Il Brasile non vuole il Papa
di Marco Vozza *
È quanto meno curioso scoprire che, almeno in altre parti del mondo, ci sono ancora degli stati che hanno il coraggio di decidere delle proprie sorti politiche autonomamente, evitando possibili intromissioni da parte di chicchessia, fosse anche il Papa in personaIn Brasile sta avendo grande eco la notizia della richiesta ufficiale da parte dell’ambasciatore brasiliano presso la Santa Sede, Joao Pinto Tubarao, affinchè il Papa annulli il suo viaggio in Brasile previsto per maggio in occasione dell’assemblea del CELAM, Quinta conferenza episcopale dei vescovi dell’America Latina e dei Caraibi.
Facciamo un attimo il punto della situazione.
Lula, presidente dello stato sudamericano riconfermato lo scorso anno, sta facendo tantissimo per cercare di ridare dignità al suo popolo, agli emarginati, ai poveri, dopo decenni di sofferenze e ingiustizie.
Se già durante la precedente legislatura era riuscito a migliorare la condizione di 40 milioni di persone attraverso una precisa politica sociale, adesso sta cercando di migliorare, tra le altre cose, le condizioni di vita, salute e prevenzione dei suoi cittadini.Il Governo brasiliano, difatti, sta per promulgare un decreto legge che preveda la depenalizzazione dell’aborto, renda gratuita la distribuzione di preservativi e pillole anticoncezionali, il tutto supportato da una decisa campagna mediatica mirata all’educazione sessuale.
Ovviamente prevedibile la convinta opposizione da parte degli esponenti locali dalla chiesa cattolica, in particolare del Vescovo di San Paolo.Intervistato dal Journal do Brasil, Lula ha dichiarato:"Non credo che la visita di Papa Benedetto XVI possa far bene alla vita politica del Brasile. Credo che sia una sua precisa volontà, una volta qui, esternare pubblicamente il suo punto di vista sulla famiglia ingerendo nella nostra vita pubblica. A fine maggio il Parlamento si troverà ad affrontare l’iter finale del progetto di legge teso a regolare i diritti delle famiglie non sposate, ed un intervento del Papa sarebbe quanto meno fuori luogo".
Pedro Ernesto Salgado Coelho Esteban della Egreja do Primeiro dia, esponente di primo piano della Chiesa Evangelica brasiliana, tuona: "La Chiesa Cattolica è un pericolo per i diritti dei deboli".
Ma c’è di più. Esponenti delle religioni spirituali (la macumba, per esempio) di origine africana, molto diffuse in America Latina, hanno minacciato il presidente brasiliano, facendogli pervenire chiari avvertimenti di minacce qualora il Santo Padre dovesse mettere piede in Brasile.
Infine, le vibranti proteste della società civile sono giunte per bocca di Pamela da Brinquadera Neta, dell’Associcao livra primeiro, che si occupa dei diritti degli emigranti sudamericani: "L’Italia è un paese succube di una cultura della condanna e dell’emarginazione delle diversità, e non vogliamo che questa situazione possa venire a formarsi anche nel nostro Paese".
Ma anche in Europa c’è chi ha dato manforte alla sorprendente decisione d’oltreoceano. Zapatero, premier del Governo socialista spagnolo che tanto sta facendo per i diritti della società civile - vi ricordo questo post dove rendevo nota la decisione da parte del governo di assumersi il 100% dei costi economici per le operazioni di cambio di sesso - ha affermato, nell’ambito delle continue polemiche riguardanti il libro Sanctorum (quello delle immagine porno-religiose, di cui scrissi qui): "La vita politica e civile di una nazione riguarda i suoi cittadini e gli amministratori della vis publica. La Chiesa Cattolica pensi ad amministrare le anime dei fedeli e basta".
Discorso che non fa una piega, mi sembra, mentre ne vedo più d’una, per esempio, nelle ultime brillanti esternazioni da parte della CEI, che accomuna i Dico a pedofili e incestuosi. Ma questa è giustamente, un’altra storia e un alto paese.
Tratto da:inlibera.blogspot.com, 01.04.2007.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Brasile: Lula vince il ballottaggio. E’ eletto presidente per la terza volta
Sconfitto di un soffio il candidato della destra Bolsonaro
Il leader di sinistra, Luiz Inácio Lula da Silva (Pt) ha vinto il ballottaggio, ed é stato eletto presidente del Brasile per la terza volta.
Lula ha battuto l’attuale capo dello Stato, Jair Bolsonaro (Pl, destra), il primo presidente che ha fallito nel suo tentativo di rielezione.
Il Tribunale superiore elettorale ha ufficializzato la vittoria, col 98, 86% del totale delle sezioni scrutinate, Lula ha ottenuto il 50,83% dei voti (59.596.247), contro il 49,17% di Bolsonaro (57.675.427).
Scoppiano felicità e tristezza in tutto il Brasile al termine degli spogli per il ballottaggio delle presidenziali che ha dato la vittoria a Luiz Inacio Lula da Silva. Caroselli di auto e moto, grida dalle finestre degli appartamenti, suoni di clacson e bandiere al vento riempiono le strade delle principali città. Da una parte i sostenitori dell’ex sindacalista, in lacrime di gioia, dall’altra il silenzio di delusione dei fan di Jair Bolsonaro. In una nazione spaccata a metà, le elezioni più polarizzate della storia del Paese si riflettono negli umori dei suoi cittadini, divisi da opposte tifoserie come in una finale della nazionale di calcio. A Rio de Janeiro, la seconda metropoli più grande del gigante sudamericano, gli elettori in festa si sono riversati sulla spiaggia, inondando con la loro allegria il quartiere di Copacabana. Mentre anche dalle ’favelas’ sui morros (colline) partono fuochi di artificio a illuminare il cielo carioca.
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Fonte: Ansa, 31 ottobre 2022
Brasile: Lula e Bolsonaro al ballottaggio il 30 ottobre Sondaggi smentiti, il presidente di destra batte le aspettative
di Redazione ANSA*
RIO DE JANEIRO. Il Tribunale supremo elettorale (Tse) del Brasile ha diramato alle 2:15 (le 7:15 italiane) i risultati praticamente definitivi delle elezioni presidenziali da cui emerge la certezza di un ballottaggio il 30 ottobre prossimo fra i due candidati meglio piazzati.
Con lo scrutinio delle schede del 99,99% dei seggi, Luiz Inacio Lula da Silva (Pt, sinistra) ha ricevuto 57.254.672 voti, pari al 48,43%, mentre Jair Bolsonaro (Pl, destra) ne ha ottenuti 51.070.672, equivalenti al 43,20%.
Il terzo posto nella scelta degli elettori è andato a Simone Tebet (Mdb, centro-destra) con 4.915.217 voti (4,16%) e il quarto a Ciro Gomes (Pdt, sinistra) con 3.599.157 suffragi (3,04%).
Il Brasile resta in bilico. Il risultato elettorale non ha restituito una vittoria netta. La festa è rimandata al ballottaggio del 30 ottobre. Luiz Inacio Lula da Silva, 76 anni, icona della sinistra sudamericana, grande favorito ai sondaggi, non ha confermato i pronostici di vittoria della vigilia, che gli attribuivano fino al 51% di consensi già al primo turno. Quasi al termine degli scrutini il leader del Partito dei lavoratori (Pt) aveva totalizzato il 48,43% di voti, mentre il suo avversario, il presidente di destra uscente, Jair Bolsonaro (Pl), 67 anni, il 43,20%, battendo tutte le aspettative, e tallonando in un conteggio sul filo di lana. "La lotta continua fino alla vittoria finale". Il ballottaggio non è che una "proroga", ha commentato Lula al termine dello scrutinio, spronando i delusi. Tornato a San Paolo da San Bernardo do Campo, sua roccaforte elettorale dove in mattinata aveva votato, il leader di sinistra ha atteso il responso al Novotel Jaraguà, con la moglie Janja, il vice designato per il suo futuro governo, Geraldo Alckmin, e l’ex presidente Dilma Roussef. Al termine della serata ha raggiunto l’avenida Paulista, prenotata per il bagno di folla della svolta, e ridotta invece a teatro per un abbraccio con qualche decina di migliaia di sostenitori. "Abbiamo vinto sulle menzogne" dell’istituto di sondaggi "Datafolha". Ora "lavorerò per cambiare il voto della gente" ha promesso Bolsonaro, in giornata bersaglio di un attacco hacker alla pagina web. Anche lui è rientrato dalla trasferta per il voto, da Rio de Janeiro al Palacio da Alvorada, la sua residenza ufficiale a Brasilia, dove la recinzione attorno all’edificio è stata addirittura ampliata, per ospitare i suoi numerosi sostenitori.
Da ora alla fine di ottobre la partita è indubbiamente tutta aperta, e per il colosso verde-oro si annunciano giorni difficili, con una nuova appendice di campagna elettorale ad alta tensione. Il rischio è che Bolsonaro getti benzina sul fuoco, incendiando le piazze ed accelerando nei suoi attacchi senza tregua per screditare il Tribunale superiore elettorale (Tse) ed il suo presidente, il giudice Alexandre de Moraes, cuore delle procedure democratiche. Una deriva pericolosa, con i Paesi occidentali - Europa e Stati Uniti in testa - che nelle ultime settimane avevano inviato appelli richiamando al rispetto dello stato di diritto. E in questo periodo di transizione il presidente uscente potrebbe varare misure provvisorie ad effetto immediato (con la pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale), per dare nuovo impulso alla liberalizzazione della vendita delle armi, accrescendo così il rischio di violenza politica. Una polarizzazione estrema che nei 46 giorni di campagna elettorale al veleno, dal 16 agosto all’apertura dei seggi elettronici del 2 ottobre, ha già fatto contare tre morti, e vari episodi di intimidazione. Secondo gli analisti, a pesare sul risultato sono stati gli indecisi, il tasso di astensione, e quanti hanno creduto di abbracciare la scelta del cosiddetto ’voto utile’ (quello cioè di chi avrebbe voluto vedere l’elezione chiusa al primo turno). Malgrado infatti il voto per i 156milioni di brasiliani chiamati alle urne sia obbligatorio, il tasso di astensione è salito dal 20,3% del 2018 all’attuale 20,94. E proprio Lula sarebbe stato il più danneggiato da questo incremento di assenze. Il primo turno è stato seguito anche dagli osservatori internazionali dell’Organizzazione degli Stati americani, su invito del Tse. Il gruppo - composto da 55 esperti provenienti da 17 Paesi - è stato dispiegato in 15 dei 26 Stati federativi e nel Distretto di Brasilia., certificando che tutto si è svolto in modo corretto, come ha dichiarato il capo della missione, Ma a sorvegliare sulle urne sono stati anche i militari dell’esercito, in un’iniziativa spinta da Bolsonaro, che come il suo avversario Lula ora medita le sue prossime mosse per la vittoria.
* Fonte: ANSA, 03 ottobre 2022
Torno per salvare il Brasile
L’ex presidente Lula, assolto dalle accuse che gli sono costate 580 giorni di carcere, espone a «la Lettura» i suoi programmi per il futuro. Sulla base di questi è pronto a ripresentare la propria candidatura alla guida del Paese e a sfidare il capo dello Stato uscente Jair Bolsonaro, travolto dalle critiche per la gestione irresponsabile del Covid
di NUCCIO ORDINE *
«Malaffare, ciarlataneria, infrazione delle misure sanitarie preventive, incitamento al crimine, falsificazione di documenti privati, violazione dei diritti sociali, incompatibilità con l’onore e il decoro della carica pubblica, crimini contro l’umanità (sterminio, persecuzione e altri atti disumani), uso irregolare di fondi pubblici»: basta leggere tra le quasi 1.200 pagine della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla pandemia, approvate in autunno dal Senato brasiliano, per cogliere la gravità dei reati e dei misfatti imputati a Jair Bolsonaro. Accuse che, partendo dalla folle gestione della crisi provocata dal Covid-19, finiscono per investire l’intera azione politica di un presidente che nel giro di pochi anni ha contribuito notevolmente a mettere in ginocchio una grande nazione come il Brasile.
Ma le critiche più radicali non provengono solo dal mondo politico. Anche scienziati, umanisti e artisti di fama internazionale hanno espresso la loro netta condanna: la filosofa Marilena Chauí («Il governo totalitario di Bolsonaro esprime ignoranza, indecenza, incompetenza»), il neuroscienziato Miguel Nicolelis («Il Brasile, per colpa del suo presidente, è stato il peggiore Paese al mondo nell’affrontare la pandemia»), il celebre musicista Caetano Veloso («Abbiamo un governo ostile alla libertà»), il famoso scrittore Paulo Coelho («I danni causati da Bolsonaro resteranno per decenni»).
Molti hanno lanciato un grido d’allarme per richiamare l’attenzione sui pericoli che minacciano la democrazia e il futuro stesso del Brasile. La diminuzione del Pil, il calo della produzione industriale, la crisi idrica e quella energetica, l’aumento della povertà (27 milioni di brasiliani sono in grandissima difficoltà), la crescita delle disuguaglianze rivelano un drammatico quadro della realtà economica e sociale. A cui bisogna aggiungere anche il degrado del dibattito culturale: è ben noto, infatti, il disprezzo espresso in questi anni da Bolsonaro per la scienza, per l’ecologia, per l’autonomia delle università e della ricerca, per l’insegnamento e l’istruzione, per tutte le attività che promuovono un progresso della conoscenza.
Adesso, tanti considerano le elezioni del prossimo 2 ottobre un’occasione per porre fine alla deriva. Un recente sondaggio, di cui ha dato notizia l’Ansa poche settimane fa, attribuisce a Luiz Inácio da Silva, noto come Lula, il 48% delle intenzioni di voto, contro il 21% destinato a Bolsonaro. Lula da mesi sta percorrendo, da Nord a Sud, il cuore pulsante del Brasile per promuovere incontri e dibattiti. Agguerrito sindacalista durante la dittatura militare, fondatore nel 1980 del Partido dos trabalhadores (Pt, Partito dei lavoratori), è stato presidente per due mandati consecutivi dal 2003 al 2011. Nel 2017 è stato condannato a 12 anni di carcere per corruzione, riciclaggio e falso ideologico. L’anno successivo il Tribunale superiore elettorale ha respinto la sua candidatura alle elezioni presidenziali, lasciando campo libero alla destra. Il giudice Sergio Moro - suo grande accusatore, oggi in corsa per la presidenza con il partito conservatore Podemos (il sondaggio gli attribuisce un modesto 6%) - sarà poi nominato ministro della Giustizia dal vincitore Bolsonaro. Ma nel marzo 2021, dopo avere sempre dichiarato la sua totale innocenza, Lula è stato prosciolto da ogni accusa dal Tribunale supremo federale.
Le sue umili origini nel misero Pernambuco, le tappe principali della sua vita politica e le ultime vicende giudiziarie sono raccontate in due libri: nella biografia del celebre giornalista Fernando Morais appena stampata in Brasile (Lula. Biografia, volume 1, Companhia das Letras, 2021) e in una raccolta di dialoghi e discorsi pubblicata in Italia (La verità vincerà. Il popolo sa perché sono stato condannato, a cura di Ivana Jinkings, Meltemi, 2018). Nell’intervista concessa a «la Lettura» Lula conferma la sua disponibilità a candidarsi per salvare il Brasile da un disastro annunciato. La decisione dovrebbe essere annunciata a febbraio.
Presidente Lula, perché ha deciso di scendere di nuovo in campo per le prossime elezioni brasiliane?
«Quello che mi motiva è continuare a battermi per una causa: fare in modo che il Brasile torni a essere di tutti i brasiliani; e che nessuno nel nostro Paese abbia a soffrire la fame. Che io sia o no il candidato, ho sempre lavorato e continuerò a lavorare per questi obiettivi. Nei governi del Partido dos trabalhadores il Brasile, nello stesso momento in cui arrivò a essere la sesta economia mondiale, è stato un esempio internazionale di lotta alla povertà e di contrasto alla disuguaglianza. Siamo riusciti a sradicare la fame, a creare occupazione, a distribuire rendita, a offrire maggiori opportunità per l’istruzione, elevando la qualità della vita della popolazione. Oggi, tristemente, il Paese è tornato ad avere 20 milioni di persone che soffrono la fame, la disoccupazione è enorme, le previsioni annunciano un Pil stagnante. Siamo stati esempio, nel passato, di un’azione indipendente, cooperativa e coraggiosa nella politica internazionale. Oggi nessuno vuole neppure farsi vedere accanto all’attuale presidente. Per difendere la nostra causa, resto a disposizione del mio partito e di coloro che si oppongono a questo governo. La definizione del candidato arriverà nel momento opportuno. Fino ad allora, però, voglio dialogare con i miei concittadini dal Nord al Sud del Brasile e voglio discutere anche con i leader internazionali disposti a collaborare per aiutare il mio Paese a riprendere il cammino della piena democrazia, dello sviluppo, della giustizia sociale».
Lei ha sempre lottato per la democratizzazione del Paese ed è stato due volte incarcerato. Negli ultimi anni si sono affermate e diffuse in molte regioni del mondo posizioni estremiste e autoritarie: che cosa pensa dell’attuale quadro politico brasiliano?
«Bolsonaro è un nostalgico della dittatura, un ammiratore dei torturatori, un adepto della discriminazione contro i neri, le donne e gli indios. Una persona che non sa in che mondo vive. Il suo governo è il risultato di un processo di negazione della politica democratica, adottato per realizzare il golpe contro la presidente Dilma Rousseff. Poi è seguito il processo illegale per escludermi dalla competizione elettorale del 2018. Detto in altri termini: molte persone hanno cercato e cercano di porre fine alla democrazia in Brasile. Ma il popolo brasiliano ha saputo resistere. Oggi la stragrande maggioranza della popolazione respinge il governo Bolsonaro, i suoi metodi autoritari, le sue politiche disumane. Il popolo brasiliano ha capito che Bolsonaro è un’accidente nella nostra democrazia, che può e deve essere superato. Sarà il popolo stesso, nelle urne, a porre fine alla tragedia generata dall’attuale presidente».
Nei 580 giorni trascorsi in prigione quali libri ha letto? In che cosa ha trovato conforto per continuare a lottare?
«In carcere sono stato ossessionato da due pensieri. Il primo: dimostrare la mia innocenza. Ho sempre detto che la persecuzione che avevo sofferto era frutto di una grande montatura, in cui si mescolavano interessi personali del giudice principale e dei pubblici ministeri, vicini ai gruppi economici nazionali e stranieri che volevano impossessarsi di Petrobras e a una parte dell’élite brasiliana contraria al progetto di Paese che il mio partito difendeva. Tutto questo è stato già provato. Il secondo pensiero riguardava la sofferenza dei brasiliani che stavano perdendo i loro diritti, senza lavoro e senza cibo. Ma in carcere ho anche letto molto. Soprattutto libri di storia brasiliana, con particolare attenzione alle conseguenze che secoli di schiavitù hanno avuto sulla nostra formazione. Il Brasile deve ancora lavorare molto per superare questa cicatrice e fare in modo che tutti i suoi cittadini abbiano gli stessi diritti e le stesse opportunità».
In che cosa il futuro governo Lula potrebbe distinguersi da quelli precedenti?
«Per me ha senso tornare a essere presidente solo per fare più di quello che ho già fatto. Ho lasciato la presidenza con un consenso altissimo; tutti i sondaggi mi considerano il migliore presidente della storia del Paese. Chi non è stato presidente può fare promesse vuote e, dopo avere vinto, affermare: “Non sapevo come stavano le cose, mi dispiace”. Io non posso farlo. Da qui prendono il via la riflessione che sto portando avanti sulla candidatura e le conversazioni che ho avviato con molti ambienti della società sulla situazione del Paese e sulle relative soluzioni. È chiaro che io ho appreso molto negli anni di governo e anche in quelli passati all’opposizione, conversando con molta gente in tutto il mondo. Ma non saprei dire cosa non ripeterei. Ho imparato a riconoscere chi mostra una realtà truccata e chi invece ci aiuta a vedere i problemi come davvero sono. Questi ultimi sono gli alleati più importanti da avere accanto in un governo, perché spetta a loro indicare le soluzioni».
La pandemia ha provocato ufficialmente più di 620 mila morti in Brasile. Quali sono le azioni per arginarla?
«La pandemia, purtroppo, non è finita. Dobbiamo continuare a restare vigili, senza abbassare la guardia. Almeno la metà di queste vittime in Brasile non ci sarebbero state se il presidente, che ora è in carica per occuparsi del Paese, non avesse sottovalutato i rischi del contagio, ritardando l’acquisto dei vaccini, diffondendo informazioni false, incoraggiando i cittadini a non proteggersi e a inseguire rimedi inutili. Oltre ai morti e alle tante persone la cui salute è stata gravemente compromessa dal Covid, c’è da considerare anche l’impatto economico e sociale. Sarà necessario riorganizzare la nostra economia, rafforzare il sistema sanitario e scientifico, procedere con massicce campagne di vaccinazione e sensibilizzazione popolare».
Consideriamo le gravi disuguaglianze sociali ed economiche del Brasile: quali sono i punti principali del suo programma e quali azioni intende promuovere per correggere gli squilibri?
