L’economista inglese riteneva il Trattato di Versailles troppo duro per i tedeschi: presto si sarebbe aperta un’altra guerra
1919, Keynes e la «finta» pace
Lo studioso era convinto che il mondo avrebbe avuto un altro futuro se i vincitori del primo conflitto avessero capito che i problemi più gravi non erano territoriali o politici, bensì economici
di Dario Antiseri (Avvenire, 01.09.2007)
È nel dicembre del 1919 che esce il libro Le conseguenze economiche della pace di John Maynard Keynes (1883-1950), opera destinata ad una immediata e immensa fortuna: il libro venne tradotto in 11 lingue e in Inghilterra se ne vendettero, in poco tempo 140.000 copie. Il saggio venne scritto a seguito della partecipazione di Keynes, quale membro della delegazione del Tesoro inglese, ai negoziati di Versailles sul Trattato di Pace tra le potenze vincitrici e la Germania.
Esso contiene un impietoso e documentatissimo atto di accusa contro la decisione dei vincitori di imporre le più pesanti riparazioni per i danni di guerra a carico degli sconfitti. Decisione e scelte che immancabilmente - secondo la «Cassandra» Keynes - avrebbero avuto come unico esito il ritorno di una Germania umiliata e impoverita e, di conseguenza, lo scatenamento di una nuova guerra: «Se punteremo deliberatamente all’impoverimento dell’Europa Centrale, la vendetta, io mi azzardo a prevedere, non potrà mancare». Ci sarà una nuova guerra, «davanti alla quale appariranno trascurabili gli orrori della recente guerra tedesca» - scoppierà, una guerra, insomma «che distruggerà, chiunque ne sarà il vincitore, la civiltà e il progresso della nostra generazione».
Il 13 maggio del 1919 il conte Brockdorff-Rantzau comunicò alla Conferenza di pace delle Potenze Alleate il rapporto della Commissione economica tedesca incaricata di studiare gli effetti delle condizioni di pace sulla situazione della popolazione tedesca.
In questa comunicazione, Brockdorff-Rantzau, tra l’altro, diceva: «Tra brevissimo tempo la Germania non sarà in condizione di dare pane e lavoro ai suoi milioni e milioni di abitanti, cui viene impedito di guadagnarsi da vivere con la navigazione e il commercio». E concludeva con le seguenti parole: «Chi firma questo Trattato firmerà la condanna a morte di molti milioni di uomini, donne e bambini tedeschi».
Ed ecco il commento di Keynes: «Non mi risulta che queste parole abbiano avuto risposta adeguata (...) Questo è il problema fondamentale che abbiamo di fronte, rispetto al quale le questioni delle modifiche territoriali e sull’equilibrio europeo sono insignificanti». Ciò, per la ragione, proseguiva Keynes, che «alcune delle catastrofi della storia, ritardatrici per secoli dal progresso umano, sono scaturite dalle reazioni all’improvvisa scomparsa, per eventi naturali o per opera dell’uomo, di condizioni temporaneamente favorevoli che avevano permesso la crescita della popolazione oltre il numero sostentabile quando le condizioni favorevoli ebbero fine».
La preoccupazione di fondo di Keynes era, insomma, che l’Europa avrebbe potuto sperare in un «ben diverso futuro», se i vincitori «avessero capito che i problemi più gravi reclamanti la loro attenzione non erano politici o territoriali ma finanziari ed economici, e che i pericoli del futuro non stavano in frontiere e sovranità, ma in cibo, carbone e trasporti». Ma così non fu.
Clemenceau «aveva una sola illusione, la Francia; e una sola delusione, l’umanità, inclusi i francesi e non ultimi i suoi colleghi» per lui «il tedesco era in grado di capire soltanto l’intimidazione»; dunque, arrogante e miope Clemenceau, arrendevoli Wilson e Lloyd George, sostanzialmente inconsistente Vittorio Emanuele Orlando. Da qui un Trattato di pace che, se mandato ad effetto, non può che danneggiare ulteriormente l’opera rovinosa cominciata dalla Germania.
Fu proprio la consapevolezza delle disastrose conseguenze economiche della pace per il destino dell’Europa e della civiltà occidentale a motivare le dimissioni di Keynes dall’incarico di rappresentante del Tesoro inglese alla Conferenza di Versailles. Il 7 giugno del 1919 egli scriveva al Premier Lloyd George: «Anche in queste ultime, angosciose settimane ho continuato a sperare che avreste trovato un qualsiasi modo per fare del Trattato un documento giusto e realistico. Ma ora, evidentemente, è troppo tardi. La battaglia è perduta».
Keynes lascia Parigi e si ritira nel Sussex, dove scrive in un paio di mesi il suo profetico atto di accusa. Una lezione di onestà, coraggio e lungimiranza. E di umana sensibilità: «I problemi finanziari che incombevano sull’Europa non potevano essere risolti dall’avidità. Per essi la possibilità di cura stava nella magnanimità».
John Maynard Keynes
Le conseguenze economiche della pace
Adelphi. Pagine 234. Euro 22.00
Su questo tema - ma da un punto di vista sociale e culturale (antropologico, teologico e ...politico), altrettanto lungimirante e profetico è Pirandello, con il "discorso" fatto in una novella apparsa sul Corriere della sera alla fine del 1918 , nel sito, si cfr.:
Sul tema delle "radici", invece, si cfr.:
RIPENSARE L’ EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU - ROPEUO".
FLS
Il caso Wilson
di Giancarlo Alfano *
Nel 1930, durante un periodo di degenza a Berlino, Freud riceve la visita di un ambasciatore e uomo politico americano, William C. Bullit, che gli rivela di avere in animo di scrivere un libro sui protagonisti degli accordi di Versailles, con cui si risolse la Prima guerra mondiale (nel contempo, in verità, gettando le basi per la Seconda). Tra questi c’era il Presidente degli Stati Uniti, Thomas Woodrow Wilson, universalmente noto per essere stato colui che concepì e sostenne - al punto da perdere di vista l’effettivo equilibrio politico complessivo che gli accordi avrebbero dovuto garantire - il progetto della Società delle Nazioni.
A questa notizia Freud si riprese improvvisamente dall’abbattimento che lo affliggeva in quei giorni (temeva infatti di avere solo poco tempo da vivere) e propose all’amico americano di scrivere insieme a lui un libro dedicato al Presidente. Quasi dieci anni dopo - una pausa dovuta forse a un disaccordo dovuto alle rispettive posizioni religiose - il padre della psicoanalisi avrebbe sottoscritto la versione definitiva dello scritto, pubblicato poi soltanto dopo la morte della seconda moglie di Wilson.
