La teologia della liberazione in America latina
di François Houtart *
Negli ultimi venti anni, la teologia della liberazione in America latina ha conosciuto un notevole slancio. L’aggressione neoliberista in tutto il mondo e l’alleanza politica ecclesiale fra Roma e Washington degli ultimi anni hanno contribuito alla ripresa delle forme di resistenze [teoriche e pratiche] sostenute dai movimenti sociali che si richiamano alla teologia della liberazione, come hanno dimostrato anche i forum sociali mondiali. Pubblichiamo un lungo e interessante saggio di François Houtart diffuso da Punto rosso.
1. Sulla natura della teologia della liberazione (1)
Si tratta proprio di una teologia, cioè di un discorso su Dio. Il percorso però è specifico, giacché è esplicitamente contestuale. Si potrebbe dire che ogni teologia è contestuale, perché viene prodotta in una cultura e in condizioni precise. Ma la teologia della liberazione è diversa da altre correnti di pensiero perché riconosce esplicitamente che il suo percorso è legato al contesto socioculturale nel quale si esprime. Altre teologie avevano affermato lo stesso principio, per esempio la teologia di Jean-Baptiste Metz, dell’Università di Munster in Germania, o la teologia delle realtà terrestri di Gustave Tills all’Università cattolica di Lovanio.
La teologia della liberazione assume come punto di partenza la situazione degli oppressi. E’ quel che si definisce un "luogo teologico", cioè una prospettiva a partire dalla quale si costruisce il discorso su Dio. Un Dio d’amore non può esistere con l’ingiustizia, lo sfruttamento, la guerra. Dunque, come diceva recentemente un teologo, si tratta di una teologia che non si domanda se Dio esista, ma dove si trovi. E’ la realtà delle lotte sociali e l’impegno dei cristiani in favore della giustizia che formano la base di elaborazione del pensiero in questione.
Un percorso del genere esige anzitutto un’analisi sociale. Noi viviamo in una società complessa, mondializzata, difficile da capire a prima vista. Risulta dunque indispensabile usare uno strumento di analisi atto a capire i meccanismi dell’oppressione e dell’ingiustizia e quindi a superare una reazione puramente morale di fronte alla sofferenza, senza domandarsi perché esiste. La seconda necessità è quella di un’ermeneutica, cioè della ricerca del senso dei documenti di base e della storia del gruppo cristiano e delle sue tradizioni.
Infatti non è possibile assumere un atteggiamento razionale, come esige ogni percorso teologico, senza porre nel loro contesto storico, semantico, culturale tutto ciò che ha costruito l’universo dei riferimenti dei credenti. La ricerca del senso degli scritti di base utilizza la semantica, l’esegesi e le scienze umane. La storia del cristianesimo e della Chiesa cattolica in particolare si fonda sugli strumenti classici della disciplina.
Quanto al punto di riferimento contemporaneo, le situazioni umane di ingiustizia esigono un doppio lavoro di descrizione e di spiegazione. Da qui la questione di sapere di quale realtà si parli e quale analisi si debba usare per conoscerla. In America Latina, dove la teologia della liberazione è nata, la situazione è quella dell’oppressione sociale.
In quell’epoca, cioè alla fine degli anni 60, la teoria critica principale usata per l’analisi è quella della dipendenza. Si tratta di analizzare e di spiegare i fenomeni sociali latinoamericani alla luce della situazione periferica del continente, di fronte a un capitalismo centrale, situato soprattutto negli Stati Uniti. La teologia della liberazione si basava su questa forma di analisi per costruire il proprio percorso.
La povertà, la miseria, l’oppressione in America Latina non potevano venir staccate da un contesto più vasto, le cui logiche si situavano nel rapporto fra centro e periferia. Era una scelta, non arbitraria, giacché la si considerava la miglior maniera di leggere la realtà sociale per comprenderla ed esprimerla poi in termini teologici.
Per la teologia si tratta di un rovesciamento della logica del percorso abituale. Infatti, per tradizione, si tratta di una logica deduttiva, che cioè parte dalla rivelazione divina contenuta nei testi sacri per trarne poi tutte le applicazioni logiche e concrete a livello della realtà. La teologia della liberazione invece parte da un percorso induttivo, che la conduce a costruire un pensiero specificamente religioso partendo dal reale e dalla pratica sociale.
Un percorso intellettuale di questo tipo introduce inevitabilmente un elemento di relatività nel discorso teologico. Non lo riduce certo allo status epistemologico delle scienze umane, ma si costruisce all’inizio di queste, implicando con ciò che la ricerca del senso religioso può cambiare orientamento secondo le situazioni e la maniera in cui le si analizza. Il discorso quindi non è più dogmatico, ma parte da una realtà empirica.
D’altra parte, questo orientamento riduce evidentemente il campo di intervento dell’autorità religiosa nell’interpretazione delle Scritture e della tradizione. La gerarchia ecclesiastica non ha più il monopolio dell’ermeneutica religiosa, perché questa prende in considerazione le realtà sociali, analizzate da un punto di vista assai specifico, quello degli oppressi, e scegliendo il tipo di analisi più adatto a questa prospettiva.
Nel cristianesimo tale scelta (prescientifica) non è arbitraria. Lo spirito del Vangelo va in questo senso, Gesù ha fatto un’opzione assai precisa in favore dei poveri e contro tutti i poteri che opprimono. E’ dunque possibile che un percorso teologico cristiano prenda una strada contraria, consciamente o meno? E’ questo il punto di partenza della teologia della liberazione.
Pur non essendo soltanto un’etica sociale, come vedremo più avanti, essa accorda a questo aspetto un posto centrale. Scegliendo infatti uno strumento d’analisi che si esprime in termini di classi e non di strati sociali, essa cambia le prospettive tradizionali della dottrina sociale della Chiesa.
