia. «Pensiamo che questa virtù sia oggi un nervo sensibile della società globalizzata, multietnica, multireligiosa, divisa tra ricchi e poveri» chiarisce il rettore Rugge.
La personificazione della Carità, in una delle 95 statue che adornano l’Arca marmorea del santo, ha il volto di donna. Offre lo stesso seno, con la stessa generosità, a due bambini.
«L’Arca di Agostino è l’esposizione plastica di un programma dottrinario - spiega il rettore dell’Università di Pavia - Questo programma, però, non è per niente un’astrazione. Le “virtù”, in particolare la loro definizione e coltivazione, hanno dato per secoli trama alla società europea. Continuano a farlo, con la sfida intellettuale e spirituale che portano. La carità, ad esempio, ha spesso perso il suo significato di amore, dono, offerta, sacrificio, e ha talvolta acquisito dei connotati negativi. E’ stata contrapposta ai diritti, alla solidarietà civile. Discutere oggi di carità vuol dire anche interrogarsi sulla quotidianità di persone tra le persone».
Fede, speranza, carità, mansuetudine, povertà, prudenza, giustizia, temperanza, fortezza, obbedienza e castità: l’Arca che conserva le spoglie del santo di Ippona parla, come un libro aperto, ai contemporanei.
Agostino, inoltre, è protettore dell’Università di Pavia che, da queste radici passate, ha deciso di proiettarsi verso il futuro promuovendo un progetto che sappia trarre dal tesoro morale del santo spunti per una riflessione sull’etica contemporanea.
L’evento di mercoledì avrà inizio alle 20.45, nella Basilica di San Pietro in Ciel d’Oro, con una riflessione del cardinale Gianfranco Ravasi sul tema della Carità, dal titolo “Nihil caritate dulcius. Carità, virtù teologica e sociale”. Seguirà un dialogo artistico tra la poesia di Vivian Lamarque e la musica de I Solisti di Pavia: un’esecuzione originale e inedita, che simboleggia il “contagio” della Carità. Il programma prevede la lettura, da parte della poetessa, di versi tratti da “Madre d’inverno” e altre poesie, alternata all’esecuzione di brani di Bach, Mozart, Corelli, Vivaldi.
Del Comitato scientifico che ha elaborato i contenuti fanno parte: Giampaolo Azzoni (Università di Pavia), Cristina Bicchieri (Pennsylvania University), Ian Carter (Università di Pavia), Andrea Moro ( Iuss Pavia), Gianfranco Ravasi (Pontificio Consiglio della Cultura), Salvatore Veca (Iuss Pavia). Mentre al Comitato dei Promotori hanno aderito, oltre al rettore, il priore della basilica di San Pietro Antonio Baldoni, Renata Crotti, il rettore della Scuola Universitaria Superiore Iuss Michele Di Francesco, il sindaco Massimo Depaoli, e il vescovo di Pavia Corrado Sanguineti.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
MONSIGNOR RAVASI, MA NON E’ POSSIBILE FARE CHIAREZZA? SI TRATTA DELLA PAROLA FONDANTE E DISTINTIVA DELLA FEDE CRISTIANA!!! DIO E’ AMORE ("Charitas") O MAMMONA ("Caritas")?! Ha dimenticato l’esortazione di Papa Wojtyla ("Se mi sbalio, mi coriggerete")?!
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
Federico La Sala
Agostino e la musica, dialogo filosofico regolato dai numeri
Filosofia tardo-antica. Il trattato «De Musica» nella traduzione di Maria Bettetini, La Vita Felice
di Maria Jennifer Falcone (il manifesto, Alias, 04.02.2018)
Prima di ricevere il battesimo nella notte di Pasqua del 387 e al termine di quel percorso di tormento e ricerca che racconta nelle Confessioni, il trentaduenne Agostino, futuro vescovo di Ippona e Padre della Chiesa, si ritira per quasi un anno a pochi chilometri da Milano, sede vescovile di Ambrogio. Nella villa di Cassiciacum (forse l’attuale Cassago Brianza) si dedica a quello che definirà il Christianae vitae otium, la versione cristiana del tradizionale otium liberale. Si tratta di un periodo cruciale per la progettazione e stesura di opere fondamentali (Contra academicos, De beata vita, De ordine), con l’intento - che avrà importanti conseguenze sull’elaborazione del pensiero cristiano tardoantico - di condurre l’uomo alla conoscenza di Dio per il tramite dei saperi umani, e di usare quindi le scienze mondane per arrivare a comprendere quelle spirituali.
È in questo periodo di intensa attività che Agostino inizia a scrivere il De musica, poi completato a Tagaste. Di questo ampio trattato in sei libri, che doveva far parte di un gruppo di opere sulle arti liberali mai completato, esce ora per i tipi della milanese La Vita Felice una nuova traduzione, con introduzione e brevi note di commento, a cura di Maria Bettetini (Sant’Agostino, La musica, testo latino a fronte, pp. 644, € 29,50). Non a torto la curatrice, che aveva già tradotto il testo venti anni fa, definisce il lavoro sulle pagine di Agostino «battaglia, fatica, piacere, luoghi dove si torna sempre volentieri».
La sfida principale, il vero campo di battaglia, è la traduzione, che, difficile per qualsiasi testo antico, è resa ancora più complessa dall’equivocità su cui spesso Agostino fonda il suo ragionamento. Esempio illuminante è uno dei termini-chiave del trattato, numerus-numeri: Bettetini, che giustifica la sua scelta nell’introduzione e in una delle prime note di commento, lo traduce con l’italiano «numero-numeri» in corsivo, per rispettare il triplice riferimento, spesso volutamente non chiaro, ai numeri matematici, ai numeri ideali e ai ritmi della musica.
La polisemia di questo vocabolo diventa ancora più densa e significativa nel sesto libro, quello più prettamente teologico, in cui il tema di fondo è il passaggio graduale dalla conoscenza dei ‘numeri’ fisici (corporales) a quelli presenti nella mente di Dio (aeterni).
Accostandosi al De musica, è possibile che il lettore si senta sopraffatto dalla fatica: la complessità e i tecnicismi della materia trattata nei primi cinque libri (focalizzati su metrica e ritmica) e poi nel sesto (una piccola opera teologica, incentrata soprattutto sul concetto di anima) mettono alla prova anche gli addetti ai lavori - come spesso mostrano anche le, pur essenziali, note di commento. Superati gli ostacoli, però, la prosa brillante di Agostino ne mette in luce la vivace intelligenza, resa più evidente soprattutto grazie alla forma del dialogo filosofico.
Inoltre, sono molti i temi interessanti e stimolanti che si trovano nel trattato. A cominciare dalla definizione di musica: musica est scientia bene modulandi («la musica è la scienza del modulare bene»). Di tradizione classica, essa indica innanzitutto l’arte di porre un limite alla materia, di per sé illimitata, e così fissa le basi per il dialogo, in cui ‘numeri’, ritmi e misure sensibili si fanno rappresentazione di quell’armonia ordinata dell’universo, fondato sul pensiero di Dio, cioè sui numeri aeterni.
Proprio l’armonia può essere considerata come una delle chiavi interpretative del dialogo. Nell’ultimo libro, infatti, ampie pagine sono dedicate al concetto di anima e al suo rapporto armonico con il corpo, per passare poi al tema dell’anima complessiva del mondo, regolato mediante il principio dei numeri. Agostino approfondisce il dialogo tra anima e corpo, spirito e materia, e quindi tra saperi tecnici e conoscenze spirituali. Nel De musica fede e ragione si porgono la mano, il Cristianesimo incontra la cultura profana attraverso i ‘numeri’ e il giovane convertito inizia il suo percorso di consacrazione come vero intellettuale cristiano della tarda antichità.
IN MEMORIA DI SANT’AGOSTINO (E IN ONORE DEL LAVORO DELLA FONDAZIONE "TERRA D’OTRANTO").
"ECCO DA DOVE COMINCIA L’AMORE" ("ECCE UNDE INCIPIT CHARITAS"), DALLA GRAZIA ("gr.: "XAPIS", lat.: "CHARIS") DI DIO AMORE ("CHARITAS"), NON DI DIO MAMMONA ("CARITAS") ...
Lode a Marcello Gaballo per questa bellissima e preziosa nota su "L’affresco di sant’Agostino nella cattedrale di Nardò" (cfr.: http://www.fondazioneterradotranto.it/2017/08/28/laffresco-di-santagostino-nella-cattedrale-di-nardo/#_ftn1) - e il lavoro di De Giorgi: la sua trascrizione della scritta sul cartiglio (ormai scomparsa) "iuste/et cas/te viv/ere et/ xarita(te)" - contrariamente alla protervia che ha portato allo "sproposito maiuscolo" e alla brutta abitudine instauratasi almeno a partire da Ludovico A, Muratori di una "caritas" latina! - conserva ancora la memoria del legame della tradizione dell’evangelo (non: "vangelo"!) con la lingua greca ("charis", "charites"... "charitas").
FILOLOGIA E FILOSOFIA/TEOLOGIA. Giambattista Vico ("De constantia iurisprudentis", 1721) giustamente e correttamente e onestamente così pensava e scriveva: "Solo la carità cristiana insegna la prassi del Bene metafisico"("Boni metaphysici praxim una charitas christiana docet"). Sapeva che Gesù ("Christo") aveva cacciato i mercanti FUORI dal tempio, e non aveva autorizzato i sacerdoti a vendere a "caro-prezzo" (lat.: "caritas") la "grazia" (gr.: "Xapis", lat.: "Charis") di Dio (lat.: "Charitas")!!! Due padroni: Dio "Charitas" o dio "Caritas"?!, Dio Amore o dio Mammona?! In questo bivio ("X") ancora siamo, oggi - e ancora non sappiamo sciogliere l’incognita (""x")!
Sul tema, mi sia consentito, si cfr. la seguente nota:
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST").Una storia di lunga durata...
MURATORI, BENEDETTO XVI, E "UNO SPROPOSITO MAIUSCOLO": LA LEZIONE DI VICO. Un breve testo dalla "Prefazione ai lettori" del "Trattato sulla carità cristiana" di Ludovico A. Muratori
MURATORI E RATZINGER. "DEUS CARITAS EST": FINE DEL CRISTIANESIMO. TOLTA AL PESCE ("I.CH.TH.U.S.") L’ ACCA ("H"), IL COLPO ("ICTUS") E’ DEFINITIVO!!!
Federico La Sala
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITÀ E SULLO SPIRITO CRITICO, OGGI. "X"- FILOSOFIA. LA FIGURA DEL "CHI": IL NUOVO PARADIGMA.
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Gli 80 anni del papa
Papa Francesco che cammina sulle tracce di Agostino
di EUGENIO SCALFARI (la Repubblica, 17 dicembre 2016)
COMPIE ottant’anni papa Francesco e li porta molto bene, sia fisicamente e sia spiritualmente. Viaggia continuamente nel mondo intero e nelle parrocchie romane. Di Roma è vescovo e questa qualifica la rivendica spesso perché gli consente di definirsi come “primus inter pares” e lui è consapevole di quanto sia utile a quella Chiesa missionaria da lui realizzata.
Personalmente ho avuto la fortuna di diventargli amico ancorché io non sia un credente. Papa Francesco aveva bisogno di un non credente che approvasse la predicazione di quello che lui chiama Gesù Cristo ed io chiamo Gesù di Nazareth figlio di Maria e di Giuseppe della tribù di David, cioè era figlio dell’uomo e non di Dio. Ma su questo modo di considerare Cristo papa Francesco è d’accordo: il Figlio di Dio quando decide di incarnarsi diventa realmente un uomo con tutte le passioni, le debolezze, le virtù d’un uomo. Francesco racconta spesso la settimana della Passione che ha il suo inizio con l’ingresso quasi trionfale di Gesù a Gerusalemme, seguito da molti dei suoi fedeli e naturalmente dei suoi apostoli. Ma a Gerusalemme trova anche quelli che lo temono e lo odiano. Soprattutto la gerarchia ebraica del Tempio che si sente minacciata nei suoi privilegi.
A quell’epoca Israele era sotto la "protezione" dell’impero di Roma e l’imperatore era Tiberio che nulla sapeva di quanto avvenisse in province assai lontane. Papa Francesco ricorda gli ultimi giorni di quella che poi fu chiamata la "Via Crucis", l’ultima cena e poi quel che avvenne nell’orto di Getsemani. Gli apostoli a quella cena erano tredici ma uno di loro, Giuda Iscariota, lo aveva già tradito e quando Gesù cominciò a parlare abbandonò quel tavolo e andò via. Restarono in dodici e fu lì che Gesù condivise il pane e il vino identificandoli con il suo corpo e il suo sangue. Il Signore era già stato battezzato da Giovanni nelle acque del Giordano e battesimo ed eucarestia furono i soli due Sacramenti; gli altri vennero dopo. La natura umana del Cristo si ha nei racconti dei Vangeli, nel Getsemani e poi sulla Croce. Nell’orto, dove sarà poi arrestato dai soldati romani guidati dall’Iscariota, Gesù entra in contatto con il Padre e dice: «Se tu puoi allontana da me questo amaro calice ma se non vuoi lo berrò fino in fondo». Sulla Croce, negli ultimi istanti prima della morte dice: «Padre, perché mi hai abbandonato?». Quindi era un uomo, l’incarnazione era stata reale.
Papa Francesco è affascinato da questi racconti. Mi sono chiesto e gli ho chiesto il perché del fascino che esercitano su di lui e la risposta è stata che nel mistero trinitario Cristo rappresenta l’amore in tutte le sue manifestazioni. L’amore verso Dio che si trasforma in amore verso il prossimo. «Ama il prossimo tuo come te stesso» è una legittimazione dell’amore all’individuo e alla comunità, in cerchi concentrici: la famiglia, il luogo dove vive e soprattutto la specie cui appartiene.
Francesco indica i poveri, i bisognosi, gli ammalati, i migranti. Francesco sa bene quello che dice la Bibbia: «I ricchi e i potenti debbono passare per la cruna d’un ago per guadagnare il Paradiso». Occorre dunque che i popoli si integrino con gli altri popoli. Si va verso un meticciato universale che sarà un beneficio, avvicinerà i costumi, le religioni. Il Dio unico sarà finalmente una realtà. È questo che Francesco auspica. «È ovvio che sia unico, ma finora non è stato così. Ciascuno ha il suo Dio e questo alimenta il fondamentalismo, le guerre, il terrorismo. Perfino i cristiani si sono differenziati, gli Ortodossi sono diversi dai Luterani, i protestanti si dividono in migliaia di diverse confessioni, gli scismi hanno accresciuto queste divisioni. Del resto noi cattolici siamo stati invasi dal temporalismo, a cominciare dalle Crociate e dalle guerre di religione che hanno insanguinato l’Europa e l’America del Nord e del Sud. Il fenomeno della schiavitù e la tratta degli schiavi, la loro vendita alle aste. Questa è stata la realtà che ha deturpato la storia del mondo».