Quel libro, Il caso Wilson, appare adesso in Italia per le cure di Davide Tarizzo, che non esita a definirlo «una gemma»: sia «della letteratura psicoanalitica», sia «della storiografia novecentesca». -Personalmente non saprei dire se la seconda affermazione è del tutto condivisibile ma certo si tratta di un libro molto interessante, che sollecita nel lettore una serie di riflessioni sull’incidenza culturale e politica della psicoanalisi.
Come spiega il curatore nella sua elegante introduzione, il libro a doppia firma è stato infatti a lungo oggetto di imbarazzo, se non proprio di un’esplicita avversione: per la pochezza dei risultati o per lo stesso atteggiamento di Freud (apertamente ostile a Wilson). Tarizzo preferisce parlare a questo proposito di una «resistenza» dei lettori, che individua nell’incertezza con cui si è portato avanti il compito, indicato più volte dallo stesso Freud (soprattutto nella seconda parte della sua produzione), di applicare la psicoanalisi alle questioni più generali della vita umana.
L’idea del curatore è chiarita sin dall’epigrafe, tratta dal grande libro di Keynes sulle Conseguenze economiche della pace (1919), in cui l’economista osserva che il rapporto del Presidente con l’elaborazione del Trattato di Pace «tocca[va] sul vivo un complesso freudiano». Ed è proprio per la dimensione politica che è oggi importante leggere questo libro: così strano per chi conosce la scrittura freudiana, così analitico, a volte pedissequo, a tratti pedante. In esso infatti, al di là delle intenzioni del suo collaboratore, Sigmund Freud volle proseguire la riflessione avviata nel 1921 con Psicologia della masse e analisi dell’io, passando a un caso concreto - e anzi della massima rilevanza - di leadership contemporeanea.
Un caso che non assomigliava per niente all’immagine del padre primordiale disegnata nell’oramai lontano Totem e tabù (1912-13), e che anzi si segnalava per un’evidente debolezza di carattere del protagonista, pur mostrando - e con grande evidenza - che bastano pochi elementi per influenzare e trascinare le masse: pochi elementi che possono anche essere l’espressione stessa di quella debolezza.
È il frutto più impressionante dello studio freudiano, privo di ogni empatia per il personaggio di cui si occupa, in cui riconosce - nelle parole del curatore - «il mago indiscutibile dell’autoinganno». Gli ultimi capitoli del libro, almeno a partire dal XXXIII, seguono «il progressivo avvicinamento di Wilson al collasso fisico e mentale», dalla firma del Trattato di Versailles, 28 giugno 1919, al crollo del 26 settembre dello stesso anno. -È il racconto spietato del conflitto, nell’inconscio del Presidente, tra «la passività e l’attività aggressiva nei confronti del padre»; il conflitto tra la spinta narcisistica a proporsi come il Dio Figlio che porta, in ossequio al mandato di Dio Padre, la Pace tra gli uomini (cosa che, peraltro, gli uomini gli riconobbero con deliranti dimostrazioni di affetto) e la deriva depressiva di chi si vede tradito e reso incapace di agire.
Il caso Wilson si presenta allora davvero come l’altra faccia della Psicologia delle masse: se nel 1921 Freud aveva individuato lo spirito gregario delle masse e il legame ipnotico con il leader, dieci anni dopo egli lavorò sui processi psicologici di un leader effettivo, mostrando in che modo quei processi producessero leadership, tenendo insieme forza e debolezza, carisma e pochezza di carattere. Quello politico, evidentemente, è una degli aspetti della ricerca di Freud che dobbiamo ancora imparare a capire.
Sigmund Freud - William C. Bullit
Il caso Wilson
a cura di Davide Tarizzo, traduzione di Sarah Manocchio
Cronopio, 2014, 286 pp.
€ 19,00
Sigmund Freud
Psicologia della masse e analisi dell’io
a cura di Davide Tarizzo, traduzione di Enrico Ganni
Einaudi, 2013, LI-86 pp.
€ 16,00
* Fonte: Alfabeta-2, 6 giugno 2014
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"! I. BENITO MUSSOLINI E MARGHERITA SARFATTI - II. ARNALDO MUSSOLINI E MADDALENA SANTORO.
Federico La Sala
Centenario.
La fine di una Grande Guerra che durò ancora a lungo
Un secolo fa la battaglia di Vittorio Veneto e il crollo della Germania. L’«inutile strage» cambiò l’assetto dell’Europa e innescò una crisi che toccò l’apice nel 1929
di Gianpaolo Romanato (Avvenire, sabato 3 novembre 2018)
Oggi celebriamo il centenario della fine della Prima guerra mondiale cui seguì la Conferenza di pace di Parigi (18 gennaio 1919 - 21 gennaio 1920). Ma un bel libro dello storico tedesco Robert Gerwarth, apparso l’anno scorso da Laterza - La rabbia dei vinti. La guerra dopo la guerra. 1917-1923 - ha ben chiarito che nel novembre del 1918 la guerra non finì affatto. Per altri cinque anni almeno in tutta l’Europa continuarono guerre, rivoluzioni, massacri, di ogni tipo. Dalla Finlandia all’Anatolia, dal Caucaso all’Irlanda, dalla Germania alla Grecia, la violenza continuò a dilagare e a mietere vittime. E siccome in diversi casi (Finlandia, Russia, Bulgaria, Ungheria, Germania) si trattò di guerre civili, la selvaggia ferocia in cui precipitò il continente che fino al 1914 si era attribuito la missione di insegnare al mondo la civiltà - ferocia freddamente raccontata con abbondanza di particolari da Gerwarth nelle sue pagine - ci lascia senza parole. Anche senza contare l’epidemia di spagnola, si può affermare che «le vittime dei conflitti armati dell’Europa in quei cinque anni furono ben più di 4 milioni, più delle perdite subite complessivamente dalla Gran Bretagna, dalla Francia e dagli Stati Uniti durante la Grande guerra».