Quest’ultima, riflessa generalmente nel pensiero sociale delle altre confessioni cristiane e delle religioni in generale, tende implicitamente ad analizzare la società in termini di gruppi sociali sovrapposti, ma non collegati fra loro in maniera strutturale. Ne risulta che il bene comune proposto dall’insieme dei sistemi religiosi consiste nel chiedere a ognuno di contribuire, al suo posto e nella sua situazione, al benessere dell’insieme, senza mettere in questione in maniera esplicita la struttura della società, che attribuisce un posto assai preciso a ogni gruppo sociale.
Per questa ragione la teologia della liberazione adotta un’analisi strutturale della società, di cui la corrente marxista è stata uno dei principali rappresentanti, e che fa risaltare le contraddizioni sociali, spiegando così le diseguaglianze e le ingiustizie.
Ma questa teologia va molto oltre. Essa è anche una cristologia, cioè una lettura della vita di Gesù come attore sociale nella sua società, la Palestina del suo tempo, ed è un’ecclesiologia, cioè una teologia della Chiesa, analizzata anche nelle sue realtà storiche e sociali. Essa procede a una riflessione sulla liturgia e i suoi aspetti socioculturali, una teologia pastorale, che analizza i mezzi di inquadramento religioso di cui dispongono le Chiese e una spiritualità che implica la lettura sociale del reale e l’impegno dei cristiani in funzione della loro fede.
Non deve affatto sorprendere che la teologia della liberazione abbia suscitato forti opposizioni all’interno delle Chiese cristiane e soprattutto della Chiesa cattolica. Da una parte, il percorso teologico rimetteva in discussione il complesso della lettura dogmatica e dunque la posizione dell’autorità religiosa definita come unica ed esclusiva garante dell’ortodossia.
Ma d’altra parte l’uso dell’analisi marxista come strumento di scoperta e di spiegazione delle società era pure oggetto di una contestazione radicale basata sull’associazione fra il marxismo come strumento di analisi e di cambiamento delle società e l’ateismo come condizione del suo utilizzo. Secondo il cardinale Ratzinger, chiunque usi l’analisi marxista finisce inevitabilmente per adottare un atteggiamento ateo. E’ vero che l’adozione dell’ateismo come vera "religione di Stato" nei paesi comunisti confondeva le carte.
Ma si dimenticavano due cose: da una parte che i paesi comunisti avevano abbandonato l’analisi marxista della loro stessa società con un percorso dogmatico che doveva precisamente contribuire alla loro caduta, e d’altra parte che Marx aveva rimproverato ai sostenitori dell’"ateismo radicale" di continuare a usare, nel loro percorso di filosofia sociale, un linguaggio teologico, ma rovesciato. Ne derivarono condanne ed emarginazione dei teologi della liberazione, dall’interdizione dell’insegnamento alla censura dei loro scritti, fino alla riduzione allo stato laicale e alla scomunica (nel caso di Tissa Balasuriya, dello Sri Lanka).
Un’analisi più approfondita mostra che il problema non era unicamente di ordine ecclesiastico. Era anche politico. Infatti in quel momento si assisteva a una serie di rivolte nel seno stesso della classe operaia nei paesi dell’Est, principalmente in Polonia. Ciò portò a un’alleanza di fatto fra il presidente Reagan, da una parte, che finanziava in modo aperto od occulto il movimento Solidarnosc per mezzo degli organi cattolici, e la Santa Sede dall’altra, che condannava la teologia della liberazione, posizione che non poteva non piacere ai Repubblicani americani, che avevano fissato come uno degli obiettivi della loro lotta politica la teologia della liberazione in America Latina (Charles Antoine, 1999).
2. I nuovi soggetti o "luoghi teologici" (2)
La ridefinizione del soggetto socio-economico
Come abbiamo visto in precedenza, in un primo momento la teologia della liberazione nella lettura del sociale era legata alla teoria della dipendenza. Questa però divenne presto oggetto di critica, soprattutto per aver messo l’accento troppo esclusivamente sul rapporto fra centro e periferia e non abbastanza sulle origini interne delle differenze sociali. Emerse progressivamente un nuovo pensiero di cui i teologi presero conoscenza e che li obbligò a precisare di nuovo alcuni punti di partenza del loro discorso specifico. Ciò non cambiava affatto l’orientamento fondamentale, ma cambiava la gerarchia delle responsabilità sul piano dell’etica sociale. Si ebbe in seguito un periodo di silenzio, che ebbe cause diverse.
In America Latina si iniziò l’era neoliberale con l’instaurazione di regimi che vennero chiamati di democrazia sorvegliata. La caduta del muro di Berlino provocò poi una crisi dei paradigmi delle scienze sociali, crisi più politica e psicologica che reale, ma che influì sul complesso della riflessione in questo campo. Dopo il Consenso di Washington, alla fine degli anni 70, sorse anche una nuova problematica, quella della mondializzazione. Si scopriva progressivamente che in America Latina i decenni 80 e 90 avevano portato una relativa decrescita, anche se per le misurazioni si usavano i parametri del pensiero unico, mentre le diseguaglianze invece crescevano. Come ovunque, d’altra parte, una frazione ridotta della popolazione vedeva accrescersi i suoi redditi e le sue possibilità di consumo, a volte in maniera spettacolare, mentre la maggioranza ristagnava o sprofondava nella povertà e nella miseria, il tutto aggravato da un forte accrescimento demografico.