Quando papa Francesco ha partecipato alla celebrazione di Martin Lutero e della sua Riforma ha colto l’essenza delle tesi luterane: l’identificazione dei fedeli con Dio non ha bisogno dell’intermediazione del clero ma avviene direttamente. Questo ci conduce al Dio unico e assegna al sacerdozio un ruolo secondario. Così avveniva nei primi secoli del cristianesimo, quando i Sacramenti erano direttamente celebrati dai fedeli e i presbiteri facevano soltanto il servizio. Francesco è d’accordo su queste tesi luterane che coincidono con quanto avvenne nei primi secoli.
Ma quali sono i Santi che il nostro Papa predilige? Gliel’ho chiesto e lui mi ha risposto così: «Il primo è naturalmente Paolo. È lui ad aver costruito la nostra religione. La Comunità di Gerusalemme guidata da Pietro si definiva ebraico-cristiana, ma Paolo consigliò che bisognava abbandonare l’ebraismo e dedicarsi alla diffusione del cristianesimo tra i Gentili, cioè ai pagani. Pietro lo seguì in questa sua concezione anche se Paolo non aveva mai visto Gesù. Non era un apostolo, eppure si considerò tale e Pietro lo riconobbe. Il secondo è San Giovanni Evangelista, che scrisse il quarto Vangelo, il più bello di tutti. Il terzo è Gregorio, l’esponente della Patristica e della liturgia.
Il quarto è Agostino, vescovo di Ippona, educato adeguatamente da Ambrogio vescovo di Milano. Agostino parlò della Grazia, che tocca tutte le anime e le predispone al bene compatibilmente con il libero arbitrio. La libertà accresce il valore del bene e condiziona il suo eventuale abbandono.
Ebbene, sembrerà che io esageri ma ne sono fermamente convinto: dopo Agostino viene papa Francesco. L’intervallo temporale è enorme, ma la sostanza è quella. L’ho definito, quando l’ho conosciuto, rivoluzionario e profetico ma anche modernissimo.
In uno dei nostri incontri gli chiesi se pensava di convocare un nuovo Concilio e lui rispose: «Un Concilio no: il Vaticano II, avvenuto cinquant’anni fa, ha lasciato una precettistica che in buona parte è stata applicata da Giovanni Paolo II, da Paolo VI e da Benedetto XVI. Ma c’è un punto che non ha fatto passi avanti ed è quello che riguarda il confronto con la modernità. Spetta a me colmare questa lacuna. La Chiesa deve modernizzarsi profondamente nelle sue strutture ed anche nella sua cultura».
Santità - ho obiettato io - la modernità non crede nell’Assoluto. Non esiste la verità assoluta. Lei dovrà dunque confrontarsi con il relativismo. «Infatti. Per me esiste l’Assoluto, la nostra fede ci porta a credere nel Dio trascendente, creatore dell’Universo. Tuttavia ciascuno di noi ha un relativismo personale, i cloni non esistono. Ognuno di noi ha una propria visione dell’Assoluto da questo punto di vista il relativismo c’è e si colloca a fianco della nostra fede».
Buoni ottant’anni, caro Francesco. Continuo a pensare che dopo Agostino viene Lei. È una ricchezza spirituale per tutti, credenti o non credenti che siano.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR._
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE:
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
L’amore ai tempi di Sant’Agostino
risponde Corrado Augias (la Repubblica, 28.05.2016)
LA RAGIONE sottostante a certi atteggiamenti da parte di uomini che non ne avrebbero in apparenza titolo, viene da molto lontano. Nella sua versione più antica la si vede nel famoso precetto di Sant’Agostino: dilige et quod vis fac - cioè: ama e fai ciò che vuoi. Che significato ha amare nel senso usato dal primo, grande filosofo cristiano (354-430)?
Con forte slancio poetico, un giorno Agostino disse ai suoi fedeli: «Ama e fa’ ciò che vuoi; sia che tu taccia, taci per amore; sia che tu parli, parla per amore; sia che tu corregga, correggi per amore; sia che perdoni, perdona per amore; sia in te la radice dell’amore, poiché da questa radice non può procedere se non il bene».
Non c’è film o sceneggiato sul vescovo di Ippona in cui questa poetica esortazione non venga mostrata. In realtà quei versi sono molto meno benevoli di quanto la parola amore li faccia apparire; il santo vescovo dice in sostanza che l’amore giustifica anche l’esercizio dell’autorità. Amare davvero qualcuno vuol dire volere il suo bene, il bene sommo, rappresentato dall’eterna salvezza. Lecito quindi, anzi doveroso, forzare per amore chi sbaglia a entrare nell’ortodossia; anche qui abbiamo un imperativo celebre “Compelle entrare”.
Ancora più esplicito diventa l’invito quando Agostino chiarisce in cosa consista l’esercizio della carità: «Sia fervida la carità nel correggere, nell’emendare... Non voler amare l’errore nell’uomo, ma l’uomo; Dio infatti fece l’uomo, l’uomo invece fece l’errore. Ama ciò che fece Dio, non amare ciò che fece l’uomo stesso... Anche se qualche volta ti mostri crudele, ciò avvenga per il desiderio di correggere ».
Quando dice che la carità «infierisce», Agostino usa il verbo latino saevire che vuol dire infuriare, incrudelire.
Saevus significa feroce; da saevire deriva “sevizia”. Il termine carità può avere questa valenza ambigua. Si sarà notato che papa Francesco ne usa uno più mite: misericordia.
Sant’Agostino
Dare un senso al bene e al male
di Ermanno Bencivenga (Il Sole-24 Ore, Domenica, Domenica, 22.05.2016)
Agostino ha lasciato segni profondi nella concezione cristiana del male. Profondi ma non del tutto coerenti, il che non apparirà strano quando si considerino gli spaventosi problemi teorici che si trovava ad affrontare. Se Dio ha creato il mondo e lo governa, come può questo essere onnipotente e buono aver causato o permesso il male, e dunque esserne responsabile? Una soluzione radicale era offerta in quegli anni dall’eresia manichea, che Agostino abbracciò da giovane: esistono un principio del bene (Dio) e uno, indipendente, del male; del male, dunque, non è artefice Dio ma il suo rivale. Era però una vittoria di Pirro: esonerava Dio da ogni biasimo riducendone il rango e l’autorità. Invece del monoteismo proponeva una diarchia.
Un possibile riscatto dal manicheismo era offerto da Plotino, che Agostino studiò avidamente. Per Plotino il male non esiste: il mondo contiene enti di livelli diversi di perfezione, ciascuno una manifestazione del bene entro certi limiti; noi denominiamo male, in ciascun ente, il limite del bene che esso manifesta ma, così facendo, stiamo denominando il nulla. Io sono limitato in quanto non volo (con le mie forze, intendo, non in aereo), e volendo potrei dire che è un male che io non voli, ma se lo dicessi starei dando corpo fittizio a un’assenza, a qualcosa che non c’è. In modo analogo, compio spesso scelte avventate e distruttive, per me e per altri; ma tali scelte competono alla limitatezza della mia intelligenza e del mio giudizio. Io sono quel che sono e arrivo dove arrivo; Dio ha causato quel che sono e dove arrivo (che, nei loro limiti, sono un bene), non quel che non sono e dove non arrivo.
La via negativa di Plotino andava però a cozzare contro un’altra esigenza religiosa. Se il male è solo il limite del bene, quindi nulla di cui si possa essere responsabili, allora, se non ne è responsabile Dio, non ne è neppure responsabile nessun altro; in particolare, non ne è responsabile chi il male, apparentemente, lo commette. Quando compio scelte avventate e distruttive, ho detto, sto solo manifestando i miei limiti; è giusto gravarmi di queste scelte come colpe e punirmi per averle compiute? Ha senso parlare di peccato e di un inferno che accoglierà chi se ne è macchiato?
Perché si possa parlare sensatamente di colpe e pene è necessario dotare gli esseri umani di un libero arbitrio, che consenta loro di assumersi il carico delle proprie scelte, e si può tentare la mediazione seguente: Dio crea gli esseri umani liberi, il che è bene (è meglio essere liberi che non esserlo), ma gli esseri umani liberamente scelgono il male e sono giustamente puniti. Dio, che è onnisciente, sa quali fra gli esseri umani sceglieranno il male ma decide di lasciarli fare, per dare sostanza alla loro libertà. Agostino fu tentato da questa mediazione, ma finì per abbandonarla perché dava troppo potere agli esseri umani, li rendeva padroni del proprio destino. In età avanzata, avrebbe anzi combattuto chi la pensava così: i seguaci del monaco britannico Pelagio, condannati a loro volta (anche per un esplicito intervento di Agostino) come eretici.
Che cosa rimane? Non molto. Il peccato originale di Adamo (che però almeno lui, insieme con Eva, avrà dovuto essere padrone del suo destino) ha reso tutti i successivi esseri umani incapaci di salvarsi con le proprie forze, quindi fare il bene ed evitare il male è impossibile a un essere umano che non sia assistito dalla grazia divina. La prescienza di Dio si muta in predestinazione: chi si salva o si perde lo fa perché è destinato da Dio (che gli elargisce o gli nega la grazia) a salvarsi o a perdersi. Perché Dio decide di salvare gli uni e perdere gli altri? Mah. Forse perché prevede che quelli cui nega la grazia ne farebbero un cattivo uso (un Dio sparagnino, insomma, che non spreca i suoi doni). O forse perché ha dato al mondo un suo ordine benefico, in cui i mali compiuti dagli uni comportano beni maggiori altrove (ma è giusto condannare a orribili pene eterne anche una sola persona perché altri o altro possano trarne vantaggio?).
Robin Lane Fox è uno storico e classicista di Oxford, autore di opere molto premiate su Alessandro Magno e sulla tarda antichità. Il suo Augustine è un libro monumentale, soprattutto tenendo conto che segue il suo eroe solo fino ai quarant’anni circa, l’epoca in cui compose le Confessioni. È una miniera di informazioni e, pur non essendo un filosofo, Fox, nei momenti opportuni, fornisce resoconti lucidi e accurati delle dottrine di Mani, Plotino e altri. La sua enfasi cade sui criteri e valori che definiscono il suo universo professionale: sullo stile latino o greco dei suoi personaggi, sull’ambiente sociale in cui si muovono, su quanto a lungo sia durata la scrittura delle Confessioni.
Ma i filosofi farebbero bene a leggerlo, per vedere come astratte argomentazioni possano acquisire straordinario vigore emotivo nel percorso tormentato di un’anima in cerca della verità.
L’ontologia è svizzera e vale milioni
Ricerca La scoperta di due studiosi italiani: il termine che indica la «scienza dell’essere in quanto essere» fu coniato non in Germania nel 1613 ma nella Confederazione sette anni prima. E oggi gli elvetici investono in programmi di indagine filosofica nove volte quello che stanzia il nostro Paese
di Giovanni Ventimiglia (Corriere della Sera, La Lettura, 15.05.2016)
L’italiano parlato in Canton Ticino sorprende non poco per la presenza di termini nuovi e del tutto incomprensibili per un italiano. Alcuni esempi: natel per dire «cellulare», tiptop per dire «impeccabile», piccadilly al posto di «autogrill», jacky boy invece di «decespugliatore», rüt (o rutto, sic) per indicare il secchio della spazzatura. Interessante è il caso di azione per dire «offerta speciale» (onde l’esilarante «patate in azione» che una volta mi indusse a immaginare strane patate svizzere semoventi). Il termine deriva dal tedesco Aktion ed è un esempio chiaro di «elvetismo» ossia di lingua tedesca così come essa è parlata in Svizzera.
Suggerisco, prima di abbandonarsi alla canzonatura dei vicini ticinesi, di ascoltare la storia della parola «ontologia», che designa una importante disciplina filosofica. Studi recenti, infatti, hanno dimostrato che si tratta, come le parole appena menzionate, di un «elvetismo», ossia in quel caso del latino parlato in Svizzera agli inizi del XVII secolo. Fino a qualche anno fa, infatti, tutti gli studi e i manuali erano soliti riportare l’informazione secondo cui la prima occorrenza del termine «ontologia» fosse da rinvenire in Germania nel 1613 (precisamente nel Lexicon philosophicum di Rudolph Goclenius pubblicato a Francoforte). Tuttavia, anche grazie ai suggerimenti di Joseph Freedman e Jean-François Courtine, che già avevano individuato una «pista svizzera», gli italiani Raul Corazzon (nel 2005) e Marco Lamanna (nel 2006) hanno fatto una scoperta importante: il termine «ontologia» è nato in Svizzera nel 1606 nel Ginnasio riformato di San Gallo a opera del riformato Jacob Lorhardus (precisamente nel manuale Ogdoas scholastica). Insomma «ontologia» (un grecismo composto da logos, discorso, e ontos, dell’essere) non è termine nato nella Grecia antica e nemmeno in Germania, ma in Svizzera, nel latino parlato da alcuni professori di filosofia.
Il lettore non specialista si chiederà a questo punto giustamente che cosa mai sia questa «ontologia». Si tratta del nome attribuito a una misteriosa «scienza dell’essere in quanto essere» di cui parlava Aristotele nella sua Metafisica: «C’è una scienza che considera l’essere in quanto essere e le proprietà che gli competono in quanto tale. Essa non si identifica con nessuna delle scienze particolari: infatti nessuna delle altre scienze considera l’essere in quanto essere in universale ma, dopo aver delimitato una parte di esso, ciascuna studia le caratteristiche di questa parte». La botanica studia gli esseri vegetali, la zoologia gli esseri animali, la biologia gli esseri viventi, mentre la «scienza dell’essere in quanto essere» studia gli esseri e basta, ossia tutti gli esseri in generale: una disciplina, diciamo, all inclusive.
Ora, che ne è oggi, al tempo del dominio delle scienze e della tecnica, di questa antica forma di sapere? Sarà scomparsa dalla scena della cultura? Nient’affatto. Data per morta nell’Europa «continentale» per diversi anni nel XX secolo, sorprendentemente essa conosce ai nostri giorni, soprattutto nei Paesi di lingua inglese, una rinascita che ha dell’incredibile. Su Amazon i libri che contengono la parola ontology sono a oggi 2.435 e la Oxford University Press ha in catalogo 617 titoli con questa parola. Insomma, piano con la presa in giro degli elvetismi: metti che tiptop diventa fra qualche anno famoso in tutto il mondo, mentre «impeccabile» cade nel dimenticatoio!