Insomma, per un decennio (la guerra più il dopoguerra), i popoli europei sono stati i più violenti, i più turbolenti, i più crudeli del pianeta. Ma allora, che pace celebreremo nei prossimi mesi? Che cosa ci racconteremo nei convegni, nelle tavole rotonde, nei libri che riempiranno le biblioteche? Vale la pena di chiedercelo, prima che inizi il festival delle rimembranze. E merita di farlo con l’ausilio di due libri che furono scritti a caldo, a ridosso della Conferenza di Parigi, da due uomini che avevano partecipato alla Conferenza stessa. Due libri preveggenti, controcorrente, che non hanno il sapore della facile e comoda scienza del dopo. Il primo fu pubblicato alla fine del 1919 da John M. Keynes, il celebre economista britannico: Le conseguenze economiche della pace (Adelphi, 2007). Il secondo dal politico italiano Francesco Saverio Nitti alla fine del 1921: L’Europa senza pace (riedizione con prefazione di Giulio Sapelli, goWare, 2014). Entrambi scrissero che il summit parigino - svoltosi mentre il continente era ancora in fiamme - tutto fece tranne che predisporre una pace equa e duratura.
Scrive dunque Nitti - che era stato Ministro del tesoro dopo Caporetto e Presidente del consiglio tra il 1919 e il 1920 - che a Parigi (città la meno adatta a ospitare la conferenza, traboccando di odio antitedesco) si architettò una pace cartaginese volta solo a distruggere la Germania. Grande regista dell’operazione fu Georges Clemanceau, che condusse la Conferenza come se il dopoguerra non fosse altro che una prosecuzione della guerra sotto altre forme, mentre una vera pacificazione esige moderazione, equilibrio, sguardo volto al futuro e non condizionato dal passato. Il presidente americano Wilson, totalmente ignaro dei problemi europei, finì al rimorchio dei francesi e disattese la lettera e lo spirito dei 14 punti che aveva enunciato portando il suo paese in guerra, mentre il presidente italiano Orlando, condizionato dall’unico (e falso) problema di Fiume, fu un irrilevante comprimario. I soli a comprendere che si viaggiava verso il baratro furono gli inglesi, ma senza la sponda italiana, non appoggiati dagli americani, condizionati dall’esigenza di difendere la loro supremazia navale e coloniale, non riuscirono ad arginare la furia dei francesi.
In questo clima avvelenato maturò la punizione dei vinti a opera dei vincitori. Alla Germania furono imposte amputazioni territoriali tanto a est come a ovest (con conseguente perdita dei territori più ricchi di carbone); la totale smilitarizzazione della Renania (che consegnava alla Francia una pistola carica puntata contro la Germania); la cessione come bottino di guerra di gran parte del patrimonio ferroviario e navale, che ne prostrò definitivamente l’economia; un ridimensionamento talmente drastico dell’organizzazione militare da rendere difficile anche il controllo dell’ordine interno; la cessione di tutte le colonie. In pratica veniva lasciata in totale balia della Francia a ovest e di una fragilissima Polonia a est (Nitti fa notare che più di metà della rinata Polonia era abitata da popolazioni non polacche). Analoghe misure furono assunte nei confronti dell’ex Impero austro-ungarico, in particolare nei confronti dell’Ungheria.
In questa revisione territoriale dell’Europa, che ne cambiò radicalmente la fisionomia (bisogna mettere a confronto una carta geografica del 1914 con una del 1920 per rendersene conto), si commisero tre errori capitali. Il primo fu quello di disseminare l’Europa orientale (Polonia, Cecoslovacchia, Romania, Iugoslavia) di minoranze tedesche e magiare destinate a essere un perenne focolaio di disordini. Il secondo consistette nell’attribuire ai paesi nuovi (in particolare ex austro-ungarici) una forza di contenimento che essi (deboli, divisi, improvvisati) non erano in grado di esercitare. In particolare fu premiata la Polonia (con la follia del cosiddetto “corridoio di Danzica”, che le assicurava lo sbocco al mare rompendo contro ogni logica geopolitica la continuità territoriale della Germania) nella falsa illusione che potesse essere un valido divisorio fra due vicini fatalmente troppo più forti di lei, la Germania e la Russia.
Non essendo stato poi affrontato il problema della Russia, in quel momento travolta dalla rivoluzione, non ci si accorse di creare nell’est europeo quel ventre molle del continente che è rimasto una questione irrisolta fino a oggi. Il terzo errore fu la creazione dell’Austria, ridotta al solo territorio tedesco dell’ex Impero asburgico, ma con una clausola che le impediva di unirsi alla Germania. Un’altra mina vagante, che il primo demagogo avrebbe potuto far esplodere.
La conclusione di Nitti è in questo suo giudizio quasi scultoreo: «Tutta la storia dei popoli di Europa non è che un’alterna vicenda di vittorie e di sconfitte. La civiltà consiste nel determinare quelle condizioni che rendono la vittoria meno brutale e la sconfitta più tollerabile. I recenti trattati che regolano o dovrebbero regolare i rapporti fra i popoli rappresentano uno spaventevole regresso, la negazione di quelli che erano i principi acquisiti del diritto pubblico». E infatti, come oggi ben sappiamo, ressero, e anche malamente, solo vent’anni.
Il libro di Keynes, che aveva fatto parte della delegazione britannica a Parigi, dalla quale si era dimesso il 7 giugno del 1919, uscì prima di quello di Nitti, alla fine del 1919. Da economista, egli affronta soprattutto la questione dei debiti e delle riparazioni imposte dai vincitori, scrivendo che si stava pretendendo l’impossibile dai vinti e che la distruzione economica della Germania, ovvero del cuore pulsante del continente, del territorio più ricco e produttivo, attraverso il quale transitano obbligatoriamente uomini, merci, alimenti e rifornimenti di ogni paese, sarebbe ricaduta addosso a tutti, precipitando l’Europa e il mondo intero in una crisi senza precedenti.
A Parigi si aveva una «sensazione di incubo», scrive in una delle pagine più forti del libro, osservando la «leggerezza, la cecità, l’arroganza» con cui, tra «vuoti e aridi intrighi», i cosiddetti Grandi trattavano le sorti dei popoli, mentre «quasi ad ogni ora arrivavano notizie della miseria, disordine e disgregazione di tutta l’Europa centrale e orientale», dello «sfinimento» di mezzo continente dove si tornava a morire per mancanza di alimenti come all’epoca della Guerra dei Trent’anni. «È straordinario - aggiunge, ripensando ai mesi in cui prese parte ai lavori parigini - come il fondamentale problema di un’Europa che languiva di fame e si sgretolava davanti ai loro occhi sia la sola questione sulla quale fu impossibile suscitare l’interesse dei Quattro». Accecati dall’odio, preoccupati solo di aumentare il bottino a proprio favore, non videro che nell’intero continente, anche nel campo dei vincitori, «la terra tremava» e stavano iniziando «le paurose convulsioni di una civiltà morente», che avrebbe travolto i vincitori non meno dei vinti. «Chiedendo l’impossibile - aggiunse - alla fine perderanno tutto».