Benché le statistiche ufficiali mostrassero che la povertà diminuiva in misura relativa, il numero dei poveri non faceva che aumentare. Fu così che apparvero nuovi autori, oltre a quelli che già avevano scritto negli anni precedenti (Gustavo Gutierrez, Hugo Assman, Juan Luis Segundo, Leonardo Boff, ecc.). Si tratta fra gli altri di John Sobrino, Ignacio Ellacuria, Enrique Dussel, Franz Hinkelhammert, J. Mo Sung, Ivone Gebara.
Le nuove tematiche
A partire dagli anni 80 e 90 venne alla luce una serie di nuove tematiche. Senza entrare nei particolari, è interessante farvi un accenno che permetta di farsi un’idea della diversità dei temi trattati, in funzione dei cambiamenti sociali del continente e della nascita o dello sviluppo di movimenti sociali specifici.
Critica della razionalità economica
La riflessione successiva allo sviluppo neoliberale dell’economia mondiale e ai suoi effetti sull’America Latina ha originato un dato nuovo, basato sul carattere dogmatico del "pensiero unico". Da una parte, il discorso economico è trattato come un discorso religioso, basato su principi assoluti applicati poi alla realtà, riscoprendo così un metodo deduttivo degno dei peggiori dogmatismi. Pensiamo al discorso di Michel Camdessus, l’ex direttore del FMI, o più ancora a quello di Michael Novak, il teorico americano, i quali affermano che il capitalismo è la forma più adatta alla prospettiva socio-economica del cristianesimo. Da qui una serie di pubblicazioni, come quella di Franz Hinkelhammert, Le armi ideologiche della morte (1978), L’idolatria del mercato (1989); Sacrifici umani e società occidentale (1991); di J. Mo Sung, L’idolatria del capitale e la morte dei poveri (1991); di Julio de Santa Ana, La pratica economica come religione, ecc. (3).
La seconda linea di pensiero si è costruita a partire dall’egemonia del mercato. Al contrario dell’economista di Chicago Milton Friedman, che pretende che l’economia sia una disciplina neutra, diversi teologi affermano invece il carattere etico dell’economia. Infatti l’economia neoliberale afferma certi valori presentati come supremi, soprattutto la competitività e l’efficienza. Questi conducono a una distruzione delle basi della vita, sia materiale che culturale. Si esprime in questo senso Gustavo Gutierrez, uno dei fondatori della teologia della liberazione, nella sua opera Il Dio della vita (1982). E’ la vita del povero che costituisce il punto di incontro fra Dio e l’economia, giacché la vita non è soltanto l’eternità, ma l’esistenza concreta di coloro che sono esclusi e oppressi dal sistema economico.
Nello stesso senso vanno i lavori di Franz Hinkelhammert, in rapporto a quel che si potrebbe definire l’emergere del soggetto. E’ lui che parla del grido del soggetto (El grito del sujeto). Nella sua recente opera, Il soggetto e la legge: il ritorno del soggetto represso (El sujeto y la ley), pubblicato nel 2005 e che ebbe il Premio Libertador 2006 del Venezuela, l’autore attacca vigorosamente la modernità. La sua denuncia è in funzione delle logiche che ha dispiegato e che portano alle catastrofi ecologiche e umane del mondo contemporaneo. Per lui, la post-modernità non è che una "modernità all’estremo", giacché non fa altro che prolungarla e quindi viene chiamata a torto post-moderna. Bisogna invece riflettere partendo dall’essere umano come soggetto concreto, che ha delle esigenze di relazione con il mondo naturale e sociale. Franz Hinkelhammert elabora così una base nuova di pensiero teologico, in cui il soggetto è nello stesso tempo personale e collettivo, senza trascurare peraltro le analisi strutturali della società.
Teologie indigene
Di fronte al carattere "bianco" delle teologie della liberazione, sono sorte delle reazioni all’interno delle comunità indigene del continente. Da sempre gli indigeni sono soggetti di studi ma non soggetti di storia. In occasione della celebrazione dei 500 anni della conquista delle Americhe, e come reazione al pensiero dominante che la presentava come un "incontro di civiltà", si è prodotta una rinascita culturale che si è sviluppata in tutto il continente, incentrandosi su questioni quali l’autonomia, le culture tradizionali, le religioni. Tre incontri di teologia indigena si sono svolti rispettivamente a Città del Messico nel 1991, a Panama nel 1993 e in Ecuador nel 1994 e infine ancora uno in Bolivia nel 1997.
La nuova prospettiva consiste nel considerare le culture indigene anche come luoghi teologici. Si tratta di un complesso di saggezza popolare, e dunque di una realtà storica collettiva, essa pure spazio di rivelazione dell’amore di Dio. Infatti la loro storia è traversata da lotte costanti per mantenere la propria identità. I principi della resistenza alla colonizzazione furono costruiti su una duplice base: da una parte la difesa della vita, in virtù di una concezione cosmico-ecologica che considera l’essere umano come in simbiosi con la natura e non come padrone e distruttore di essa, e d’altra parte la vita della comunità, condizione essenziale di quella dei suoi componenti, che contrasta l’individualismo del pensiero moderno.
E’ compito specifico della teologia accompagnare teologicamente la costruzione del soggetto indigeno come popolo e come persona, quando è minacciato dal neoliberalismo che distrugge l’ambiente, base economica della sua vita, e che impone l’uniformità culturale della modernità. In questo senso appunto si sono sviluppate una serie di riflessioni e di pubblicazioni.
La fioritura delle teologie indigene non è priva di ambiguità: alcune tendono a volte a sacralizzare la cultura, a sviluppare una concezione troppo esclusiva del rito e a rinchiudere il pensiero in un ghetto. E’ la deviazione culturalista, vicina a certi ambienti dell’antropologia culturale, i cui lavori sono serviti di base a certi teologi. Da qui l’importanza del legame con la teologia della liberazione, che mostra come tutto questo si inscriva nelle strutture dell’oppressione, prima con la conquista ispanica e poi oggi con il modello neoliberale.