«Ho detto che la ricostruzione del Brasile deve cominciare dalla base: garantire che tutte le persone abbiano diritto a, minimo, tre pasti al giorno. Il Brasile è uno dei maggiori produttori di cibo del mondo e ha 116 milioni di persone che vivono in una situazione di insicurezza alimentare. È intollerabile. Noi abbiamo dimostrato che è possibile essere un Paese forte nell’esportazione agricola. E che abbiamo un mercato interno altrettanto solido. Ora, attraverso una buona pianificazione e un significativo aiuto ai piccoli agricoltori, saremo in grado di assicurare i bisogni alimentari. Nello stesso tempo è necessario creare occupazione e guadagno. Ma per fare questo il Paese ha bisogno di stabilità e credibilità. Il settore privato ritornerà a investire se lo Stato assolverà ai suoi doveri, migliorando infrastrutture e logistica, costruendo ospedali, promuovendo operazioni di risanamento nel settore dell’igiene e anche nell’edilizia popolare, stimolando l’economia e mostrando alle imprese nazionali e straniere che è vantaggioso investire qui».
Torno per salvare il Brasile
L’ex presidente Lula, assolto dalle accuse che gli sono costate 580 giorni di carcere, espone a «la Lettura» i suoi programmi per il futuro. Sulla base di questi è pronto a ripresentare la propria candidatura alla guida del Paese e a sfidare il capo dello Stato uscente Jair Bolsonaro, travolto dalle critiche per la gestione irresponsabile del Covid
di NUCCIO ORDINE *
Dopo l’amministrazione catastrofica del governo Bolsonaro, come potrà ricostruire il Brasile soprattutto nei settori della sanità pubblica e dell’educazione?
«I gruppi politici che armarono il golpe contro la presidente Dilma promisero un ponte verso il futuro che fu in realtà un salto nell’abisso. A partire da quel momento, iniziò un forte e progressivo taglio di finanziamenti: una riduzione dei fondi destinati alle università pubbliche e agli studenti, ma anche lo smantellamento del Sistema unico di sanità (Sus), uno dei maggiori del mondo. Senza il Sus, un numero molto più grande di brasiliani avrebbe perduto la vita nel corso della pandemia. Bolsonaro è lo sviluppo perverso di questo caos. L’attuale ministro dell’Educazione dice apertamente che l’accesso all’università deve essere riservato a pochi. Di fronte a questi tragici eventi, in qualità di presidente che nel passato ha creato molte nuove università, non posso non esprimere la mia tristezza. Ma sono anche desideroso di rovesciare questa tendenza, tornando a creare posti di lavoro nell’insegnamento superiore e a investire in progetti in grado di rafforzare la sanità pubblica. Alcuni diranno che non ci sono soldi. Non è vero. Con priorità ben definite e una gestione efficiente, è possibile migliorare e ampliare i servizi pubblici. Inoltre, c’è da dire che la struttura tributaria brasiliana è regressiva: sono i lavoratori e le classi medie a pagare più tasse. Profitti e dividendi, ad esempio, risultano esenti da imposte. È chiaro che anche i super-ricchi devono contribuire al mantenimento dei servizi pubblici essenziali. Per assurdo che sembri, il numero dei milionari in Brasile è aumentato molto durante la pandemia!».
Ci sono stati tagli consistenti all’educazione e alla ricerca. Che cosa propone per lo sviluppo scientifico e tecnologico del Paese?
«Non c’è nazione al mondo che abbia conosciuto uno sviluppo senza investimenti nella scienza e nella tecnologia. Nonostante quello che sta accadendo ora, il Brasile ha un potenziale molto grande in questi settori. Abbiamo un’importante forza già strutturata. Abbiamo, dislocati in tutte le regioni, istituti pubblici e università statali che sono prestigiosi centri di ricerca. Esistono enti governativi di sostegno all’indagine scientifica riconosciuti e consolidati. Nei nostri governi, investimmo molto nella formazione dei ricercatori, che oggi non hanno più supporti per sviluppare i loro progetti. Con la pianificazione e la collocazione di maggiori risorse economiche, torneremo nuovamente in gioco. L’altra chiave del nostro potenziale sta nella natura stessa del Brasile. Una politica che tenga conto dell’innovazione tecnologica e dello sviluppo sostenibile, valorizzando e nello stesso tempo proteggendo la nostra biodiversità, è fondamentale per il futuro del Paese».
Pensa di riattivare programmi sociali come «Bolsa Familia» («Borsa Famiglia») e «Fome Zero» («Fame Zero»)?
«Quando eravamo al governo abbiamo dimostrato che i poveri non sono un problema per lo Stato, ma rappresentano una soluzione. Garantire una rendita minima affinché le persone abbiamo una vita dignitosa è un imperativo etico, ma è anche un buon affare per il Paese. Lo abbiamo visto accadere con la nostra Bolsa Familia: si è rivelata una politica sociale con un immenso potere di trasformare la vita delle persone e ha ispirato programmi simili in più di 60 Paesi. Abbiamo liberato dalla miseria 32 milioni di persone. Il Brasile era scomparso dalla mappa della fame disegnata dall’Onu; le famiglie riuscivano ad andare avanti, a garantire educazione per i figli, a trovare lavoro. Chi potrà ottenere un lavoro senza avere le scarpe? O mandare i figli a scuola senza un quaderno? Ora, Bolsonaro ha sostituito la nostra Bolsa Familia con un programma provvisorio, che fornirà assistenza solo fino alle elezioni, perdendo la sua originaria natura strutturale pubblica. Intendo dire che vogliamo assolutamente garantire salario e protezione sociale alle persone, sempre. Deve essere una politica di Stato, non di questo o di quel governo».
La distruzione dell’Amazzonia non è solo un problema del Brasile, ma preoccupa il mondo. Che cosa intende fare per proteggere l’ambiente e la foresta amazzonica, aggredita nella sua biodiversità da politiche predatorie e dai cambiamenti climatici?
«Sono convinto che l’agenda della ricostruzione del Brasile non possa rimanere dissociata da un’agenda ambientale. Anche in Amazzonia bisogna pensare al recupero di bacini idrografici, a un mercato agricolo sostenibile, a cooperative di riciclaggio nelle città e di preservazione delle foreste (penso ai lavoratori che si occupano dei castagni, della raccolta del caucciù, della piscicoltura), oltre allo sviluppo del mercato alternativo al carbon fossile e alla generazione di energia non centralizzata e pulita. Durante i governi del mio partito abbiamo ridotto notevolmente il disboscamento e siamo stati in grado di compiere progressi significativi su molti problemi. Ma sono convinto che il nuovo governo dovrà essere ancora più audace e più creativo nella difesa dell’Amazzonia. È chiaro che la responsabilità della salvaguardia ambientale e della lotta al cambiamento climatico appartiene a tutti. Certo, la sovranità e la responsabilità sull’Amazzonia sono del Brasile e dei Paesi vicini che occupano parti del territorio amazzonico. Nel mio governo, però, avevamo creato un Fondo Amazzonia che ha consentito collaborazioni con Norvegia e Germania per progetti di preservazione, nel rispetto della sovranità e delle linee guida del governo brasiliano. Non appena Bolsonaro è andato al potere, ha paralizzato immediatamente questo Fondo».
Ha un piano per proteggere le popolazioni indigene, oggi sempre più minacciate?
«Sono molto fiero del dialogo avviato con i popoli indigeni e i loro leader, e delle conquiste che questi ultimi hanno ottenuto durante i nostri governi. Faccio un esempio che sempre mi emoziona: la creazione della Riserva Raposa Serra do Sol, degli indigeni Yanomami, 1,7 milioni di ettari, un’area equivalente al territorio dell’Austria. Non mi sarei mai aspettato di vedere popoli indigeni essere trattati nel modo in cui accade oggi: senza nessun rispetto e nessun dialogo, come se le loro vite valessero meno di quella di un bue o di un ettaro di soia. Non sono solo i legittimi proprietari delle terre che occupano, sono anche i grandi custodi di questo patrimonio collettivo che è la natura. Credo che loro stessi siano il migliore modello per pensare a come proteggere i loro stili di vita. È per questo che la politica deve favorire la partecipazione dei popoli che vivono nei loro territori. Il governo deve ripristinare la legge, combattendo gli invasori delle terre pubbliche e proteggendo i territori indigeni».
Il Brasile ha sempre goduto di un’immagine positiva all’estero. Ma ora molti pensano che questa immagine sia stata compromessa, come ha dimostrato il discorso di apertura di Bolsonaro all’assemblea dell’Onu. Potrà recuperare il prestigio perduto?
«Per l’ampiezza della sua economia e per la rilevanza geopolitica, i legami commerciali e politici del Brasile non possono venire ristretti a un solo Paese. Il Brasile vuole dialogare con gli Stati Uniti, con la Cina, con l’Europa, con la Russia, con i Paesi africani, con i nostri vicini latino-americani... con tutti. In questo contesto, il dialogo con l’Italia, per esempio, ha molta importanza, poiché abbiamo valori e interessi comuni, nella sfera geopolitica e in ambito economico, per non parlare delle relazioni culturali. Questa è sempre stata una tradizione del Brasile, una tradizione che oggi deve essere rinvigorita. Oggi quello che mi preme è parlare con i leader internazionali e fare capire loro che il mio Paese è molto più grande di questi piccoli individui che hanno preso il potere».
Quale sarà la posizione di un probabile suo governo in relazione ai procedimenti legali intentati contro il governo Bolsonaro nei tribunali internazionali?
«I processi nei tribunali internazionali non devono avere interferenze governative. Io mi auguro che siano giusti e che Bolsonaro abbia il diritto di difesa, che peraltro lui stesso ha sempre disconosciuto agli altri».
Quali saranno le relazioni con i principali Paesi dell’America Latina e, in particolare, con quelli del «vecchio» Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica)?
«Il mondo sta scoprendo, sempre di più, che condividiamo il medesimo pianeta e che sfide comuni (come il coronavirus, il cambiamento climatico, le migrazioni) non possono essere risolte da un solo Paese in maniera isolata. Questa è sempre stata la mia posizione: sono convinto che il mondo abbia bisogno di cooperazione e di dialogo. È così che abbiamo rafforzato i legami con il Mercosul (Mercato comune del Sudamerica), fondato la Unasul (un accordo tra 12 Paesi del Sudamerica) e contribuito alla creazione del Celac (Comunità di Stati latinoamericani e caraibici). Abbiamo anche promosso le conferenze dei Brics e del G20. Questo è ciò che ho difeso personalmente dopo la crisi del 2008. Credo sia possibile pensare a un nuovo sistema di governo globale, in cui tutti i Paesi, con le loro diverse esigenze, siano adeguatamente rappresentati: un sistema veramente democratico, che non sia soggetto a veti arbitrari e a egemonie di qualsiasi genere».
Quali Paesi dell’America Latina potrebbero unirsi e collaborare per un nuovo impulso economico e sociale?
«Mi pare necessario pensare a un’integrazione dell’America Latina e del Caribe nel loro insieme, riconoscendo le differenti necessità e potenzialità di ogni Paese. Ma vedo che specialmente gli Stati del Sudamerica, considerando già l’esperienza del Mercosul, possono essere un vettore di questa integrazione. La ripresa dei progetti progressisti in questi Paesi ci aiuterà sicuramente a tornare sulla via dell’integrazione latino-americana».
Come affronterà il problema dei migranti in America Latina? Muri e sbarramenti lungo le frontiere non finiscono per trasformare i Paesi che li hanno costruiti in una terribile prigione in cui le relazioni con l’esterno sono brutalmente interrotte?
«L’accoglienza dei migranti non deve essere considerata un problema, perché lavoreranno nei nostri Paesi, offrendo le loro conoscenze e le loro potenzialità. Il migrante è anche un attore dello sviluppo. Il Brasile sa bene di che cosa stiamo parlando, dal momento che è stato storicamente meta di milioni di europei poveri, molti dei quali italiani, che si sono integrati nella vita brasiliana e hanno contribuito a costruire il nostro Paese. Ma la principale azione per affrontare l’emergenza migratoria sarà sviluppare nel mondo un modello meno disuguale, affinché le persone abbiano condizioni di vita dignitose in qualsiasi luogo del pianeta. Questa è la soluzione reale al problema dei migranti, non l’edificazione di muri e barriere».
Quali sono limiti e i meriti dell’Unione Europea nel rapporto con il Sudamerica?
«Io sono un profondo ammiratore dell’Unione Europea. Ma sappiamo bene che ogni cosa che esiste non è perfetta. Anche l’Ue ha qualche difetto. Però sono convinto che sia un modello di cooperazione e di integrazione, un buon esempio per varie regioni del pianeta. Non possiamo perdere di vista la prospettiva storica. Basta ricordare le tragedie generate dalle guerre tra le grandi potenze europee. Ma non possiamo nemmeno ignorare i decenni di prosperità, sviluppo e pace promossi dall’Ue. Ha consentito a intere generazioni di crescere e vivere in pace. Ecco perché considero l’Unione Europea un patrimonio democratico dell’umanità».
Nuccio Ordine
* Fonte: Corriere della Sera, 16 Jan 2022 (ripresa parziale - senza immagini).
Brasile, Corte suprema annulla le condanne di Lula: l’ex leader si può ricandidare nel 2022
Ripristinati i diritti politici. Ora potrebbe correre contro Bolsonaro alle elezioni del prossimo anno
di Daniele Mastrogiacomo (la Repubblica, 08 Marzo 2021)
Luiz Inácio Lula da Silva torna in campo. Esce pulito dalla lunga vicenda giudiziaria che lo ha inseguito per tre anni. Il giudice del Tribunale Supremo Federale Edson Fachin ha annullato tutti i quattro processi in cui il padre della sinistra brasiliana è imputato. Il motivo è di procedura: il Tribunale che lo ha giudicato e condannato prima a dieci anni e poi in appello a 17, dei quali 580 giorni scontati in carcere, era incompetente. Si azzera tutto. La decisione era nell’aria, il Supremo era chiamato a pronunciarsi sull’ultimo ricorso della difesa.
Le rivelazioni di The Intercept Brazil avevano svelato un rapporto diretto tra il giudice Moro e il pool dei pm dell’inchiesta Lava Jato. Il primo suggeriva ai secondi quali prove trovare e come usarle nello scontro che avevano con il due volte presidente del Brasile. Il Di Pietro brasiliano, con quei messaggi su Telegram, aveva messo in discussione la sua imparzialità. L’accanimento era più che un sospetto.
Lula si è sempre proclamato innocente, ma si è fatto il carcere uscendo a testa alta quando gli sono stati concessi i domiciliari. È rimasto un po’ in silenzio godendosi il suo momento di passione con la sociologa militante del Pt che ha conosciuto durante le giornate di prigione a Curitiba. Poi ha rilasciato interviste, ha partecipato all’ultimo congresso del Pt, ha ascoltato più che parlato e a chi gli chiedeva se tornava sulla scena rispondeva in modo vago. «Io sono sempre qui. Ma ho la mia età, ci sono ottimi dirigenti».
Nell’ultima intervista a El País si era spinto oltre: «Certo, se poi la gente vuole me, mi chiede di tornare in campo, sono pronto. La politica è la mia vita, ho sempre fatto questo». Lula è libero di candidarsi per il 2022. Può fare quello che gli hanno impedito di fare nel 2018. Jair Bolsonaro ha vinto ma non ha stravinto. Haddad ha fatto quello che poteva, candidato solo all’ultimo dopo il lungo tormento all’interno del Pt su cosa fare e chi candidare in attesa di una sentenza assolutoria che invece si trasformò in condanna ancora più severa.
Brasile. I giudici aprono le porte del carcere all’ex presidente Lula
La Corte Suprema ha dichiarato l’incostituzionalità del provvedimento che prevede la carcerazione dopo il secondo grado di giudizio. Una legge ad hoc per impedire la candidatura contro Bolsonaro
di Lucia Capuzzi (Avvenire, venerdì 8 novembre 2019)
Le porte della cella di Luiz Inácio Lula da Silva sembrano sul punto di dischiudersi. Per volontà della Corte Suprema. Il voto decisivo è arrivato nella tarda serata di ieri, per bocca del presidente dell’alto tribunale, il giudice Antonio Dias Toffoli. Fino ad allora, la Corte era stata spaccata a metà: cinque contro cinque. Toffoli ha fatto pendere l’ago della bilancia a favore dei sostenitori dell’incostituzionalità del provvedimento che prevede la carcerazione del condannato dopo il secondo grado di giudizio. La norma, in vigore dal 2016, è stata approvata sull’onda dell’indignazione collettiva contro le tangenti suscitata dalla maxi inchiesta Lava Jato. Da allora, essa ha portato dietro le sbarre 4.894 persone, trentotto delle quali coinvolte in Lava Jato. Tra loro, l’ex presidente Silva recluso, dall’aprile 2018, a Curitiba per scontare una sentenza a otto anni e dieci mesi per corruzione passiva e riciclaggio.
Ora, buona parte - tutti quelli che non rappresentano un pericolo per la società - dovranno essere rilasciati. Incluso Lula che non smette di dichiararsi innocente. Il processo e il verdetto contro quest’ultimo non sono stati abrogati. La liberazione avviene per una questione tecnica.
E’ indubbio, però, che sugli alti togati abbia pesato il mutato clima sociale nei confronti di Lava Jato. A differenza di tre anni fa, l’indagine e il suo protagonista, Sergio Moro, non godono più di consenso unanime. L’ex giudice e ora ministro della Giustizia del governo di Jair Bolsonaro, è stato screditato da un’inchiesta di The Intercept che ha pubblicato, a giugno, una serie di messaggi scambiati via Telegram fra gli inquirenti di Lava Jato.
In alcuni di essi, Moro - che aveva funzione giudicante - sembrava "imbeccare" i pm per "incastrare" gli imputati. Da allora, la Corte Suprema è stata investita di ricorsi. Oltre a quello sulla costituzionalità della carcerazione dopo la seconda istanza, altri due rischiano di distruggere la macchina accusatoria creata da Lava Jato. Nelle prossime settimane, gli alti togati dovranno pronunciarsi sulle modalità di impiego dei collaboratori di giustizia. E sulla legittimità delle azioni dello stesso Moro.
Lula: “Da questa cella combatto per il mio Brasile”
L’ex presidente, Luiz Inacio Lula da Silva, in carcere dall’aprile 2018
di Domenico De Masi (Il Fatto, 20.05.2019)
Dalle 16 alle 17 del 25 aprile scorso il Dipartimento della Polizia Federale del Paranà ha permesso a me e a mia moglie di visitare il presidente Luiz Inácio Lula da Silva nel carcere di Curitiba, dove è detenuto dal 7 aprile 2018 e dove deve scontare altri sette anni di prigionia.
Siamo amici di Lula dal 2003 quando, in sua presenza, Oscar Niemeyer ci consegnò ufficialmente il progetto dell’Auditorium di Ravello. Prima di recarci nella prigione abbiamo pranzato con gli avvocati che lo difendono gratuitamente fin dal primo grado del processo. Ci hanno aggiornato sulla situazione penale del presidente, sullo stato di avanzamento del ricorso al Comitato per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, sulla procedura che avremmo dovuto rispettare nel carcere prima, durante e dopo la visita. In effetti non si tratta di un carcere vero e proprio, ma di una caserma della polizia Federale inaugurata - ironia della sorte - proprio da Lula nel 2007, quando era presidente, e ora usata come carcere speciale per i principali condannati nell’ambito dell’operazione Lava Jato, la versione brasiliana di Mani Pulite, condotta dal giudice Moro, poi gratificato dal presidente Jair Bolsonaro con ben due ministeri riuniti in un super-ministero della Giustizia e della Sicurezza pubblica.
Per arrivare alla cella di Lula siamo stati presi in consegna da un militare giovane e gentile che sovrintende a tutta la giornata del prigioniero; siamo stati sottoposti a un’attenta ma cortese perquisizione da parte di due poliziotte; abbiamo salito le scale che portano al piano superiore e siamo passati accanto a un microscopico cortile con alti muri di cinta che lasciano intravedere in alto solo un quadrato di cielo: è il luogo dove Lula, se vuole, può trascorrere l’ora d’aria quotidiana. Un piccolo corridoio porta alla cella del prigioniero. Davanti alla porta due guardie vigilano notte e giorno le telecamere a circuito chiuso .
Lula ci accoglie con visibile affetto. Indossa una tuta, ci fa sedere a un tavolino di plastica con quattro sedie. Insieme a un letto che mi colpisce per la sua piccolezza, a uno scaffale, a un armadio, a un comodino, a un televisore (abilitato solo a tre canali nazionali) e a una cyclette (su cui fa sette chilometri al giorno per tenersi allenato), è tutto ciò che arreda una stanza di circa quattro metri per cinque. Qui Lula è condannato a stare in totale isolamento 24 ore su 24. Il lunedì, se vuole, può ricevere un cappellano; il giovedì, dalle 16 alle 17, può ricevere una o al massimo due persone, dietro permesso della direzione della prigione. L’unico conforto gli viene dalle voci che gli arrivano dall’esterno del carcere, dove un presidio di un centinaio di compagni convenuti da tutto il Brasile è attendato a turno, notte e giorno, e gli augura a gran voce il buon giorno, la buona notte, la libertà.
Lula non è un intellettuale e quindi la lettura gli fa compagnia meno di quanta ne farebbe a me. Lui ha fatto studi sgangherati, anche se è il presidente del Brasile che ha creato il maggior numero di università disseminate in tutto il paese. -Mi dice: “Mia madre era analfabeta e io sono ignorante. Ma mi chiedo come fanno tanti politici e tanti magistrati, pure essendo istruiti, a commettere errori e ingiustizie così gravi”. E poi aggiunge: “Sono ignorante, eppure avevo previsto la crisi prima di Tony Blair, prima di Putin, prima di Obama. Soprattutto avevo previsto che il prezzo maggiore l’avrebbero pagato i lavoratori”.