Perché mai, tuttavia, in Svizzera si sentì a un certo punto l’esigenza di coniare un termine nuovo, visto che per designare quella disciplina esisteva già da secoli la parola «metafisica»? Il fatto è che, fin dai tempi di Aristotele, e poi nei secoli appresso, il termine «metafisica» veniva utilizzato nello stesso tempo per indicare sia la scienza all inclusive che studia tutti gli esseri in universale sia quella che indaga la causa prima di tutti gli esseri, ossia Dio.
Ora, nell’ordinatissima Svizzera questa ambivalenza, suscettibile di generare una certa confusione, dovette sembrare fuori luogo, sicché si decise di designare con il neologismo «ontologia» la scienza che si occupa di tutti gli esseri (attuali o anche solo pensabili). Questa scelta a sua volta porterà in seguito a riservare il termine «metafisica» perlopiù a quella scienza, più teologica, che tratta della Causa prima degli esseri.
La domanda di fondo che tutti si pongono da allora, legittimamente, è però questa: ma se l’«ontologia» non si occupa più delle realtà che stanno al di là di quelle fisiche, come avviene anche ai nostri giorni, in che cosa si distingue dalla «fisica»? Non sarebbe l’ontologia, alla fin fine, una specie di fisica di serie B, meno affidabile e più aleatoria? A questa obiezione si deve rispondere in due modi. Anzitutto: è proprio vero che le uniche realtà non fisiche siano quelle divine? E le idee, gli ideali, i valori, i numeri, dove li mettiamo? E quale scienza si occupa di queste cose e, insieme, di quelle fisiche? In secondo luogo: quando non si limita a misurare e fare esperimenti, ma utilizza termini come «materia», «funzione», «causa», «esistenza», «elemento» e simili, la fisica non sta forse utilizzando di fatto termini filosofici senza essersi data la briga di definirli con precisione?
Insomma la fisica presuppone sempre un’ontologia (o «meta-fisica») e spesso lo fa in modo inconsapevole. Non è dunque l’ontologia a essere una scienza aleatoria, è la fisica a essere una filosofia un po’ incosciente. O forse si dovrebbe dire meglio: quando non dialoga con la fisica, l’ontologia rischia di essere una fisica aleatoria; e d’altra parte, quando non dialoga con l’ontologia, la fisica rischia di essere un’ontologia incosciente.
Sarà - obietterà l’immancabile uomo-con-i-piedi-per-terra - ma mentre la fisica conosce applicazioni utilissime nella vita concreta, questa osannata «ontologia» alla fin fine a che cosa serve? A niente, si deve rispondere. E meno male. Se «utile» è solo ciò che risponde ai bisogni primari, come mangiare, bere e accoppiarsi, allora l’ontologia rivendica orgogliosamente la sua inutilità. D’altra parte inutili sono anche le poesie d’amore dedicate a donne impossibili (o addirittura già morte) o la letteratura, che si abbandona a narrazioni inventate, o ancora la musica e la pittura.
Eppure, per distinguere i resti di una scimmia da quelli di un essere umano, gli scienziati vanno alla ricerca di disegni rupestri: se vi sono tracce di attività oziose e inutili, come la pittura, si può star certi che si tratta di esseri umani. Perché l’uomo si distingue dagli animali proprio perché fa cose inutili. Per questo, un Paese che investe in ricerca anche nell’ambito delle discipline umanistiche inutili è un Paese che investe in umanità. Lo ha fatto di recente il Fondo nazionale svizzero per la ricerca, finanziando due giovani eccellenti ricercatori, italiani, ennesimi cervelli in fuga, di cui uno è di nuovo l’ottimo Marco Lamanna, per un progetto di ricerca sulla nascita dell’ontologia in Svizzera nell’età della Riforma. Cifra stanziata dopo durissima selezione competitiva: mezzo milione di franchi (poco meno di mezzo milione di euro). D’altra parte la Svizzera finanzia ogni anno progetti di ricerca in filosofia di giovani ricercatori per circa 20 milioni di franchi (circa 18 milioni di euro) mentre in Italia siamo a circa un nono di questa cifra (senza contare che la Svizzera conta 8 milioni di abitanti mentre l’Italia 60).
Forse il Paese del cioccolato e degli orologi è più consapevole dell’Italia - che pure ha dato i natali al padre dell’ontologia, ossia a Parmenide! - di quello che Aristotele scriveva nella Metafisica: «Tutte le altre scienze saranno più necessarie di questa ma nessuna le sarà superiore». Forse, infine, quel piccolo Paese che molti italiani guardano dall’alto della loro immensa storia culturale non ha dimenticato, come ha fatto l’Italia, il valore di una scienza che è espressione della capacità, squisitamente umana, di pensare il tutto: «Con lo spazio - scriveva Pascal - l’universo mi contiene e m’inghiotte come un punto, con il pensiero lo contengo io».
Padri della chiesa
La storia nell’ottica cristiana
di Armando Torno (Il Sole-24 Ore, Domenica, 27.03.2016)
Sesto Giulio Africano, Padre della Chiesa vissuto tra la fine del regno di Marco Aurelio (161-180) e l’età di Gordiano (238-244), fu amico di Origene ed ebbe un rapporto con l’imperatore Settimio Severo; anzi, per questo sovrano ordinò la biblioteca - considerata di Stato - conservata nel Pantheon. Tra le sue opere vi sono le Chronographiae, in cinque libri, che narravano la storia umana tra la creazione di Adamo e la resurrezione del Salvatore. E quest’ultimo avvenimento sarebbe caduto, secondo i calcoli di Africano, nel 5532. Vi era anche una parte che arrivava sino ai giorni in cui era vivente l’autore, ovvero il 5723 della creazione, che coincideva con il terzo anno del regno di Eliogabalo, vale a dire il 221 d.C.
Ora le Chronographiae, di cui sono rimasti soltanto frammenti, sono state tradotte in italiano da Carlo dell’Osso per la «Collana di testi patristici» di Città Nuova. L’opera, per dirla in breve, è il primo tentativo sistematico di interpretare la storia secondo una visione cristiana e assume particolare importanza per gli influssi che lascerà.
Ci resta un autorevole giudizio di Fozio, che inserì lo scritto nella sua Bibliotheca, e con esso esprime il sentire della cultura bizantina: «Benché sia sintetico, Africano non omette nulla di quanto è necessario raccontare». Insomma, siamo in presenza di una cronaca universale in forma di epitome, vergata con il gusto per l’affermazione erudita e originale; il suo autore è colto, tanto che si potrebbe confondere con un esponente della Seconda Sofistica, mostrando una preparazione retorica degna di attenzione.
Da quel che rivelano i frammenti, le Chronographiae furono un’opera di compilazione, con liste di genealogie e di re, di personaggi. Due di esse sono preziose: si tratta di quella dedicata ai faraoni egizi, proveniente da una versione di Manetone che fu interpolata nell’ambito giudeo-ellenistico, e quella dei vincitori alle olimpiadi.
Africano, comunque, conosceva anche le tradizioni storiografiche dei popoli orientali; in diversi punti del testo emerge la sua familiarità con gli scritti originali della Bibbia e con la letteratura pseudoepigrafica ebraica, diventando in alcuni casi il tramite per la cronachistica della tarda antichità e di Bisanzio, come per il Libro di Enoch e probabilmente per il Libro dei Giubilei.
Nelle Chronographiae tutto ruota intorno a Cristo e Africano rielabora completamente la visione universale della storia rispetto al modello ebraico. Per dare l’idea delle notizie riportate, basterà leggere un paio di frammenti. Il primo è conservato dallo storico bizantino Giorgio Sincello: «La tenda da pastore di Giacobbe custodita in Edessa fu distrutta da un fulmine ai tempi dell’imperatore dei Romani Antonino, come dice Africano...». Il secondo da Agapio di Mabbug, autore arabo-cristiano melchita del X secolo: «Quanto al re dei Persiani che aveva mandati i Magi, si chiamava Faransun. Nel quarantaquattresimo anno di Augusto, questi Magi vennero da Cristo, che secondo l’opinione di alcuni, aveva già due anni. Ma Cirillo e Africano insieme con alcuni altri riportano che Cristo aveva sette giorni...».
L’Industria incontra il Santo Padre
Il prossimo 26 febbraio, in Vaticano nel Centro congressi Augustinianum, è in programma il Seminario di Confindustria «Fare insieme»
Fare impresa per creare valori
Il prossimo 26 febbraio, in Vaticano nel Centro congressi Augustinianum, è in programma il Seminario di Confindustria «Fare insieme»
di Gianfranco Ravasii (Il Sole-24 Ore, 24 febbraio 2016)
«Viviamo in un’epoca in cui alla bulimia dei mezzi corrisponde l’atrofia dei fini». Lapidaria ma incontestabile, questa asserzione del filosofo francese Paul Ricoeur delinea uno dei rischi maggiori della società contemporanea. Da un lato, infatti, mai come oggi abbiamo a disposizione un paniere sterminato di informazioni e di dati attraverso la comunicazione digitale. Mai come ora la scienza, accompagnata dalla tecnologia, ci offre una strumentazione efficace nella ricerca fisica, medica, industriale. Mai come in questo tempo la finanza stende una rete, spesso impalpabile, avvolgendo e talora strangolando il nostro globo. Mai come ai nostri giorni le distanze s’accorciano e persino svaniscono, permettendo un rimescolamento di etnie e culture.
D’altro lato, però, a questa indubbia e pur importante “bulimia” operativa corrisponde un’anoressia di valori, di interiorità, di significato, di etica. La massa delle risposte strumentali non riesce a evadere le domande esistenziali che, purtroppo, si affievoliscono nelle coscienze fino a estinguersi. Un altro filosofo, il danese Soeren Kierkegaard, già nell’Ottocento rappresentava simbolicamente questa situazione: «La nave è in mano al cuoco di bordo e ciò che trasmette il megafono del comandante non è più la rotta ma ciò che mangeremo domani».
L’apparente ottimismo versato a piene mani dalla scienza e dalla comunicazione di massa non riesce, comunque, a nascondere il groviglio di contraddizioni in cui ci dibattiamo. Il sudario di sangue delle guerre, la disperazione degli esodi di massa, la devastazione ambientale, il colossale divario tra ricchi e poveri, l’anelito dei popoli affamati, le ingiustizie sociali sempre più marcate, l’impennata della disoccupazione, gli squilibri culturali, i fondamentalismi religiosi continuano, infatti, ad artigliare le coscienze e le esistenze personali e comunitarie, distratte e superficiali, e riescono a interpellare tutta la piramide della società, dal vertice politico ed economico fino alla base popolare.
Per questo l’impresa italiana ha voluto consacrare una giornata di studio e di testimonianza nel tentativo di risvegliare e rinvigorire l’impegno comune ad opporsi a questa turbolenza che agita il nostro pianeta sempre più globalizzato eppure altrettanto frazionato. Gli imperativi per edificare un ethos comune che affronti questo orizzonte complesso e complicato sono quelli di sempre ma devono essere declinati con nuovi accenti, liberandoli dagli stereotipi vagamente moraleggianti: la giustizia, la libertà, la dignità della persona, la solidarietà, la conoscenza e l’istruzione, la responsabilità e i diritti individuali e sociali, il lavoro, la fede autentica e la morale. Queste e altre parole di vita sono state annodate sotto un denominatore comune che ha dato il titolo al convegno, il fare insieme.
Ora, questo verbo, che in quasi tutte le civiltà è il più generico per classificare ogni tipologia di azione, nella nostra lingua è basato su una radice indoeuropea che significa “mettere, fondare, posare” e rimanda quindi a una costruzione. Il verbo “fare” è, poi, contenuto in molti altri termini italiani, tra i quali brillano l’“affetto” e il “difetto”.
Sono un po’ i due volti estremi del “fare”, quello luminoso e appassionato della dedizione e quello del limite e dell’imperfezione: le mani che operano possono, infatti, stringersi e procedere “insieme”, ma possono anche rinchiudersi a pugni. Ecco perché è necessario coniugare il verbo “fare” con l’avverbio “insieme” che ha etimologicamente alla base l’aggettivo “simile”. È, quindi, la riscoperta della comune umanità e fraternità, l’essere tutti “figli di Adamo”, prima che essere segnati da altri connotati etnici, storici, culturali e sociali.
Dobbiamo ribadire, come suggeriva un altro filosofo francese, Emmanuel Lévinas, l’importanza del volto, dello sguardo reciproco, del dialogo. Visto da lontano un altro può sembrarci una bestia o un predatore; di fronte rivela, invece, quella costante umanità che tutti ci unisce per cui, come dice un proverbio orientale, il boia non guarda mai negli occhi la sua vittima. Ora, nel “fare”, un aspetto capitale è certamente quello del lavoro. Lo afferma in modo radicale la stessa Bibbia, che è pur sempre “il grande codice” della nostra civiltà occidentale: «Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino perché lo coltivasse e lo custodisse» (Genesi 2,15).
Certo, come diceva Pavese, «lavorare stanca»: non per nulla il latino labor, da cui deriva il nostro “lavoro”, significa “fatica” e “dolore”, e in francese e spagnolo il “lavoro” è travail e trabajo. Tuttavia l’uomo che è inerte o paralizzato o disoccupato sente una ferita nell’anima. Per questo “fare insieme” è costruire un mondo diverso nella giustizia e nella fraternità ma è anche creare concretamente le condizioni perché tutti possano operare con le loro mani e la mente, “coltivare e custodire” il mondo e sviluppare la loro stessa esistenza personale e sociale. Per questo affidiamo l’ultima considerazione a Primo Levi, uno scrittore che al lavoro operaio ha dedicato un romanzo dal titolo emblematico, La chiave a stella (1978), e che così ci esorta: «Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione della felicità sulla terra: ma questa è una verità che non molti conoscono».
I "QUADERNI NERI", HEIDEGGER, E HANNAH ARENDT:
LA DISPUTA DI AMORE, UNA CHIAVE INDISPENSABILE.
UN’INDICAZIONE DI LETTURA DALL’ART. DI DONATELLA DI CESARE
Heidegger no global. Il vero bersaglio del filosofo tedesco è l’orizzonte del liberalismo planetario:
[...]
[...] nell’eredità di Heidegger, più che i figli, hanno un ruolo decisivo le figlie - le prime donne filosofe, che sono figlie necessariamente ribelli, chiamate a contestare la linea patriarcale della filosofia. Ha un posto a sé Hannah Arendt.
Che cosa avrebbe detto Arendt leggendo le pagine dei Quaderni neri? Quelle in cui Heidegger tenta di definire l’Ebreo, parla dell’«ebraismo mondiale», e imputa agli ebrei una «assenza di mondo»? Non possiamo saperlo.