Teologie afro-latino-americane
La resistenza dei neri si è accompagnata a una lettura religiosa della realtà. Non è una novità, e questo si trova in tutte le religioni afro-americane ad Haiti, in Brasile, a Cuba e nei Caraibi. Invece molto più recentemente questa preoccupazione è emersa nel quadro di una teologia cristiana. Nel 1994, sotto gli auspici dell’Associazione dei teologi del Terzo mondo, si è tenuto a Nova Iguaçù, in Brasile, un consulto su "Cultura nera e teologia". I partecipanti vi hanno sviluppato nuove prospettive sui concetti di razze, classi, generi, religioni. E’ stato l’inizio di una critica radicale del "feticismo dei bianchi" nel senso stesso della produzione teologica e di una decostruzione di un’antropologia etnocentrica, proponendo invece di riconoscere l’alterità dei gruppi afro-americani.
Si trattava infatti di ristabilire la giustizia per una comunità considerata come "egemonizzata". In una prospettiva teologica, nelle lotte degli schiavi e nelle manifestazioni della negritudine si ritrova la presenza liberatrice di Dio. Un pensiero di questo tipo sviluppa una visione olistica della realtà e dell’essere umano. Porta alla sovversione della "logica magica" del neoliberalismo, all’affermazione del valore della persona in sé e non anzitutto come unità di produzione, e della natura come spazio vitale e non come semplice risorsa economica. Esso affronta in maniera egualmente critica "l’imperialismo razzista" dei percorsi religiosi e teologici indigeni. Per lo sviluppo di un pensiero teologico afro-latino-americano si pongono varie questioni metodologiche, in particolare quella dell’ermeneutica delle espressioni religiose delle popolazioni nere, per non ricadere nel culturalismo già segnalato a proposito delle teologie stesse.
Teologia femminista
La teologia della liberazione era una teologia di uomini. In una prospettiva femminista, si tratta di ritrovare il volto femminile della povertà, percorso che non appariva affatto negli scritti antecedenti gli anni 80. Eppure l’emarginazione delle donne, nello spazio sociale, politico, culturale e religioso (compreso cristiano) è una realtà. Da qui la presa di coscienza dell’esistenza del sistema patriarcale e della sua articolazione con gli altri sistemi di dominio, come meccanismo della loro riproduzione. Ciò accorda una base etica al femminismo che porta a un pensiero teologico specifico, basato su una concezione unitaria dell’essere umano, considerato anche nelle sue differenze.
Furono organizzati tre congressi di teologia femminista della liberazione: Città del Messico (1979), Buenos Aires (1985), Rio de Janeiro (1993). Questa corrente teologica si fonda sulla constatazione che le donne sono doppiamente oppresse, per l’appartenenza di genere e per la classe sociale. Esse sono dunque un soggetto di liberazione specifico. D’altra parte, viene accordata un’attenzione particolare alle donne che nella Bibbia hanno contribuito alla liberazione del popolo ebreo. Ci sono anche delle donne che hanno accompagnato Gesù nella sua vita pubblica e nella sua predicazione.
L’esperienza della donna come luogo epistemologico proprio si esprime nel discorso teologico con elementi nuovi, quali la poetica, l’estetica, l’affettivo. Ciò permette di distruggere le categorie androcentriche che hanno escluso le donne dal discorso e dall’esperienza cristiana, mentre la storia ecclesiastica ha in genere occultato il loro ruolo. Il nuovo percorso teologico si caratterizza per una rilettura dei testi di base con una prospettiva femminile e una riformulazione dei grandi temi del cristianesimo. D’altra parte, viene messo l’accento sulla liberazione delle donne nere, indigene, contadine. Inoltre è stato prodotto un certo numero di scritti sull’"ecofemminismo", riportando entro una logica comune il posto della donna nella natura e nella società. In Cile dal 1993 si pubblica una rivista che si rifà all’ecofemminismo.
Teologia dell’ecologia
Come dice Leonardo Boff, ispirandosi alla spiritualità del fondatore dell’ordine francescano, lo sfruttamento economico della natura in una prospettiva di modernità dominata oggi mondialmente dalla logica del capitalismo, porta alla distruzione del "focolare" di tutti gli esseri umani. Da qui il grido della terra. Per questo teologo, il paradigma tecnico-scientifico della modernità non è universalizzabile, né integrale. Leonardo Boff si oppone a una concezione ottimistica del progresso senza fine, mentre le risorse sono limitate, e sviluppa invece una concezione olistica dell’universo vivente e in particolare una relazione fra l’uomo e la natura che si esprime da soggetto a soggetto. La dimensione teologica di questa concezione permette di stabilire un nesso fra lo sfruttamento dei lavoratori e la distruzione della terra, che Marx aveva indicato come caratteristica del capitalismo. Teologia del pluralismo religioso
Di fronte alla presa di coscienza del pluralismo religioso in America Latina, che non è più esclusivamente un continente cattolico, alcuni teologi hanno avviato una nuova riflessione. E’ in particolare il caso di José Maria Vigil (2005). Non solo i nuovi movimenti religiosi (spesso definiti sètte) si sviluppano con rapidità nell’insieme del continente, ma oggi si prende coscienza anche dell’esistenza di religioni indigene e afro-americane che escono dalla clandestinità e hanno meno bisogno delle espressioni culturali del cristianesimo per garantire la propria sopravvivenza. Oggi le religioni degli indigeni in Guatemala, Ecuador, Perù, Bolivia si affermano chiaramente come sistemi religiosi autonomi, con le loro divinità, i loro rituali e il loro ruolo specifico. Succede lo stesso con le popolazioni afro-americane, che si tratti del vudù di Haiti, della santeria o regola di Osha a Cuba o del canbomblé o umbanda in Brasile.