La figlia gli ha fatto avere un termos di caffè. Ce ne offre con la fugace felicità di poterci accogliere quasi come se stessimo a casa sua. Parliamo dell’Italia: ricorda i suoi incontri ufficiali con Craxi, Berlinguer e Andreotti; i suoi seminari con i sindacalisti della Cgil e della Cisl. Si rammarica di essere stato solo una volta a Napoli: per assistere a una partita di Maradona. Sogna di tornare a visitare la toscana, ma è consapevole che il sogno non si avvererà. “Il Pci, tramutandosi man mano in Pd, ha dimenticato il popolo”, dice con la sua solita, fulminante lucidità.
Si accorge che io guardo la cella con malcelato sgomento e mi dice: “Non preoccuparti: sono vissuto per anni, insieme a mia madre e ai miei sette fratelli, in una stanza molto peggiore di questa, nel retrobottega di un bar di San Paolo”. Ha fatto il lustrascarpe, il venditore ambulante, l’operaio in una fabbrica metalmeccanica dove, a 19 anni, ha lasciato un dito sotto una pressa.
Mi chiede cosa penso dell’attuale situazione politica nell’Occidente e dello stato di salute della democrazia. Gli dico che sto leggendo Postdemocrazia di Colin Crouch e mi è sempre più chiaro perché il neo-liberismo non poteva non fare piazza pulita di tutte le grandi riforme che lui ha realizzato durante gli otto anni della sua presidenza: Bolsa Família, Fome zero, Programa de Aceleração do Crescimento, difesa dell’Amazzonia, promozione dell’agricoltura familiare, Brasil Sem Miseria, aumento della scolarizzazione, tutti i programmi di welfare grazie ai quali 40 milioni di brasiliani hanno scalato i gradini sociali e il 54% ha raggiunto la classe media.
A ripercorrerlo oggi con la memoria, sembrano miracolosi gli anni in cui tutto questo si potette fare ed è lampante il motivo per cui il capitalismo non poteva tollerarlo. Non a caso Warren Buffet, il quarto uomo più ricco del mondo, ha detto senza ritegno: “La lotta di classe esiste, siamo noi ricchi che la stiamo conducendo, e la stiamo vincendo”.
Lula è in gran forma, lucido e combattivo come non mai, per nulla fiaccato da un anno di isolamento carcerario. È consapevole che, in America e in Europa, la sinistra non uscirà alla svelta dalla situazione in cui si è cacciata e che ora ha davanti a sé una lunga marcia da compiere. Anche i processi, le condanne, l’odio scatenato contro il Partito dei Lavoratori (Pt), le colpe vere che il Pt ha commesso e quelle che gli sono state cucite addosso dai mass media implacabili e concentrici, sono come un grande seminario, una grande auto-analisi alla quale la sinistra è costretta e dalla quale uscirà migliorata.
Parliamo dei social media e del ruolo che essi hanno svolto nelle ultime elezioni brasiliane: Bolsonaro ha 7 milioni di follower su Facebook e 3,5 su Linkedin, oltre ad avere alle spalle la guida e la protezione di Bennon.
Mi ricorda che qualche mese fa è morto un suo nipotino e il figlio di Bolsonaro ha esultato twittando che si trattava di una giusta punizione divina. Mi dice pure che quando sua moglie, morta di cancro, andò a farsi la prima tac, il referto apparve su Facebook prima di essere comunicato a lei e a lui. A suo avviso, comunque, il rapporto fisico, diretto, con il popolo, resta assi più umano, caldo, convincente di quello via internet. Insieme ci chiediamo - senza saper dare una risposta - come mai, in tutto il mondo, la destra usa internet con maggiore frequenza e maggiore efficacia della sinistra. Comunque la destra indulge alle fake news con una spregiudicatezza immorale che sarebbe impraticabile da parte di una sinistra coerente con i propri valori.
Gli faccio notare che prima le bugie erano monopolio dei potenti - direttori di giornali, capi di Stato, ecc. - mentre ora, grazie a internet, sono alla portata di tutti: internet ha democratizzato la falsità. Ci fa notare che, nella società postindustriale, le dittature si appropriano del potere con modi e tecniche affatto diverse da quelle cui eravamo abituati nella società rurale e in quella industriale. Oggi, per fare un golpe, non occorrono più i manganelli e i carri armati: basta l’azione combinata di quattro strumenti: i media, la magistratura, i social media e le libere elezioni. Con i media si manipolano le masse demonizzando gli avversari e rendendone ovvia e attesa l’eliminazione; con la magistratura li si mette in galera eliminandoli dalla competizione elettorale; con i social media si vincono le elezioni; con le elezioni si assicura un alibi democratico alla dittatura.
In questo modo il Brasile è passato in soli tre anni da una democrazia compiuta a una post-democrazia in cui il presidente Bolsonaro, il vice-presidente e sette ministri sono militari. E, per colmo del paradosso, i militari, rispetto a Bolsonaro a suoi tre figli energumeni che lo affiancano notte e giorno, appaiono come altrettanti saggi moderati.
Lula ci parla con calore e affetto. Soprattutto con la sottintesa consapevolezza della propria qualità di leader e del proprio ruolo di guida morale. Sa che in carcere sta conducendo la sua ultima battaglia, quella per il riconoscimento della propria innocenza; sa che da questa cella angusta deve riuscire a smascherare il “golpe” realizzato contro di lui, contro il Pt e contro i lavoratori tutti, dalla destra brasiliana in combutta con gli Stati Uniti di Donald Trump. Ma soprattutto è cosciente che in questi pochi metri quadri si compie un piccolo pezzo di storia sua personale e del Brasile.
Un’ora passa presto. Il carceriere ci ricorda che i 60 minuti sono scaduti. Lula ci lascia con tre viatici: sua madre gli ha sempre raccomandato la dignità e lui non la baratterà mai con la libertà. Ora ha 72 anni di età e ha da scontare altri sette anni di pena. Gli piacerebbe vivere in casa con i figli e i nipotini, ma non accetterebbe mai gli arresti domiciliari o il braccialetto elettronico. Si batterà fino alla fine per il riconoscimento della propria innocenza ma, se non riuscirà a dimostrarla, morirà in questa stanza, dignitosamente.
Sulla porta, prima che noi lo lasciamo nella sua solitudine coatta, tiene a dirci ancora due o tre cose: “Se, fuori di qui, parlerete di questo nostro incontro, riferitelo in piena libertà, con le parole che vi suggerisce il cuore. Però intrattenetevi un poco con i compagni che presidiano la prigione per farmi sentire il loro affetto, riferite loro la mia gratitudine e ditegli, per conto mio, che la lotta è di lunga durata e che la dignità non può essere barattata con nulla”.
Strana storia questa del Brasile, paese grande e incomparabile, dove però Bolsonaro vive nel palazzo presidenziale di Brasilia e Lula vive in una cella di pochi metri quadrati.
Manuela D’Avila, lampi di sinistra brasiliana nel ciclone Bolsonaro
L’intervista. «Se abbiamo perso è per le nostre incapacità, non solo per la forza della destra. Ma l’autocritica ora va fatta con la prassi». Candidata alla vicepresidenza con Haddad, l’astro nascente del PCdoB analizza la sconfitta e racconta il regime che verrà. «Stiamo vivendo una crisi strutturale in cui il capitalismo ha sempre meno bisogno della democrazia e tutto si sposta sulla disputa per le risorse naturali»
intervista di Claudia Fanti (il manifesto, 14.12.2018)
Per molti Manuela D’Avila sarebbe stata un’ottima vicepresidente del Brasile. Astro nascente della sinistra brasiliana insieme a Guilherme Boulos del Psol, l’appena 37enne deputata federale di Porto Alegre, lanciata dal suo partito, il PCdoB (Partito Comunista del Brasile) come pre-candidata alla presidenza, aveva rinunciato in agosto a una candidatura propria optando per una coalizione con il Pt, di cui il PCdoB è sempre stato alleato. Sostenitrice della necessità di un’alleanza tra tutti i candidati progressisti, Manuela avrebbe dovuto presentarsi in coppia con Lula, che l’aveva scelta preferendola a molti altri nomi.
Ma il sogno della sinistra di un «Brasile felice di nuovo» ha lasciato spazio al peggiore degli incubi. Dalle dichiarazioni di guerra di Bolsonaro - contro la sinistra, i senza terra, gli indigeni, l’ambiente - alla sottomissione già annunciata agli interessi degli Stati uniti, per finire con l’incompetenza e l’improvvisazione di cui sta già dando prova la futura compagine governativa, tutto indica che i prossimi quattro anni saranno per il Brasile uno dei periodi più oscuri della sua storia.
Ne abbiamo parlato con Manuela D’Avila, la giovane candidata alla vicepresidenza in coppia con Fernando Haddad, in visita in Italia su invito di Rifondazione comunista, che per lei ha organizzato due incontri pubblici: uno a Napoli, che si è svolto ieri con la partecipazione del sindaco Luigi de Magistris, e uno a Roma, che si terrà oggi alle 18 alla Casa Internazionale delle Donne, con la presenza di Luigi Ferrajoli e dell’europarlamentare Eleonora Forenza.
Tra annunci, smentite e scandali vari, iniziano a sorgere i primi dubbi sulla tenuta del prossimo governo. Riuscirà il governo Bolsonaro a restare in piedi per quattro anni?
All’interno del futuro governo è facile cogliere già molte contraddizioni tra le varie anime della destra, insieme alla mancanza di uno spazio di dialogo e a una tendenza a penalizzare il potere legislativo. E tutto ciò potrebbe tradursi in un inasprimento del discorso del presidente contro le forze progressiste. Perché, nella misura in cui faticherà a conservare la compattezza interna, avrà bisogno di tenere uniti gli alleati attorno a quella che è stata la sua principale bandiera elettorale: l’odio contro la sinistra e i movimenti popolari.
I primi passi di quella che non a caso è stata chiamata «armata Bolsoleone» sono risultati disastrosi per l’immagine del Brasile. Cosa pensa delle nomine dei ministri da parte del presidente eletto?
La presenza di militari nel governo supera quella di qualsiasi altro periodo della storia brasiliana. Ma il discorso d’odio viene maggiormente da altri settori. Ho l’impressione che le persone, concentrandosi di più sulla forte componente militare del governo, trascurino il carattere violento e autoritario degli altri ministri. Abbiamo per esempio un ministro dell’Ambiente, Ricardo Salles, che ha definito «irrilevante» la questione del riscaldamento globale, indicando «l’uso del fucile» come forma di soluzione dei conflitti con la sinistra e con i senza terra. Abbiamo una ministra della Donna, della famiglia e dei diritti umani, la pastora evangelica Damares Alves, che propone una riforma della legislazione sull’aborto per obbligare a partorire le donne vittime di violenza sessuale, in un Paese in cui si registra uno stupro ogni 11 minuti. Abbiamo, ancora, una ministra dell’Agricoltura, Tereza Cristina, già a capo della potente bancada ruralista, nota per la difesa incondizionata degli interessi dei latifondisti, e un ministro degli Esteri ammiratore di Trump, Ernesto Araújo, che ha annunciato l’uscita del Brasile dal Patto globale sulle migrazioni. E parliamo di un paese che ospita più italiani di quanti ve ne siano a Roma e più libanesi che il Libano.
Lo scandalo delle transazioni sospette sul conto dell’ex autista di Flávio Bolsonaro, Fabrício Queiroz - compreso un versamento di 24mila reais a favore della moglie del futuro presidente -, coinvolge in pieno tutta la famiglia dell’ex capitano. Anche in questo caso l’organo giudiziario guarderà da un’altra parte?
Per avere un’idea delle proporzioni dello scandalo, basti pensare che il denaro passato per il conto di Fabrício Queiroz supera il prezzo dell’immobile attribuito a Lula per il quale l’ex presidente è stato condannato. E in questo caso parliamo dell’autista del figlio del presidente eletto, che per di più vive in una casa povera di Rio. Oltretutto, l’organismo di controllo finanziario disponeva di queste informazioni prima che si svolgessero le elezioni presidenziali, ma è soltanto ora che le ha rese pubbliche. Ha adottato, cioè, una linea opposta a quella seguita dal giudice Sérgio Moro, il quale ha divulgato le denunce rivolte contro Lula dal suo ex ministro dell’Economia Antonio Palocci a meno di una settimana dal primo turno. Del resto, la nomina di Moro a ministro della Giustizia è la conferma della tendenza in atto alla giudiziarizzazione della politica.
Come si spiega che dopo 13 anni di governo del Pt il popolo abbia finito per votare Bolsonaro? Non significa forse che a livello di formazione politica e di organizzazione della classe lavoratrice la sinistra ha sbagliato qualcosa?
Noi siamo stati sconfitti sul piano della narrazione relativa alle responsabilità della crisi economica. È a partire dalle manifestazioni di protesta del 2013 che l’élite brasiliana ha iniziato a imporre, dietro la bandiera della lotta alla corruzione, un discorso fortemente conservatore e antidemocratico. E malgrado Dilma abbia vinto le presidenziali nel 2014, l’opposizione le ha di fatto impedito di governare, bocciando tutte le misure dirette a condurre il paese fuori dalla recessione, che era dovuta alla crisi economica internazionale. Finché, nel 2016, non è riuscita a rovesciarla e a dare vita a un governo che, a colpi di riforme ultraneoliberiste, non ha fatto altro che aggravare la crisi. Ma sempre sulla base di una versione che ha scaricato la colpa della recessione sulla sinistra e sul governo Dilma, anziché sulla crisi del capitalismo globale.
Ma c’è spazio anche per un’autocritica?
Se abbiamo perso, non è solo per la forza della destra, ma anche per le nostre incapacità, a partire dall’errore di non aver puntato su forme di comunicazione diretta con la popolazione. Ma l’idea che l’autocritica debba essere fatta in sala riunioni e scritta su carta è anti-rivoluzionaria. La sinistra fa autocritica a livello di prassi. Nel nostro programma abbiamo già esposto successi ed errori. Ma ricondurre l’impeachment agli errori della sinistra significa disconoscere come opera il capitalismo, come si organizzano le élite e come al centro del processo politico ci sia quella cosa chiamata lotta di classe. Stiamo vivendo una crisi strutturale in cui il capitalismo ha sempre meno bisogno della democrazia e tutto si sposta sulla disputa per le risorse naturali. Perché tanta attenzione sul Venezuela? Perché possiede enormi giacimenti di petrolio e condivide la frontiera con il Brasile lungo la regione amazzonica, ricca di acqua, biodiversità, ricchezze minerarie.
Quali sfide attendono la sinistra?
In Parlamento, l’opposizione sarà chiamata a contrastare le misure che adotterà il governo, a partire dalla privatizzazione delle risorse strategiche del nostro paese. Ma, allo stesso tempo, il nostro sforzo dovrà essere diretto a costruire un fronte ampio, e non solo di sinistra, in difesa della democrazia. Perché, con un presidente che annuncia una persecuzione formale delle organizzazioni di sinistra e una serie di ministri impegnati a portare avanti un discorso pieno d’odio contro le forze progressiste e a considerare omicidi come quello di Marielle Franco come «cose della vita», non sono solo le conquiste sociali ottenute negli ultimi anni a essere minacciate, ma lo stesso tessuto democratico del paese.
I colpi di Stato senza militari che mettono alla prova la democrazia
di Juan Luis Cebrian (La Stampa, 02.11.2018)
Quando Curzio Malaparte scrisse “Tecnica del colpo di stato” non immaginava che, col passare del tempo, i processi di sostituzione del potere costituito con metodi illegali sarebbero migliorati in modo consistente grazie ai progressi della tecnologia e ai nuovi equilibri della società. Corrono voci insistenti secondo le quali Jair Bolsonaro, vincitore indiscusso del secondo turno delle elezioni brasiliane, sarà presidente del Paese grazie a un piano premeditato contro il potere legittimo del Pt (il partito dei lavoratori guidato da Lula), quando forze più o meno occulte andarono all’attacco della presidenza di Dilma Rousseff. Da lì ebbe inizio, in modo apparentemente rispettoso degli usi democratici, anche se non altrettanto delle regole del gioco, l’offensiva neofascista che sarebbe culminata nella vittoria elettorale di domenica.
Anche in Spagna i separatisti catalani sono stati accusati dai partiti fedeli alla Costituzione di aver tentato un colpo di stato quando hanno approvato unilateralmente l’indipendenza. Molti autori affermano che i colpi di stato classici, con gli appelli all’esercito e all’uso della forza, non si usano più. Si parla, ad esempio, di golpe finanziario, se si manipolano le quotazioni di Borsa e il tasso di cambio per indebolire o far cadere i governi, e di autogolpe quando il potere costituito si mette scientemente in pericolo per cercare di perpetuarsi, come nel Perù di Fujimori.
Il fantasma di Bannon
L’uso dei social network per influenzare le elezioni diffondendo notizie false e voci diffamatorie su questo o quel candidato è un altro modo per distorcere la realtà e screditare l’avversario e per cercare di sconfiggerlo alle urne. I movimenti populisti, da Trump a Salvini, mettono costantemente in atto questo metodo con risultati non disprezzabili. Gli oppositori di Bolsonaro accusano Steve Bannon, senza portare alcuna prova, di aver contribuito a sobillare i social network contro i partiti di sinistra. Sia vero o no, gli obiettivi e l’ideologia dell’ ex capo della campagna elettorale di Trump sostanzialmente coincidono con il pensiero del nuovo presidente del Brasile, e sono contigui agli impulsi antidemocratici dei governanti della Polonia o dell’Ungheria, e anche a quelli dei sostenitori del caotico governo italiano. Però anche la vittoria nel Paese del samba di questo ex capitano espulso dall’esercito, xenofobo, razzista e anti-femminista, una specie di maschio alfa prestato alla politica, si deve all’ indignazione popolare per le conseguenze della crisi finanziaria ed economica e all’aumento delle disuguaglianze. La demagogia populista sa come alimentare queste passioni per poi placarle con promesse che non potranno mai essere mantenute.
Il pretesto della corruzione
La corruzione, diffusa non solo in America Latina, per quanto enorme, non cessa di essere un pretesto per suscitare ulteriore malcontento. In Brasile, come nella maggior parte dei Paesi democratici, trova le sue motivazioni nel finanziamento delle campagne elettorali. L’uso di Petrobras, colosso petrolifero di proprietà pubblica, per ottenere fondi per tali fini, è cominciata certamente molto prima del governo di Fernando Henrique Cardoso, iniziale artefice del cosiddetto miracolo brasiliano, il cui impatto economico è stato proseguito dai governi di Lula da Silva.
Dopo la giornata di domenica, il Paese è stato diviso in due parti, e anche questa estrema polarizzazione è un segno dei tempi. C’è chi sostiene che se si fosse espresso oltre il 20% di chi si è astenuto o ha annullato il voto, il risultato sarebbe stato diverso, ma è un argomento discutibile. La verità è che Bolsonaro ha unito tutte le forze conservatrici e che, incredibilmente, anche i liberali hanno aderito alle sue proposte di estrema destra, che minacciano di distruggere il tessuto politico brasiliano. A lui si è contrapposto un candidato indebolito anche dal calendario, perché è stato scelto poco prima delle elezioni, dopo che i tribunali avevano vietato la candidatura di Lula, debole nel suo tentativo di proseguire sulla strada delle politiche socialdemocratiche caldeggiate dai moderati del Pt. I suoi leader hanno dimenticato che l’insicurezza dei cittadini e la crescente violenza delle mafie sono tra i motivi del consenso elettorale di chi promette legge e ordine, anche a costo di mettere a ferro e fuoco il Paese.
Le troppe brutalità
Anche se nelle sue prime dichiarazioni dopo la vittoria Bolsonaro ha cercato di moderare la brutalità del suo linguaggio, nessuno dimentica che durante la campagna elettorale aveva detto che i rossi potevano solo scegliere la prigione o l’esilio e persino che bisognava fucilare gli esponenti del Pt. Il partito e l’ex presidente Lula sono stati demonizzati all’estremo durante la campagna elettorale, ma hanno ancora la rappresentanza più forte in un Parlamento, frammentato in dozzine di gruppi diversi.
Nel breve termine si prevede che l’economia del Paese rimanga stabile, ma i rischi di destabilizzazione politica e la tentazione dell’ala più a sinistra del Pt di portare l’opposizione in piazza disegnano un orizzonte incerto. Le istituzioni democratiche saranno messe seriamente alla prova. Con un esecutivo che fa la voce grossa e una legislatura di maggioranze quasi impossibili, molti democratici guardano ai tribunali come l’unica barriera contro la deriva autoritaria. E anche se un settore considerevole dei giudici si è politicizzato (è sufficiente vedere il destino del presidente Lula) la speranza in una giustizia indipendente appare l’ultimo baluardo per proteggere le minoranze dallo tsunami che si è scatenato domenica scorsa.
(Traduzione di Carla Reschia)
Austerità, armi libere e militari al potere
Ecco la ricetta di Bolsonaro per il Brasile
Il neo presidente punta ad eliminare burocrazia e corruzione dello Stato nei primi cento giorni di mandato
di Emiliano Guanella (La Stampa 30.10.2018)
SAN PAOLO. «Più Brasile e meno Brasilia» per Jair Bolsonaro, che già questa settimana, però, dovrà affrontare i meandri politici della capitale per iniziare a disegnare la sua squadra di governo. Sebbene si sia presentato come il candidato anti-sistema, Bolsonaro conosce alla perfezione il «mostro» burocratico da dove si controlla la politica brasiliana; è stato deputato per 28 anni di fila, passando da nove partiti differenti, compreso quel PP (partito progressista, anche se in realtà è di destra) che si è alleato con Lula da Silva e Dilma Rousseff e ha fatto parte dello schema di corruzione della Petrobras.