Avviene però qui quasi un gioco di specchi: la disputa d’amore tra Heidegger e Arendt diventa una chiave indispensabile per comprendere la riflessione sulla figura dell’Ebreo nei Quaderni neri, mentre questi ultimi gettano luce su quel rapporto.
Hannah - il nome ebraico che vuol dire «grazia» - è l’evento che spezza l’ordo amoris di Heidegger. Ma è anche la chance mancata, l’attimo fuggito, l’asilo rifiutato perché troppo inquietante e estraneo. Dopo di lei l’amore di Heidegger resterà spaesato, prigioniero nel regno della possibilità. La relazione dura solo pochi mesi. Heidegger sceglie il ritiro, la meditazione sull’Essere. Abbandona Hannah, aggira l’incontro, lascia che la sua figura svanisca, rifugge da quel che lei è concretamente. Così, in seguito, l’ebraismo può ritornare, come uno spettro, aggravato da un peso metafisico. E l’ombra dell’ebreo può proiettare l’ Ebreo figurale , accusato dell’abbandono dell’Essere. [...]
( PER LEGGERE TUTTO L’ART., CLICCA QUI avanti, su -> La Lettura - Corriere della Sera, 08.11.2015)
di Armando Torno (Corriere della Sera La Lettura, 23.12.2012)
Ogni giorno nel mondo esce un libro con opere di Agostino o con un saggio che ne analizza il pensiero. Poco meno di quattrocento titoli ogni dodici mesi dedicati al lascito di questo santo e filosofo che da un millennio e sei secoli ha riversato sull’umanità un oceano di pagine e di idee. In tale computo non sono compresi saggi, articoli e altri contributi a lui dedicati, appartenenti a quel genere che non si concretizza d’acchito in volume. Per limitarci alla lingua italiana, si può notare che sono disponibili nel nostro mercato editoriale ben più di 350 titoli cartacei riguardanti Agostino. Giuliano Vigini, che oltre ad essere un esperto di editoria, ha curato antologie e scritti di questo autore, sostiene che il prossimo anno, dedicato alla fede, i numeri saranno destinati ad aumentare.
Oggi, utilizzando le cifre care alla statistica e alle previsioni elettorali, potremmo dire che si pubblicano 1,05 opere di e su di lui ogni giorno; nel 2013 si dovrebbe arrivare a 1,09, ovvero a quattrocento titoli. Non dimentichiamoci che il Papa lo cita continuamente e ne raccomanda la lettura. La qual cosa non è una sponsorizzazione da poco. Le tabelle di Vigini offrono anche una sorta di geografia degli interessi.
Aggiungiamo che le nazioni agostiniane forti sono Francia (la Bibliothèque augustinienne prevede l’opera completa in 85 volumi), Spagna (decine di tomi già usciti nella Biblioteca de autores cristianos), Italia, Paesi di lingua inglese (Stati Uniti, Gran Bretagna). Seguono i tedeschi, che tuttavia hanno dato agli studiosi edizioni critiche indispensabili (Giovanni Reale, curatore dell’ultima traduzione e interpretazione delle Confessioni, si è basato sul testo di Martin Skutella, pubblicato da Teubner nel 1969). Che aggiungere? Semplicemente che Agostino è il crocevia dei grandi temi del pensiero occidentale e intuì l’idea portante continuamente ripresa dai sommi: cercare Dio è l’inizio di tutto.
In italiano è disponibile l’opera integralmente tradotta, con testo latino a fronte. La progettò Agostino Trapè (priore dell’ordine) per l’editrice Città Nuova e il primo volume apparve nel 1965. Ci vollero una quarantina d’anni per terminarla. Dopo la scomparsa del fondatore, il testimone passò a Remo Piccolomini e la realizzazione è stata curata da Franco Monteverde. Sono stati necessari 70 volumi. Ora è in corso la pubblicazione dell’iconografia; sono allo studio ulteriori indici e si sta lavorando alle opere attribuite. Alla fine sarà una mole di poco meno di 50 mila pagine, che ha coinvolto una ottantina di studiosi. Ma tutto questo patrimonio è anche online.
Lorenzo Boccanera, webmaster del sito www.augustinus.it (in esso si trova anche una traduzione spagnola di circa la metà del lascito agostiniano, nonché collegamenti a siti dove si possono leggere traduzioni inglesi e francesi) ricorda che viene visitato da poco meno di mille lettori distinti certificati al giorno. Con qualche punta favorita dagli eventi: il 30 gennaio e il 1° febbraio 2010, allorché la Rai trasmise lo sceneggiato su Sant’Agostino, si toccò - nota Monteverde - il picco di 18 mila utenti. E il fenomeno durò per alcuni giorni. Va anche precisato che il sito è completamente gratuito. Boccanera è un ingegnere e ama i dati. Senza nulla togliere al valore dell’opera di Agostino, sottolinea che quantitativamente lo stampato latino-italiano equivale a 350 volte il testo de I Promessi sposi, a 100 volte la Divina Commedia (con le relative chiose).
Di più: il vocabolario di Agostino è composto da 117.500 lemmi, ma se si contano declinazioni e verbi si giunge a 220 mila. Con Office un dizionario latino-agostiniano, per essere utilizzabile, si è dovuto spezzare in 7 file. La parola più citata dal santo è Deus (56.346), che con Pater arriva a 67.749; Christus è a 22.818, tuttavia se si unisce a Dominus, Verbum, Filius, Iesus, Salvator si giunge a 74.234. Peccatum, con l’inevitabile peccator, è presente 20.628 volte e batte amor, che unito a caritas e dilectio, giunge a 12.604.
Né va dimenticato che Città Nuova ha pubblicato, in calce all’opera, un indice analitico che ha richiesto 5 volumi distinti, con 700 mila frasi e 200 mila rimandi per eventuali confronti. La sola voce Agostino occupa 250 pagine stampate e più di 15 mila frasi. E vi sono 5 volumi di lettere raccolte in circa 3.500 pagine.
Ci assicurano che il sito, curato anch’esso da Monteverde con l’apporto tecnico di Boccanera, non ha fatto calare le vendite del cartaceo, anzi si stanno preparando nuove edizioni perché alcune opere si sono esaurite. Inoltre sono nate, accanto a questa impresa, altre biblioteche.
Si prenda, per esempio, il sito del fondatore www.agostinotrape.it: contiene tutti i documenti di studio digitalizzati dell’intera sua vita, anche quelli giunti da diversi pontefici, cardinali e ricercatori di ogni parte del mondo. Autore di oltre 120 titoli editoriali, è diventato anche grazie a questo sito il punto di riferimento per gli studi agostiniani.
Oltre tali considerazioni quantitative, non è possibile dimenticare l’influenza esercitata dal santo sul Cristianesimo e dal filosofo nella storia del pensiero. Quell’oceano di parole, di idee, di intuizioni ha continuamente condizionato gli uomini e la loro fede. Dal punto di vista religioso, Agostino resta attualissimo per le sue considerazioni sull’itinerario interiore testimoniato nelle Confessioni o per quanto ha lasciato nei quindici libri de La Trinità.
Per rendersi conto, basterebbe aprire la recente edizione di quest’ultima opera, curata da Giovanni Catapano e Beatrice Cillerai (edita ne «Il Pensiero occidentale» di Bompiani, pp. 1.496, 38), per accorgersi che lo scopo dell’autore fu quello di rendere ragione - partendo dalla fede e utilizzando le facoltà conoscitive a nostra disposizione - dell’unicità e identità sostanziale di Padre, Figlio e Spirito Santo.
E non vanno dimenticati i commenti biblici. Quello sui Salmi si legge nei sei tomi di oltre 5 mila pagine di Città Nuova. Ma ve ne sono a Giovanni, né mancano trattati sul Discorso della montagna, sulle questioni poste dai Vangeli o per la Lettera ai Romani; vi sono, tra l’altro, annotazioni a Giobbe e poi conviene aggiungere eccetera. Le opere polemiche - contro i Manichei, i Donatisti, Giuliano et similia - occupano sedici tomi e in essi si trova una miniera di informazioni sul cristianesimo dei primi secoli e sulle controversie che ne hanno caratterizzato la diffusione. Per lo storico delle religioni o per il teologo le opere di Agostino sono ancora un riferimento indispensabile.
E in filosofia? Anche in tal caso, temi come il tempo, il male, il libero arbitrio, la fede, solo per limitarci ad alcuni, hanno in questo autore una fonte continuamente consultata. Uno studioso quale Luigi Alici ha sottolineato che «il plesso Deum et animam» è al centro del pensiero di Tommaso d’Aquino; inoltre da Agostino partono le riflessioni di Lutero ma anche quelle opposte di Giansenio, le medesime che daranno origine al cattolicesimo di Pascal. Nemmeno il movimento di idee che caratterizza il pensiero di Cartesio può farne a meno, anzi alcuni aspetti dell’agostinismo sono stati utilizzati per difendere le prospettive di questo filosofo francese.
E agli inizi del ’900 uno studioso come Henri-Xavier Arquillière ideò la formula di «agostinismo politico»: ad esso riconduceva, tra l’altro, le tendenze teocratiche del XIII secolo. Ma dall’immenso lascito transitava anche il concetto di «guerra giusta», utilizzato ancora in tempi a noi molto vicini.
Che dire? Tali tesi vennero contestate da illustri accademici, ma La città di Dio restò un’opera letta dai grandi spiriti politici. Giuseppe Prezzolini la ritrovava, insieme ad altre intuizioni di Agostino, in Machiavelli. Mentre María Zambrano - lo ha ricordato Giovanni Reale - ha inteso le Confessioni come l’atto di nascita dell’idea di Europa. Non c’è che l’imbarazzo della scelta.
Nell’elenco dei personaggi che hanno dedicato tempo ed energie ad Agostino ci sono un po’ tutti, da Bergson ad Einstein, da Petrarca a Voltaire (che cercava di criticarlo senza sconti), né mancano i teologi del Novecento. Inutile stilare un elenco di questi ultimi perché Barth, De Lubac, lo stesso Ratzinger, von Balthasar o Rahner hanno dedicato energie notevoli a codesto autore.
Cattolici, protestanti, razionalisti del Seicento francese e persino molti teorici della musica non possono non definirsi agostiniani. E anche chi legge le pagine di Heidegger relative al tempo, è tentato di tornare a quelle da lui scritte su una materia così bisbetica. Dicevamo che questo autore è un oceano. Le sue idee, del resto, hanno toccato o permeato buona parte dei ragionamenti umani.
Oggi, dopo aver meditato sul pensiero debole e su quello corto, siamo impotenti quantitativamente e qualitativamente dinanzi ad Agostino. Forse si potrebbe parlare di lui come del Platone cristiano. Ma questa, come si suol dire, è un’altra storia. E un giorno qualcuno la racconterà.
Aurelio Agostino (Tagaste 354 - Ippona 430), uno dei Padri della Chiesa di maggior influenza in ogni epoca, studiò retorica a Cartagine e tale materia insegnò anche a Roma e a Milano. Attratto da correnti quali manicheismo, scetticismo e neoplatonismo, trovò la pace intellettuale convertendosi al cristianesimo. Fu battezzato a Milano da Ambrogio, insieme al figlio Adeodato. Ritornato in Africa, nel 395 diventò vescovo
Le opere Tra le sue innumerevoli opere vanno innanzitutto ricordate le «Confessioni» in 13 libri, che lasceranno una traccia indelebile nella cultura occidentale; quindi «La città di Dio» in 22 libri. In essa si trovano le linee di una teologia della storia, distinguendo la città degli uomini che vogliono vivere in pace secondo la carne e il benessere terreno, e quella di coloro che desiderano vivere secondo lo spirito aspirando alla beatitudine eterna. Tra le altre, fondamentale il «De Trinitate», in 15 libri, punto di arrivo della patristica sul piano della speculazione relativa alla Trinità
Maria Zambrano
Sant’Agostino erede di Platone
di Armando Torno (Corriere della Sera, 7.12.2012)
Maria Zambrano, la filosofa spagnola scomparsa nel 1991, sosteneva una tesi semplice e sconvolgente al tempo stesso: la cultura europea è nata con le Confessioni di Agostino. In esse non si scopre soltanto un uomo che si converte ma come e perché cambia un’epoca.
Giovanni Reale in questi ultimi anni sta studiando soprattutto Agostino. Dopo il Commento al Vangelo di Giovanni, ora firma la nuova traduzione - testo a fronte, monografia introduttiva di 350 pagine, note esplicative e apparato di cinque indici - delle Confessioni (Bompiani, «Il pensiero occidentale», pp. 1406, 30).
La sua ricerca parte da una certezza: è un errore interpretarlo come un filosofo medievale, giacché va letto con gli strumenti del pensiero antico; o meglio: con l’aiuto del neoplatonismo. Tra le novità di questa sua edizione, c’è la «tarsia letteraria», stile basato sulle citazioni che Agostino prende dalla Bibbia. Di tarsia, va precisato, se ne parla solitamente in arte; qui si entra in una nuova dimensione in cui l’ornamento cede il passo alle esigenze di ricerca della verità.
Non è, per intenderci, un mosaico con tante fessure; assomiglia piuttosto a quelle tarsie del legno che non lasciano spazio tra l’elemento introdotto e la base in cui sono inserite. Tutto questo per dire che le parole di Agostino nelle Confessioni non avrebbero senso senza gli inserti: non sono ripetizioni retoriche ma locuzioni che ribadiscono un concetto forte, atomi fonetici che egli vede giungere dal Logos incarnato. Si prenda, per esempio, il XIII libro, dove si legge l’interpretazione allegorica della creazione: ha più citazioni che altro e presenta la ri-creazione dell’uomo, la medesima resa possibile dal Logos, dalla Parola, che assume appunto sembianze di carne.
Nelle Confessioni ci si accorge più che in altre opere che i termini della Bibbia sono quelli di Dio. Il lavoro della tarsia lo evidenzia. Kierkegaard osservava che per fidarsi di una persona si chiede la sua parola, ma nota che questo semplice atto Dio l’ha compiuto in Cristo. «Io sono la verità» asserì Gesù: è possibile fidarsi dell’affermazione perché la Parola è stata data in garanzia a ogni uomo.
Siamo dinanzi a un’opera che per Reale non va letta con il criterio biografico. Presenta due livelli: uno orizzontale e uno verticale. Nel secondo caso Agostino rimanda continuamente al suo rapporto con Dio. È come se dicesse: tutto quello che ho fatto e che ora vedo o continuo a compiere ha senso solo nel mio ostinato colloquio con Lui. La confessione, insomma, la chiede Lui. La relazione che si instaura è particolarmente forte: l’io si trasforma in un rapporto con il Tu, con Dio.