A tutto questo va aggiunta una presenza, certo minoritaria ma significativa, dell’islam e del buddismo. Non è più il tempo in cui i giapponesi che emigravano in Brasile erano incoraggiati dal loro stesso governo a convertirsi al cattolicesimo, per potersi integrare più facilmente nel nuovo paese.
Questo prendere atto del pluralismo religioso rappresenta un fenomeno nuovo in America Latina, mentre avveniva evidentemente fin dagli inizi in Asia, dato il carattere minoritario del cristianesimo e in particolare del cattolicesimo. Da qui, nella teologia latinoamericana, un nuovo interrogativo: che cosa significa il pluralismo religioso rispetto alla liberazione? Lo sconvolgimento del campo religioso deve essere considerato come un’espressione di lotta emancipatrice, cioè una reazione contro l’oppressione, come un ritorno alla pluralità delle tradizioni oppure come un ulteriore aspetto del dominio dell’impero del Nord? Ecco le forme della nuova sfida che deve ancora trovare la sua espressione teologica.
Una rilettura del cristianesimo originario
Il teologo argentino Ruben Dri ha scritto un’opera intitolata Il movimento anti-imperiale di Gesù. Secondo lui, il progetto integrale di Gesù, radicato nella tradizione profetica ebraica radicale, prevede sia un’economia di solidarietà (dono e condivisione) sia una politica che si esprime nello stabilire relazioni di fratellanza.
Questo movimento che esprimeva contemporaneamente la tradizione profetica e la tradizione apocalittica, radunò uomini e donne di settori dominati della società palestinese. Gesù partì dalla Galilea e si diresse a Gerusalemme, dove affrontò i poteri egemonici e fu giustiziato. Fu un intervento dell’impero romano, la cui azione nella regione si vedeva minacciata. La repressione è stata esercitata quindi in funzione del carattere anti-imperiale del Movimento di Gesù. Altrimenti non sarebbe stato che un movimento fra tanti altri, all’interno di una società particolare.
Dopo la dispersione, in seguito alla conquista di Gerusalemme da parte dei Romani, prese l’avvio un’altra storia del cristianesimo. Ma prima di questo, malgrado il fatto che i racconti evangelici tendano a far ricadere la responsabilità della morte di Gesù unicamente sul popolo ebraico, si trattava di una repressione dell’impero contro un movimento che ne contrastava l’egemonia.
Conclusione
La teologia della liberazione in America Latina, la cui analisi è stata influenzata in un primo tempo dalla teoria della dipendenza, ha conosciuto un notevole slancio. Si è introdotto progressivamente un cambiamento di prospettiva, con le politiche neoliberali della mondializzazione che hanno aumentato il numero dei poveri, hanno fatto dilagare la diseguaglianza e condotto ai regimi di democrazia sorvegliata. Nello stesso tempo, si producevano una restaurazione ecclesiastica e una repressione ideologica. Si stabilì di fatto un’alleanza politica fra Roma e Washington. Oggi tuttavia si assiste a una ripresa della teologia della liberazione e a un ampliamento delle prospettive.
Tuttavia l’arricchimento che ciò significa comporta anche un pericolo reale di perdita della centralità del pensiero. La dispersione dei temi rischia di farli considerare come degli in-sé, cioè di promuovere una detotalizzazione del soggetto. L’influsso del post-modernismo è stata reale per alcuni teologi, che si sono concentrati sulle "piccole narrazioni", praticando una riduzione della capacità esplicativa, parallela all’eclisse del pensiero marxista. Oggi appaiono nuove prospettive, con la ricerca di un nuovo soggetto storico della liberazione, che è nello stesso tempo pluralista, popolare, democratico e multipolare e che si esprime fondamentalmente in seno ai Forum sociali. Non c’è dubbio che la ricchezza di queste nuove prospettive permette nuovi sviluppi.
Bisogna peraltro notare un fatto sociologico importante. E’ l’indipendenza istituzionale del nuovo pensiero teologico. Dovendosi elaborare all’esterno dei quadri istituzionali delle Chiese principali, soprattutto della Chiesa cattolica, il nuovo pensiero teologico nelle sue diverse forme è evidentemente meno controllato. Mantiene peraltro la sua importanza, sia in funzione della pregnanza religiosa del continente sia dell’interesse politico del fatto religioso. Ciò non impedisce affatto che le ultime produzione della teologia della liberazione restino una teologia, con frontiere ben definite rispetto alla filosofia o alle scienze sociali. Si tratta dunque di una realtà ben viva, anche se non è più tanto visibile come quando veniva prodotta entro le istituzioni ed era meno pluralista nell’elaborazione dei suoi luoghi "teologici".
Testo tradotto da Nunzia Augeri e diffuso da Punto rosso
Note
1. La questione è trattata fra l’altro nel numero di "Alternatives Sud", la rivista del Centro Tricontinentale di Louvain-la-Neuve (vol. VII, n. 1, 2000), e in: F. Houtart, Délégitimer le capitalisme, recréer l’espérance, Bruxelles, Colophon, 2005.
2. Questa parte dell’articolo utilizza in particolare le sintesi di Juan José Tamayo Acosta, Las teologias de Abaya-Yala e Cambio de paradigma en America Latina, che contengono un’ampia bibliografia (indirizzo dell’autore: jjtamayo@telefonica.net ).
3. Gli scritti in lingua spagnola o portoghese sono citati nei testi di Tamayo Acosta.
Bibliografia
Alternatives Sud, Théologies de la libération, Louvain-la-Neuve, Centre Tricontinental, Parigi, l’Harmattan, 2000.