Bolsonaro ha promesso di fare piazza pulita della vecchia politica di favori e alleanze, il «toma là da cà» (prendi questo, dammi quello) che da sempre regna nei corridoi dei palazzi progettati da Oscar Niemeyer. «Ci impegniamo - ha detto - a snellire lo Stato, a liberarlo dalla burocrazia e dalla pressione fiscale enorme sui cittadini che non ricevono nulla in cambio». Pensa ad austerità, rigore e disciplina militare, tanto che ha già ipotecato almeno quattro ministeri a generali o ex generali; Difesa, Trasporti, Educazione e Scienza e Tecnologia. «I militari - ha spiegato - sono meno corrompibili perché i civili hanno sempre paura delle uniformi».
Dalle promesse ai fatti
Dopo le promesse e le fake news di campagna adesso è giunto il momento di pensare a cosa fare nei primi 100 giorni, approfittando della luna di miele data dai mercati. Il Brasile è fermo, dopo la recessione del 2015-2016 la crescita è troppo lenta, non si può perdere tempo. Bolsonaro ha delegato la «questione economica» al neoliberista Paulo Guedes, ex banchiere, scuola di Chicago Boys e garante del governo davanti agli operatori finanziari. Guedes ieri ha spiegato che uno dei primi obiettivi del 2019 sarà quello di azzerare il deficit fiscale, pari oggi al 8% del Pil. Il primo scoglio è la necessaria riforma della previdenza, ma per Bolsonaro non sarà facile visto che dovrà toccare anche gli enormi privilegi dei militari, che in alcuni casi vanno in pensione a 50 anni.
I limiti del budget
L’ex capitano vorrebbe investire molto su sicurezza e infrastrutture, ma deve fare i conti con le ristrettezze della finanziaria 2019. La spesa pubblica rappresenta il 19,3% del Pil e il 93% sono spese obbligatorie che non si possono toccare; in cassa da spendere ci saranno poco più di 25 miliardi di euro, non l’ideale per un governo che inizia. Nel toto ministri ieri è circolato anche il nome di Sergio Moro alla Giustizia. Moro è il cervello della Mani Pulite brasiliana ed è stato il grande accusatore di Lula da Silva; non ha mai nascosto le sue simpatie di un «cambiamento generale» del sistema politico, ma andare al governo sarebbe per lui una mossa forse troppo azzardata. L’alternativa potrebbe essere un posto alla Corte Suprema, visto che Bolsonaro potrà nominare due giudici.
Più vicino a Donald
In politica estera si dà per scontato il riconoscimento di Gerusalemme capitale d’Israele e un maggiore avvicinamento con gli Stati Uniti di Donald Trump, che ha chiamato per congratularsi. I primi viaggi ufficiali del neo presidente del Brasile saranno in Cile e, per l’appunto, negli Stati Uniti. All’Italia Bolsonaro ha promesso l’estradizione di Cesare Battisti, ma il caso è fermo alla Corte Suprema e, almeno per i prossimi mesi, non dipenderà molto da lui.
Tra i progetti considerati prioritari c’è la liberalizzazione del porto d’armi; per farlo basta una maggioranza semplice nel Congresso e la lobby dei fabbricanti capitanata dalla brasiliana Taurus, le cui azioni ieri sono schizzate in Borsa, ha già pronto il progetto di legge. Più complesso, invece, l’iter per ridurre l’età punibile per legge da 18 a 16 anni, che richiede di una maggioranza di tre quinti dei parlamentari. Il pallottoliere mostra oggi 108 deputati fedelissimi a Bolsonaro, 165 all’opposizione e ben 240 deputati di centro pronti a pendere da una parte o dall’altra secondo l’opportunità. Il famoso «centrao» è composto da una dozzina di partiti che sarebbero disposti ad appoggiare il governo ma che difficilmente lo faranno gratuitamente. Bolsonaro ha ripetuto più volte che non farà accordi sullo stile della «vecchia maniera» e ha promesso che ridurrà il numero di ministeri dagli attuali 27 a 15. Ma sarà davvero difficile ottenere l’appoggio di tutti senza scontentare nessuno.
Il Brasile fa tremare le vene dell’America Latina
Democrazia in pericolo. "Fenomeno" Bolsonaro. Perché le classi dominanti si sono sbilanciate a favore di una sorta di neo fascista psicopatico. Dal Venezuela a Cuba, le conseguenze non si faranno attendere
di Roberto Livi (il manifesto, 30.10.2018)
La netta vittoria (55% dei voti contro il 45%) di Jair Bolsonaro mette in pericolo 30 anni di ritorno alla democrazia in Brasile. Questa volta un candidato neo fascista, apertamente favorevole alla repressione violenta di ogni forma di opposizione e organizzazione popolare, sale al potere non grazie alla forza delle armi ma a un consenso popolare basato su un pericolosissimo cocktail: da un lato un (falso) populismo nazionalista e antisistema, dall’altro l’appoggio della corrente più integralista dell’evangelismo americano, scatenato in una guerra senza quartiere a Sodoma e Gomorra. Non è solo il Brasile che trema. Bolsonaro sarà il presidente di estrema destra in una regione dove di recente gli elettori hanno scelto leader conservatori o di destra in paesi come Argentina, Cile, Paraguay, Perù e Colombia. Il Cono sud dell’America latina corre il pericolo di precipitare - se non ai tempi orribili dell’Operazione Condor condotta dalle dittature militari di Pinochet e Videla - nella tenaglia di un blocco autoritario, neoliberista e subordinato alla politica imperiale degli Usa ai tempi di Trump.
LE CONSEGUENZE non tarderanno a farsi sentire per il Venezuela bolivariano, che vede alle sue fontiere due governi di destra (Colombia) ed estrema destra (Brasile) pronti ad appoggiare un’eventuale azione militare «umanitaria» degli Stati uniti. E per Cuba che torna a subire una politica da guerra fredda da parte dell’Amministrazione di superfalchi di Donald Trump.
Fernando Haddad, il candidato sconfitto del partito dei lavoratori (Pt) lo ha detto chiaramente e con coraggio nel suo intervento dopo i risultati finali delle presidenziali: il Brasile popolare deve prepararsi a un periodo di resistenza e di lotta per la democrazia. Non si tratta di difendere un partito o una parte della sinistra ma di organizzare un vasto movimento popolare per la difesa della libertà di espressione e di organizzazione popolare e della vita democratica. Nel gigante sudamericano vi sono molti movimenti popolari e di lotta sociale, dai Senza terra ai Senza tetto, dagli ecologisti alle femministe. Tutti sono ora in pericolo. «O se ne vanno fuori del paese o vanno in galera», è la ricetta promessa da Bolsonaro.
IL SUO PROGRAMMA di sicurezza fa tremare le vene: pene più severe e riduzione dell’età (a 16 anni) per essere responsabili penalmente, armi per tutti e licenza d’uccidere per le forze dell’ordine, che già hanno un triste primato continentale. Secondo, il Forum Brasileiro de Segurança Pública, tenuto conto delle proporzioni tra le popolazioni, la polizia brasiliana uccide 19 volte di più di quella statunitense. A Bolsonaro però va bene così perché «un poliziotto che non uccide non è un poliziotto».
Il nuovo presidente ha promesso mano dura anche contro le riserve degli indios e le aree di conservazione dell’Amazzonia, le principali barriere di contenimento alla devastazione della più grande foresta tropicale e polmone verde del mondo. «Non avranno nemmeno un centimetro di terra». Il ministero dell’Ambiente sarà incorporato a quello dell’Agricoltura che - parola di Bolsonaro - agirà in consonanza col «settore produttivo». Ovvero lascerà «mano libera» all’agrobusiness, ai pascoli delle grandi fazendas, ai latifondisti della soja, alle attività minerarie e ai grileiros, potenti locali che si impadroniscono delle terre pubbliche a colpi di pistola. E che poi le disboscano selvaggiamente.
IL “FENOMENO” BOLSONARO - un parlamentare semisconosciuto che in 28 anni non è riuscito a far approvare un solo progetto di legge e che vede il suo partito passare da un pugno di parlamentari a 53 deputati - non si può spiegare senza l’appoggio dei poteri forti militari, economici e finanziari e dei maggiori mass media.
Perché le classi dominanti si sono sbilanciate a favore di una sorta di psicopatico come Bolsonaro, il cui prossimo governo, come afferma l’analista Xosé Hermida, promette una società polarizzata e «con licenza di odiare»? Come osserva Gramsci nei Quaderni, in situazione di «crisi organica», quando si produce una rottura nell’articolazione esistente tra le classi dominanti e i loro rappresentanti politici e intellettuali, la borghesia e i suoi alleati si sbarazzano dei loro portavoce tradizionali e cercano una figura provvidenziale che permetta di affrontare le sfide del momento.
IN QUESTO CASO le classi dominanti brasiliani si propongono di portare a compimento il “golpe” attuato due anni fa con Temer e che l’attuale presidente - e i suoi alleati conservatori - non sono stati in grado di assicurare: mettere un punto finale all’”eredità” dei governi del Pt. E iniziare un’epoca di neoliberismo con un presidente malleabile, che si affida in materia economica a un Chicago boy col turbo, Paulo Guedes, con una sola filosofia: privatizzare e privatizzare.
Di recente un noto commentatore “liberal” ha affermato che in questa fase i nemici della democrazia in America latina rischiano di essere i giudici (che in Brasile hanno messo in galera Lula) e non i generali. E che questa situazione rappresenta «un progresso» per il subcontinente. L’elezione di Bolsonaro è una solenne smentita.
Brasile, Corte d’Appello ordina scarcerazione dell’ex presidente Lula. Giudice federale si oppone: tutto bloccato
Il giudice Sergio Moro, che ha condannato il fondatore del partito dei lavoratori per corruzione, si è opposto alla scarcerazione, affermando che il magistrato che l’ha decisa non ne abbia la competenza. La polizia federale brasiliana non applica l’ordine di scarcerazione e attende la decisione del responsabile del caso, il giudice di secondo grado João Pedro Gebran Neto. Che alla fine si mette di traverso: l’ex presidente resta in carcere
Scarcerate l’ex presidente Luis Inacio Lula da Silva. È quanto ordinato da una Corte d’appello brasiliana in merito alla posizione dell’ex capo di Stato, in carcere da aprile per corruzione. Lula potrebbe essere liberato nelle prossime ore poiché la decisione dei giudici stabilisce che la liberazione debba avvenire “secondo il regime d’urgenza nella data di oggi, presentando questo ordine a qualsiasi autorità di polizia presente sul luogo della polizia federale di Curitiba“. Qui, infatti, è incarcerato l’ex presidente e fondatore del Partito dei lavoratori (PT). Lula, tuttora in testa ai sondaggi in vista delle elezioni presidenziali di ottobre, si è sempre dichiarato innocente, nonostante sia stato condannato a 12 anni e un mese per corruzione legata a un appartamento con vista mare, il ‘Triplex de Guarajà‘, sul litorale di San Paolo. L’accusa è che abbia ricevuto l’appartamento in cambio di favori a un’impresa edile. Condannato in secondo grado per corruzione e riciclaggio di denaro, Lula ha cominciato a scontare la pena il 7 aprile in un carcere di Curitiba, nel Paranà. Intanto, i suoi legali hanno presentato nuovi ricorsi in tribunale, chiedendo la scarcerazione. Secondo la legge Ficha limpa, approvata dallo stesso governo Lula nel 2010, chi sia stato condannato in secondo grado non può presentarsi alle elezioni.
IL GIUDICE CHE HA CONDANNATO LULA: “NON VA SCARCERATO”
Il giudice Sergio Moro, che ha condannato l’ex presidente brasiliano, nel frattempo si è opposto alla scarcerazione, affermando che il magistrato che l’ha decisa non ne abbia la competenza. La decisione è stata presa da uno dei giudici Tribunale regionale federale della 4° regione, di Porto Alegre, corte d’appello che aveva aumentato da 9 anni e 6 mesi a 12 anni e un mese la condanna al carcere nei confronti dell’ex presidente. Si tratta del giudice Rogério Favretto, che ha deciso di accettare una domanda di Habeas corpus presentata venerdì da vari deputati del PT. Quest’ultimo, a sua volta, ha parlato di “decisione motivata e di rispetto allo Stato democratico di diritto. Comincia a essere ripristinato il processo legale”. Lo ha scritto su Twitter Gleisi Hoffmann, senatrice brasiliana e presidente del Partito dei lavoratori (PT) fondato da Lula. A proposito dell’opposizione del giudice Sergio Moro, Hoffman ha parlato di “manifestazione politica”, affermando che “Moro non può non rispettare o interferire in una decisione di grado superiore“.
SCONTRO TRA GIUDICI, LULA RESTA IN CARCERE (PER ORA)
Non si è fatta attendere la presa di posizione della ex presidente brasiliana, Dilma Rousseff, che su Twitter ha scritto: “Un giudice della Corte d’appello del TRF4 ha deciso il rilascio immediato di Lula, concedendo l’Habeas corpus. La decisione del giudice deve essere obbedita, anche se contraria la posizione del giudice federale del Paranà che ufficialmente è in ferie e non potrebbe esprimersi. #LulaLivreAgora (Lula libero adesso)”.
Resta il fatto che la polizia federale brasiliana non intende per ora applicare l’ordine di scarcerazione. Il motivo? Proprio le parole del giudice Sergio Moro, secondo cui - come detto - il magistrato che ha ordinato la liberazione non ne abbia la competenza. La polizia del Paranà, che è solita lavorare in sintonia con Moro, intende attendere - come vuole
Moro - la decisione del responsabile del caso, il giudice di secondo grado João Pedro Gebran Neto. Quest’ultimo, che è relatore del processo Lava Jato in secondo grado, a sua volta ha stabilito che non sia eseguito l’ordine di scarcerazione deciso dal magistrato Rogério Favreto: “Stabilisco che l’autorità applicante e la polizia federale del Paranà si astengano da qualsiasi atto che modifichi la decisione” sulla carcerazione di Lula, ha scritto, secondo quanto riporta Globo.
Brasile: Lula si è consegnato alla polizia
L’ex presidente brasiliano, condannato a 12 anni di carcere per corruzione, aveva già tentato di lasciare l’edificio, ma i suoi sostenitori glielo avevano impedito *
L’ex presidente brasiliano Lula si è consegnato alla polizia. Ha lasciato a piedi la sede del sindacato ed è salito su un’auto delle forze dell’ordine. Lo riportano i media locali.
Lula alle 18.40 locali ha lasciato a piedi il quartiere generale del sindacato metallurgico dove era barricato da giorni, ha attraversato un vicolo ed è salito su un’auto della polizia federale che lo aspettava lì vicino. L’ex presidente brasiliano aveva tentato di lasciare l’edificio circa due ore prima, ma i suoi sostenitori glielo avevano impedito, costringendolo a rientrare. Lula è stato condannato a 12 anni di carcere per corruzione.
Un’aggressione giudiziaria alla democrazia brasiliana
Lula. Siamo di fronte a quello che Cesare Beccaria, in «Dei delitti e delle pene», chiamò «processo offensivo» dove «il giudice», anziché «indifferente ricercatore del vero», «diviene nemico del reo»
di Luigi Ferrajoli (il manifesto, 07.04.2018)
Il 4 aprile è stata una giornata nera per la democrazia brasiliana. Con un solo voto di maggioranza, il Supremo Tribunal Federal ha deciso l’arresto di Inacio Lula nel corso di un processo disseminato di violazioni delle garanzie processali. Ma non sono solo i diritti del cittadino Lula che sono state violati.
L’intera vicenda giudiziaria e le innumerevoli lesioni dei principi del corretto processo di cui Lula è stato vittima, unitamente all’impeachment assolutamente infondato sul piano costituzionale che ha destituito la presidente Dilma Rousseff, non sono spiegabili se non con la finalità politica di porre fine al processo riformatore che è stato realizzato in Brasile negli anni delle loro presidenze. E che ha portato fuori della miseria 50 milioni di brasiliani. L’intero assetto costituzionale è stato così aggredito dalla suprema giurisdizione brasiliana, che quell’assetto aveva invece il compito di difendere.
Il senso non giudiziario ma politico di tutta questa vicenda è rivelato dalla totale mancanza di imparzialità dei magistrati che hanno promosso e celebrato il processo contro Lula. Certamente questa partigianeria è stata favorita da un singolare e incredibile tratto inquisitorio del processo penale brasiliano: la mancata distinzione e separazione tra giudice e accusa, e perciò la figura del giudice inquisitore, che istruisce il processo, emette mandati e poi pronuncia la condanna di primo grado: nel caso Lula la condanna pronunciata il 12 luglio 2017 dal giudice Sergio Moro a 9 anni e 6 mesi di reclusione e l’interdizione dai pubblici uffici per 19 anni, aggravata in appello con la condanna a 12 anni e un mese. Ma questo assurdo impianto, istituzionalmente inquisitorio, non è bastato a contenere lo zelo e l’arbitrio dei giudici. Segnalerò tre aspetti di questo arbitrio partigiano.
Il primo aspetto è la campagna di stampa orchestrata fin dall’inizio del processo contro Lula e alimentata dal protagonismo del giudice di primo grado, il quale ha diffuso atti coperti dal segreto istruttorio e ha rilasciato interviste nelle quali si è pronunciato, prima del giudizio, contro il suo imputato, alla ricerca di un’impropria legittimazione: non la soggezione alla legge, ma il consenso popolare.
L’anticipazione del giudizio ha inquinato anche l’appello. Il 6 agosto dell’anno scorso, in un’intervista al giornale Estado de Sao Paulo, il Presidente del Tribunale Regionale Superiore della 4^ regione (TRF-4) di fronte al quale la sentenza di primo grado era stata impugnata ha dichiarato, prima del giudizio, che tale sentenza era «tecnicamente irreprensibile».
Simili anticipazioni di giudizio, secondo i codici di procedura di tutti i paesi civili, sono motivi ovvi e indiscutibili di astensione o di ricusazione, dato che segnalano un’ostilità e un pregiudizio incompatibili con la giurisdizione. Siamo qui di fronte a quello che Cesare Beccaria, in Dei delitti e delle pene, chiamò «processo offensivo», dove «il giudice», anziché «indifferente ricercatore del vero», «diviene nemico del reo», e «non cerca la verità del fatto, ma cerca nel prigioniero il delitto, e lo insidia e crede di perdere se non vi riesce».
Il secondo aspetto della parzialità dei giudici e, insieme, il tratto tipicamente inquisitorio di questo processo consistono nella petizione di principio, in forza della quale l’ipotesi accusatoria da provare, che dovrebbe essere la conclusione di un’argomentazione induttiva suffragata da prove e non smentita da controprove, forma invece la premessa di un procedimento deduttivo che assume come vere solo le prove che la confermano e come false quelle che la contraddicono.
Di qui l’andamento tautologico del ragionamento probatorio, nel quale la tesi accusatoria funziona da criterio di orientamento delle indagini, da filtro selettivo della credibilità delle prove e da chiave interpretati va dell’intero materia le processuale. I giornali brasiliano hanno riferito, per esempio, che l’ex ministro Antonio Pallocci, in stato di custodia preventiva, aveva tentato nel maggio scorso una «confessione premiata» per ottenere la liberazione, ma la sua richiesta era stata respinta perché egli non aveva formulato nessuna accusa contro Lula e la Rousseff ma solo contro il sistema bancario.
Ebbene, questo stesso imputato, il 6 settembre, di fronte ai procuratori, ha fornito la versione gradita dall’accusa per ottenere la libertà. Totalmente ignorata è stata al contrario la deposizione di Emilio Olbrecht, che il 12 giugno aveva dichiarato al giudice Moro di non aver mai donato alcun immobile all’Istituto Lula, secondo quanto invece ipotizzato nell’accusa di corruzione.
Il terzo aspetto della mancanza di imparzialità è costituito dal fatto che i giudici hanno affrettato i tempi del processo per giungere quanto prima alla condanna definitiva e così, in base alla legge «Ficha limpia», impedire a Lula, che è ancora la figura più popolare del Brasile, di candidarsi alle elezioni presidenziali del prossimo ottobre. Anche questa è una pesante interferenza della giurisdizione nella sfera della politica, che mina alla radice la credibilità della giurisdizione.
E’ infine innegabile il nesso che lega gli attacchi ai due presidenti artefici dello straordinario progresso sociale ed economico del Brasile - l’infondatezza giuridica della destituzione di Dilma Rousseff e la campagna giudiziaria contro Lula - e che fa della loro convergenza un’unica operazione di restaurazione antidemocratica. E’ un’operazione alla quale i militari hanno dato in questi giorni un minaccioso appoggio e che sta spaccando il paese, come una ferita difficilmente rimarginabile.
L’indignazione popolare si è espressa e continuerà ad esprimersi in manifestazioni di massa. Ci sarà ancora un ultimo passaggio giudiziario, davanti al Superior Tribunal de Justicia, prima dell’esecuzione dell’incarcerazione. Ma è difficile, a questo punto, essere ottimisti.