La Zambrano ha colto un altro aspetto di cui Reale fa tesoro: le Confessioni non hanno dei precedenti letterari se non nel Libro di Giobbe, dove si vive un continuo confronto con il Signore. Ma così come non è biografia Giobbe, allo stesso modo non lo sono le Confessioni: la logica che le governa non è empirico-storica ma quella di un uomo che evoca il significato di alcuni momenti della sua vita, punti topici ripensati attraverso la psiche.
Per questo e per altri motivi Reale coglie in esse un’unità. Non ci sono i primi o gli ultimi libri, non c’è per lo studioso un’aggiunta o una digressione sfuggita alla penna: Agostino affronta con un solo respiro quello che è stato o ha pensato, ma anche quello che fu in quel momento, saltando anni, senza mai accantonare la tensione che lo lega al colloquio con l’assoluto.
Certo, verso la fine, soprattutto nei libri XI e XII, entrano in gioco dei concetti fondamentali: la creazione dal nulla, l’eternità, il tempo. Per Agostino, così come per la Chiesa e per i Padri in genere, la stessa materia non è coeterna a Dio ma viene dal nulla. La differenza tra tempo ed eterno incanta ancora il lettore. Si può così comprendere che è domanda senza senso chiedersi cosa facesse Dio prima della creazione, perché il tempo nasce insieme al cosmo, e non c’era un prima e un poi: soltanto dopo l’intervento di Dio la questione si presenta. Platone nel Timeo si interrogò sulla nascita del tempo e delle cose, Agostino risponde aggrappandosi al Creatore. E cos’altro poteva fare? Passano i secoli e anche noi siamo ancora qui, con lui, tra una riga e l’altra delle Confessioni.
UNA QUESTIONE MORALE EPOCALE. SE UN PAPA TEOLOGO SCRIVE LA SUA PRIMA ENCICLICA, TITOLANDOLA "DEUS CARITAS EST" ("CHARITAS", SENZA "H"), E’ ORA CHE TORNI A CASA, DA "MARIA E GIUSEPPE", PER IMPARARE UN PO’ DI CRISTIANESIMO.
"CHARITE DULCISSIMA": IL RACCONTO DI APULEIO, A DIFESA DI UNA FANCIULLA RAPITA DA UNA CRICCA DI BRIGANTI PER OTTENERE UN BUON RISCATTO! Una nota di Franco Manzoni
LA FAVOLA DI AMORE E PSCICHE. "Il mito, che unisce l’amore e l’anima, viene ascoltato dall’uomo-asino in una caverna di banditi. Qui è trattenuta una fanciulla di nome Càrite, rapita per ottenere un buon riscatto. Per consolarla, la vecchia che la custodisce narra una storia a lieto fine. Figlia di re, Psiche è così bella da suscitare la reazione di Venere, che chiede al dio Amore di ispirare alla fanciulla una passione per l’uomo più brutto della terra".
Giansenio. Indebitamento, disciplina dello spirito
di Marco Pacioni (il manifesto/Alias, 10 giugno 2012)
Il giansenismo è uno di quei casi nella storia della cultura in cui l’opera e soprattutto i personaggi che da questa vengono toccati sono più conosciuti dell’autore. Ancora oggi gli studi sul giansenismo e in particolare sul luogo in cui la dottrina giansenista costituì il suo centro spirituale, Port-Royal, e su una delle figure più importanti che ebbe relazioni con quel luogo, Blaise Pascal (1623-1662), sono di gran lunga maggiori rispetto a quelli sul padre del giansenismo, il teologo olandese Cornelis Jansen (1585-1638). La sua opera più importante, e cioè l’Augustinus, fu pubblicata nel 1640, poco dopo la morte per peste dell’autore, e subito anch’essa condannata dalla chiesa cattolica.
A parte l’Augustinus, monumentale meditazione sul pensiero di Sant’Agostino e in particolare sulla questione affrontata dal padre della chiesa riguardo la dottrina eretica di Pelagio e le connesse questioni della grazia, del libero arbitrio e della predestinazione, Giansenio è autore di altri scritti che insieme alle lettere e alle lezioni tenute all’università di Lovanio furono in gran parte responsabili della prima ricezione del suo pensiero, tradotto dal latino al francese e diffuso da intellettuali come Saint-Cyran, Arnauld e d’Andilly.
Quest’ultimo è l’autore della versione francese del Discorso sulla riforma dell’uomo interiore (a cura di Valdo Vido, con il testo latino dell’edizione parigina del 1640 dell’editore del re Antoine Vitray, Aragno, pp. 82, € 10,00), testo che Giansenio aveva scritto per la riforma di un monastero benedettino e sul quale ha meditato, fra gli altri, anche il critico letterario francese Sainte-Beuve nel suo famoso libro Port-Royal (appena ri-tradotto da Einaudi nei «Millenni»).
Sainte-Beuve, ripreso anche a mo’ di introduzione nel libro Aragno, racconta l’episodio della vita di Pascal nel quale il padre del filosofo è visitato da due medici in seguito a una caduta che gli aveva causato la frattura di una gamba. I due, imbevuti di cultura scientifica ma anche di giansenismo, hanno modo di prendersi cura pure del figlio, sempre più afflitto dai molti mali che lo accompagneranno con sempre maggiore intensità fino alla morte.
L’episodio menzionato da Sainte-Beuve è ripreso anche da Rossellini nel suo film per la televisione dell’inizio degli anni settanta, Pascal, nel quale si vedono i due medici consegnare alla sorella di Pascal un fascio di fogli scritti che lei fa scivolare segretamente sotto il cuscino del letto del fratello. È questo appunto il testo della versione francese del Discorso sulla riforma dell’uomo interiore la cui influenza sul filosofo sarà decisiva per il suo percorso spirituale e per la sua opera scientifica e di pensiero.
Il Discorso affronta le tre principali «passioni» che impediscono al cristiano il controllo di sé: la concupiscenza della carne, la curiosità di sapere e, in crescendo, l’orgoglio. Giansenio scrive che «Dio ha preferito rifare il vaso che era caduto dalle sue mani, e ridargli la prima forma che gli aveva impresso».
In altre parole, per il teologo, l’uomo deve essere creato due volte, un po’ come anche Pascal si converte due volte. Ciò vuol dire che anche la caduta raddoppia. La seconda, quella più pericolosa, è quella che ci minaccia quando, avendo vinto la tentazione della carne e la curiosità di sapere e fatto progressi nel controllo di noi stessi, crediamo di aver raggiunto la meta per nostro merito. Questa situazione psicologica è per Giansenio, però, la via del trionfo dell’orgoglio, dell’amore di sé: il più diabolico dei tre pericoli per la perdizione dell’animo umano. È soprattutto per questo motivo, per vincere la seconda caduta, che il dono e cioè la grazia hanno per Giansenio un ruolo fondamentale.
Considerare grazia ciò che si è tentati di considerare merito salva dal rischio del diventare pieni di sé cioè dalla tentazione di mettersi al posto di Dio come ha fatto il diavolo. È proprio in questa dimensione psicologica che va colta la specificità della dottrina della grazia che salva in Giansenio. Specificità che marca la differenza dalle altre concezioni della grazia, come ad esempio quella di un altro interprete di Sant’Agostino come Lutero.
Al di là della implicata questione del libero arbitrio, è tale aspetto delle passioni dell’animo in relazione alla grazia diGiansenio che interessa a Pascal. Per il filosofo, come già per il teologo, non sono tanto la conoscenza e la scienza in stesse a dover essere considerate negativamente, ma l’effetto psicologico e spirituale che esse producono e cioè quello di generare quell’amore di noi stessi che ci fa mettere in secondo piano, fino a ignorare, Dio. Credere, per Pascal, per l’uomo di cultura e lo scienziato, è soprattutto non credere all’illusione della considerazione di sé che si genera nella ricerca scientifica, nella speculazione filosofica, nella creazione artistica. Di qui il paradosso per cui proprio chi potrebbe essere più vicino a Dio grazie alla scienza, alla filosofia, all’arte può invece allontanarsene per sempre.
Alla tara psicologica che si produce nel processo della conoscenza e che può rendere ciechi verso Dio sono rivolte le parole urlate che Pascal pone in esergo all’incompiuta opera apologetica del cristianesimo che conosciamo sotto il titolo di Pensieri.
La grazia, l’iper-dono di Dio all’uomo irreparabilmente incline al peccato dopo la caduta dei suoi progenitori, è una seconda creazione: quella psicologica che rende cosciente l’uomo stesso di vigilare costantemente sulle proprie passioni, specie quando queste sembrano innocue come la curiosità o addirittura positive come il controllo di sé.
La seconda creazione operata dalla grazia agisce come un esercizio spirituale permanente che può farsi carico anche di decisioni prese con criteri pragmatici - come è in un certo modo pragmatica la scommessa con la quale Pascal indica di puntare su Dio.
In tale work in progress senza fine, sempre sospettoso di giungere a un risultato che appaia definitivo, è essenziale sentirsi costantemente in debito rispetto agli obiettivi spirituali che si vogliono raggiungere. In tale disciplina dell’indebitamento, va visto uno degli aspetti più attuali dello scritto di Giansenio.
In tale sentirsi in debito come più efficace disciplinamento degli uomini, da Weber a Foucault, fino ad Agamben e oltre, si è visto un elemento fondamentale del paradigma che sta dietro il funzionamento della sempre crescente dimensione bio-politica delle nostre società, nonché dei dispositivi più potenti della finanziarizzazione dell’economia capitalistica odierna come ha mostrato di recente il libro di Elettra Stimilli, Il debito del vivente. Ascesi e capitalismo (Quodlibet, 2011).
La disciplina spirituale di Agostino elaborata da Giansenio e che Pascal vuol far propria è una disciplina dell’indebitamento nella quale bisogna evitare di credere di essere padroni di un capitale e, ancora di più, di vantare un credito spirituale perché proprio qui si annida la possibilità di perdere tutto. Nella scommessa di Pascal, il poco della vita mondana che si rischia è niente rispetto al possibile guadagno del tutto della vita eterna.
Come insegna questo scritto di Giansenio e come confermano le vicende dell’economia odierna, il male e il rimedio al male si intrecciano, si rendono reciprocamente necessari, si avvolgono come un congegno barocco, e diventa difficile discernere attraverso i soli mezzi della conoscenza astratta il punto in cui la cura e la malattia si separano o almeno si tengono temporaneamente a distanza.
La logica di Port-Royal, quella sfida creativa per costruire un’opera
di Piergiorgio Odifreddi (la Repubblica, 10.06.2012)
Fu pubblicata, come sintesi di un metodo, da Arnauld e Nicole E diventò, dal Seicento, il testo base delle scuole gianseniste Se c’era un luogo, nel Seicento, dove la logica sicuramente non stava di casa, e anzi sembrava essere stata rigorosamente e ufficialmente bandita, quello era il monastero di Port-Royal. A confermarlo basterebbero le vicende personali e le opere letterarie legate al nome di Pascal, che di quel luogo fu il più noto frequentatore, e il più illustre fiancheggiatore.
È dunque singolare che, nel campo scientifico, il monastero sia passato alla storia per quella che viene comunemente chiamata la Logica di Port-Royal, anche se in origine si intitolava La logica, o l’arte di pensare. La pubblicarono anonima nel 1662, esattamente trecentocinquant’anni fa, Antoine Arnauld e Pierre Nicole, due degli intellettuali più in vista del convento. E rappresenta una sorta di lavoro “collettivo” che servì alle generazioni future.
Tanto Arnauld era focoso e impulsivo (nel 1643 aveva scritto il primo pamphlet giansenista, La comunione frequente fatto di serrate dimostrazioni logiche in stile quasi matematico) quanto Nicole era pacato e riflessivo. Del giansenismo, pensava che fosse un’eresia immaginaria, su cui si era fatto troppo rumore per nulla. Tornando alla Logica di Port-Royal, le storie personali dei loro autori lasciano prevedere che il suo stile sia un po’ pretesco, ma il suo approccio non è scolastico. Anzi, nelle intenzioni teoriche, l’opera si schiera dalla parte dei moderni. Anche se, nello sviluppo pratico, si tiene alla larga dall’induzione, e dunque dal metodo scientifico e sperimentale, concentrandosi completamente sulla deduzione, e in particolare sul metodo geometrico e cartesiano.
L’influsso di Cartesio è evidente, nel bene e nel male. Il bene, sta nell’aver capito che i sillogismi erano solo una parte della logica: la più arida, sterile e scolastica. Il male, nell’aver sottovalutato l’importanza e la fecondità del formalismo, a favore dell’intuizione e delle “idee chiare e distinte”.
La Logica di Port-Royal si situa dunque a metà del guado che dalla logica filosofica di Aristotele condurrà a quella matematica di Leibniz, Boole, Frege e Russell. Ispirandosi alle anticipazioni di Pascal, e dei suoi due misconosciuti trattati Lo spirito geometrico e L’arte di persuadere, Arnauld e Nicole enunciano otto regole metodologiche, che mantengono ancor oggi inalterato il loro valore. Esse mostrano come il metodo logico consista nel «definire chiaramente i termini di cui ci si deve servire, postulare assiomi evidenti per provare le affermazioni, e sostituire mentalmente nelle dimostrazioni le definizioni al posto dei termini definiti».
Come già il titolo originario lasciava presagire, lo scopo della Logica di Port-Royal è ambizioso: si propone infatti di studiare non le regole della grammatica, o gli stratagemmi della dialettica, ma nientemeno che Le leggi del pensiero. Si tratta, cioè, dello stesso programma che intraprenderà George Boole nel 1854, fin dal titolo del suo omonimo capolavoro, ma con un approccio algebrico che gli permetterà di aprire le porte alla logica moderna.
Arnauld e Nicole si fermarono fuori della soglia, invece, e nelle quattro parti della loro opera si limitarono a discutere le «quattro operazioni principali dello spirito: concepire, giudicare, ragionare e ordinare». Più che forzare a rigorose dimostrazioni di tipo algebrico o geometrico, le loro ricette permettevano dunque ancora di cucinare pseudodimostrazioni filosofiche: come quelle scodellate da Spinoza nella sua Ethica, che rimase « ordine geometrico demonstrata » solo nelle pie intenzioni dell’autore.
Un elemento di vera novità, comunque, la Logica di Port-Royal riuscì a introdurlo, ed è la distinzione fra le “intensioni” e le “estensioni” dei concetti: cioè, fra come essi sono enunciati, e ciò che essi esprimono. Si tratta della stessa distinzione fra “senso” e “significato” che Gottlob Frege riprenderà nel 1892, nel suo omonimo e classico articolo Senso e denotazione.