Che fare allora? La proposta di Keynes si può riassumere citando questa sua pagina: «La guerra è terminata con tutti che devono a tutti enormi somme di denaro. La Germania deve un’enormità agli Alleati; gli Alleati devono un’enormità alla Gran Bretagna; la Gran Bretagna deve un’enormità agli Stati Uniti. In ogni paese lo Stato deve un’enormità ai possessori di cartelle del prestito di guerra; e questi e altri contribuenti devono un’enormità allo Stato. L’intera situazione è artificiosa, fuorviante vessatoria al massimo grado. Non riusciremo più a fare un passo se non districhiamo le gambe da questi ceppi cartacei. Un falò generale è una necessità così impellente, che se non vi provvediamo in modo ordinato e benigno, senza fare grave ingiustizia a nessuno, il falò, quando infine avrà luogo, diventerà un incendio che può distruggere molte altre cose insieme».
Dunque: revisione del Trattato di Versailles e condono generale di debiti e crediti. Non si fece né l’una né l’altra cosa. Quando Keynes scriveva il suo libro, Hitler era solo uno degli innumerevoli disperati che vagabondavano per le vie di Monaco. Se si fosse data retta all’economista inglese, a Nitti, ai molti che condividevano le loro idee, sarebbe probabilmente rimasto tale.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
EUROPA. LA PREMESSA DELLA CATASTROFE: IL TRATTATO DI VERSAILLES. L’atto di accusa (1919) di John M. Keynes. Una nota di Dario Antiseri
RIPENSARE L’EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU-ROPEUO". Per la rinascita dell’EUROPA, e dell’ITALIA. La buona-esortazione del BRASILE. Una "memoria"
Federico La Sala
Bretton Woods, quando il mondo non ascoltò Keynes. E sbagliò
A settant’anni dalla morte del celebre e spesso evocato economista britannico, raccontiamo il giorno in cui il suo sogno di creare una moneta globale fu sconfitta, nonostante con ogni probabilità avesse ragione
di Luca Fantacci (LINKiesta, 21 Aprile 2016)
Dopo tre anni di pianificazione e di negoziati bilaterali, Gran Bretagna e Stati Uniti giungono a formulare una proposta congiunta, il cosiddetto Joint Statement. Stilato ad Atlantic City nell’aprile del 1944, il documento fungerà da base di discussione per la conferenza dei paesi alleati che si apre a Bretton Woods il 10 luglio successivo, e dalla quale emergono, dopo tre settimane di colloqui, gli accordi che dettano le regole dell’ordine monetario postbellico.
Keynes vive la firma degli accordi come una dichiarazione di resa incondizionata. È costretto a firmare senza nemmeno poter leggere il testo definitivo dall’inizio alla fine. È pur vero che lui stesso, nel corso delle trattative, ha sostenuto l’importanza di raggiungere un’intesa anche a costo di qualche compromesso. È lecito dubitare, tuttavia, che al momento della stipula Keynes fosse nella condizione di apprezzare la reale portata delle concessioni che si apprestava a sottoscrivere.
Solo poco prima della chiusura della conferenza, infatti, gli statunitensi introducono arbitrariamente nel testo degli accordi quello che sarà l’elemento più importante dell’intero sistema economico internazionale del dopoguerra: l’utilizzo del dollaro come moneta internazionale.
I contorni precisi della vicenda sono emersi solo di recente, con la pubblicazione integrale degli atti della conferenza. Ne emerge con chiarezza che, ancora a pochi giorni dalla conclusione, la bozza prevedeva un sistema perfettamente simmetrico, in cui nessuna valuta di nessun paese godeva di uno status privilegiato. Sarebbe stato l’oro a conservare il ruolo di unità di conto internazionale. Si delineava, in sostanza, una riedizione del gold standard, in cui il Fondo monetario, attraverso i propri prestiti, avrebbe avuto la funzione di attenuare le rigidità e le tendenze deflative che avevano caratterizzato i precedenti sistemi a base aurea. Il riferimento al dollaro americano è inserito all’ultimo momento, senza alcuna discussione e senza che i delegati mostrino la minima consapevolezza delle implicazioni.
Che nel 1944 il dollaro possa essere accettato come equivalente dell’oro è piuttosto ovvio: la sua parità aurea è fissa da più di un secolo, i forzieri di Fort Knox custodiscono oltre l’80 per cento delle riserve auree mondiali, la convertibilità del dollaro in oro (35 dollari per ogni oncia) non può essere messa in dubbio. Eppure, sancire sul piano giuridico un’equivalenza di fatto non è privo di conseguenze. Adottare una moneta nazionale come moneta internazionale significa, come aveva ammesso lo stesso White qualche anno prima, sia pure in termini astratti e alquanto eufemistici, «accordare al paese titolare di quella valuta un qualche lieve vantaggio in termini di pubblicità o di commercio».
Di fatto, la possibilità di utilizzare la propria moneta come mezzo di pagamento internazionale fornisce agli Stati Uniti una fonte di liquidità potenzialmente illimitata, al servizio dell’egemonia mondiale e delle sue molteplici leve: aiuti internazionali, commercio, investimenti esteri, spese militari.
Keynes ha il sentore che il sistema di Bretton Woods non nasca sotto i migliori auspici, come lascia trasparire nel breve discorso che tiene a Savannah il 9 marzo 1946, in occasione della sua inaugurazione (Documento vii). Il tono è sarcastico dall’inizio alla fine, e tradisce la delusione di Keynes nel veder naufragare per la seconda volta le sue speranze di porre fine alla guerra con una vera pace.
La conferenza di Savannah è il «battesimo dei gemellini», esordisce Keynes, riferendosi al Fondo monetario internazionale e alla Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo (destinata a diventare, in seguito, la Banca mondiale). E subito ironizza sui nomi delle due creature, che sembrano essere stati invertiti: quella a cui si dà il nome di Banca funziona, di fatto, come un fondo d’investimento; quella battezzata come Fondo, in realtà, è, o avrebbe dovuto essere, una banca commerciale. Questa inversione non è un errore di poco conto agli occhi di Keynes, che aveva sempre insistito sull’opportunità di distinguere fra una finanza di breve termine, al servizio degli scambi commerciali, sostanzialmente garantita dai beni reali, e una finanza di lungo termine, strutturalmente esposta all’incertezza, a sostegno degli investimenti.