Antoine Ch., Guerre froide et Eglise catholique. L’Amérique Latine, Parigi, Ed. du Cerf, 1999.
Aquino M.P., Tamez E., Teologia feminista latinoamericana, Quito, Abya-Yala, 1998.
Primer Encuentro continental de teologias y filosofias afro, indigena y cristiana. Layambe, Ecuador, Quito, Ed. Abya-Yala, 1995.
Gebara I., Le Mal au féminin, Parigi, L’Harmattan, 2001.
Hinkelhammert F.J., El sujeto y la ley. El retorno del sujeto reprimido, Heredia (Costa Rica), Editorial Universidad Nacional, 2005.
Houtart F., Délégitimer le capitalisme, recréer l’espérance, Bruxelles, Colophon, 2005.
Gutierrez G., Théologie de la libération, Bruxelles, Lumen Vitae, 1969.
Maduro O., La théologie latino-américaine de la libération: une autocritique, "Dial", Dossier 2874, maggio 2006.
Tamayo-Acosta J.J., Las teologias de Abaya-yala: valorizacion desde la teologia sistematica (testo inedito).
Vigil J.M., Teologia del pluralismo religioso: curso sistematico de teologia popular, Cordova, Ed. El Almendro, 2005.
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FONTE: CARTA.ORG
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’"UOMO SUPREMO" DELLA CHIESA CATTOLICA: "Dominus Iesus": RATZINGER, LO "STERMINATORE DI ECUMENISMO". Un ’vecchio’ commento del teologo francescano Leonard Boff.
Anniversario.
Cosa ci insegna oggi la Teologia della liberazione?
A cinquant’anni esatti dall’uscita del libro di Gustavo Gutiérrez che lanciò la corrente teologica latino-americana, gli esperti discutono sul suo significato storico e sulla sua eredità
di Roberto Beretta (Avvenire, mercoledì 15 dicembre 2021)
«Credo che la Chiesa stia pagando lo scotto di essersi liberata troppo facilmente della Teologia della liberazione ». Lapidario l’intellettuale uruguayano Alberto Methol Ferré, amico e maestro del cardinal Bergoglio, quando anni fa scolpì il giudizio sulla Tdl in un bisticcio di parole. In effetti oggi, a cinquant’anni esatti dall’uscita del libro di Gustavo Gutiérrez che lanciò l’omonima corrente teologica latino-americana, calmate sia le vampate rivoluzionarie dei preti-guerriglieri sia (grazie soprattutto a papa Francesco) le acque dei pregiudiziali sospetti che impedivano un esame più obiettivo delle idee del pensatore peruviano, l’anniversario impone di soppesare un bilancio che non può essere manicheo. Che cosa ci ha lasciato la Teologia della liberazione? È stata un pericolo di marxismo scampato oppure un’occasione perduta per la Chiesa? Anzi, ancor prima: è viva, ha tuttora qualcosa da dire?
Massimo Borghesi, professore di Filosofia morale a Perugia, è uno degli esperti italiani in materia: «Sì, tracciare un bilancio in chiaroscuro è opportuno. Lo ha fatto d’altronde il fondatore stesso della Tdl, che nella seconda edizione della sua opera (1988) ha tracciato un’autocritica molto profonda sulla subordinazione alla metodologia marxista di cui la Teologia della liberazione ha subìto il fascino. Il grande equivoco che ha trascinato migliaia di giovani lontani dalla fede fu l’interpretazione dicotomica della realtà, per esaltare la controviolenza dei poveri e identificare costruzione del socialismo e regno di Dio. L’elemento religioso serviva solo da carburante, ma poi metodo e azione si svolgevano secondo un’idea classista, rifiutando ogni riformismo “borghese”. L’effetto pratico in America Latina furono le dittature militari».
Ma poi sono caduti i muri, il socialismo reale ha dimostrato tutti i suoi fallimenti... «E in quel momento doveva essere favorito un autentico impegno per la liberazione, in cui la presenza cristiana si facesse carico anche del sociale senza perciò rinnegare l’appartenenza ecclesiale. Invece a partire dagli anni Novanta la Chiesa si è trincerata in una cittadella, ha avuto paura ed è prevalsa una rassicurante teologia dell’ordine. Abbiamo perso una grande occasione».
Teologia della liberazione bruciata, dunque? «Sicuramente papa Francesco - che si riconosce nella Scuola del Rio de la Plata, la teologia del pueblo - l’ha riportata in primo piano nella sua forma autentica, e infatti lo accusano di marxismo. È evidente in lui l’attenzione preferenziale per i poveri, la critica a un capitalismo finanziario senza misericordia, la valorizzazione della dimensione popolare. Sa che cosa le dico? Paradossalmente avremmo bisogno di ricostituirla in Occidente, la Tdl...».
Convenirne è immediato per il missionario padre Alex Zanotelli: «La Teologia della liberazione? Mai come oggi è di attualità profonda! Ricordo di aver letto il libro di Gutiérrez quando ero ancora in Sudan, mi ha molto impressionato e sono grato all’autore (che purtroppo ha pagato molto per quell’opera) perché è stato un’ispirazione per molte teologie dell’Africa e dell’Asia. La Tdl in questi 50 anni è diventata ormai un patrimonio ecclesiale, soprattutto ha stimolato le comunità cristiane a capire che la fede - spesso intesa in senso intimistico - dev’essere unita alla vita, cioè alla dimensione politica, economica, ambientale, sociale. Papa Francesco non viene direttamente dalla Tdl, ma ne è stato molto influenzato; quando afferma “Questa economia uccide”, o in vari passaggi dell’enciclica sull’ambiente, riprende di fatto la Teologia della liberazione pur senza usarne il termine - che potrebbe urtare qualcuno. Solo in Europa e negli Stati Uniti c’è più difficoltà ad accettarla, perché siamo troppo legati al sistema che ci sta portando al baratro».