Effettivamente, Port-Royal era il luogo più adatto per scoprire questa distinzione. Infatti, il monastero fu l’epicentro di un’interminabile disputa sulla grazia che non aveva nessun significato oggettivo, benché avesse molto senso soggettivo per i gesuiti e i giansenisti. Essa generò innumerevoli discussioni, piene forse di buone intenzioni, e certo di cattive “intensioni”, ma tutte prive di qualunque “estensione”. Era anche per educare a queste vuote dispute, oltre che per divertire il giovane duca di Chevreuse, che la Logica di Port-Royal fu scritta. Essa venne adottata come testo nelle “piccole scuole” gianseniste, che costituirono comunque un interessante esperimento d’avanguardia educativa. Le classi erano ridotte a una mezza dozzina di studenti, l’emulazione fra di essi era bandita, il silenzio veniva privilegiato al gioco, gli indisciplinati erano espulsi senza punizioni e il ragionamento era esaltato. Il fatto che, dopo tre secoli e mezzo, queste proposte allora avveniristiche suonino oggi anacronistiche, la dice lunga sulla direzione in cui sono rotolate l’educazione e la scuola, dalle vette di Pascal a oggi.
Etty Hillesum. Colloqui con Dio nei lager nazisti
di Marco Rizzi (Corriere della Sera, 12 aprile 2012)
Uccisa a 29 anni ad Auschwitz con tutta la famiglia, l’ebrea olandese Etty Hillesum ha lasciato un diario e lettere agli amici, che coprono il periodo tra il 1941 e il 1943. Pubblicati negli anni Ottanta del secolo scorso, questi scritti l’hanno fatta accostare a Simone Weil e Hannah Arendt per la lucidità, tutta femminile, con cui è indagata la dimensione inaudita assunta dal male.
Isabella Adinolfi (Etty Hillesum. La fortezza inespugnabile, Il melangolo, pp. 216, € 16) ricostruisce il percorso esistenziale e intellettuale che consentì alla giovane ebrea non solo di resistere alla violenza subita nella persecuzione, bensì di intrecciare un vero e proprio dialogo d’amore con Dio. Dal lager di Westerbork, scrive: «Mi hai resa così ricca, mio Dio, lasciami anche dispensare agli altri a piene mani. La mia vita è diventata un colloquio ininterrotto con te, mio Dio, un unico grande colloquio».
Riecheggiano qui le parole della mistica ebraica e cristiana. Hillesum si colloca in una dimensione spirituale che trascende ogni confine tra religioni: «Credo che questa terra potrebbe ridiventare più abitabile solo grazie a quell’amore di cui l’ebreo Paolo scrisse agli abitanti di Corinto nel tredicesimo capitolo della sua prima lettera». Proprio grazie alla padronanza della tradizione che va da Pascal a Kierkegaard, da Buber a Weil, Adinolfi mostra le radici che hanno nutrito l’eccezionalità di Hillesum.
La Messa, una festa aperta all’umanità della povera gente
di Giovanni Nicolini (“Jesus”, novembre 2011)
Quando la parabola domenicale mi metteva davanti alla vicenda di quell’uomo «che non indossava l’abito nuziale» nella sala delle nozze piena di commensali, m’è venuto in mente il vecchio Luigi: abitava davanti alla chiesa dove per quasi 25 anni ho fatto il prete di campagna. Arrivavo la domenica per la Messa e lui stava tagliando l’erba per i conigli sulla riva del fosso. Mi diceva: «Don Giovanni, adesso mi preparo e arrivo anch’io». E arrivava. Tirato a lucido, con il suo elegantissimo abito blu. Abito di nozze, che ancora gli andava a pennello perché dopo tanti anni non aveva aggiunto una libbra di peso alla sua snellezza giovanile. Su quest’abito nuziale della parabola avevo avuto parecchie telefonate prima di domenica: consolazione per un vecchio parroco, preoccupato di non aver saputo regalare alla sua gente il gusto e la curiosità del Vangelo. Che cosa vuol dire questo abito? Perché lo butta fuori? È poi così grave non avere l’abito delle nozze? Luigi è nato nel 1900: era facile calcolare la sua età. È andato in paradiso negli anni Novanta. Ho chiesto a lui di aiutarmi e di chiedere al Signore qualche luce.
Quella parabola è una meraviglia: la Chiesa che si sogna. La Chiesa che dovremmo essere. Una festa nuziale alla quale sono stati invitati quelli che non erano stati invitati. Invitati non invitati, e chiamati all’ultimo momento. Gente stupita di trovarsi nella bellezza di una festa d’amore. C’è di tutto tra quella gente. Andati alla cerca urgente e frettolosa per riempire la sala, i servi hanno raccolto di tutto: «Trovarono cattivi e buoni, e la sala delle nozze si riempì». Non era mai stato così! E non vuole esserlo veramente nemmeno adesso: dentro i buoni, ma fuori i cattivi. Qui no. Nella sala del banchetto nuziale del Figlio di Dio con l’umanità, nella Messa dunque, tutti. E neanche buoni e cattivi, ma prima i più numerosi: cattivi e buoni (infatti, dove mai saranno i buoni?). Un nuovo criterio morale per la partecipazione alle nozze. Nozze dove la sposa non è nominata, perché la sposa è tutta questa povera umanità di povera gente.
Che bella la parabola di Matteo 22. Solo lui tra gli evangelisti la ricorda così! Un banchetto per i poveri. Un banchetto per i peccatori. Una sorpresa per gente che non era stata invitata. Ma noi sappiamo che allo Sposo la Sposa piace così. Se si continua a selezionare e a prendere solo i buoni, tra un po’ basterà una saletta piccola piccola. Ma soprattutto non sarà contento lo Sposo, e nemmeno suo Padre.
Ma allora, perché rovini tutto con la faccenda dell’abito nuziale? Qual è il male del commensale che non aveva l’abito adatto? E che cosa vuol dire questo abito? Eravamo arrivati a domenica mattina con molte domande. E anche sant’Agostino non ci aveva convinto. Lui dice che l’abito nuziale è la carità, e che i buoni sono quelli che hanno la carità. E i cattivi? Dunque, quelli che non hanno la carità sono fuori? E poi, ne è stato trovato uno, ma la sala è piena di cattivi. Alla fine, forse con l’aiuto di Luigi dal cielo, s’è pensato così: forse quel pover’uomo pensava di avere il diritto di stare in quel posto. L’abito delle nozze, che ricorda l’abito battesimale, è invece l’umile consapevolezza di un dono immeritato. Forse l’abito nuziale è la consapevolezza che possiamo far festa anche noi proprio perché siamo stati rivestiti della misericordia divina. E questa misericordia è Gesù. Non è un nostro diritto, né un nostro merito. È solo dono.
S. Agostino? Contemporaneo
Cacciari torna in Santo Spirito
di Maria Cristina Carratù (la Repubblica/Firenze, 14.4.11)
Massimo Cacciari è di casa, in Santo Spirito, la sua amicizia con il padre agostiniano Gino Ciolini, scomparso nel 2005, lo ha portato tante volte nel luogo da entrambi considerato una vera summa, architettonica e non solo, dell’Umanesimo. Dopo i primi incontri ai Convegni di S.Spirito, organizzati da Ciolini a ripresa dei convegni quattrocenteschi ospitati nella stessa sala capitolare del Convento, quella che poteva restare reciproca stima fra intellettuali era ben presto diventata una comune avventura, umana, filosofica, spirituale, capace di andare ben oltre gli steccati che uno sguardo banale avrebbe tracciato fra i due, uno teologo, l’altro filosofo non credente.
Oggi (ore 18, sala del Capitolo) Cacciari sarà di nuovo in S.Spirito per parlare di «Agostino, pensatore contemporaneo», tema centrale della riflessione sua e di padre Ciolini. Contemporaneo in che senso, il vescovo di Ippona, milleseicento anni dopo? Innanzitutto, spiega il filosofo, «per le forme del tutto libere del suo pensiero, estraneo alla pesantezza sistematica che sarà il valore della grande speculazione scolastica successiva». Inoltre, per la sua scrittura, che risente dei grandi autori della classicità latina, «ma è piena di esperienza vissuta».
DeI riverberi «dei drammi personali» dell’ex giovane adepto del manicheismo, sedotto dai piaceri della carne, convertito al cristianesimo, portatore di una fede inquieta e interrogante, «ma anche dei mutamenti epocali» di cui fu testimone. «Un approccio esistenziale» che rivive anche nelle sue opere più ponderose e sistematiche, come il De Civitate Dei, e, dice Cacciari, simile solo «a quello di Dante».
Ma poi, altra questione che da qui passerà al pensiero contemporaneo, c’è il tema gnoseologico di fondo: da dove si pensa? si chiede Agostino, prendendo le distanze dallo «scetticismo astratto e senza fondamento» dei primordi, e «arrivando a convincersi che pensare è impossibile senza pre-supporre la Verità di cui si va in cerca». Non, però, per «volgare asserzione dogmatica»: nel porre l’inizio, infatti, egli postula anche «l’avvio dell’itinerario che dovrà inverarlo», facendone così «punto di partenza».
Ancora: la visione della storia, «come luogo di conflitto permanente fra due grandi principi contrapposti, insistenti nella stessa Città umana, e continuo infuturarsi, il cui fine non è nelle nostre mani, né in un ritorno alle origini», è, dice Cacciari, «la visione da cui nasciamo noi». Quanto poi ai temi teologici, ecco «il discorso scandaloso sulla predestinazione, la natura vulnerata dal peccato, che dominerà la Riforma, arriverà al male radicale di Kant, al Barth dell’Epistola ai Romani», mentre è nell’Agostino indagatore del Dio trinitario «che affonda le radici la dialettica hegeliana».
E una cosa è certa: un cristianesimo che «non prenda più sul serio» i temi sollevati dal grande Dottore, a cominciare dal paradosso del Dio Uno e Trino, non può dirsi cristianesimo». Così come a Agostino la Chiesa dovrebbe ispirarsi per promuovere «un’indagine consapevole» sul volto autentico della fede cristiana, di ieri come di oggi: fede che, «pur sapendosi dono e grazia, non rinuncia mai ad essere intelligente, esigente, indagatrice di se stessa. Mai impaurita, ma bisognosa della interrogazione razionale».
E Agostino traghettò la cultura classica nel mondo cristiano
di Sossio Giametta (Corriere della Sera, 16 febbraio 2011)
Tutto il cristianesimo può considerarsi un’interiorizzazione dell’uomo. Ma lo divenne in modo specifico e sistematico solo con sant’Agostino. Nella vita noi sperimentiamo l’essenza (felicità, bellezza, illuminazione, potenza) e le condizioni dell’esistenza (dolore, frustrazione, angoscia, morte). Ma gli esseri vivono verso l’esterno e nessuna di queste due esperienze può mai mancare loro; né la città terrena né la città celeste ha l’esclusiva. Al tempo di Gesù le civiltà antiche e in particolare quella greco-romana avevano dato tutto quello che avevano da dare ed erano estenuate. Serpeggiava l’esigenza di un’integrazione, di un rinnovamento. Si addensavano le nubi.
Con Gesù le nubi si squarciarono e un lampo illuminò il mondo. Fu proclamata la religione della carità, ossia della massimalizzazione dell’umanità. L’amore universale è infatti l’anima dell’uomo al suo massimo, come l’armonia della statua di Fidia è il corpo umano al suo massimo. Sorto dunque in contrasto dialettico con la civiltà greco-romana, il cristianesimo ne ha rovesciato i valori. Quella era retta da valori aristocratici, cioè dei pochi: il coraggio, l’orgoglio, il valore, l’astuzia, il primato, l’avventura, la lotta, la vendetta, la gara, la guerra, la conquista, la gerarchia, la patria, la stirpe e la razza.
Il cristianesimo instaurò valori democratici: il culto dell’anima, l’uguaglianza e la dignità di tutti, la bontà, l’umiltà, l’amore, il perdono, l’amore della pace, la carità anche per i nemici, l’abbraccio degli ultimi, il superamento delle barriere nazionali, di sesso, razza, stato sociale. Questi sono ancora i nostri valori, diventati anche ideali politici. Nella sua assolutezza la religione di Cristo superò tacitamente la civiltà pagana con la semplice affermazione dei nuovi valori. Ma la civiltà vecchia resisteva, soprattutto nelle anime.
Il contrasto delle due culture e anime giunse a maturazione solo con Agostino. Nato nell’Africa romana (Tagaste 354) e nutrito della migliore cultura pagana, con la problematicità e le inquietudini che ormai la caratterizzavano, egli venne a Roma e poi a Milano. Qui, predispostovi dalla lettura dei neoplatonici, specie di Plotino, fu convertito al cristianesimo e battezzato dal vescovo Ambrogio (387). Fu poi ordinato prete (391) e più tardi divenne vescovo di Ippona (395).
Da allora in poi la sua vita è tutta una guerra per affermare, contro la dispersione mondana e la carnalità del paganesimo e contro le eresie del suo tempo (manicheismo, donatismo, pelagianesimo), l’interiorità dell’uomo e il magistero della Chiesa cattolica. Per lui questa interiorità si chiamava anima e Dio, e soltanto anima e Dio egli aveva del resto cercato fin dall’inizio. Fu dunque un centauro, con un corpo mezzo pagano e mezzo cristiano, e come tale il traghettatore dell’antica civiltà nella nuova.
Delle tantissime sue opere, quelle principali sono considerate le Confessioni e La città di Dio. Nella prima si accentua il suo atteggiamento di base, la ricerca della verità come confessione delle vicissitudini personali, che sono però sviluppi di contrasti superpersonali e scoperte dei tesori di verità, forza, libertà che si trovano solo nell’interiorità e coincidono con Dio. La seconda, scritta soprattutto contro la taccia dei pagani che il cristianesimo aveva indebolito l’impero romano (nel 410 ci fu il sacco di Roma dei goti di Alarico), è un’appassionata difesa dei princìpi del cristianesimo.
Prima di Agostino i principali concetti teologici erano già stati acquisiti dalla Chiesa, ed egli non li mutò; ma con lui diventarono da oggettivi soggettivi, diventarono cioè il problema personalissimo e imprescindibile dell’uomo Agostino. Ma solo ciò che si fa per sé ha importanza per gli altri, non ciò che si fa direttamente per gli altri, dice Schopenhauer.
Per l’ardore e la profondità della sua ricerca, Agostino, così come rimane un pilastro della Chiesa cattolica, è un filosofo la cui forza e suggestione durano tuttora, perché è la grandezza dei problemi affrontati e non la soluzione loro data che fa il grande filosofo.