Lula resta tra i suoi sostenitori: «Vengano qui ad arrestarlo»
Brasile. L’ex presidente brasiliano nella sede del sindacato metalmeccanici. Ore concitate a San Paolo, Sem terra e Sem tetto pronti a circondare l’edificio: «Non un passo indietro, difendiamo la democrazia»
di Claudia Fanti (il manifesto, 07.04.2018)
Sono ore febbrili quelle che si stanno vivendo, mentre il giornale va in stampa, presso la sede del sindacato dei metalmeccanici di São Paulo, a São Bernando do Campo, dove l’ex presidente brasiliano Lula si è recato nella serata di giovedì, dopo l’emissione del mandato di cattura da parte del giudice Sérgio Moro.
SEMBRA ORMAI CERTO che Lula decida di non costituirsi, respingendo così la richiesta in base a cui, «in considerazione della dignità della carica svolta in passato», avrebbe potuto presentarsi volontariamente, entro le 17.00» (le nostre 22.00) di ieri, alla sede della Polizia federale di Curitiba, dove a Lula è stata preparata, per l’inizio dell’esecuzione della pena, una «cella riservata» nella quale, si legge nel decreto di arresto, l’ex presidente «sarà separato dagli altri detenuti, senza alcun rischio per la sua integrità fisica e morale».
«Costituirsi è un’ammissione di colpa, e non è questo il caso», ha commentato il senatore del Pt Lindbergh Farias, convinto della necessità «che vengano a prenderlo qui, in mezzo a questo mare di gente», perché sia evidente agli occhi del mondo «la vergogna» dell’«illegale detenzione di Lula».
SONO IN MIGLIAIA, infatti, i sostenitori accorsi a São Bernando do Campo, a cominciare dai militanti del Movimento dei senza tetto e del Movimento dei senza terra, decisi a circondare la sede del sindacato per impedire l’arresto del presidente. Non a caso l’hasthag #OcupaSaoBernardo appare come il quinto dei trending topics di Twitter nel mondo.
Ed è una «resistenza democratica» quella che ha promesso il pre-candidato presidenziale del Partito socialismo e libertà (Psol) Guilherme Boulos: «Stare qui oggi - ha detto - è stare dalla parte della democrazia. E la storia giudicherà chi si è schierato da un lato e chi dall’altro». E ha assicurato: «Non ci muoveremo di un passo. Ancora una volta, questo sindacato sarà una trincea della democrazia in questo Paese». E non sarà il solo, considerando che in queste ore si stanno attivando manifestazioni di protesta e blocchi stradali in tutto il Paese.
CHE SI TRATTI DI INGIUSTIZIA lo conferma anche la velocità lampo con cui, nei confronti d Lula, ha agito la sempre assai lenta giustizia brasiliana. Neppure si è atteso, per decretare l’arresto, che i legali dell’ex presidente presentassero gli ultimi possibili ricorsi presso il Tribunale federale regionale di Porto Alegre (Trf-4), qualificati sprezzantemente da Moro come «un patologico tentativo di procrastinazione che dovrebbe essere eliminato dal mondo giuridico». E sempre con estrema rapidità il Tribunale superiore di giustizia ha respinto il nuovo ricorso d’urgenza presentato dagli avvocati dell’ex presidente perché venisse sospeso il mandato emesso dal giudice Moro, perché in anticipo rispetto alla conclusione dell’iter processuale presso il Trf-4.
È ANCHE POSSIBILE, del resto, che la detenzione di Lula duri appena pochi giorni. La questione della costituzionalità o meno dell’arresto dopo la condanna in secondo grado non è stata affatto risolta con la decisione del Supremo tribunale federale di respingere l’habeas corpus presentato dai legali dell’ex presidente.
IL MINISTRO MARCO AURÉLIO Mello, uno dei cinque che hanno votato a favore di Lula e il più critico nei confronti della «strategia» della presidente della Corte suprema Cármen Lúcia, ha annunciato infatti di voler proporre al plenario del Stf, nella sessione di mercoledì 11, l’analisi di un provvedimento di urgenza diretto a impedire l’arresto dei condannati in secondo grado. A richiederlo sono stati i noti avvocati Antônio Carlos de Almeida Castro, Cláudio Pereira de Souza Neto e Ademar Borges de Sousa Filho, secondo i quali «nessuno può restituire agli individui i giorni passati in carcere in maniera illegittima».
Sulla questione di legittimità costituzionale sollevata dai tre avvocati già nel 2016 (ma all’epoca respinta dal Stf), in cui si invocava il rispetto di un articolo del Codice di procedura penale che vieta l’arresto prima che la sentenza passi in giudicato, viene oggi proposta una soluzione intermedia: che l’inizio dell’esecuzione della pena avvenga dopo l’analisi dei ricorsi da parte del Superiore tribunale di giustizia, il terzo grado di giudizio.
Impeachment Dilma, un golpe senza carri armati
di Aldo Garzia (il manifesto, 03.09.2016)
Impeachment riuscito, golpe a Brasilia senza carri armati. Del resto, siamo nel 2016 e non nel 1964, o nel Cile del 1973. La destra ha rialzato la testa nominando presidente fino al 2018 Michel Temer, incolore centrista del partito Pmdb, senza investitura popolare. L’unico precedente brasiliano di impeachment risale al 1993, quando fu destituito con la stessa procedura il presidente Fernando Collor de Melo. Ma se tutto questo è stato possibile, capovolgendo i rapporti di forza in Parlamento e mettendo i minoranza Roussef e il Partito dei lavoratori non è responsabilità solo dell’imperialismo yankee e della destra liberista che fanno il loro mestiere. Un groviglio di contraddizioni ha avvolto pure la politica del governo. E a preoccupare sono le difficoltà che incontrano altre esperienze progressiste latinoamericane: dal Venezuela al Cile, dalla Bolivia all’Ecuador. Tanto da far temere lo stop del ciclo progressista degli ultimi anni. L’analisi deve essere perciò attenta e non superficiale.
Ci eravamo fatti un’immagine del Brasile che non prevedeva contraddizioni e colpi di scena traumatici. Sesto o quinto paese al mondo per Prodotto interno lordo, nona potenza mondiale in procinto di surclassarne una del G8. Finalmente il paese monstre, per territorio e potenzialità, dell’America latina sembrava in grado di occupare un ruolo adeguato nella politica mondiale. Gli strabilianti risultati economici erano stati raggiunti dalle presidenze della Repubblica dell’ex leader sindacale Lula, alias Luiz Inácio da Silva, (2002-2008) e da Dilma Vana Rousseff Linhares (in carica dal 2011), entrambi dirigenti del Pt e dalla biografia segnata dalla lotta per il ritorno della democrazia dopo il golpe militare del 1964.
Da qui le suggestioni positive che ogni osservatore di sinistra poteva trarre dai risultati raggiunti in poco più di un decennio dai governi progressisti del Brasile, pur sapendo che alcune contraddizioni covavano sotto la cenere. Ad esempio la corruzione che si annidava in molti settori del Pt (molteplici i casi a livello territoriale, alcuni ministri costretti a dimettersi, perdita di prestigio), le richieste inevase del Movimento dei senza terra sul destino della Foresta amazzonica, il permanere delle favelas a pochi chilometri dalle spiagge di Rio de Janeiro.
Nei giorni di giugno 2013, quelli della Confederations Cup, prova del budino dei Mondiali di calcio dell’anno successivo, l’immagine del Brasile cambiava di colpo a causa del raddoppio del costo dei trasporti urbani e del forte rincaro delle tasse scolastiche e universitarie. Massicce manifestazioni di massa si svolgevano nelle principali città brasiliane svelando l’insoddisfazione popolare per le politiche del governo di sinistra.
La composizione sociale di quelle manifestazioni era un dato su cui riflettere: non masse di sottoproletari di periferia (come spesso avviene in questi casi in altri paesi dell’America Latina), bensì giovani studenti e in generale giovane classe media che non ce la faceva a tenere il passo - per salari e consumi - della locomotiva economica Brasile di quel periodo.
Grazie alle politiche orientate da Lula e Roussef, 35 milioni di brasiliani hanno però lasciato la povertà e sono diventati classe media. Le statistiche made in Brasilia parlano di una composizione del paese fatta di 50% di classi medie impegnate soprattutto nei servizi, di 27% di poveri in senso lato, di 20% di ricchi e 3% di inclassificabili. 28 milioni di nuovi posti di lavoro sono stati creati negli ultimi dieci anni, tanto che gli osservatori più ottimisti parlavano addirittura di «piena occupazione» in divenire. Importanti investimenti sono stati fatti anche in tecnologia, ricerca e innovazione per migliorare i comparti dell’industria e dell’agricoltura. In più, debito pubblico e inflazione - tradizionali mine vaganti del Brasile - erano fino a poco tempo fa sotto controllo.
Ma proprio i risultati positivi delle politiche di Lula e Roussef hanno provocato nuovi problemi sociali e politici. È il 50% di classe media a chiedere di migliorare la qualità della scuola pubblica, della sanità, del sistema pensionistico che rischia la paralisi per via dell’invecchiamento della popolazione (altro buon risultato innegabile delle politiche di Lula e Roussef). Inoltre il real, la moneta locale, forse era quotata troppo in relazione al dollaro, il che ha minato le capacità di esportazione mentre le infrastrutture restavano inadeguate per il programma di accelerazione della crescita scelto negli ultimi anni.
I sondaggi infine indicavano nell’ultimo anno che la popolarità della presidente Roussef era scesa in pochi mesi dal 70 al 57%, e poi ancora sotto il 50. Intanto la crescita dell’economia brasiliana si è quasi del tutto bloccata per effetto della crisi internazionale che ha raggiunto pure l’America latina. Facile per la destra colpire Roussef con l’impeachment accusandola di aver falsificato i dati del bilancio statale.
Che conclusione provvisoria trarre dalle giornate brasiliane dell’agosto 2016? Diventare la nona potenza mondiale non è facile e reca con sé contraddizioni sociali che solo l’intelligenza e la saggezza della politica possono aiutare a sciogliere. Ogni obiettivo raggiunto da una politica progressista e di sinistra apre nuovi scenari più ambizioni, soprattutto in una realtà che per più di vent’anni ha conosciuto un regime militare che spegneva ogni aspirazione sociale e di progresso.
Sono così giunti al pettine i tradizionali problemi del Brasile: debolezza dei partiti e della democrazia, composizione sociale non strutturata, nuova classe media non rappresentata, destra sempre in agguato che gioca sulle insoddisfazioni e sulle promesse facili, economia dipendente dall’esterno. Che poi sono le questioni assillanti quasi tutte le realtà dell’America latina. E che fanno temere il peggio dopo più di un decennio nel quale il vento soffiava da quelle parti decisamente a sinistra.
I movimenti latinoamericani contro «il golpe neoliberista»
Brasile. Anche artisti e intellettuali criticano il governo Temer
di Geraldina Colotti (il manifesto, 24.05.2016)
«Questo è più di un golpe, è un golpe neoliberista»; «Ministeri senza donne sono Machisteri». Con questi slogan, circa 30.000 brasiliani si sono dati appuntamento a San Paolo per cercare di raggiungere la residenza del presidente ad interim Michel Temer, rispondendo all’appello del Frente Povo Sem Medo.
La polizia ha istituito un cordone di sicurezza a 300 km dall’abitazione e ha poi pesantemente attaccato i manifestanti, riuscendo a sgomberare il presidio nella notte di domenica. Temer, ex vicepresidente di Dilma Rousseff, dopo averne promosso l’impeachment, ha assunto l’incarico per i 180 giorni necessari allo svolgimento del processo. Il 12 maggio, con 55 voti a favore, 22 contrari e un’astensione, un Senato composto da un buon numero di inquisiti ha sospeso dall’incarico la presidente per presunte violazioni alle norme fiscali del bilancio di cui non si è discusso.
Temer ha così messo insieme un gabinetto di banchieri e imprenditori che rispondono agli interessi di grandi corporazioni e del Fondo monetario internazionale, molti dei quali indagati, come lui, per corruzione.
A scanso di equivoci sui suoi obiettivi e indirizzi, il presidente ha soppresso alcuni ministeri-chiave per le politiche dei precedenti governi progressisti, come quello per l’Uguaglianza di genere e di razza e quello della Cultura, accorpato a quello dell’Educazione. Massicce proteste di artisti e intellettuali, che hanno manifestato in oltre 18 città, hanno però obbligato Temer a tornare sulla decisione e ad annunciare il ripristino del ministero di Cultura.
Artisti e intellettuali sono stati in questi giorni al centro di proteste nazionali e internazionali, visibili anche al festival del cinema di Cannes. Unendosi ai movimenti e alla sinistra, gli artisti contestano il «governo illegittimo, che non include giovani, donne, afrodiscendenti né indigeni» e rifiutano anche l’annunciata nomina di Marcelo Calero a capo del ripristinato ministero di Cultura.
Al contempo, criticano che il Ministero delle Donne, Uguaglianza Razziale e Diritti umani, sia stato accorpato a quello della Giustizia, e annunciano mobilitazioni a oltranza. Proteste contro il «governo de facto» e il golpe istituzionale si stanno verificando anche in altri paesi dell’America latina, e in Europa. In Argentina, il Frente Argentino por la Democracia en Brasil ha organizzato ieri una manifestazione contro la visita del nuovo ministro degli Esteri nominato da Temer, José Serra. Il presidente argentino Mauricio Macri è stato il primo a riconoscere il governo-fotocopia di Temer, con il quale conta di disarticolare le alleanze solidali sud-sud.
I movimenti argentini, che in questi giorni si mobilitano in difesa della legge contro i licenziamenti, approvata dal Parlamento, ma rifiutata da Macri, denunciano il «golpe parlamentare, giudiziario e mediatico» di cui è rimasta vittima Dilma Rousseff, organizzato dai settori più conservatori della società brasiliana in appoggio ai grandi interessi geopolitici mondiali. «In Brasile sono stati violati i diritti elementari della democrazia», ha dichiarato alla stampa l’ex presidente Lula da Silva, denunciando «la storica subalternità della élite brasiliana agli interessi degli Stati uniti».
E anche la ministra degli Esteri venezuelana, Delcy Rodriguez, ha denunciato l’attacco portato attraverso il Brasile all’alleanza dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica), le cui «economie emergenti, al servizio dell’integrazione, rappresentano una speranza per i popoli che hanno deciso di esercitare la propria sovranità». Rodriguez ha accompagnato il presidente venezuelano, Nicolas Maduro, nella sua visita in Giamaica e a Trinidad e Tobago. Un viaggio per rinsaldare l’interscambio solidale sud-sud, che il Venezuela (custode delle più grandi riserve di petrolio al mondo) intende mantenere nonostante la drastica caduta del prezzo del barile e l’opposizione delle destre.
Al Venezuela tocca la presidenza pro-tempore del Mercosur. Un compito arduo dopo il rovescio in corso in Brasile seguito a quello in Argentina, e la crisi economico-politica che attanaglia sia il paese bolivariano che l’intera America latina progressista.
Dilma: «La democrazia, lato corretto della storia»
Brasile. Temer presenta il suo gabinetto. Ridotti i ministeri. Neanche una donna, scompare la cultura e il ministero per la Parità di genere e l’uguaglianza razziale, ma abbondano corrotti, imprenditori e banchieri. Massiccia manifestazione contro «Temer il golpista»
di Geraldina Colotti (il manifesto, 14.05.2016)
Un governo di «salvezza nazionale». Così, il vicepresidente brasiliano Michel Temer ha definito il suo governo ad interim che, per 180 giorni, definirà le sorti del paese.
Intanto, Dilma Rousseff - eletta presidente per la seconda volta nel 2014 con 54.500.000 voti - verrà processata per presunte irregolarità amministrative. Il Senato brasiliano ne ha deciso l’impeachment, votando a larga maggioranza un contestatissimo provvedimento, già approvato dalla Camera il 17 aprile. Un colpo di stato istituzionale, denunciano le sinistre di tutto il mondo. Quelle brasiliane, ieri hanno organizzato una gigantesca manifestazione al grido di «Fuori Temer» e «Temer golpista».
L’altroieri, erano oltre 40.000 ad accompagnare Dilma nel suo ultimo discorso da presidente. L’ex guerrigliera, bersaglio di attacchi maschilisti e reazionari portati avanti dai rappresentanti dell’ultima dittatura militare, si è rivolta ai cittadini senza nascondere la commozione.
Ha ribadito la sua innocenza e ha denunciato «la farsa giuridica e politica» messa in atto dalle forze conservatrici per colpire la democrazia. «Ho sofferto il dolore della tortura, il dolore della malattia e ora sento il dolore dell’ingiustizia - ha detto la presidente - Quel che più mi fa male è l’ingiustizia... Ma non mi arrendo. Guardo indietro a tutto quel che è stato fatto e guardo avanti a quel che c’è ancora da fare. Ho lottato tutta la vita per la democrazia, ho imparato ad aver fiducia nella capacità di lotta del nostro popolo. Confesso che non avrei mai immaginato che sarebbe stato necessario tornare alla lotta contro la dittatura in questo paese. Negli ultimi mesi, il nostro popolo è sceso in piazza per difendere i suoi diritti e per questo ho la certezza che la popolazione sarà dire «no» al golpe».
Poi, Rousseff si è rivolta agli alleati: «A quelli che si oppongono al golpe, indipendentemente dall’appartenenza di partito, chiedo di mantenersi uniti in questa lotta. Questa è una lotta permanente che richiede un impegno costante, non ha una data conclusiva. Si può vincere, ma dipende da noi. Dimostreremo al mondo che ci sono milioni di difensori della democrazia nel nostro paese. La storia - ha concluso - si costruisce con la lotta e sempre vale la pena di lottare per la democrazia, la democrazia è il lato corretto della storia. Non mi stancherò mai di questa lotta».
Il gabinetto di governo presentato da Temer indica con chiarezza con quali grandi interessi dovrà scontrarsi la democrazia brasiliana: quegli stessi con i quali il partito di Rousseff, il Pt, ha cercato di governare in questi anni, imbastendo coalizioni capestro nel frammentato panorama politico brasiliano (28 i partiti rappresentati).
Alleanze capestro che, a crisi già conclamata, il Partito del lavoratori ha dichiarato di voler recidere per aprire alla sua sinistra e ai movimenti, e promettendo un cambio di programma qualora vi fosse stato un nuovo gabinetto guidato da Lula da Silva. Le cose sono però andate diversamente, e - se la piazza non saprà imporre un cambio di indirizzo - Dilma verrà nuovamente «bocciata» dalla votazione finale tra sei mesi, e Temer governerà fino al 2018.
Di quale «salvezza nazionale» parla Temer? Prima di tutto quella dei corrotti come lui e il suo collega di partito, Eduardo Cunha, del centrista Pmdb. Cunha, sospeso dalla presidenza del Parlamento per decisione della magistratura, potrebbe così cavarsela una nuova volta, e oscurare la democrazia brasiliana con le potenti televisioni pentecostali che controlla. E la pletora di inquisiti - che ha giudicato Rousseff per presunte irregolarità amministrative, smontate da insigni giuristi - continuerà a governare nella più completa impunità. Nel gabinetto di Temer torna al potere l’opposizione guidata dall’ex candidato presidenziale Aecio Neves (anch’egli recentemente inquisito), benché bocciata dalle urne.
I ministeri passano da 32 a 22. Scompare il ministero per la Parità di genere e Uguaglianza di razza e per i Diritti umani, quello della Gioventù e della Cultura (incorporato ad altri).
Benché la Costituzione preveda che la presenza femminile dev’essere rappresentata per almeno il 30%, non c’è nessuna donna. Era dall’ultimo governo de facto ai tempi della dittatura - quello di Ernesto Geisel, dal 1974 al ’79 - che non succedeva così.
Nel secondo mandato di Rousseff - prima donna presidente del Brasile - c’erano sei donne su 39 ministri. E tuttavia, a votare l’impeachment contro la presidente è stato un Congresso in cui su 10 eletti, 9 sono uomini, gran parte dei quali le ha rivolto truculenti insulti misogini.
Tanto, che diverse deputate e deputati della sinistra hanno definito l’espulsione di Rousseff «un femminicidio simbolico». Secondo statistiche ufficiali, la società brasiliana è in maggioranza composta da donne e da persone che si definiscono «negre o mulatte».
Ma non è alla maggioranza della popolazione, non è agli strati meno favoriti che deve rispondere il «governo de facto» di Temer. Alle classi popolari, alle loro richieste che hanno anche interrogato i limiti dei governi del Pt, Temer risponde nominando al ministero della Giustizia e della sicurezza cittadina Alexandre de Moraes: un personaggio che, nello stato di San Paolo ha deciso che gli studenti che occupano le scuole per protesta devono essere «trattati come terroristi».
All’Agricoltura, va uno dei 60 uomini più ricchi e potenti del Brasile, Blairo Maggi, ex governatore dello Stato del Mato Grosso dal 2003 al 2006. Un imprenditore, considerato il principale produttore di soia al mondo, responsabile di aver contribuito alla distruzione dell’Amazzonia nell’espandere i propri interessi all’interno dei boschi e delle aree protette.
E fiero di esserlo. Al ministero della Salute, un altro imprenditore, Ricardo Barros, che da deputato aveva già annunciato l’intenzione di ridurre il finanziamento al programma sociale Bolsa Familia, e che è inquisito per frode e illecito finanziario.
Agli Esteri va il senatore José Serra, uomo di Washington e delle multinazionali, ex candidato contro Rousseff nel 2010, che ha già presentato il progetto di privatizzazione della petrolifera di Stato Petrobras.