Al contesto internazionale allude pure il professor Andrea Riccardi, ma da storico della Chiesa: «La Teologia della liberazione ha rappresentato anzitutto l’orgoglio dell’America Latina di avere una teologia, nel periodo in cui si discuteva della dipendenza economica e politica del subcontinente. Ratzinger mi confessò che si era mancati nel darne una valutazione positiva, epurandola del marxismo e legandola a un’autentica liberazione dell’uomo; è un giudizio condivisibile. Però la Tdl di ieri è comunque datata a un mondo che non esiste più, a un marxismo che non c’è più... Forse la teologia del popolo, con il fatto di essere legata alla metropoli di Buenos Aires, ha aspetti più durevoli in un contesto culturale di globalizzazione». Mi permetto di tradurre: bisogna andare oltre. «Più ancora, il problema oggi è una mancanza di pensiero teologico: ecco la gravissima questione. La Tdl perlomeno ha mosso una vita della Chiesa, ha avanzato proposte capaci di stimolare un dialogo; ora invece vedo un inaridimento dell’attrazione della teologia accademica e d’altra parte non mi sembra che sorga nemmeno il pensare dal basso. Una teologia che nasca dalla vita ecclesiale è fondamentale; e una Chiesa senza pensiero, senza visione, senza dibattito rischia di essere soltanto amministrazione dei sentimenti. I segni dei tempi, sappiamo ancora leggerli? Abbiamo parlato tanto di secolarizzazione e non abbiamo proposte sulla globalizzazione; basterebbe pensare al fenomeno delle migrazioni».
Ma la Teologia della liberazione ha davvero qualcosa da dire in tale mutato contesto? Suor Antonietta Potente, teologa domenicana che ha vissuto a lungo in America Latina, punta sull’aspetto metodologico: «Questa continua a essere la forza della Tdl: guardare la realtà e cercare il mistero al suo interno. La Teologia della liberazione non ha definizioni a priori, nasce da quanto si constata nella vita e dalla domanda: come parlare di Dio partendo dalla sofferenza degli innocenti? Poi cambiano tempi e contesti, si possono applicare teorie sociali e filosofiche diverse, ma il metodo ha ancora attualità». La critica però è venuta proprio dall’appoggio ricercato nel marxismo. «All’epoca sembrava uno dei sistemi più applicabili alla realtà. Ma la Tdl è stata guardata con sospetto anche per mancanza di conoscenza, un certo tipo di Chiesa si è spaventata perché non ne conosceva la pratica: se avessero considerato la vita e l’impegno gratuito di migliaia di religiosi e di cristiani, il giudizio sarebbe stato diverso e ci sarebbero stati meno sospetti. Comunque tutto questo è passato. La Tdl continua a essere viva, ha generato le teologie contestuali (indigena, femminista, nera...) e soprattutto ha lasciato tante tracce nei cuori e negli stili di tante persone. Quelle che hanno trasformato la loro vita grazie ai suoi stimoli».
“Francesco ormai è di sinistra come noi teologi ribelli”
Parla il frate domenicano, imprigionato dalla dittatura brasiliana, che è stato consigliere di Fidel Castro e del presidente Lula
di Piergiorgio Odifreddi (Il Fatto 29.01.2019)
Frei Betto è uno dei massimi esponenti della “teologia della liberazione”, che a partire dagli anni 70 ha cercato di coniugare la religione cattolica con l’impegno politico a favore dei deboli e degli oppressi, e di invertire le storiche alleanze della Chiesa con i regimi militari, dittatoriali e reazionari del Sudamerica. Abbiamo colto l’occasione della sua ultima visita in Italia per farci raccontare la sua avventurosa vita.
Quando è nata la combinazione dei suoi impegni religioso e politico?
Da quando, negli anni 50 della mia adolescenza, mi sono iscritto all’Azione Cattolica. Al contrario di ciò che succedeva in Italia con Luigi Gedda, che l’aveva indirizzata verso il centrodestra, in Brasile l’Azione Cattolica era vicina al Partito comunista. Fui poi influenzato dal pensiero e dall’esempio del guerrigliero Carlos Marighella, uno dei principali oppositori della dittatura militare negli anni 60.
Lei fu poi imprigionato dal regime.
Sì, per due volte: nel 1964, per quindici giorni, e tra il 1969 e il 1973, per quattro anni. La prima volta fui torturato, e la seconda cercarono di farmi fuori mettendomi per due anni tra i detenuti comuni. Avevo paura, ma poi mi accorsi che io e i miei tre confratelli eravamo rispettati e temuti dai carcerati: ci credevano dei terroristi, e qualcuno venne addirittura a dirci che voleva ‘arruolarsi nel nostro commando’, una volta uscito.
Ha scritto qualcosa, sulla sua esperienza in carcere?
Certo, due libri che hanno iniziato la mia carriera di giornalista e scrittore, con i proventi della quale ho sempre potuto mantenermi. Il primo è la raccolta di lettere dal carcere Dai sotterranei della storia (1971), che fu un successo. E il secondo è Battesimo di sangue (1983), la cui edizione italiana ha una prefazione di monsignor Luigi Bettazzi, e dal quale è stato tratto nel 2006 un omonimo film.
A parte monsignor Bettazzi, che era noto per le sue aperture a sinistra, quale fu la reazione del resto della Chiesa?