Premessa sul tema. Una nota:
Del "Commento al Vangelo di Giovanni" di Agostino, Giovanni Reale ha curato una ’nuova’ edizione, basandosi sul classico testo dei Maurini, in cui è dato al Nome del Dio di Giovanni ("Deus charitas est) il nome della tradizione del "latinorum":"Deus caritas est".... E così - per la gloria del sacro e romano cattolicesimo - fa scomparire la traccia greca della Grazia e delle Grazie e celebra le "radici cristiane" dell’Europa!!!
Agostino, padre dell’Europa
Parte da lui il pensiero di Schelling, Hegel e Kierkegaard
di Armando Torno (Corriere della Sera, 12.02.2011)
Quindici anni di lavoro, forse più. Centoventiquattro discorsi, dei quali una abbondante cinquantina furono prediche proferite a braccio e messe per iscritto dai tachigrafi, mentre i restanti vennero dettati e poi letti da terzi. In cifre e schemi si possono così riassumere le pagine che Agostino ha lasciato sul quarto Vangelo, quello di Giovanni, nel quale la rivelazione cristiana abbraccia e trasfigura il messaggio della cultura greca. Un insieme di chiose e di considerazioni imponente, ma allo stesso tempo inquietante, sconvolgente, tra i più ispirati del santo.
Giovanni Reale ne ha curato una nuova edizione, basandosi sul classico testo dei Maurini, cercando di ricostruire e riprodurre il ritmo del parlato, i possibili silenzi, le riprese della voce. Ha posto titoli a ogni capitolo e ai paragrafi, intervenendo su un’opera che si presenta magmatica, concepita sovente di getto da una mente che piegava la sintassi e le regole retoriche ai propri bisogni. In tal modo, è riconsegnato ai lettori uno dei momenti più alti del lascito di Agostino, quel Commento al Vangelo di Giovanni (Bompiani, 2 volumi in cofanetto, pp. 3.278, e 50) che corre come un filo rosso nella cultura occidentale. L’ariosità restituita ai discorsi li rende comprensibili, quasi in grado di evocare gli accenti che li hanno plasmati.
Nel saggio introduttivo si esaminano la struttura logica, i fondamenti metodologici, filosofici e teologici dell’opera e si evidenzia in cosa consista il sovvertimento del pensiero filosofico antico pagano qui attuato; e per quali ragioni, come ha sostenuto Maria Zambrano, Agostino debba essere considerato il padre spirituale dell’Europa (e, aggiungiamo, uno dei massimi riferimenti per l’arte, come prova il primo volume dell’Iconografia agostiniana. Dalle origini al XIV secolo, appena pubblicato da Città Nuova).
Ma cosa trova il lettore di oggi, impigrito da una letteratura inconsistente, in questo universo di considerazioni su Giovanni? Il testo rivela il bisogno di amore e la necessità di capire il mondo, di trovare un senso alla morte. Con il Commento si chiarisce il metodo di Agostino e si intuisce un’ulteriore chiave di lettura dell’ultimo libro delle Confessioni. La tarsia di citazioni, dove è riunita tutta la Bibbia, mostra come il santo cercasse di cogliere dal punto di vista allegorico il mistero della creazione attraverso la Parola rivelata.
C’è qualcosa di rivoluzionario in queste pagine? Certo, basta leggere le parti sulle domande che non hanno ancora una risposta e le considerazioni sull’amore, giacché quello cristiano ha bisogno della carne, non è un mero fatto spirituale. Di carne si riveste Dio, con la carne dialoga il Cristo e di carne necessita la resurrezione. «Questo è il mio corpo» contrasta con il platonico «tutto ciò che è umano non è degno di molta considerazione...» . Dal momento in cui sull’Acropoli di Atene si scoprì che c’è una realtà oltre quella tangibile, nacque il desiderio di trovare un mediatore che in essa conduca e la illustri. Platone lo individuò nell’eros, vedendolo non come dio ma come demone.
Nel Commento a Giovanni, Agostino tenta di più spiegando come Dio stesso diventi il demone-mediatore, facendosi uomo. La novità rispetto agli altri vangeli? Questo Commento ricorda che i sinottici hanno mostrato soprattutto l’umanità di Gesù, leggendo Giovanni il santo capisce che è tempo di ritoccare le prospettive: in ogni momento della vita di Cristo, anche nei particolari, si vede Dio. Perché Dio abita in ogni azione di Cristo e il Figlio diventa il contemporaneo di ogni uomo (lo ripeterà Kierkegaard).
Agostino, che ha avuto una prima conversione con i platonici, ora ha smesso di credere che Dio sia corpo infinito, ma è tale in spirito. Leggendo Plotino e Porfirio si è accorto che l’aldilà c’è veramente e che per raggiungerlo occorre attraversare un mare. Comprende che solo il lignum crucis fa superare queste acque: non mostra l’aldilà, ma in esso conduce. Già, lignum crucis: emblematica sintesi della totalità delle sofferenze dell’uomo.
Ci sono poi delle intuizioni accecanti che Reale evidenzia, presenti anche in Hegel (Filosofia della religione) e in Schelling (Filosofia della rivelazione): Cristo ha preso su di sé la morte e, accettandola, l’ha uccisa. Sulla croce, quindi, la morte di Cristo segna la morte della morte. Per questo non ha abbandonato il legno del supplizio: rimanendovi l’ha sconfitta, solo restando appeso poteva divorarla. Kierkegaard dirà che se fosse sceso avrebbe negato di essere il Figlio di Dio, diventando un pagliaccio.
Per Platone l’amore mette le ali all’anima, rendendola in grado di volare sempre più in alto; inoltre, il cocente sentimento è tanto grande quanto lo è l’oggetto che si ama. Il messaggio cristiano che Agostino urla nel Commento capovolge la prospettiva: l’amore è tanto più grande quanto più è piccolo l’oggetto amato. Da acquisitivo si fa donativo. Per questo Dio ama l’uomo sino a indossarne la carne e a morire per lui. Credere in Cristo - quest’opera cerca di spiegare il modo in cui gli uomini devono farlo - significa portare il logos dei filosofi greci sino a Dio, quindi toccarlo quando si fa carne e infine, seguendo disegni lontani dalla ragione, vederlo immolarsi per amore.
INTERVISTA.
Accettare lo stare da soli come un segno della Grazia. Un’arte difficile che esige di saper ascoltare il silenzio. Parla lo psichiatra italiano
Borgna, la solitudine che vince il rumore
DAL NOSTRO INVIATO A NOVARA
MARINA CORRADI (Avvenire, 05.02.2011)
«Solitudine» è parola usata quasi sempre in un’accezione negativa. Normalmente è sinonimo di emarginazione e esclusione. Ma l’ultimo saggio dello psichiatra Eugenio Borgna ( La solitudine dell’anima , Feltrinelli) osa parlare anche di un’altra solitudine. Della ricercata solitudine di chi sceglie di sfuggire al rumore cui quotidianamente siamo consegnati. Della ’bella’ solitudine dei mistici; della creativa solitudine dei poeti. Su questa parola dunque Borgna indaga e ne trae un’altra, oggi oscurata, dimensione. «Occorre distinguere - dice Borgna - la solitudine dall’isolamento, che ne è la faccia negativa: la condizione cioè imposta da dolore, malattia, povertà, o dalla nostalgia feroce di un lutto. Anche l’isolamento però può essere scelto: è il rifiuto intenzionale dell’altro, o il vassallaggio delle proprie pulsioni egoistiche, che rompe ogni comunione con il prossimo». Ma l’altro volto, luminoso, della solitudine è appunto la solitudine scelta: «Per cercare - dice Borgna - il proprio cammino di vita interiore: In interiore homine habitat veritas, noli foras ire..., ammonisce Agostino ». E tuttavia i due aspetti, l’isolamento afflitto e la ricerca di sé, non sono regni divisi da invalicabili confini: «Esistono sconfinamenti, e correnti carsiche, che fluiscono dall’una all’altra condizione. Perché ogni forma di isolamento può essere riscattata».
La nostalgia c’entra dunque con la solitudine, come eco di qualcosa che conoscevamo e abbiamo perduto?
«Certo. La ’bella’ solitudine di Teresa d’Avila è domanda di attingere a qualcosa di non più tangibile, come in una memoria perduta. In Teresa, la solitudine è apertamente chiamata ’grazia’; e ’disfatta’, è quando questa solitudine scompare. In una sfolgorante intuizione: solitudine è lo spazio vuoto che può essere colmato da Dio. Come suggerisce anche un verso di Emily Dickinson: ’Forse sarei più sola/ senza la mia solitudine’».
Ma un’altra Teresa, Teresa di Calcutta, che lei cita, in diari straziati dice di una notte di solitudine interiore, del suo ’sorridere sempre’, mentre dentro si avverte completamente vuota. Che razza di solitudine è, questa? Non potrebbe essere quasi come una talpa che scava un vuoto più grande, per fare spazio a un altro che preme?
«Ogni solitudine è ritorno in se stessi, e ascolto dei motivi di dolore in noi. Se viviamo esposti al rumore, senza mai staccarci da questa terribile elisione di ogni relazione vera, ecco che la solitudine, pur aprendoci orizzonti senza fine, ci ferisce, perché ci fa conoscere esperienze che nella vita immersa nel rumore non possiamo nemmeno immaginare».
D’altronde il ’rumore’ è lo stato in cui la maggioranza di noi vive.
«Sì, viviamo nel terrore del silenzio, e nella angoscia del confronto con noi stessi, e con il senso. Teresa di Calcutta, nella sua solitudine di ghiaccio, aveva una nostalgia straziata di Dio e dell’infinito».
Chi si affaccia sul silenzio di una clausura ne resta spesso affascinato e insieme spaventato. Che cosa nella solitudine monastica ci sbalordisce, e però ci fa paura?
«Da una parte il fatto che in clausura ci si sottrae al mondo, e agli affetti. Scompare quasi completamente la parola, nel silenzio che sigilla. Chi non ha una fede altissima e un’acuta nostalgia dell’infinito percepisce in tutto questo un’eco di morte - morte delle cose contingenti. Ma quando assisti, come a me è capitato nel monastero di San Giulio a Orta, ai voti di giovani donne che con voce ferma e dolce rispondono al vescovo: sì, abbandono il mondo, allora intuisci che la clausura è il luogo di un incontro assolutamente concreto. Queste donne sono la testimonianza di una nostalgia di infinito che vive in noi. E tutto questo è grazia, come diceva Bernanos».
Nel libro lei cita Etty Hillesum, la giovane ebrea morta a Auschwitz che scriveva: ’Innalzo intorno a me le mura delle preghiera come le mura di convento’.
«Nel mezzo dello sfacelo delle persecuzioni naziste la preghiera per la Hillesum è scudo, è invisibile cortina che la salva dal nulla. Ma da dentro quelle mura vedeva tutto, concependo un senso anche alla morte e allo strazio».
E tra solitudine e poesia, che rapporto c’è?
«Siamo sempre dentro alla nostalgia dell’indicibile. La solitudine affranca, ringiovanisce, è premessa, come la malinconia, della genesi della esperienza poetica. Solitudine, anche qui, è un rientrare in sé, e ascoltare gli abissi».
Allora poesia e preghiera si assomigliano?
«La grande poesia difficilmente si distingue dalla preghiera. Penso a Petrarca, a Dante. Il luogo di comunanza è che entrambe attingono alla più profonda domanda, e che entrambe nascono più abbaglianti dalla disperazione. Certo l’ultimo orizzonte della santità è Dio, che incendia e trasfigura tutta la vita; mentre la poesia è maieutica per gli altri. In un certo senso, i poeti sono dei messaggeri. E però quali affinità tra l’ostinato bussare di Leopardi contro una porta che apparentemente non si apre, e lo strazio oscuro di madre Teresa».
Anche la psichiatria, lei scrive, è incontro fra due solitudini.
«Da un anno mi confronto con due pazienti ad alto rischio di suicidio. È come parlare con qualcuno che minacci di buttarsi da un cornicione; è la disperata tensione a stabilire una relazione con il malato, a non sbagliare una parola. È allora che uno psichiatra avverte la sua impotenza, e si comprende egli stesso solo: in una solitudine che è emblema di uno scacco senza fine».
PREMESSA SUL TEMA. Nota:
Etty Hillesum, la Shoah e la Croce
di Marina Corradi (Avvenire, 21 novembre 2012)
L’edizione integrale in italiano del Diario (1941-1943) di Etty Hillesum che esce oggi per Adelphi è un momento importante nella riscoperta di questa giovane ebrea morta a Auschwitz. Una figura straordinaria ma, almeno da noi, ancora da molti non conosciuta; benché chi la legga finisca spesso con l’innamorarsene.
Nata nel ’14 in Olanda, la Hillesum studia e vive nella Amsterdam occupata dai nazisti. Ebrea ma non praticante, frequenta ambienti intellettuali non credenti, e conduce, come dirà con le sue parole, «una vita libera e sregolata».
L’incontro con lo psicoterapeuta ebreo Julius Spier, fuggito dalla Germania nazista, la riconduce alla lettura dell’Antico Testamento, e alla domanda di un Dio di cui, impara da Spier, bisogna avere «il coraggio di tornare a pronunciare il nome». Ma la storia incombe: la persecuzione in Olanda cresce, gli ebrei devono portare la stella gialla, si pianifica la deportazione.
Questa pressione tragica sembra agire su Etty come un catalizzatore che in pochissimi anni la trasforma, anzi la trasfigura. Mentre avverte che il nemico vuole l’annientamento degli ebrei, misteriosamente Etty cresce, in un dialogo sempre più serrato con un Dio al quale non chiede la propria salvezza, ma di condividere il destino del suo popolo, e di farsene voce. La ragazza che scrive da Westerbork, il campo di raccolta degli ebrei olandesi, sembra già molto distante dalla fanciulla che lietamente passava da un uomo all’altro, vorace di amore e di vita. In lei, che muore ad Auschwitz nel settembre 1943, a 29 anni, si è compiuta una sbalorditiva metamorfosi.
Per questo a chi non ha mai letto la sintesi del Diario pubblicata da Adelphi negli anni ’80 ci verrebbe da consigliare di cominciare la conoscenza della Hillesum dalle Lettere, pure già edite da Adelphi, in un percorso cronologico inverso. Giacché le Lettere sono le ultime cose scritte da Etty a Westerbork, fino al giorno della deportazione in Polonia; pagine struggenti, tese, dal fondo della ferocia e del male, ad affermare la fiducia in un Dio, nonostante tutto, padre. In un Dio per il quale, in tanto strazio, la giovane ebrea si sente in dovere di «cercare un tetto»; e quel tetto è lei stessa, che vorrebbe accogliere in sè la paura e la disperazione di vecchi, madri, bambini in partenza, sui treni stracarichi di cui non si sa, ma ormai si intuisce, il destino.