Keynes prosegue invocando la benedizione di tre fatine, affinché donino ai gemelli imparzialità, forza e saggezza. Ed esprime l’auspicio che il maestro di cerimonie non abbia dimenticato di invitare al battesimo una quarta fata, cattiva, che per ripicca avrebbe maledetto i neonati, facendoli diventare due politici. Pochi giorni dopo, Keynes s’imbarca da New York per rientrare in Inghilterra. Chi lo incontra a bordo della Queen Mary lo descrive deluso e amareggiato, intento a scrivere quello che sarà il suo ultimo articolo, sugli squilibri della bilancia dei pagamenti americana.
Non passa molto tempo, infatti, prima che i presentimenti di Keynes si mostrino fondati e la fata maligna consumi la sua vendetta. I moventi politici, in effetti, dominano le relazioni economiche internazionali del dopoguerra. Non tanto attraverso il Fondo monetario e la Banca mondiale che, essendo dotati di un capitale irrisorio e inadeguato ai loro compiti, sono relegati a un ruolo marginale. Sono gli Stati Uniti il vero centro di potere: nel nuovo regime monetario internazionale imperniato sul dollaro possono agire da fonte di liquidità per il mondo intero.
E lo fanno, in effetti, con una generosità senza precedenti. Il Piano Marshall costituisce notoriamente il programma di aiuti internazionali più ingente della storia. Altrettanto noto è che non risponde solo a una logica di potenziamento economico, ma anche alla necessità politica di consolidare il blocco occidentale di fronte alla minaccia sovietica. Ciò che invece rischia di passare inosservato è che le generose donazioni americane sono rese possibili proprio dal regime di eccezione di cui godono gli Stati Uniti, in virtù dello status privilegiato del dollaro come moneta internazionale.
Come la vedova di Sarepta, l’America può dare allo straniero ciò di cui ha bisogno, senza che nulla venga a mancare a lei. I miliardi di dollari che mette a disposizione degli alleati non riducono di un solo centesimo il denaro che le resta, poiché quei dollari sono creati dal nulla. Sono aiuti senza costo... ma non senza prezzo: ciò che si perde, tanto nel caso dei donatori quanto nel caso dei beneficiari, è il senso economico delle loro reciproche relazioni. Non c’è modo di distinguere fra dono, prestito e scambio, in un regime in cui tutti e tre possono essere praticati indifferentemente senza intaccare il potere d’acquisto di chi li effettua.
Keynes aveva messo in guardia da un simile rischio: «Sarebbe altresì un errore sollecitare, di nostra iniziativa, un aiuto finanziario degli Stati Uniti a nostro favore dopo la guerra, che sia a titolo di dono, di prestito senza interesse o di ridistribuzione gratuita di riserve auree». Perciò aveva respinto ogni idea di «piano filantropico crocerossino, grazie al quale i paesi ricchi vengono in soccorso di quelli poveri».Cinque anni prima che fosse concepito il Piano Marshall, Keynes contestava la logica che lo avrebbe ispirato: era una logica di potenza che avrebbe sbilanciato irreparabilmente le relazioni economiche e finanziarie, consegnando al paese più ricco la fonte stessa della ricchezza, consentendogli di acquistare senza spendere, di prestare senza rinunciare, di donare senza perdere.
L’educazione di Keynes tra classici e filosofia
“Le mie prime convinzioni”, una sorta di autobiografia dell’economista
di Nadia Fusini (la Repubblica, 3.12.2012)
Il buon economista deve possedere “una combinazione di doti rara”: essere insieme “uno storico, un matematico e un filosofo”; capire i simboli e saper usare le parole; nel pensiero toccare l’astratto e il concreto. E soprattutto osservare il particolare alla luce del generale. Questo pensava e di tanto fu capace John Maynard Keynes, un economista assai speciale.
Speciale per qualità ‘naturali’, per virtù inscritte nel suo genio, ben coltivato da un’educazione ai classici e alla matematica. A dieci anni pare conoscesse Euclide e leggesse Ovidio e i prosatori latini. A testimonianza di quanto la solida borghesia vittoriana credesse nell’educazione della propria prole - naturalmente, se maschia - Maynard arrivò giovanissimo a Eton. E subito dopo al King’s College di Cambridge, il più adatto a prendersi cura del versatile allievo.
A Eton si interessò allo studio della propria discendenza e disegnò la silhouette dell’albero geneaologico da cui come un frutto maturo lui pendeva. Risalì a un antenato che verso la fine del Seicento aveva scritto una specie di Ragionato Compendio per convincere tutti, ogni genere di persona a dissentire dalla vera religione. Era un brillante retore, l’avo, e aveva una disposizione alla felicità dell’espressione che Keynes ereditò, diventando oltre che uno storico, un matematico e un filosofo, un elegante scrittore. Le due brevi memorie che Adelphi ci offre, introdotte da un saggio giustamente ammirato di Giorgio La Malfa, sono due piccole gemme.
Le mie prime convinzioni, che dà il titolo al libro, ritorna agli anni di studio a Cambridge, anni assolutamente formativi per il nostro eroe, fu letto il 9 settembre 1938; il secondo Melchior: un nemico sconfitto riguarda gli anni del Trattato di Parigi, e fu letto il 2 febbraio 1921. Letti, sì: perché questi due ‘pezzi’ bisogna immaginarseli così - come delle vere e proprie performances oratorie, recitate ad alta voce in mezzo agli amici di Bloomsbury, nel calore di una comunità che celebra una memoria condivisa. Il Club della Memoria, che cominciò a riunirsi nel marzo del 1920 e proseguì, anche se in modo niente affatto regolare fino al 1946, era questo.
Senza avere la pretesa di assurgere a mémoires, questi ricordi, o reminiscenze che, ripeto, decide di condividere coi Bloomsberries (come qualcuno li chiamerà ironicamente, quasi fossero delle fragoline in fiore), sono tanto più speciali perché Keynes non scriverà mai un’autobiografia, anche se praticò il genere biografico con grande gusto. Si vedano i suoi Essays in Biography, dove isolando con straordinaria chiarezza le figure del mondo culturale e scientifico a lui contemporanee, o del recente passato, ricostruì i tratti autentici e profondi della intelligentsia britannica.