Alle Finanze è nominato Henrique Meirelles, proprietario del Banco Original, già presidente del Banco di Boston e della Banca Centrale. A dirigere la Banca centrale viene messo Ilan Goldfain, alto dirigente della seconda banca più grande del paese, Brasil Itau, che ha finanziato la campagna elettorale di Neves.
Tuttavia, con sfacciata retorica, Temer ha detto che «il potere ce l’ha il popolo»: dimenticando che, per il suo potere personale, 55 voti del Senato hanno annullato la volontà di quasi 55 milioni di cittadini che hanno votato per Rousseff e che ieri le hanno rinnovato la fiducia manifestando contro «il Giuda Temer».
In nome della «ripresa economica» voluta dai «mercati», il presidente «de facto» ha annunciato una riforma fiscale che riduce la spesa pubblica, e una riforma delle pensioni. E il primo a congratularsi con lui, in America latina, è stato il suo omologo argentino Mauricio Macri.
Dilma sospesa promette battaglia
“Un golpe, non smetterò di lottare”
La presidente ora vuole guidare l’opposizione. Scontri tra la polizia e i suoi sostenitori
Con la caduta della Rousseff, Lula ha perso l’immunità e ora rischia l’arresto
di Emiliano Guanella (La Stampa, 13.05.2016)
«Posso avere commesso degli errori, ma mai dei crimini; non immaginavo a questo punto della mia vita che sarebbe stato necessario lottare di nuovo per la democrazia nel nostro Paese». Dilma Rousseff ha dato l’ultima conferenza stampa circondata dai suoi ministri, alcuni dei quali a stento trattenevano le lacrime. Poche ore dopo l’interminabile sessione del Senato che ha deciso la sua sospensione e messa in stato d’accusa, la Presidente lascia il palazzo del Planalto con l’aria della guerriera ferita, pronta, però, ad affrontare nuove battaglie. «Il destino mi ha riservato molte sfide, ho provato il dolore sordo della tortura, quello eterno della perdita di un persona cara, ma adesso sto sentendo un dolore più forte di tutti, quello per l’ingiustizia; mi sento la vittima di una farsa giuridica e politica».
I giochi, ormai sono fatti, Dilma lascia il Brasile alla guida del vice Michel Temer, che diventa presidente ad interim in un difficile momento economico e istituzionale. Il processo al quale sarà sottoposta in Senato potrà durare fino a sei mesi e si preannuncia difficile; ieri notte i voti contro di lei sono stati 55 su 81, sono andati cioè oltre i due terzi che servirebbero per condannarla in via definitiva. Dilma è teatralmente scesa dalla rampa del Palazzo per salutare la folla, circa duemila militanti del Partito dei Lavoratori che si sono scontrati con la polizia. Ha voluto parlare anche lì, per l’importanza di tenere l’ultimo discorso tra la gente.
«La democrazia è il lato giusto della storia, io non smetterò mai di lottare». Ha ricordato che sotto il suo governo sono state permesse manifestazioni di ogni tipo, comprese le tante giornate di mobilitazione per chiedere la sua destituzione. «Il nuovo governo viene con uno spirito autoritario, c’è il rischio di repressione dei movimenti sociali e delle lotte del popolo». Alla lotta quindi, non era un caso che a suo fianco c’era Lula Da Silva, che a questo punto perde qualsiasi possibilità di avere un’immunità ministeriale e dovrà affrontare i giudici della procura di Curitiba, che lo hanno indagato nell’ambito dell’inchiesta Petrobras.
Il Pt (Partito dei lavoratori) ha sbagliato molto come governo, adesso deve dimostrare che sa ancora fare opposizione. Su diversi fronti; «difendere» Lula, attaccare le misure economiche di Temer, soprattutto se toccherà le pensioni o i programmi assistenziali, preparare il prossimo appuntamento elettorale, il voto amministrativo di ottobre.
Nel Parlamento, nel frattempo, è tempo di grandi manovre; tutti salgono sulla barca di Temer, ma facendo attenzione alla possibilità di scendere, non appena le cose si mettano male. Di sicuro, oggi, in Brasile non c’è nulla. Nel giorno drammatico del cambio di governo è arrivata un’altra notizia bomba; la Corte Suprema ha autorizzato l’apertura delle indagini sul senatore Aecio Neves, leader dell’opposizione, candidato presidenziale sconfitto (per poco) da Dilma nel 2014. Neves è accusato di far parte di una schema di corruzione legato all’impresa elettrica statale Furnas, schema che sarebbe continuato anche durante il governo del Pt.
La lista di notabili citati dagli oltre cinquanta pentiti che stanno collaborando con la giustizia è lunga e in prima fila c’è il Pmdb di Temer; dopo aver contribuito alla caduta del governo Dilma, la Mani Pulite brasiliana potrebbe ora allargarsi anche agli altri partiti. A quel punto, impeachment o no, a Brasilia non si salverebbe quasi nessuno.
Brasile
L’intreccio politica-affari che inquina l’intero sistema
di Diego Corrado (Il Sole-24 Ore, 13.05.2016)
Il lato giudiziario della crisi politica brasiliana vede il governo esposto su due fronti, le inchieste per corruzione contro Lula e il processo per impeachment contro la presidente Dilma Rousseff. Sarebbe sbagliato però leggere con le sole lenti del diritto penale il conflitto in atto, che è tutto politico.
Il procedimento di impeachment, avviato a fine 2015, ha infatti come presupposto irregolarità formali nel bilancio federale 2014, già commesse in passato da tutti i predecessori di Dilma e mai sanzionate. Chi vota l’avvio vero e proprio e poi giudica il merito sono rispettivamente Camera e Senato, e in entrambi i casi il quorum previsto è di due terzi dei membri: quello che conta quindi non è tanto il merito dei fatti, ma la valutazione politica. Non sorprende perciò che l’opposizione sostenga di muoversi dentro la Costituzione (che formalmente è finora rispettata), mentre il governo gridi al golpe, denunciando l’assenza di basi fattuali.
Del resto, uno dei principali fautori dell’impeachment è il presidente della Camera Eduardo Cunha, imputato per corruzione e oggetto di un processo per la perdita del mandato davanti alla Commissione di etica della Camera. Gli estratti dei conti svizzeri dove riceveva le tangenti sono stati pubblicati nei mesi scorsi su tutti i giornali brasiliani. Mettersi alla testa del fronte anti-Dilma gli ha aperto uno spazio di sopravvivenza politica, che Cunha ha sfruttato con spregiudicata abilità. Buona parte del Parlamento è sotto inchiesta, dei 65 membri della Commissione incaricata dell’istruttoria dell’impeachment, ben 37 sono indagati per reati di varia natura.
Intanto l’inchiesta Lava Jato (che indaga su uno schema di tangenti trasversale a tutti i partiti con epicentro la Petrobras) è andata avanti. Negli ultimi mesi ha rivolto crescenti attenzioni all’ex presidente Lula, accusato di aver ricevuto benefici di varia natura da imprese coinvolte nello scandalo. Se il merito delle accuse (sempre ribattute punto su punto dall’interessato, con tanto di documentazione pubblicata sul suo sito) è lungi dall’essere provato, si può tuttavia affermare che le inchieste sono parse a crescenti strati della società brasiliana a senso unico.
Mentre - per fare un esempio - moglie e figlia di Eduardo Cunha (cointestatarie dei conti segreti del congiunto) non sono finora state sfiorate dalle indagini, il mondo intero ha assistito alla condução coercitiva di cui Lula è stato oggetto lo scorso 4 marzo, quando un ingente spiegamento di agenti della Polizia Federale in assetto da guerra lo prelevò all’alba da casa sua per portarlo a deporre, un’azione criticata anche da un membro della Corte Suprema per l’evidente mancanza di presupposti.
In questa situazione - siamo al 16 marzo - la decisione di Dilma di nominare Lula suo ministro ha spaccato ulteriormente un Paese già diviso, benché ciò non avrebbe garantito l’impunità all’ex presidente, ma il trasferimento della competenza a giudicarlo alla Corte Suprema, istanza che - più di ogni altra in Brasile - in anni recenti ha dato prova di grande indipendenza.
Ma il clima ormai è infuocato, e il giorno stesso della nomina accade un fatto sconcertante, le intercettazioni di una conversazione tra Dilma e Lula finiscono quasi in tempo reale al tg della Globo, che ne dà un’interpretazione univoca: unica ragione della nomina è ostruire la giustizia. Il giudice Moro (responsabile dell’inchiesta Lava Jato, ormai un eroe nazionale in Brasile) afferma di averle trasmesse lui stesso, perché «di interesse pubblico».
Sulla base di queste intercettazioni il 18 marzo la nomina di Lula viene sospesa da un membro della Corte Suprema. Il 22 marzo però un altro membro dichiara che esse - riguardando la presidente in carica - sono di competenza esclusiva dell’Stf e ne ordina la trasmissione alla Corte. Lo stesso giorno una fuga di notizie rivela l’esistenza di una lista di finanziamenti illeciti da parte della Odebrecht (colosso delle costruzioni) a centinaia di politici di tutti i partiti, mancano però Lula e Dilma (che personalmente continua a non vedersi addebitato alcun reato). Su questa Moro invece decreta inspiegabilmente il segreto istruttorio, prima di declinare la competenza a favore della Corte Suprema.
L’impressione di molti è che impeachment e Lava Jato, che finora marciavano nella stessa direzione (colpevolizzando il solo partito di governo), siano destinate a collidere nei prossimi mesi, quando le inchieste per corruzione dimostreranno che l’intero sistema politico si basa da anni su intrecci proibiti col mondo degli affari. Per questo per molti in Brasile è necessario che tutto cambi, alla svelta, perché tutto resti come prima.
Brasile
Il gigante sul precipizio
di Bill Emmott (La Stampa, 13.05.2016)
Votare la messa in stato di accusa di un Presidente, in qualsiasi Paese, è una specie di arma atomica della politica: dovrebbe essere una scelta estrema, ma è tale da poter avere conseguenze estreme. In Brasile il Senato ha votato per aprire il procedimento di messa in stato di accusa per Dilma Rousseff, il Presidente al suo secondo mandato che i brasiliani hanno rieletto solo nel 2014.
Le ricadute potrebbero essere molto positive per la democrazia nel Paese, o anche altamente distruttive.
In linea di principio, gli eventi politici che hanno portato il più grande Paese del Sud America a questo passo possono essere visti come emblematici della forza delle istituzioni politiche brasiliane. La caduta di Rousseff nasce da un’inchiesta coraggiosa ma ben fondata sulla corruzione presente nella maggiore compagnia petrolifera del Paese, la Petrobras, di proprietà dello Stato e produttrice di petrolio e gas.
Rousseff non è accusata di corruzione anche se tra i suoi incarichi come capo di Stato c’è quello di presiedere il consiglio di amministrazione della Petrobras. E’ accusata invece di aver falsificato i dati statistici ufficiali sul bilancio governativo durante la campagna presidenziale del 2014 per offrire un’immagine migliore della sua amministrazione.
Potrebbe sembrare una colpa molto tecnica, o anche tipica - non è forse vero che tutti i governi manipolano i fatti per fare bella figura? - ma poiché ha vinto di misura, viene vista come una forma di frode elettorale. Così questa messa in stato di accusa può essere interpretata come un tentativo da parte della classe politica brasiliana per elevare il suo livello di credibilità elettorale.
Tuttavia questa interpretazione così favorevole presenta un problema, tale da poter mettere in guai seri anche il suo successore, il vicepresidente Michel Temer. Che al momento è presidente a interim, in attesa del verdetto sulla Rousseff, che pochi però pensano riuscirà a conservare il suo incarico.
Il problema è che in Brasile lo scandalo della corruzione coinvolge l’intera classe politica dominante - compreso il partito del Movimento democratico brasiliano di Temer, alleato del Partito dei lavoratori di Dilma Rousseff. L’inchiesta su Petrobras, nota come Operazione Autolavaggio, richiama subito alla memoria l’inchiesta di Tangentopoli o Mani Pulite, 25 anni fa.
Proprio come Mani Pulite, l’operazione Autolavaggio sta gettando il discredito su tutti i politici brasiliani, minando ulteriormente la fiducia delle imprese e dei consumatori in un’economia al suo quarto anno di recessione e rischia sia di aggravare il conflitto politico, sia di favorire la comparsa sulla scena politica di nuovi estremisti, speranzosi di riempire il vuoto politico creatosi o, come cercò di fare Silvio Berlusconi con Forza Italia nel 1994, di mettere al riparo dalle inchieste interessi politici ed affaristici.
Di fronte a questo, le idee di Temer, favorevole alla liberalizzazione e a un governo più snello, potrebbero essere proprio quello che serve al Brasile. Ma ci sono poche speranze che riesca a far accettare il suo punto di vista al Parlamento. Anche se la messa in stato di accusa ha avuto una vasta adesione, sia in Parlamento come nell’opinione pubblica, una larga maggioranza resta convinta che un governo Temer sarebbe essenzialmente illegittimo.
Lo scenario migliore per il Brasile e per le idee di liberalizzazione di Temer, sarebbero nuove elezioni presidenziali dopo il completamento del processo a Dilma Rousseff. Una scelta che aiuterebbe a ridare respiro alla politica, confermerebbe la tenuta delle istituzioni e garantirebbe un governo la cui legittimità non potrebbe essere messa in dubbio. L’alternativa è una lunga battaglia politica, con gli inquirenti presi di mezzo, il Paese paralizzato e i cittadini brasiliani come principali vittime.
Traduzione di Carla Reschia
Brasile, il Senato approva l’impeachment di Dilma Rousseff con 55 sì e 22 no *
Il Senato brasiliano ha approvato l’impeachment di Dilma Rousseff con 55 voti favorevoli e 22 contrari: per l’approvazione era necessaria la maggioranza semplice. Ad annunciare l’esito della votazione è stato il presidente del Senato, Renan Calheiros, dopo una maratona durata oltre 20 ore. Ora la presidenta verrà sospesa per 180 giorni, durante i quali verrà sottoposta alla procedura di messa in stato si accusa per aver manipolato i conti pubblici per nascondere all’opinione pubblica il crescente disavanzo di bilancio. Alla vigilia del voto Dilma aveva annunciato che pronuncerà un discorso e il video sarà postato su tutti i social network. Il Brasile si avvia così a ospitare le Olimpiadi senza un capo dello Stato eletto.
Il vice presidente Michel Temer assumerà l’interim subito dopo la notifica alla presidente dei risultati del voto da parte della Corte suprema. Come primo atto, Temer terrà un discorso alla Nazione in diretta tv alle 15 (le 20 in Italia) dal palazzo presidenziale di Planalto, in compagnia del ministro delle Finanze indicato, l’economista Henrique Meirelles, ex governatore della banca centrale.
Dilma lascerà Planalto alle 11 (le 16 in Italia), accompagnata dall’ex presidente Luiz Inacio Lula da Silva, suo amico e mentore politico, giunto appositamente da San Paolo per manifestarle la propria solidarietà. Lula e Dilma raggiungeranno la piazza dei Tre poteri, davanti al parlamento di Brasilia, e si uniranno ad una manifestazione organizzata in sostegno della presidente.
La maggioranza di 55 sì e 22 no con la quale il Senato si è espresso rappresenta per la presidente brasiliana una cocente sconfitta, dopo i tentativi di bloccare la procedura, da lei definita un golpe parlamentare. Il Senato, nei prossimi mesi, indagherà sulle accuse e infine si esprimerà con un altro voto, nel quale sarà necessaria la maggioranza qualificata dei due terzi per rimuovere definitivamente la presidente brasiliana dal suo incarico. La sospensione della Rousseff mette temporaneamente fine a 13 anni di governo di sinistra del Partito dei Lavoratori, sempre più impopolare tra gli elettori brasiliani a causa della crisi economica e dei legami con il gigantesco scandalo della corruzione che vede coinvolta l’azienda petrolifera di stato Petrobras.
Un gruppo di deputati di sinistra, guidato dal PT, ha annunciato l’ostruzione sistematica a tutti i progetti di legge che potranno essere proposti al Congresso dall’eventuale governo Temer. “Ciò che Temer propone per il Paese è un’agenda neoliberale, conservatrice, che toglierà diritti, ma i deputati del PT saranno in prima linea nella lotta per impedire qualsiasi passo indietro”, ha dichiarato in conferenza il portavoce del partito alla Camera bassa, Afonso Florence, dopo un incontro con deputati di altri partiti alleati a Rousseff.
Migliaia di persone sono scese in piazza a Brasilia, dove la polizia ha arrestato un uomo sospettato di aver lanciato pietre contro gli agenti, durante scontri con la polizia e i dimostranti contrari all’impeachment. I disordini, in cui i poliziotti hanno lanciato gas lacrimogeni, si sono verificati mentre al Senato era in corso il dibattito sulla messa in stato d’accusa, hanno dichiarato fonti ufficiali. Secondo il calcolo delle forze dell’ordine, nella Spianata dei ministeri si sono radunati circa 5mila manifestanti pro Rousseff e altri 4mila che chiedevano il suo impeachment, divisi da una barriera.
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Brasile, prima vittoria per Dilma
Sospeso (per ora) l’impeachment
Il presidente della Camera annulla a sorpresa la votazione
Rousseff esulta. Ma la Corte suprema può rovesciare tutto
di Emiliano Guanella (La Stampa, 10/05/2016).
C’è incertezza fino all’ultimo in Brasile sulla richiesta di impeachment alla presidente Dilma Rousseff, bloccata ieri pomeriggio per decisione del presidente ad interim della Camera dei deputati Waldir Maranhao, che ha annullato la votazione favorevole del 17 aprile scorso congelando così per qualche ora l’iter alla vigilia della votazione finale in Senato. Corsi e ricorsi infiniti, i tre poteri, giudiziario, esecutivo e legislativo, che si accusano a vicenda, con duecento milioni di brasiliani che assistono increduli ad una lunga ed estenuante telenovela fatta di colpi di scena, complotti e tradimenti continui.
Ieri i quindici minuti di fama sono stati tutti di Maranhao, medico veterinario, homo politicus eclettico e trasversale, alleato del presidente deposto della Camera Eduardo Cunha, ma che ha votato, contraddicendo l’indicazione del suo partito, contro la messa in stato d’accusa della Rousseff. Maranhao, che in teoria avrebbe dovuto semplicemente traghettare la Camera in attesa che i partiti decidessero una nuova guida, ha deciso di accogliere una richiesta di sospensione della votazione depositata dall’Avvocatura generale dello Stato, ma che era stata ignorata da Cunha, nemico giurato del governo e grande architetto dell’impeachment.
Cunha, coinvolto in numerosi scandali di corruzione, è stato deposto dalla Corte Suprema la settimana scorsa; per alcuni analisti sarebbe stato proprio lui a suggerire l’annullamento del voto a Maranhao come vendetta per il fatto di essere stato scaricato dalla nuova coalizione che formerà il governo ribaltone del vicepresidente Michel Temer, pronto ad insediarsi non appena il Senato sottometterà la Rousseff al processo di impeachment. Come Nerone, sarebbe ora disposto a bruciare Roma per suo interesse. Annullare il voto della Camera, del resto, sarebbe l’ultima disperata carta in mano alla Rousseff, vicinissima al suo addio al palazzo presidenziale di Planalto.
Ieri Dilma è stata informata della decisione di Maranhao durante un incontro con un gruppo di studenti universitari. «Manteniamo la calma - ha detto visibilmente emozionata - vediamo i prossimi sviluppi, la lotta contro il golpe continua». Tutto lascia indicare, comunque, che la manovra non avrà successo. Il presidente del Senato Renan Calheiros, altro personaggio ambiguo in tutta questa vicenda, un giorno vicino al governo, un giorno con l’opposizione, ha fatto sapere che l’iter ormai è avviato e che tocca alla Camera alta decidere. Ieri in serata si attendeva una decisione del Supremo Tribunale Federale, chiamato per l’ennesima volta a dirimere questioni relative al procedimento dell’impeachment.
Mentre nell’arena i leoni si sbranano, il vicepresidente Michel Temer si mantiene defilato, occupato a riempire gli ultimi tasselli del suo governo. I dicasteri più importanti sono già assegnati, è bagarre sui minori, con una ventina di partiti che reclamano la loro parte. Temer avrà a disposizione anche 10.000 posti nella gigantesca macchina amministrativa federale di Brasilia, incarichi controllati oggi dal Partito dei Lavoratori (Pt) di Lula e Dilma. Dovrà faticare non poco per calmare gli appetiti voraci di una classe politica sempre più screditata agli occhi dell’opinione pubblica, ma disposta a tutta pur di mantenere il potere.
Il caso Lula e un Paese allo sbando
di Roberto Da Rin (Il Sole-24 Ore, 18.03.2016)
Una giornata campale. Gli annunci incrociati del governo brasiliano e dell’opposizione, gli attacchi dei giudici, il colpo di scena, il ritorno di Lula e un obiettivo finale, la resa della presidenta Dilma Rousseff. Per ora non raggiunto.
Dopo la firma di Lula al governo, in qualità di ministro, un giudice brasiliano ha sospeso la nomina, «che potrebbe ostacolare il corso della giustizia» nell’inchiesta su Petrobras.