Leggendo le Lettere si capisce chi era diventata, alla fine, la ragazza delle prime pagine del Diario. Che all’inizio del ’41 era una giovane donna anticipatrice, diremmo quasi, delle ragazze degli anni Settanta; libera da tradizioni e fedi, desiderosa solo di vivere e capire e mettersi alla prova. Una che, quando Spier le dice che la sera lui prega, è tentata di domandargli, sbalordita e impertinente: «E cosa dice, quando prega?».
Ma sotto la vivacità una inquietudine rode Etty. Ne sono l’evidenza le poche righe che accennano a un figlio che rifiuta perchè «voglio risparmiargli il dolore. Rimarrai nella condizione protetta di chi non è ancora nato e sii riconoscente, essere in divenire». Abortire, dunque, perché la vita è male (benché la tragedia ebraica in atto rendesse realistica una simile visione).
Eppure nulla impedisce la metamorfosi. La Parola delle Scritture ha una parte forte in questo cammino interiore. La Prima lettera ai Corinzi - il celebre brano sulla carità - opera in Etty misteriosamente: «come una verga da rabdomante che sferzava il fondo duro del mio cuore, facendone improvvisamente scaturire sorgenti nascoste. D’un tratto mi sono ritrovata inginocchiata e l’amore sprigionato scorreva di nuovo dentro di me...» (Un passo, per inciso, che nella sintesi Adelphi anni ’80 non compariva, benché certo non irrilevante per comprendere la Hillesum).
E mentre il cerchio attorno agli ebrei olandesi si chiude, e ciascuno cerca, come può, di salvarsi, la ragazza si inoltra per i sentieri dell’Antico Testamento, ma anche in Rilke, e nel Vangelo, che da ultimo cita ripetutamente. Ama Agostino, e c’è un’eco agostiniana quando scrive: «Dentro di me c’è una sorgente molto profonda. E in quella sorgente c’è Dio. A volte riesco a raggiungerla, più sovente essa è coperta da pietre e sabbia: allora Dio è sepolto. Allora bisogna dissotterrarlo di nuovo».
E più si fa fitto il buio, più la Hillesum sente crescere, dentro, un segreto tesoro. Ne è meravigliata lei stessa: «Com’è strana la mia storia, la storia della ragazza che non sapeva inginocchiarsi...». Umanamente inconcepibile è il suo stare di fronte al male assoluto dell’Olocausto. Davanti alle madri disperate, ai vecchi balbettanti e smarriti che all’alba vengono imbarcati sui treni, la sua risposta è, prima, una inesausta preghiera; poi, nelle Lettere, concluderà: «Io non posso fare niente, io posso solo prendere il dolore su di me, e soffrire». (La Croce come istintivamente abbracciata).
Ci si può chiedere perché solo ora si arrivi alla edizione integrale italiana, e come mai una figura così grande sia ancora poco nota. Forse è perché, volontaria nel campo di Westerbork dove poi finirà rinchiusa, in una sincerità da grande cronista scriveva che anche tra i perseguitati si alza a volte un persecutore - come l’ Oberdienstleiter ebreo, in stivaloni neri e stella gialla, che nelle Lettere sorveglia un treno in partenza? O forse perché a un certo moralismo cattolico del primo dopoguerra la ’sregolatezza’ giovanile di Etty non piaceva?
Ma chi oggi legge il Diario integrale (800 pagine, tre volte la edizione anni ’80, e con un ricco apparato di note), e vede come quella giovane donna sia rinata, nel fondo dell’inferno, e come ostinatamente affermi che la vita è «comunque buona e degna di essere vissuta», chiude queste pagine e tace. Sbalordito e grato di quanto Dio possa trasformare gli uomini - se, semplicemente, lo cercano
Agostino e l’agape, marchio dell’Europa dopo i Greci
Nel pieno della stesura delle opere maggiori, il santo di Ippona commenta il Vangelo più spirituale. Illuminando così il dogma dell’«homoousía»
di Francesco Tomatis (Avvenire, 04.01.2011)
Il Commento al Vangelo di Giovanni accompagnò sant’Agostino d’Ippona a lungo nella sua vita teologica, all’incirca dal 406 al 421, quindi parallelamente alla composizione del De Trinitate, avviata successivamente alle Confessioni, e all’altra grande opera agostiniana, il De civitate Dei, terminata qualche anno dopo. Ne propone una nuova traduzione italiana, corredata di una ampia e illuminante monografia introduttiva, nonché dell’edizione maurina del testo originale in latino, il massimo studioso vivente del pensiero antico, Giovanni Reale, che, grazie alla sua profondissima conoscenza della filosofia greca, classica e tardoantica, della Bibbia e dei Padri della Chiesa, riesce in questa edizione dei discorsi agostiniani sul Vangelo di Giovanni a ricostruirne struttura interpretativa, visione metafisica, messaggio di fede (Il libro è edito da Bompiani, pagine 2368 + 928, euro 50,00).
Reale sottolinea come il Commento al Vangelo di Giovanni sia affiancabile a pieno titolo, per profondità e importanza, alle altre tre opere agostiniane ritenute comunemente principali: le Confessiones , il e Trinitate e il De civitate Dei.
In esso per eccellenza abbiamo infatti il principale risultato teologico della credente esegesi di sant’Agostino, cioè la comprensione che Dio sia amore. Come scrive Giovanni nella sua Prima lettera, «Dio è amore; chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui». Inoltre proprio in questi discorsi, frutto di esposizione orale, trascritta dal discorso vivo o redatta per iscritto tramite dettatura diretta dell’autore a tachigrafi, di un completo commentario al Vangelo giovanneo, Agostino formula le proprie principali linee teologiche interpretando direttamente il più speculativo, e al tempo stesso realissimo, dei Vangeli, vera metafisica vivente, ricorrendo ad una sua continua, puntuale contestualizzazione rispetto ad altri scritti biblici, secondo una tecnica ad intarsio, richiamata ed evidenziata nella propria edizione da Reale, la quale va oltre il mero ricorso a citazioni scritturistiche, per giungere attraverso i suoni e le parole all’aiuto del Signore nella comprensione della sua autorivelazione.
Che Dio sia amore, agápe, è per il cristianesimo rivelato attraverso l’incarnazione di Dio in Gesù Cristo. Reale riesce finemente a ricostruire la distinzione agostiniana dell’amore cristiano dall’éros greco, non mancando tuttavia di documentare anche quanto Agostino riesca a far proprio dello stesso pensiero greco. Esemplare è poi la ripresa dell’interpretazione porfiriana dell’essere come Uno, nella sua distinzione dall’ente. In Agostino, come Reale mostra evidenziando la sua reinterpretazione, alla luce della rivelazione biblica, della filosofia greca, vengono delineate le fondamenta di quello che saranno il pensiero e la civiltà europei. L’idea di persona, ad esempio, sarebbe inconcepibile senza la sua fondazione cristiana nel personale rapporto con Dio, egli stesso trinitario rapporto interpersonale.
Accostandosi ad udire la voce di quella immane vetta spirituale, dell’elevatissima anima che è Giovanni, Agostino illumina esemplarmente il dogma dell’homoousía, della uguaglianza di essenza o natura fra Dio Padre e Dio Figlio, centro dell’incarnazione cristiana e conseguentemente della comprensione e fede in Dio come amore, come relazione fra diverse persone in unitaria armonia, identificazione, comunione: secondo il pluralismo e l’unitarietà assieme. «Tu, dunque, devi dire quello che dice il Vangelo: io e il Padre siamo una cosa sola. Quindi non siamo una cosa diversa, in quanto siamo ’una cosa sola’; non una persona sola, perché noi ’siamo’».
Intervista a Giovanni Reale
«La risposta la dà già Platone, la vita non è proprietà nostra»
«Male dell’anima, ma non si condanna l’uomo»
di Gian Guido Vecchi (Corriere della Sera, 02.12.2010)
CITTÀ DEL VATICANO - «Vede, il male del nostro tempo l’aveva drammaticamente anticipato Jean-Paul Sartre più di sessant’anni fa: "L’inferno sono gli altri". L’incapacità di vedere l’altro, di capirlo, di accoglierlo. E di amarlo». Il filosofo Giovanni Reale, tra i massimi studiosi del pensiero antico, l’uomo al quale Wojtyla affidò i propri scritti filosofici e poetici, ha appena curato per Bompiani la pubblicazione del Commento al Vangelo di Giovanni di Sant’Agostino. E parte da qui, per riflettere sul suicidio di Mario Monicelli e le polemiche che lo hanno seguito: «Pensi all’episodio dell’adultera. Quelli che vogliono lapidarla l’hanno pensata bene, sono sicuri che la risposta di Gesù sarà sbagliata: se dice sì, ne esce distrutta la sua figura di uomo buono; se dice no, lo condannano per aver violato la legge. Ma lui dice: chi è senza peccato scagli la prima pietra. E quando tutti se ne sono andati si rivolge alla donna: va’, e non peccare più». Perché ne parla, professore? «Perché in troppi si avverte una trasformazione paradigmatica delle due posizioni, libertà di scelta e difesa a oltranza della vita. Una riduzione del problema in un senso o nell ’altro che fa cadere in errore entrambi. E crea l’impossibilità di una communicatio idiomatum, di ogni confronto».
Il presidente Napolitano ha parlato di «un estremo scatto di volontà che bisogna rispettare».
«Sì, questo è giusto: il rispetto. Che non significa né condanna né approvazione: ma capire l’altro, la sua sofferenza, anche se l’altro non ha la fede, la prospettiva di Cristo. Capire l’altro. Soffrire con lui. Senza mai condannare: non si giudica la persona, il Vangelo dice di amare anche il tuo nemico! Semmai, si giudica il comportamento».
E il suicidio?
«Lo ritengo un male dell’anima. Qui tocchiamo un problema dell’uomo contemporaneo: l’irreligiosità, la perdita del legame col divino ,del senso della sacralità della vita. La risposta più bella la offre Platone, nel Fedone: la vita non è di tua proprietà, ti è stata data, solo il dio può decidere quando togliertela».
Ma alla fine del «Fedone», Socrate beve il «pharmacon», la cicuta...
«Perché scappare sarebbe una violenza: o riesco a convincere i giudici oppure, per coerenza, accetto la condanna. Platone è il primo a parlare di sacralità della vita. Più tardi, nella Repubblica, dirà che chi è molto malato non deve pesare sullo Stato: ma si mette dal punto di vista della politica, e la politica non può avere il senso della sacralità, sta in una dimensione più bassa. Di qui le contraddizioni dei Parlamenti, quando vogliono legiferare su vita e morte».
Anche fuori dal Parlamento, in verità, la confusione è tanta. Ha seguito le polemiche per la presenza della vedova Welby e di Beppino Englaro a «Vieni via con me?»
«Parlavo di riduzionismo e di errori: la tecnica cresciuta a dismisura ha inglobato anche il sacro e il religioso. Prendiamo il caso Welby: non è stata eutanasia, è chiarissimo. Parlarne è un errore di ermeneutica. Lo dissi anche allora: diverso è darsi la morte o, invece, accettare la morte inevitabile. Guai a trasferire la "sacralità" dalla vita alla tecnica! Quell’uomo era rimasto ostaggio di un macchina. Ma Dio ha creato la natura, non la tecnica: quella è un prodotto dell’uomo. E nel caso di Welby, come per Eluana, era sacrosanto dare ragione alla natura». E quelli che vanno avanti? «Non è che io neghi il diritto di chi resiste. Però non lo si può imporre a nessuna persona. Anche se qualche prelato è caduto nell’errore, vittima del paradigma scientistico-tecnologico».
La Chiesa sbagliò a negare i funerali a Welby?
«Certo che sì: l’amore doveva prevalere. Ma non è stata la Chiesa, che ha un’esperienza grandiosa. Ha sbagliato chi lo decise, e non per cattiveria: è caduto vittima del paradigma scientistico».
Il cardinale Ravasi ha ricordato come sui «temi ultimi» si debba «riproporre ininterrottamente la questione». È possibile il dialogo?
«Sì, anche se molto difficile. Occorre che le parti riconoscano anzitutto la sacralità o almeno il rispetto della vita, sapendo che la sofferenza e la morte ne sono parte e ci riguardano tutti. Camus, che si diceva ateo, dava la risposta più profonda all’"uomo in rivolta" contro il dolore e la morte: non possiamo più prendercela con Dio, perché si è fatto uomo e ha preso su di sé i nostri mali».
Sant’Agostino e i colori della tv *
Il santo si è sbiancato. Nella fiction terminata ieri sera su RaiUno, Sant’Agostino, l’autore de Le Confessioni nato nell’antica Tagaste nel 354 è stato interpretato da Alessandro Preziosi e Franco Nero. Nulla da dire sugli ottimi attori. Bizzarra però la scelta di far impersonare un uomo mulatto a due italiani. Sì, perché uno dei grandi padri della Chiesa, non era esattamente bianco.
L’antica Tagaste, che oggi si chiama Souk Ahras, si trova in Algeria. E se è noto, infatti, che l’uomo che verrà battezzato a Milano da Sant’Ambrogio si convertì dopo una giovinezza di “peccato”, assai meno noto è che il Santo di origine berbera non fosse un wasp.
La cosa non sfuggì a Roberto Rossellini. Che negli anni Settanta realizzò, per la Rai, parecchi film storico-didattici. Come La presa del potere da par te di Luigi XIV, Blaise Pascal, Car tesius. E, appunto, Agostino di Ippona del 1972. 38 anni fa, con maggior lealtà storica, il grande regista raffigurò il vescovo di Ippona con connotati probabilmente più vicini alla realtà. Naso camuso, capello crespo. Incarnato scuro. Così, credibilmente, doveva essere Agostino.
Come anche Dario Fo ha rimarcato in più di un’occasione. Anzi, il Nobel sostiene che Agostino doveva essere proprio nero.
In ogni caso, il (falsificato) colore della pelle è un particolare che è totalmente sfuggito ai produttori della fiction (assieme alla stessa Rai, Lux Vice, Eos Entertainment e altri ancora). Che ha avuto un grande successo. Con oltre 7 milioni di spettatori nella prima puntata e il 26% di share. Nulla da dire, insomma, sul risultato dell’operazione. E poco importa se Preziosi e Nero non raffigurano esattamente il volto del più celebre convertito della storia della Chiesa. Sul tema della redenzione, infatti, si sono concentrati molto il lavoro dello sceneggiatore Francesco Arlanch e del regista Christian Duguay.
(El. Ba.)
il Fatto, 0 2.02.2010