La quale tradizione, legata ai nomi di Locke, di Hume, di Bentham, di Darwin e Mill, si distingue per il rigore del pensiero, per l’amore del vero, per la tensione pratica, per una istintiva insofferenza di ogni forma di sentimentalismo, e vacuità metafisica. E per l’idea, sempre presente e spesso citata nel testo, di liberarsi da “ogni forma di edonismo per immergersi nelle esperienze del presente”. Idea, per altro, molto legata allo spirito di abnegazione e all’impegno civile. Tutti tratti, questi, condivisi dai principali esponenti del gruppo di Bloomsbury, che provengono da famiglie di tradizione Non-conformist e Dissenter - come appunto gli Stephen, i Fry. E cioè, la famiglia di Virginia Woolf, di Roger Fry. Di Keynes stesso.
Perché i giovani di Bloomsbury, niente affatto esponenti privilegiati di una razza e di una classe borghese cieca e avida, furono intellettuali impegnati non a conservare, ma a cambiare il mondo che avevano trovato. E seppero trasformare l’agnosticismo dei genitori in impegno civile. E fare della vita una prova di conoscenza. Un esercizio di impegno etico e morale volto a chiarire le ragioni stesse del vivere.
Se ispirandosi al medesimo umanesimo e idealismo e soprattutto modernismo degli artisti di Bloomsbury, il giovane economista a Parigi seppe cogliere nel particolare il generale, e cioè leggere negli occhi del banchiere ebreo di Amburgo Carl Melchior la dignità della sconfitta, questo fu per la sua coltivata e moderna flessibilità mentale, che lo rese capace di spostare il punto di vista - come fa Virginia Woolf nei suoi romanzi - e dunque di mettersi nel posto dell’altro, lo sconfitto; e capire la colpa del vincitore, quell’eccesso di hybris, da cui sarebbe deflagrato il nazismo.
Grande lezione di intelligenza che ci viene da chi sa apprendere la verità nella conoscenza dei comportamenti umani e pensa l’economia anche come una scienza morale. Purtroppo oggi facoltà assai desueta.
Il peso insostenibile della pace
Keynes: così la Conferenza di Parigi nel 1919 preparò la tragedia
di Pietro Citati (Corriere, 24.11.2012)
Non ho mai letto la Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, che John Maynard Keynes pubblicò nel 1936. E me ne vergogno. Ma mi permetto di consigliare a qualsiasi lettore Le conseguenze economiche della pace (Adelphi), che ebbe un grande successo subito dopo la Conferenza di pace di Parigi nel 1919.
Ora Adelphi pubblica un piccolo libro, Le mie prime convinzioni (a cura di David Garnett, Pierangelo Dacrema e Brunella Bruno, con un saggio di Giorgio La Malfa, pp. 148 12), che sviluppa la materia delle Conseguenze economiche della pace. Il 2 febbraio 1921 Keynes ne lesse una parte ai suoi amici di Bloomsbury. «Caro Maynard», gli scrisse Virginia Woolf, «ci faresti avere il tuo manoscritto in modo che possiamo leggere quello che ci siamo persi ieri sera? Lo terremo segreto, e te lo restituiremo subito. Ci è parso magnifico, e non so dirti quanto ti invidio per il modo come descrivi i personaggi».
Keynes aveva passato i primi mesi del 1919 a Parigi come rappresentante del ministero del Tesoro inglese alla Conferenza di pace. Tutti gli alberghi di Parigi erano occupati da rappresentanti dei vari paesi, dalla Gran Bretagna alla Germania agli Stati Uniti all’Australia al Giappone.
Come un vero figlio di Ermes, Keynes si muoveva tra la protervia, la stolidità e l’inutile sottigliezza dei politici di tutto il mondo, e li guardava con un occhio spaventosamente ironico. «Un senso di incombente catastrofe - scriveva - sovrastava la frivola scena; la futilità e piccolezza dell’uomo davanti ai grandi eventi che lo fronteggiavano; il misto di impotenza e irrealtà delle decisioni; leggerezza, cecità, arroganza, grida confuse da fuori: tutti gli elementi della tragedia antica erano presenti». Ma, stando seduto tra i teatrali ornamenti nei saloni di gala francesi, Keynes si chiedeva se i volti di Wilson e Clemenceau fossero delle vere facce umane, e non «le maschere tragicomiche di qualche strano dramma o spettacolo di burattini».
A Parigi, gli Alleati stavano preparando per la Germania una pace cartaginese: la prosecuzione dell’embargo, l’occupazione del territorio tedesco, la proibizione di commercializzare, al di fuori dei propri confini, oro, titoli esteri o altre disponibilità liquide, la requisizione della flotta mercantile. Dapprima alla conferenza e poi nelle Conseguenze economiche della pace, Keynes con la sua calma voce ironica dimostrava cosa sarebbe successo: dapprima la disperazione e la fame in Germania, poi la diffusione d’odio verso i vincitori, infine la futura vendetta dei vinti, che dopo due decenni avrebbe portato all’autodistruzione dell’Europa.
Ciò che affascina e meraviglia nelle Conseguenze economiche della pace è il dono narrativo e il talento psicologico, che ne fanno un capolavoro letterario, da mettere accanto ai libri di Virginia Woolf e di Lytton Strachey.
Ecco le mirabili pagine su Clemenceau. «Nel Consiglio dei Quattro - Clemenceau portava una giubba a tagliere di buon panno nero, e alle mani, che non erano mai scoperte, guanti grigi di pelle scamosciata; le scarpe erano di grosso cuoio nero, ottime, ma di foggia campagnola, e a volte fermate sul davanti, curiosamente, da una fibbia invece dei lacci. Nella sala della casa del presidente Wilson in cui si tenevano le riunioni regolari del Consiglio dei Quattro, Clemenceau sedeva su una seggiola quadrata, rivestita di broccato, nel mezzo del semicerchio davanti al caminetto, con alla sua sinistra il primo ministro italiano Orlando e, accanto al caminetto, il presidente Wilson, e alla sua destra, dirimpetto a Wilson, il premier britannico Lloyd George».
«Non aveva con sé carte né portafogli e non era assistito da un segretario personale, ma vari ministri e funzionari francesi confacenti all’argomento in esame erano presenti intorno a lui. Il suo passo, la mano e la voce non mancavano di vigore; nondimeno, specialmente dopo l’attentato di cui era stato oggetto, aveva l’aspetto di un uomo molto vecchio, che riservava le sue forze per le occasioni importanti. Parlava di rado, lasciando l’esposizione iniziale del punto di vista francese ai suoi ministri o funzionari; spesso chiudeva gli occhi e se ne stava rilasciato sulla sedia con un viso impassibile di cartapecora, le mani guantate di grigio intrecciate in grembo. Una breve frase, recisa o cinica, era in genere sufficiente, una domanda, una sconfessione netta dei suoi ministri senza salvarne la faccia, o un’impuntatura caparbia rafforzata da qualche parola in un inglese dalla pronuncia asprigna. Ma eloquenza e fervore non mancavano quando ce n’era bisogno, e l’improvvisa eruzione verbale, spesso seguita da un accesso di tosse cavernosa, produceva il suo effetto piuttosto col vigore e la sorpresa che con la persuasione».