In Brasile è in atto uno scontro frontale tra governo e magistratura, conseguente a una crisi politica, economica e morale. Quella regìa cosmica, tanto cara ai brasiliani, che governa le leggi dell’universo, aveva già previsto tutto. Le sequenze politiche delle ultime 48 ore si ritrovano nei passi di samba più conosciuti: cruzado pausado, assalto, gancho redondo, tirar a dama.I passi sono stati proprio questi: annunci «incrociati con pausa»(di governo e opposizione), «assalto» (dei giudici), «mezzo sgambetto» (dell’opposizione) e «resa della dama» (il tentativo di far cadere Dilma per impeachment).
Samba ma anche aspra battaglia politica. La presidenta Rousseff, certo. Ma è soprattutto Lula il personaggio forte di questa drammatica telenovela brasiliana. La sua parabola si è compiuta con una plasticità senza precedenti: da presidente più popolare del mondo, con un consenso dell’85%, a indagato. Da regista di una stagione economica gloriosa a responsabile della pesante débacle.
I meriti - riconosciuti in modo bipartisan dall’Economist, dai giornali di sinistra, da Obama e Putin, dall’Fmi, dai governi populisti e popolari del mondo intero - sono incontrovertibili. Un doppio mandato, dal 1° gennaio 2003 al 1° gennaio 2011, in cui la quadratura del cerchio pareva acquisita: da una parte crescita vigorosa, inflazione sotto controllo, variabili macrofinanziarie in ordine. Dall’altra occupazione in forte crescita, povertà in caduta verticale, con un record strabiliante. Trenta milioni di poveri usciti dalla miseria ed entrati trionfalmente nella classe “C”, quella classe media brasiliana che i sociologi hanno sempre ritenuto troppo esigua.
Apprezzato dagli industriali, osannato dagli economisti, rispettato dai finanzieri, Lula, ex operaio metalmeccanico aveva superato “il dilemma crescita o distribuzione”, riuscendo a distribuire la ricchezza continuando a favorire la crescita. Un’operazione che non era riuscita a nessun altro, dal Dopoguerra in poi.
Le sue parole, negli anni d’oro, sono state queste: «La gente riconosce che non vi è nulla di magico nell’economia, non vi sono annunci sorprendenti che salveranno l’umanità in breve tempo». E così il governo del metalmeccanico con nove dita, il decimo è rimasto sotto una piastra, recitava un mantra di sviluppo e stabilità: crescita economica basata su equilibrio fiscale, prezzi stabili, riduzione della vulnerabilità esterna da una parte e una forte politica sociale dall’altra.
Tutto vero, quasi tutto vero. Perché “Os ventos alisios”, i venti Alisei hanno aiutato eccome la congiuntura brasiliana. I prezzi delle commodities agricole e del petrolio sono stati alti per un lungo settennio, favorendo, eccome le gesta di Lula. La crisi internazionale del 2008, pur con qualche ritardo temporale non ha risparmiato il Brasile.
Le prospettive? Poco rosee, almeno nel breve periodo. Il 2016 si conferma un annus horribilis per il gigante latinoamericano con una contrazione del Pil vicina al 3,5% rispetto al 2015. Un’implacabile nemesi storica mostra un Brasile sfibrato dalla recessione, con un’inflazione alta e una grave instabilità politica.
Tuttavia una luce in fondo al tunnel c’è, il Brasile è un grande Paese agroindustriale. Un finanziere svizzero, poche settimane fa, a Ginevra, indicava questa strada ai policy makers di mezzo mondo: «Come superare la crisi? Vendi banche e compra formaggio».
Brasile, Lula giura da ministro ma giudice lo sospende
Governo presidente Rousseff può fare ricorso contro decisione. Proteste in tutto il Paese contro l’incarico a ex presidente
Redazione ANSA *
Il giudice federale brasiliano Itagiba Catta Preta Neto, del 4/o tribunale del Distretto federale, ha emesso una sentenza provvisoria che sospende la nomina dell’ex presidente della Repubblica, Luiz Inacio Lula da Silva, a ministro della Casa civile, carica per la quale aveva prestato giuramento nelle mani del presidente Dilma Rousseff poco prima. Il governo della presidente ora può fare ricorso contro la sospensione.
In Brasile intanto la tensione è altissima tra la popolazione contro l’incarico di governo a Lula, da molti considerato un escamotage dell’ex presidente operaio per sfuggire alla giustizia che lo ha coinvolto nell’inchiesta Lava Jato, la Mani Pulite del Brasile. Tafferugli tra manifestanti a favore e contro l’attuale esecutivo sono in corso a Brasilia, davanti alla sede della presidenza della Repubblica, mentre cresce la protesta anche per le vie di San Paolo, dove si sta schierando la polizia anti-sommossa. Immagini televisive mostrano cortei spontanei in varie altre città del Paese.
Nella notte alcune migliaia di persone hanno bloccato l’avenida Paulista, il salotto buono di San Paolo, scandendo slogan contro Lula e Dilma. Analoghe manifestazioni sono in corso a Brasilia, davanti al palazzo presidenziale di Planalto, e a Rio de Janeiro.
Le proteste sono esplose dopo la pubblicazione da parte del giudice Sergio Moro, simbolo dell’inchiesta ’Lava Jato’, la Mani Pulite brasiliana, di un’intercettazione telefonica tra Lula e Rousseff, in cui la presidente avvisa Lula che sta per inviargli il decreto di nomina ministeriale, da usare "in caso di necessità". Secondo Moro, ciò dimostrerebbe che la nomina di Lula è stata fatta per ostacolare la giustizia.
Nel mezzo delle proteste di piazza, il governo ha annunciato che la cerimonia di giuramento di Lula, prevista originariamente per martedì prossimo, è stata anticipata alle 10 di oggi, le 14 in Italia.
Ansa» 2008-11-09 14:26
ITALIA-BRASILE, LULA A ROMA
CIAMPINO (ROMA) - Il presidente del Brasile Luiz Inacio Lula da Silva è arrivato a Roma per la visita di Stato in Italia da domani a giovedì. Accompagnato dalla moglie Marisa Leticia, che è anche cittadina italiana essendo originaria del bergamasco, Lula è stato accolto all’aeroporto militare di Ciampino dal ministro delle Pari Opportunità, Mara Carfagna. Ad attendere il presidente, tra gli altri, c’erano il capo del Cerimoniale diplomatico della Repubblica, ambasciatore Leonardo Visconti di Modrone, l’ ambasciatore italiano in Brasile, Michele Valensise, l’ ambasciatore brasiliano a Roma, Adhemar G. Bahadian, e presso al Santa Sede, Vera Barrouin Machado. Per la Segreteria di Stato del Vaticano, erano presenti a Ciampino l’arcivescovo Erwin J. Ender e il capo del Cerimoniale, Fortunatus Nwachukwu. Il ministro Carfagna, occhiali scuri, tubino nero con giacchina verde muschio corta in vita e collo ad anello, ha salutato ai piedi dell’aereo prima Lula poi la moglie. Quindi ha accompagnato il capo dello Stato brasiliano nel salone di accoglienza della palazzina del 31° Stormo.
Lula si è intrattenuto una decina di minuti nella sala di rappresentanza del 31° Stormo con il ministro Carfagna e con le personalità venute ad accoglierlo a Ciampino. Poi ha preso posto con la moglie su una Limousine Maserati, con la quale si è recato nella sede dell’ambasciata brasiliana a Piazza Navona. Subito dopo ha lasciato sorridente l’aeroporto di Ciampino anche il ministro Mara Carfagna.
E’ fitto di appuntamenti il programma di incontri che attendono il presidente brasiliano Luiz Inacio Lula da Silva, giunto stamani in a Roma, e che da domani a giovedì incontrerà il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, il premier Silvio Berlusconi, oltre a numerosi rappresentanti del mondo politico e industriale italiano. Giovedì Lula sarà ricevuto in udienza in Vaticano dal Papa. Domani mattina il presidente e la moglie, Marisa Leticia, si trasferiranno al Quirinale dove saranno ospiti di Napolitano fino a mercoledì. Lula si intratterrà quindi a colloquio con il capo dello Stato ad una colazione privata, mentre la sera verrà offerto in suo onore il pranzo di Stato. Alle 16 l’incontro con il presidente della Camera, Gianfranco Fini, a Montecitorio. Martedì, a Villa Madama, è in programma alle 13 un colloquio con Berlusconi, che Lula aveva incontrato ai primi di giugno in occasione del vertice Fao a Roma. Il colloquio verrà seguito da una colazione di lavoro e dalla firma di una serie di accordi, presenti tra gli altri i ministri Franco Frattini, Claudio Scajola, Maurizio Sacconi e Altero Matteoli. Nel pomeriggio Lula sarà in Confindustria dove incontrerà, tra gli altri, il presidente Emma Marcegaglia.
Mercoledì mattina il commiato al Quirinale e l’incontro a Campidoglio con il sindaco di Roma Gianni Alemanno. Giovedì mattina, conclusa la parte ufficiale della visita a Roma, Lula sarà ricevuto in udienza in Vaticano da Papa Ratzinger, prima di lasciare la capitale. Accanto agli impegni ufficiali, il programma privato della moglie di Lula prevede, martedì, una visita alla Basilica di Santa Croce in Gerusalemme, dove la ’first lady’ brasiliana si soffermerà nella biblioteca, nel chiostro e nell’orto con le mura del II secolo dopo Cristo. Accompagnata ed ospite della brasiliana Mirella Martelli, direttrice del complesso basilicale e segretaria generale dell’associazione ’Amici di Santa Croce in Gerusalemme’, la consorte di Lula si fermerà anche a colazione con i monaci, uno dei quali è di San Paolo del Brasile. Un’analoga visita al complesso basilicale era stata organizzata recentemente per la signora Laura Bush e per la cantante Madonna durante i loro soggiorni a Roma. Un altro impegno in programma per la ’first lady’ è la visita alla Galleria d’arte Borghese.
Anticipazione *
Il Presidente Napolitano incontra il Presidente Lula in visita di Stato in Italia
Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano riceverà il Presidente della Repubblica Federativa del Brasile, Luiz Inacio Lula da Silva, in visita di Stato in Italia dal 10 al 12 novembre 2008.
La visita si inserisce in una fase di intensificazione delle relazioni bilaterali, offre l’opportunità di consolidare ulteriormente la forte collaborazione esistente tra i due Paesi e costituisce una occasione di confronto sui principali temi dell’attualità internazionale. Il Presidente Lula sarà accompagnato dai principali esponenti del Governo brasiliano e da una delegazione imprenditoriale.
PAPA IN BRASILE: LULA CONFERMA LA LAICITA’ DELLO STATO *
SAN PAOLO - Il presidente Luiz Inacio Lula da Silva ha sostenuto, durante il suo colloquio con papa Benedetto XVI, che il Brasile continuerà ad essere uno Stato laico. Lo ha reso noto a San Paolo l’ambasciatore brasiliano presso la Santa Sede, Vera Machado. Durante il colloquio, a cui la stampa non è stata ammessa, ha proseguito Machado, Lula ha anche illustrato al Pontefice i progressi realizzati in Brasile con i biocombustibili e la possibilità di includere l’Africa nel processo produttivo. In nessun momento, ha assicurato il diplomatico, nelle conversazioni è emerso il tema dell’aborto. Secondo fonti giornalistiche brasiliane, infine, sono stati evocati anche i temi della famiglia e della missione di Chiesa e Stato per la costruzione della pace.
L’INCONTRO CON LULA, COLLOQUIO DI 10 MINUTI
L’incontro alle 11 (le 16 italiane) fra Benedetto XVI e il presidente brasiliano Luiz Inacio Lula da Silva nel Palazzo dos Bandeirantes è durato una decina di minuti. Nulla è trapelato sul tenore delle conversazioni, ma è plausibile indicare che il Pontefice abbia ribadito le preoccupazioni della Santa Sede sull’aborto, mentre il capo dello Stato brasiliano ha sollecitato sostegno ai programmi sociali come quello denominato Fame Zero. Il Papa ha incontrato anche il governatore dello Stato di San Paolo, José Serra. Lula e la moglie Marisa hanno donato al Pontefice un libro illustrato sul pittore Candido Portinari ed un quadro con l’immagine di Benedetto XVI realizzata dal pittore Roberto Camasmie, che è stato esposto e commentato dai presenti per alcuni minuti. Da parte sua, il governatore Serra ha donato all’ospite una Bibbia in portoghese del peso di 15 kg che, assicurano le cronache, sarà inviata a parte in Vaticano. Successivamente i presenti hanno partecipato ad una cerimonia di annullamento del primo francobollo commemorativo realizzato in ricordo della visita, che Lula ha regalato a Benedetto XVI.
Il Pontefice ha lasciato poco prima delle 12 (le 17 italiane) il Palazzo dos Bandeirantes, per rientrare al monastero di San Benedetto, dove lo attendono un incontro con i rappresentanti di altre confessioni ed una colazione con i membri della Conferenza nazionale dei vescovi brasiliani (Cnbb). Deciso a dare un tono più disteso alla sua visita pastorale in Brasile, papa Benedetto XVI è stato protagonista del suo secondo fuori programma della giornata nel Palazzo dos Bandeirantes, pochi minuti prima di incontrare il presidente Lula da Silva ed il governatore Serra. Dopo essere uscito a sorpresa in mattinata sul balcone blindato del monastero di San benedetto per impartire una benedizione, il Pontefice ha deciso di visitare una esposizione di arte sacra - ’Arte sacra - genesi della fede nel nuovo mondo’ - che deve essere inaugurata il 14 maggio.
* ANSA » 2007-05-10 19:47
La stampa Usa: Brasile? Il Papa non lo conquisterà *
Il Papa Joseph Ratzinger«Troppo europeo». È addirittura l’autorevole New York Tymes a definire così Papa Benedetto XVI, «la quintessenza del cattolicesimo europeo», che «non ha molto da dire» ai diseredati del Brasile. D’altronde, «il Brasile è diventato un mosaico religioso», dichiara alla stampa Usa Silvia Fernandes, sociologa dell’università di Rio de Janeiro. Di più, secondo il Washington Post i pentecostali sono più efficaci dei preti cattolici nell’affrontare i temi che più di tutti inquietano le masse sudamericane: la povertà e le diseguaglianze sociali. Insomma, non sarà Benedetto XVI a riconquistare il Sud America alla fede cattolica. Se ne dice sempre più convinta parte della stampa Usa, secondo cui Papa Ratzinger non è in grado di andare incontro alle esigenze dei milioni di fedeli che in Messico, Cile e soprattutto Brasile si rivolgono alle sette pentecostali voltando le spalle al Vaticano.
Il New York Times cita ad esempio le parole del cardinale Claudio Hummes, ex arcivescovo di San Paolo, secondo il quale «l’America Latina rischia di andare perduta» ed è un lusso che la Chiesa di Roma non può permettersi. «Ecco perchè il Papa è qui» ha detto Hummes, uno dei favoriti nel conclave dal quale uscì pontefice Benedetto XVI, «la perdita dell’America Latina sarebbe enorme e potrebbe essere irreparabile».
Ma c’è di più. Un sondaggio realizzato dall’istituto brasiliano DataFolha registra un dato allarmante per il Vaticano: l’89 per cento della popolazione brasiliana che nel 1980 di diceva cattolica è oggi sceso al 64 per cento. Secondo Philip Jenkins, docente di studi religiosi alla Penn State University, la sfida dei pentecostali sarà la più dura del papato di Benedetto XVI. E una platea fatta soprattutto da giovani che non si sente più coinvolta nella ritualità cattolica e trova negli show di personaggi come Marcelo Rossi un predicatore da seguire. «I preti non sono showman» ha contestato l’arcivescovo Odilo Scherer riferendosi alle coreografiche funzioni di Padre Rossi, «la Messa non deve essere trasformata in uno spettacolo».
Ma secondo il New York Times la figura giusta per strappare fedeli ai pentecostali non è Papa Benedetto. E la memoria corre alla visita di due settimane del 1980 di Giovanni Paolo II che lasciò un segno profondo nelle favelas: il pontefice volle incontrare le comunità povere alle quali donò il suo anello, mentre Benedetto XVI si limiterà a una breve ncursione in un centro di recupero per tossicodipendenti. Per non parlare della delusione per la mancata ascesa di Hummes, «il vescovo dei lavoratori», amico personale di Ignacio Lula da Silva, al soglio pontificio.
* l’Unità, Pubblicato il: 09.05.07, Modificato il: 09.05.07 alle ore 19.20
La Chiesa in Brasile è riuscita a contenere la fuga dei cattolici, il paese con il maggior numero nel mondo
Río de Janeiro (Agenzia Fides) - Secondo uno studio diffuso dalla “Fondazione Getulio Vargas”, la percentuale dei cattolici in Brasile, che negli anni Novanta ebbe un calo drastico, si è mantenuta del 73,79% nel 2003, di fronte al 73,89% del 2000.
Il rapporto è stato reso noto precisamente una settimana prima della visita che Papa Benedetto XVI farà in Brasile tra il 9 e il 13 maggio. Il paese continua ad essere quello che conta il maggior numero di cattolici nel mondo nonostante la perdita di fedeli. Nel 2003 la popolazione cattolica era di 129,76 milioni, contro i 125,53 milioni del 2000. Secondo la Fondazione, oggi i cattolici possono arrivare a 139,24 milioni.
Il rapporto “Studio delle Religioni: Cambiamenti Recenti”, si è basato sulle statistiche raccolte dall’Istituto statale brasiliano di Geografia e Statistiche del 2003 e le ha comparate con quelle raccolte nei censimenti della popolazione. Questi ultimi indicavano che la percentuale di cattolici nel paese è calata dal 83,34% nel 1991 al 73,89% nel 2000. Nel 1940, i cattolici erano il 95,01% della popolazione e, da allora, hanno iniziato a diminuire fino al 93,48% nel 1950, 93,07% nel 1960, 91,77% nel 1970, 88,96% nel 1980 e 83,34% nel 1991.
Al contrario, la percentuale di evangelici, comprese le nuove chiese, è aumentata dal 6,6% nel 1980 al 9% nel 1991 e al 16,2% nel 2000. Secondo lo studio, nonostante in Brasile ci siano 4,7 cattolici ogni evangelico, il numero di pastori evangelici è 3,7 volte superiore a quello dei sacerdoti cattolici (comprese le religiose), cioè ci sono 17,9 volte più pastori evangelici per ogni fedele che sacerdoti cattolici.
La ricerca dimostra inoltre che i cattolici sono più concentrati nelle zone rurali, dove vive il 19,7% dei fedeli della Chiesa. Il numero dei cattolici è superiore tra i maggiorenni. Mentre il 73,79% della popolazione in generale si dichiara cattolica, la percentuale arriva al 77,53% tra gli adulti di oltre 60 anni. (AP) (3/5/2007 Agenzia Fides; Righe:28; Parole:347)
Alla vigilia del viaggio apostolico, il Brasile rifiuta di firmare il trattato proposto dalla Santa Sede.
di Jamil Chade
8-mag-2007 *
CITTA’ DEL VATICANO - Il Vaticano non riuscirà a raggiungere uno dei principali obiettivi politici del viaggio papale: la firma di un accordo con il governo brasiliano, che garantisca alla Chiesa i suoi diritti nel territorio nazionale, comprese le esenzioni fiscali che già gode, gli impegni nel settore educativo e l’autorizzazione ai missionari di entrare nelle riserve ecologiche e indigene.
Il governo ha paura che l’accordo, in futuro, sia interpretato come una maniera per ostacolare dei cambiamenti nelle leggi sull’aborto, perché risulterebbe che lo Stato brasiliano e il Vaticano condividono gli stessi valori. L’ambasciatrice presso la Santa Sede, Vera Machado, ha negato che il suo governo abbia già preso una decisione al riguardo: “L’accordo è in discussione e non c’è nessuna decisione precostituita”.
Il Brasile si è rifiutato di firmare l’accordo proposto alla fine dell’anno scorso e ha suggerito una versione più soft, citando le sue buone relazioni con il Vaticano e rimandando ogni questione alla Costituzione e al Codice Civile.
Il ministro Celso Amorim non parteciperà, con una scusa ufficiale, all’incontro tra il papa e il presidente Luiz Inácio Lula da Silva e il Vaticano non invierà il suo “ministro” degli Esteri, Dominique Mamberti, perché si tratta di un viaggio pastorale. Da parte brasiliana, solo Vera Machado sarà presente. Secondo lei, l’accordo non è nell’agenda dell’incontro, perché si tratta di una visita pastorale. “L’accordo sarà discusso in altra circostanza”.
Temi rimandati
Lula promette di ricambiare la visita in settembre per mantenere buone relazioni tra il Paese più cattolico del mondo e la Chiesa. Quanto all’accordo, il Vaticano sostiene che diversi governi hanno già stipulato accordi simili, tra i quali l’Italia. Uno dei paesi che ha rinnovato il suo accordo con il Vaticano, è il Portogallo, nel 2004. L’intesa riconosce alla Chiesa personalità giuridica, le festività religiose e l’esenzione del clero dagli obblighi giudiziari. Ma include temi più delicati: il matrimonio religioso é equiparato a quello civile, il divorzio è considerato qualcosa di “grave”, “l’educazione morale e religiosa è quella cattolica”.
Nel caso del Brasile, diverse leggi garantiscono alla Chiesa certi privilegi, come l’esenzione fiscale e il riconoscimento della struttura di potere. Ma il Vaticano adesso vorrebbe riunire tutte queste leggi in un documento unico. Alla fine dell’anno scorso, la Chiesa ha inviato una proposta, prendendo Brasilia di sorpresa. Il Ministero degli Esteri ha convocato il Ministero delle Finanze per discutere ciò che questo implicherebbe per i conti della nazione, dal momento che l’esenzione non è solo per le parrocchie, ma anche per seminari e altre realtà religiose. In pratica, l’accordo non sarebbe per una maggior esenzione, ma in futuro ingesserebbe il governo per qualunque cambiamento. Inoltre si teme che il gruppo evangelico del Congresso (10% dei parlamentari) si organizzi per ottenere un accordo simile per le sue Chiese.