* * *
La figura di Keynes mi incanta, e rinuncerei volentieri al posto importantissimo che egli ha segnato nella scienza economica, per raccogliere le tracce lasciate in quella meravigliosa raccolta di chiacchiere, pettegolezzi e opinioni che sono le Lettere di Virginia Woolf. Keynes vi appare dappertutto, sempre sottile, intelligente e frivolo. Frequentava Virginia: per qualche tempo abitò un pied-à-terre al piano sotto il suo: andava a trovarla nella sua casa di campagna; e quando prese in affitto una casa a Gordon Square ne fece il centro di una nuova Bloomsbury, dando feste e balli in maschera.
Nelle lettere di Virginia Woolf appare continuamente Lydia Lopokova, che aveva danzato come prima ballerina della compagnia Diaghilev nel 1916, 1919 e 1925, nelle rappresentazioni della «Boutique Fantasque», di «Les Sylphides» e della «Bella addormentata». Ritornò a ballare nel 1926 in un adattamento da Milton, e immaginava di mimare anche delle scene di Orlando. Almeno nei primi anni di conoscenza, sembrava deliziosa a Virginia Woolf: veniva a trovarla di tanto in tanto, come un uccellino che saltava allegramente da un ramo all’altro; graziosa, esuberante, spiritosa, simpaticissima. Aveva l’aria di uno scoiattolo: stava seduta per ore e ore a lustrarsi il naso con le zampe anteriori.
Malgrado una relazione con Duncan Grant, Keynes spalancava i suoi occhi limpidi sul mondo femminile, e quando vide Lydia Lopokova danzare nella compagnia Diaghilev, si innamorò di lei. Voleva sposarla, dovette affrontare ostacoli: ci riuscì soltanto il 4 agosto 1925, e venti giorni dopo diede un grande ricevimento. Malgrado la simpatia per Lydia, Virginia era stata contraria al matrimonio. «Penso veramente - aveva scritto alla sorella - che dovresti fermare Maynard prima che sia troppo tardi. Non riesco a credere che si renda conto delle possibili conseguenze. Mi vedo fin troppo bene Lydia diventare grassa, affascinante, esigente; Maynard entrare nel governo; e casa sua diventare luogo di duchi e di primi ministri. Maynard, che è un uomo semplice, sprofonderebbe irrimediabilmente prima di rendersi conto della sua condizione. Poi si sveglierebbe, per ritrovarsi con tre bambini, e controllato a vita». Lydia era molto meglio come bohèmienne senza legami, affamata e piena di speranze, che come matrona, con tutti i suoi diritti assicurati.
A Londra e nella sua casa di campagna, Virginia Woolf continuò a controllare, con ironia non sempre benevola, il matrimonio dell’uccello-scoiattolo con il grande economista scrittore. Lydia aveva un carattere gradevole e un cervello limitato. Il suo contributo era uno strillo, un ballo: poi il silenzio, come una bambina remissiva, con le mani intrecciate. «Dicono - scriveva Virginia - che ora si può conversare con Keynes solo usando parole di una sillaba. Se no, Lydia non capisce». Tutto quello che aveva preveduto intorno a Keynes e a Lydia - aggiunse - si stava avverando. «Hanno pranzato con noi due sere fa; e mio Dio! Il passerotto si sta già trasformando in una gallina, riservata, silenziosa, seria, matura, completa di uovo, penne e coccodè. Uno spettacolo davvero triste, e vedo avvicinarsi il giorno in cui non sopporterà nessuna allusione alla danza».
Credo che Virginia esagerasse. La ballerina-passerotto continuò a saltare con grazia da un ramo all’altro; e lo scoiattolo non smise di lustrarsi il naso con le piccole zampe anteriori.
Esce da Adelphi un libello titolato «Le conseguenze economiche della pace»
Appunti di John Maynard Keynes da Versailles
di Enrico Maria Massucci (il manifesto, 31.05.2008)
Qualunque dietrologia guarderebbe con sospetto l’assoluto silenzio che ha accompagnato e seguito, sulla «grande» stampa, la pubblicazione del fondamentale libro dell’inattuale John Maynard Keynes, Le conseguenza economiche della pace, (Adelphi, pp. 233, euro 22). Eppure il «libello», uscito in Gran Bretagna alla fine del 1919, non può proprio essere definito una chiosa a margine o una delle tante composizioni di circostanza che accompagnarono la fine della prima guerra mondiale. Anzi, esso funziona come un documento, agile e solenne, a commento di una catena di eventi che al tempo stesso era un punto di arrivo e di partenza, uno snodo crucialissimo di quella decisiva fase della storia dell’umanità, che Eric Hobsbawm avrebbe definito «secolo breve». In quella speciale congiuntura Keynes era presente come un rappresentante del Tesoro britannico alla conferenza di Versailles e insieme era anche delegato del Cancelliere dello Scacchiere al Supremo Consiglio Economico, dunque dall’osservatorio privilegiato dell’élite politica continentale, vincitrice della guerra, chiamata a ridisegnare lo scenario delle relazioni internazionali all’indomani del crollo del Secondo Reich.
La partecipazione al tavolo delle trattative in realtà persuase rapidamente il giovane economista che a Versailles si stavano preparando le condizioni per la spirale di eventi che avrebbe condotto al secondo conflitto mondiale, a causa delle «pecche disastrose» della conferenza internazionale e della generale insipienza degli attori. Così, contestualmente alle proprie dimissioni, Keynes affidava a un testo teso e vibrante considerazioni non episodiche sugli effetti delle decisioni prese sul futuro assetto del continente: decisioni che avrebbero alimentato un risentimento verso il paese, sanzionato dal Trattato stesso quale responsabile unico e «solitario» dello scoppio della guerra (la Germania), quasi annientandone il profilo statuale.
Inoltre, Lord Keynes considerava l’atteggiamento delle nazioni vincitrici, in particolare quello della Francia e dell’Inghilterra, come una riedizione dello spirito ottocentesco da grande potenza corresponsabile dell’inizio della prima guerra mondiale e anticipatore della seconda. Nelle sue pagine appassionate, il grande economista non mancava di segnalare l’irresponsabilità di una condotta politico-diplomatica che associava alla vessazione antitedesca l’accanimento ideologico antibolscevico, giudicato altrettanto insulso della revanche antigermanica, ai fini di una ricomposizione della frattura europea e di un reale ristabilimento della pace.
Il «blocco» sanzionatorio e il «cordone sanitario» imposti al paese dei Soviet gli apparivano «provvedimenti stolidi e miopi», che avrebbero danneggiato non tanto l’esperimento lì in corso quanto l’Europa stessa, incapace di riprogettarsi creativamente. L’invocazione keynesiana, come si sa, sarebbe rimasta lettera morta e quell’accidentato percorso negoziale avrebbe prodotto l’ennesima eterogenesi dei fini. Non a caso la stagione storica che aveva appena terminato di aprirsi era quella della «seconda guerra dei trent’anni».
Novant’anni fa la firma del Trattato di pace con la Germania
Segreti e capricci dei grandi di Versailles
"Parigi 1919. I sei mesi che cambiarono il mondo" è il titolo di una ricerca di Margaret MacMillan ricca di documenti inediti
di Lucio Villari (la Repubblica. 16.07.2009)
Nell’estate di novanta anni or sono Parigi non fu più al centro del mondo. Lo era stata per oltre sei mesi quando, a Versailles, si riunirono ripetutamente le delegazioni dei paesi che avevano vinto la Prima guerra mondiale. Ma il 28 giugno 1919 i riflettori si spensero e le bandiere delle quattro potenze vincitrici - Francia, Gran Bretagna, Italia e Stati Uniti - furono arrotolate: era stato firmato il Trattato di pace di Versailles.
Il presidente americano Woodrow Wilson, discussa star della Conferenza di pace, lasciò Parigi la notte stessa per il porto di Le Havre. Il primo ministro inglese David Lloyd George e quel che restava della delegazione britannica (dopo l’abbandono dell’economista J. M. Keynes e di altri funzionari del Tesoro per protesta per il trattamento inflitto alla Germania), ripartirono con un treno speciale con la sorpresa di dover pagare una pesante nota spese per il viaggio in ferrovia fino a Calais; il presidente del consiglio italiano Orlando (che si era distinto, tra lo stupore degli alleati, per avere polemicamente abbandonato ad aprile i lavori della Conferenza) partì immediatamente per Roma, ma il suo governo non era più in carica: ed egli era stato nel frattempo sostituito da Francesco Saverio Nitti. A Parigi rimase il primo ministro Clemenceau a difendere l’operato della Conferenza, fronteggiando i numerosi giornalisti stranieri, e subendo le aspre critiche del governo tedesco, ingiustamente inchiodato alle responsabilità non sue della guerra. Unici contenti i direttori dei raffinati alberghi della capitale francese che poterono finalmente riaprire al normale, elegante turismo mentre, come si legge in un documento governativo, solo le belle prostitute parigine ebbero un calo verticale degli affari.
Su Clemenceau, "il Tigre", su Wilson, "l’uomo dai quarantadue denti" (e sulla sua non bella consorte) e sul povero Orlando piovevano poi gli insulti e l’ironia dei nazionalisti italiani e di D’Annunzio. Erano ritenuti responsabili della "vittoria mutilata" dell’Italia: Clemenceau perché assolutamente indifferente agli interessi italiani, Wilson (con i suoi Quattordici Punti in difesa di un nuovo equilibrio europeo) perché contrario all’annessione di Fiume e alle pretese italiane sulla Dalmazia, Orlando e il ministro degli Esteri Sonnino per non essersi fatti valere con gli alleati. E che non si trattasse solo di battute volgari (su Nitti pioverà poi l’insulto di "cagoia") ma di pretesti e di precisi progetti eversivi D’Annunzio lo dimostrerà qualche mese dopo.
Intanto a Versailles la pace con la Germania, divenuta repubblica democratica, era stata firmata. Con gli altri paesi coinvolti nella guerra saranno firmate altre paci dopo difficili accordi, discussioni e polemiche sulla ridefinizione dei confini nei Balcani e nei territori dell’Austria-Ungheria (erano sorti due nuovi Stati, la Jugoslavia e la Cecoslovacchia che avrebbero dovuto agevolare le ricomposizioni geo-politiche ed etnico-linguistico-religiose) che dureranno fino all’agosto 1920 e oltre.
Dunque il grande problema della ricostruzione dell’Europa ebbe al centro dei sei mesi di lavori soprattutto la Germania, costretta al pagamento in milioni di marchi oro delle riparazioni dei danni di guerra e l’Austria-Ungheria, divenuta anch’essa repubblica, che vedeva smembrata la sua compagine imperiale, quella Mitteleuropa che aveva racchiuso tanti popoli in una ecumene anche culturale a lungo rimpianta.
Ma la Parigi del 1919 fu anche il motore di una ricomposizione politica sia del quadro coloniale europeo (le colonie tedesche dell’Africa furono spartite tra i vincitori) sia delle questioni più delicate dello scacchiere mediorientale. Dai rapporti tra l’Europa e il mondo arabo, alla questione della Palestina, al problema della Turchia che, finito il tempo del Sultanato, era svegliata dalla modernizzazione di Kemal Ataturk nell’imminenza della prevedibile entrata nel consesso dell’Europa. Insomma fatti che paiono accaduti appena ieri.
Ha ragione dunque la storica Margaret MacMillan (insegna storia all’Università di Toronto ed è pronipote di Lloyd George) a intitolare una sua importante ricerca su quanto accadde novanta anni or sono: Parigi 1919. Sei mesi che cambiarono il mondo (Mondadori, pagg. 712, euro 26). Altrettanto importante è che, grazie a questo volume che si avvale di documenti inediti provenienti in gran numero da archivi americani e inglesi, sia possibile ricostruire con obiettività quei sei mesi che hanno condizionato tutta la storia del Novecento e che, non sembri un paradosso, influenzano oggi molti segmenti e sentimenti della storia non solo europea.
La storiografia e i mezzi di informazione non sembrano essersi accorti di questo anniversario che ha il carattere di un evento-chiave del Novecento. Il 1919 è un anno decisivo anche per l’Italia perché iniziano, dopo i numerosi errori dei trattati di pace, le turbolenze e le ansie di un paese che per molto tempo non ritroverà se stesso.