L’accordo potrebbe anche servire come un meccanismo in più, perché il Vaticano si garantisca l’insegnamento religioso nelle scuole pubbliche. La Chiesa, nella sua proposta iniziale, parlava di “insegnamento cattolico”, ma ha deciso di alleggerire i termini per tentare un accordo, ma neanche così è stato approvato dal governo.
Nonostante non si parli direttamente di aborto, il governo teme che l’accordo possa essere usato in futuro per fare pressioni contro le riforme della legge che permettono l’aborto. Un altro punto che spaventa il governo è la proposta che i missionari godano di libero accesso e protezione nelle riserve indigene e ambientali, come l’Amazzonia. La Chiesa è rimasta preoccupata per la morte di suor Dorothy Stang e la citazione dell’argomento nell’accordo sarebbe considerata una forma di richiesta di protezione per i missionari.
* IL DIALOGO, Martedì, 08 maggio 2007
Messico, approvano l’aborto Il Cardinale li scomunica
A 46 deputati: non entrate in chiesa *
L’arcidiocesi di Città del Messico ha scomunicato il sindaco di Città del Messico, Marcelo Ebrard, e tutti i deputati del «Distrito federal» che hanno votato e approvato la settimana scorsa il provvedimento di depenalizzazione dell’aborto. La notizia è stata data ufficialmente dalla stessa arcidiocesi guidata dal cardinale Norberto Rivera Carrera, che in questi giorni si trova a Roma.
Il portavoce del cardinale, il sacerdote Hugo Valdemar, riferendosi ai parlamentari di Città del Messico - la capitale è governata da una maggioranza di sinistra - ha affermato: «Abbiano la decenza di non entrare in cattedrale né in nessuna altra Chiesa cattolica del mondo finché non saranno perdonati». La scomunica ha precisato Valdemar, «è un fatto, una legge della Chiesa che si applica ai cattolici».
Il Parlamento del Distretto Federale ha approvato la legge con 46 voti a favore e 19 contrari, il provvedimento ammette l’aborto entro le prime 12 settimane di gravidanza. La discussione della legge è stata accompagnata da forti polemiche e da dimostrazioni di piazza da una parte e dall’altra, mentre la Chiesa ha fatto sentire la sua voce. Anche dal Vaticano è arrivato un messaggio di Benedetto XVI che invitava i vescovi del Messico a difendere la vita.
Si tratta di una svolta in America Latina, in quanto l’unico Stato che fino ad ora si era dotato di una legislazione favorevole all’interruzione di gravidanza era Cuba. In questi mesi la discussione sull’aborto e quindi su leggi che ne permettessero la pratica, si è aperta in Paesi come il Brasile e l’Argentina, che insieme al Messico sono fra i paesi cattolici più grandi del mondo. La scomunica contro i politici che hanno votato la legge favorevole alla depenalizzazione dell’aborto rappresenta poi una presa di posizione particolarmente dura da parte della Chiesa messicana sulla quale lo stesso Vaticano nei giorni scorsi aveva espresso qualche perplessità.
Secondo il codice di diritto canonico infatti la scomunica latae sententiae appannaggio del vescovo, comprende chi ricorre alla pratica dell’aborto, cioè la donna, e chi lo rende possibile, cioè lo attua, vale a dire i medici. I politici fino ad ora non erano stati chiamati in causa per la scomunica ma solo richiamati con estrema fermezza a una coerenza di comportamenti con la dottrina della Chiesa in materia. Dunque quanto affermato dall’arcidiocesi della capitale messicana costituisce un ulteriore escalation nel confronto-scontro che in questi mesi divide la Chiesa da settori importanti della politica e delle istituzioni nell’area latinoamericana. Di fatto la linea di dura intransigenza inaugurata da Norberto Rivera Carrera sull’aborto viene messa in campo dalla Chiesa a pochi giorni dall’arrivo del Pontefice in Brasile a San Paolo e dall’inizio della V conferenza dell’episcopato latinoamericano.
Il sindaco Marcelo Ebrard, Partito della rivoluzione democratica (Prd, di sinistra), intanto, ha chiesto alla Conferenza episcopale messicana le carte della sua scomunica ovverosia la «copia del procedimento di scomunica» per vedere se esso «è conforme con le procedure vaticane». Il sindaco della metropoli messicana si è dichiarato cattolico ma ha detto di essere alla guida di un «governo responsabile». «L’unica cosa che voglio dire ai vescovi messicani è che viviamo nel XXI secolo, non nel XVI», ha detto Ebrard.
Senza prendere in considerazione la richiesta di un referendum presentata da più di 76 mila cittadini, l’Assemblea Legislativa del Distretto Federale (ALDF) aveva approvato il 24 aprile scorso la proposta di riforma al Codice Penale che contempla appunto la depenalizzazione dell’aborto durante le prime 12 settimane di gestazione. La nuova legge, approvata con 46 voti a favore, 19 contrari ed una astensione, contempla la riduzione delle pene per le donne che decidano di interrompere la gravidanza dopo il termine delle dodici settimane. Nella stessa sessione l’Assemblea Legislativa ha approvato anche una serie di cambiamenti nella Legge Sanitaria locale secondo cui le istituzioni sanitarie pubbliche della città dovranno rispondere alle richieste di interruzione della gestazione da parte delle richiedenti, e obbliga il Governo a promuovere la salute sessuale ed i diritti riproduttivi, come la maternità e paternità responsabile.
Città del Messico si è così aggiunta a Cuba, Guayana e Porto Rico, che sono per il momento gli unici luoghi in America Latina e nei Caraibi che permettono questa opzione. Alla vigilia della votazione, i Vescovi di Oaxaca hanno pubblicato un comunicato nell’intento di chiarire alcuni aspetti e rispondere ad alcune domande che si usano come pretesto per giustificare e promuovere condotte contrarie alla vita. I Vescovi avevano ricordato che «benchè un governo depenalizzi l’aborto, questo continuerà ad essere un crimine abominevole e seguirà ad essere vigente il comandamento di Dio: "Non uccidere". Le alternative per la soluzione di questo problema dovranno ricercarsi nell’intensificare gli sforzi tesi a migliorare la salute e l’educazione autentica e completa».
* l’Unità, Pubblicato il: 30.04.07, Modificato il: 30.04.07 alle ore 13.48
Le spine brasiliane del Papa
di Maurizio Chierici *
È il viaggio più lungo e complicato di Benedetto XVI. Il 13 maggio apre la conferenza dei mille vescovi latini nel cuore spirituale del Brasile: santuario di Aparecida, 200 chilometri da San Paolo. Basilica dove 7 milioni di pellegrini ogni anno accendono candele. Se questa è la cornice, i problemi del continente dove vive più o meno la metà dei cattolici del mondo, e i problemi del Brasile nel quale i fedeli che guardano Roma sono 126 milioni guidati da 352 vescovi, restano nodi non solo mai sciolti, ma aggravati dalla miseria che ingrigisce il 41 per cento della popolazione sudamericana. Sfinimento endemico: liberismo e globalizzazione lo hanno esasperato. Ricchi-ricchi, poveri-poveri. Roma e il Vaticano vengono considerati vicini e lontani non tanto nell’interpretazione della dottrina ma dalla specificità dell’osservatorio sociale. L’essere cattolici nelle favelas brasiliane, o nei ranchos di Caracas, o nelle villas miserias di Buenos Aires e nei pueblos jovenes di Lima, mette in conto la diversità da chi prega nei quartieri rosa.
Il Vangelo può essere vissuto in modo diverso, non dai pastori arrembanti delle sette pentecostali, ma dagli stessi sacerdoti che obbediscono a Roma. Il futuro della Chiesa non appare semplice nel continente spagnolo sospeso tra le speranze suscitate dalla Teologia della Liberazione e l’obbedienza ripristinata al centrismo romano. L’autonomia prevista dal Concilio Vaticano II alle chiese locali è stata dimensionata da un rigore che affievolisce gli entusiasmi dei fedeli senza nome. Ed essendo la regione più cristiana del mondo, l’America Latina diventa laboratorio dove cattolici e protestanti cercano l’incontro con le folle che aspettano la speranza. Quando era giovane vescovo, il cardinale Hulmes ha animato nella sua diocesi attorno a San Paolo, Brasile, le pastorali del cardinale Arns protettore della teologia della liberazione: pastorale degli operai, pastorale dei fantasmi delle periferie. In prima fila col sindacalista Lula da Silva dava voce alle proteste dei lavoratori considerati braccia e non uomini. La «disobbedienza» al romacentrismo nel tempo si è attenuata: Benedetto XVI lo ha nominato prefetto della Congregazione per il Clero, tutore di una rinascita cattolica che Hulmes confessa non semplice: «In Brasile i cattolici diminuiscono dell’1% l’anno», un milione in meno ogni 12 mesi. Nel 1991 i brasiliani cattolici rappresentavano l’83% della gente. Oggi sono appena il 67%. Le nuove chiese contano il 10% dei fedeli e continuano ad allargarsi. Incremento dei cattolici 0,28; incremento delle Sette 8,30. Per ogni pastore cattolico vi sono due pastori protestanti. I sacerdoti dovrebbero essere 120 mila, sono 17 mila. Ci domandiamo: fino a quando il Brasile sarà ancora un paese «cattolico»?
Non le chiamerei Sette. Definizione spregiativa. Sono cristiani che meritano rispetto. Stanno dominando un settore fondamentale della modernità e della postmodernità: radio, Tv, ogni mezzo di comunicazione. La teologia della liberazione aveva proposto le comunità ecclesiali di base. Alcuni vescovi continuano a seguire questi modelli pastorali, preziosi per la funzionalità delle «parrocchie negli anni in cui tanti preti vengono a mancare». Parole di Frei Betto, che ha abbandonato il sacerdozio. «Le chiese pentecostali non sono una tragedia», è il parere di Leonardo Boff, teologo della liberazione: «processato» e ridotto allo stato laicale dal cardinale Ratzinger. «Contribuiscono a tener viva la spiritualità della gente bisognosa di dialogare con tutte le chiese». L’oscuramento dei teologi della liberazione ha coinciso col dilagare del neoliberismo mentre le dittature militari si trasformavano in democrazie formali, più o meno le stesse famiglie a tutela degli stessi interessi delle multinazionali. Il teatrino ambiguo di queste democrazie ha attenuato le persecuzioni ma aggravato l’emarginazione, mentre le comunità della Liberazione ammutolivano. Il sospiro di Pedro Casaldaliga, uno dei vescovi guida, non aiuta l’ottimismo: «Cos’è rimasto? Sono rimasti i poveri ed è rimasto Dio». I teologi si incontrano a Porto Alegre, organizzando meeting programmatici; per il momento Roma resta lontana. E le sette hanno riempito il vuoto e galoppano. È il nodo che il viaggio del Papa prova a sciogliere. Galoppano per due ragioni: «Usano capillarmente la modernità dei mezzi di comunicazione come la Chiesa non fa», ripete Frei Betto. Battono i tamburi della religione-spettacolo: miracoli in diretta Tv, posti d’ascolto seminati in ogni angolo delle città.
La teologia della liberazione può riprendere vigore? Non solo le gerarchie della Chiesa, gli stessi fratelli Boff danno risposte diverse: «Può, perché segue le mutazioni della società. Si è radicata in movimenti sociali alla ricerca di una normalità finora negata. I Sem terra, per esempio», risponde Leonardo. «Può, perché la teologia della liberazione nasce dalla spiritualità e dalla fede ma questa fede bisogna nutrirla e non pensare soltanto alla lotta contro Bush, la guerra, e il neoliberismo». Anche Clodis Boff è un teologo. «Dov’è scritto che la Chiesa ha perseguitato la teologia della liberazione come scrivono i giornalisti? Giovanni Paolo II ripeteva che è una teologia “utile, opportuna e necessaria”. È viva». Alla vigilia del viaggio papale la Congregazione della Fede ha segnalato gli «errori» contenuti in due saggi di Jon Sobrino, mitigando la condanna annunciata del gesuita che insegna all’Uca, università di San Salvador. Roma affida alla decisione della Chiesa locale (primate Saenz Lacalle, spagnolo e Opus Dei; con le mostrine di generale dell’esercito in quanto assistente spirituale delle forze armate, ha celebrato sull’altare del vescovo Arnulfo Romero), Roma affida la decisione di consentire o impedire l’insegnamento di Sobrino i cui libri conterrebbero «elementi che non concordano con la dottrina della Chiesa». Il grande incontro aperto da Benedetto XVI in Brasile dovrà ribadire o sfumare queste diffidenze. «Una delle grandi sfide della Conferenza sarà come evangelizzare la politica e i politici, come poter dialogare col mondo dell’economia, perché la globalizzazione non è né cattiva né buona: deve essere per lo sviluppo dell’uomo e per il bene comune e non solo per pochi. Le vere armi di distruzione di massa restano la povertà, l’ingiustizia sociale e la corruzione». Chi va a messa alla domenica si considera discepolo di Dio, dice il cardinale Andrés Rodriguez Maradiaga, primate dell’Honduras, «ma durante la settimana troppi si trasformano in discepoli di Machiavelli più che della Bibbia». Maradiaga appariva fra i papabili; 64 anni, molto amato nel suo paese. Quando era presidente della Commissione Episcopale latina ripeteva: «Il rapporto che deve accompagnare la nostra missione continua a misurarsi con popolazioni non felici. La Chiesa non deve solo tenerne conto, ma impegnarsi a rimuovere l’infelicità». Difensore molto cauto della teologia della liberazione, è un diplomatico convincente: parla cinque lingue, suona, canta, pilota aerei ed è conoscitore non banale dell’economia. Aveva insistito con Giovanni Paolo II per ottenere la quinta conferenza episcopale latina. Dopo la morte del Papa, è tornato alla carica con Benedetto XVI: nel 2005, l’assenso. Lo racconta a Popoli, rivista internazionale dei gesuiti di Milano. La direzione è passata da padre Bartolomeo Sorge a Stefano Femminis, cambia la generazione non la linea di intelligente apertura.
Se Roma e le nuove chiese si rivolgono agli ultimi, altre istituzioni inseguono una borghesia soprattutto benestante. Primate del Peru è il cardinale Cipriani, primo vescovo in anni lontani a dichiararsi Opus Dei. Nemico radicale della teologia della liberazione: l’accusava di «sconvolgere la dottrina con aberrazioni marxiste». Ma l’America Latina è lo spazio naturale dove si moltiplicano esperienze mirate a plasmare rapporti di integralismo e obbedienza tra Chiesa e fedeli. L’impegno non cambia: la formazione di una classe dirigente destinata a programmare il futuro non solo nel continente. Come l’Opus Dei, rete di collegi e università, i Legionari di Cristo si considerano «gli ussari neri del Papa». Apparsi in Messico nel 1920, sono cresciuti durante il pontificato di Giovanni Paolo II. Con un rigore sconosciuto alle comunità più severe, inseguono l’Opus Dei: naturalmente scuole, università. Ce n’è una anche a Roma e se ne aprono nei paesi ex comunisti. Ma l’America Latina resta terra naturale di conquista. La loro determinazione è temuta dai diseredati. L’ultima esperienza viene dall’Argentina: esporta i sacerdoti ultraconservatori del Verbo Incarnato. Si formano all’Ive, istituto fondato nel 1984 a San Rafael sotto le Ande, da padre Miguel Buela, legato all’estrema destra e protetto dal vescovo Leon Kruk. Negli anni della dittatura, Kruk sosteneva i vescovi Tortolo e Victor Bonamin le cui omelie giustificavano la mano dura dei militari della repressione. Il ritorno alla democrazia non ha scoraggiato questi «soldati della Chiesa». La loro promessa si è allargata a 75 diocesi argentine e in 38 paesi del mondo. Un esercito di 1550 preti e suore del Verbo sta «evangelizzando» America Latina, Europa, Usa, ma anche Siberia e Kazakistan; da poco inaugurato un seminario metropolitano a San Pietroburgo e un centro spirituale a Grosseto.
Ultimo nodo, ma non per importanza, il rapporto tra Chiesa e politica. Gli anni lontani di quando Giovanni Paolo II alzava il dito del rimprovero verso Ernesto Cardenal e altri sacerdoti, ministri sandinisti del Nicaragua del primo Ortega, sono un ricordo. Nuovi scenari agitano il Vaticano. La dissonanza tra la presidenza argentina e il cardinale Bertoglio, primate d’Argentina: incontra i politici all’opposizione e dà via libera a un vescovo che nella provincia di Missiones guida il referendum popolare contro la rielezione del governatore fedelissimo di Kirchner. Vince e torna in Europa. E c’è la patata bollente del vescovo Lugo, nel Paraguay addormentato. Lascia la diocesi e l’abito talare per correre alle presidenziali come leader di movimenti contadini: vuol mandare a casa gli eterni notabili che continuano la politica del dittatore Stroessner. La Chiesa condanna e invita a trascurare queste tentazioni. A Cuba il nuovo vescovo di Pinar del Rio taglia i fondi a Vitral, rivista della Chiesa «troppo dispettosa verso l’autorità politica». O a Caracas nella quale è arrivato un nunzio apostolico di provata diplomazia. Il nunzio precedente, André Dupuy, aveva animato dietro le quinte il colpo di stato contro Chavez. A nome del Vaticano si era affrettato a riconoscere la nuova autorità del presidente degli imprenditori Pedro Carmona. Pedro il breve: solo 36 ore di regno. Dupuy non si era fermato. Discorsi, convegni e un ultimo messaggio d’addio: dovete resistere e preparatevi a rovesciare il dittatore.
Tante chiese, tante anime. Povero Papa.
mchierici2@libero.it
* l’Unità, Pubblicato il: 30.04.07, Modificato il: 30.04.07 alle ore 8.37
L’album con l’inno per la visita del Papa è già disco d’oro ! 75.000 le copie vendute nel giorno in cui è stato lanciato
Il CD “Benedetto, benedetto colui che viene nel nome del Signore”, che contiene l’inno composto per la visita di Papa Benedetto XVI in Brasile nel maggio prossimo, è stato presentato il 25 marzo scorso e nello stesso giorno è diventato “Disco d’Oro” per aver venduto 75.000 copie.
Il CD è stato presentato durante la prima Messa della mattina di domenica nella chiesa di Nostra Signora di Aparecida, il più grande santuario dei Brasiliani, dove il Papa giungerà per inaugurare la V Conferenza del Consiglio Episcopale Latinoamericano e del Caribe.
L’album è stato prodotto in collaborazione tra il Santuario Nazionale di Nostra Signora di Aparecida e l’impresa Codimuc, che ha ricevuto 75.000 commissioni prima che la colonna musicale ufficiale della visita del Papa fosse cantata domenica scorsa dal suo compositore sull’altare del santuario.
La produzione del disco è di Dalvimar Gallo, gli arrangiamenti di Carlos Henrique (del gruppo “Filhos de Davi”) e Marcelo Duarte (del gruppo “Anjos de Resgate”).
La musica dell’album è stata selezionata dalla Conferenza Episcopale del Brasile.
“E’ un lavoro artistico di grande qualità che esprime l’affetto del popolo brasiliano nell’accogliere il Papa”, ha affermato il direttore artistico dell’album, il sacerdote Josafá Moraes, citato sulla pagina ufficiale di Internet relativa alla visita del Papa in Brasile (www.visitadopapa.org.br).
Il disco contiene due versioni diverse di “Benedetto, benedetto colui che viene nel nome del Signore”. Una è stata registrata dai Cantori e Organisti del Santuario di Nostra Signora di Aparecida, l’altra è cantata dal duo popolare Gian e Giovani, devoti del Santuario.
L’inno è stato composto dal religioso Luiz Turra e ha vinto un concorso organizzato dall’episcopato brasiliano al quale hanno partecipato quindici composizioni.
“La musica è facile da imparare e speriamo che al Papa, che è pianista, piaccia tanto quanto a Papa Giovanni Paolo II piacque quella che avevamo composto durante la sua seconda visita in Brasile”, ha affermato l’Arcivescovo di Aparecida, monsignor Raymundo Damasceno, ricordando la composizione dal titolo “La tua benedizione, Giovanni di Dio”, che ancora oggi viene interpretata in alcune cerimonie religiose.
L’album include anche quattro nuove versioni di musiche religiose come “Madre Aparecida” e “Vergine Madre Aparecida”, registrate da musicisti famosi come Daniel, Elba Ramalho e Joanna, e dal gruppo “Anjos do Resgate”.
Quest’ultimo, considerato uno dei maggiori fenomeni della musica religiosa in Brasile, il Paese con il più alto numero di cattolici del mondo, si esibirà il 10 maggio prossimo durante l’“Incontro con la Gioventù” che il Papa celebrerà nello stadio Pacaembú della città di San Paolo.
L’album viene venduto a 9,90 Reais (circa 3,6 Euro) insieme a un’immagine di Benedetto XVI.
Il Papa sarà in Brasile dal 9 al 13 maggio, e oltre a San Paolo e ad Aparecida si recherà anche a Guaratinguetá, nell’interno dello Stato di San Paolo, dove visiterà una fattoria finalizzata al recupero dei tossicodipendenti.
dal sito Zenith.org