Nel 1970 il cardinale di San Paolo, il conservatore Agnelo Rossi, venne a trovarci in carcere, e noi gli mostrammo i segni delle percosse: lui uscì e disse alla stampa che stavamo bene, anche se qualcuno di noi si era ferito cadendo dalle scale. Paolo VI lo convocò a Roma, e al suo ritorno lui scoprì di essere stato ‘promosso e rimosso’: divenne prefetto di Propaganda Fide, e fu sostituito dal cardinale progressista Paulo Evaristo Arns.
Paolo VI non era dunque così male.
Era un uomo travagliato e indeciso, ma abbastanza aperto. Aveva letto il mio libro Dai sotterranei della storia e mi mandò in carcere un biglietto di incoraggiamento, accompagnato da un rosario realizzato con grani di ulivo della Terra Santa. La sua enciclica Populorum progressio (1967) mostra che non era contrario alla teologia della liberazione.
Al contrario di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI.
Insieme, loro, hanno combattuto la teologia della liberazione per 36 anni. Basta ricordare l’episodio di Managua nel 1983, quando Wojtyla svillaneggiò in pubblico all’aeroporto Ernesto Cardenal, sacerdote e ministro della Cultura, che fu poi sospeso a divinis insieme agli altri preti del governo sandinista. Da confrontare con la sua stretta di mano al dittatore cileno Augusto Pinochet nel 1987. Per non parlare della sua alleanza con il presidente Ronald Reagan e dei suoi incontri con il capo della Cia William Casey, testimoniati da Carl Bernstein e Marco Politi nel loro boicottato libro Sua santità (1996).
E Ratzinger?
Di lui basta ricordare il processo al teologo Leonardo Boff, che pure era stato un suo allievo all’Università di Monaco. Un nuovo caso Galileo, che nel 1984 mise a tacere per anni la voce di uno dei maggiori teologi della liberazione. Nel 1992, dopo ulteriori minacce di reprimende, Boff decise di abbandonare il saio francescano: amica Ecclesia, sed magis amica Veritas.
Immagino le piacerà papa Francesco, nonostante l’ormai diffusa percezione che sia “molto fumo e poco arrosto”?
Il cardinal Bergoglio non era progressista, ma da papa Francesco è diventato un fautore della teologia della liberazione. Nella sua enciclica socioambientale Laudato si’ (2015) indaga le cause della devastazione della Natura. E le sue posizioni sulla comunione ai divorziati e sul battesimo ai figli di coppie omosessuali sono grandi passi avanti, anche se deve barcamenarsi tra tutti gli ostacoli che gli vengono messi di fronte.
Castro regalò a Francesco a Cuba “Fidel e la religione” (1985), la famosa intervista rilasciata a lei.
Spero che sia stata l’edizione in spagnolo, e non quella in italiano, che fu manipolata. So che Giovanni Paolo II lesse quel libro, in preparazione per il loro incontro del 1998. Io ho seguito dal vivo a Cuba tutte le visite dei tre pontefici, in qualità non solo di confidente di Castro, ma anche di suo consulente teologico. E so che il papa e il Comandante diventarono amici, e si incontrarono più volte in privato in nunziatura, durante la settimana di visita del 1998.
Quando conobbe Fidel?
Nel 1980 a Managua, alla festa per il primo anniversario del nuovo governo sandinista. Fui invitato insieme a Lula, che all’epoca era il capo dei sindacati brasiliani. Una sera il ministro degli Esteri, il sacerdote Miguel d’Escoto, fautore della teologia della liberazione, ci invitò a un incontro tra Castro e gli industriali. Quando questi se ne andarono noi rimanemmo a parlare fino all’alba: discussi con lui del modo in cui il regime trattava i religiosi, e di come l’atteggiamento ateo non fosse meno fondamentalista di quello religioso. Da quel momento egli mi considerò informalmente il suo consigliere per gli affari religiosi.
Quante volte l’ha incontrato?
Decine, ogni volta che andavo a Cuba: le ultime due nell’anno in cui morì. Mi invitava ad andarlo a trovare tardi a casa sua e parlavamo per ore di tutto. Anche di scienza, soprattutto dopo che gli diedi il mio libro con Marcelo Gleiser Conversazione su fede e scienza (2011). Una volta gli ho chiesto se era ateo, visto che molti se lo domandavano, ma lui rispose che preferiva essere definito agnostico.
Di Lula che mi dice?
Lo conosco da sempre, e so che non è personalmente corrotto: il processo che gli hanno fatto è una farsa politica, senza prove fattuali. Il suo governo è stato il migliore che il Brasile abbia mai avuto, ma purtroppo ha fatto molti errori, e molti esponenti del suo partito erano effettivamente corrotti.
E di Bolsonaro?
Le cose indecenti che dice sugli indigeni, sulle donne e sugli omosessuali lo qualificano come un fascista. E la sua ascesa democratica al potere mi ricorda quella di Hitler nel 1933. Spero di sbagliarmi, ma temo di no.
La vera Chiesa dei poveri
di Michael Löwy*
“Le Monde” del 31 marzo 2013 (traduzione: www.finesettimana.org)
Il primo papa latinoamericano, Francesco, sembra volersi distinguere dalle idee e dalle pratiche del suo predecessore, facendo riferimento a san Francesco d’Assisi e mettendo la povertà al centro del suo pontificato. Avendo la stessa origine sudamericana, papa Francesco è vicino alla teologia della liberazione? Possiamo dubitarne...
Ciò che viene normalmente designato come teologia della liberazione - un corpus di testi prodotti dal 1971 da figure come Gustavo Gutierrez, Hugo Assmann, Frei Betto, Leonardo Boff, Pablo Richard, Enrique Dussel, Jon Sobrino, Ignacio Ellacuria, per non citare che i più conosciuti - non è altro che l’espressione intellettuale e spirituale di un vasto movimento sociale, nato almeno una decina d’anni prima, che si manifesta attraverso una stretta rete di pastorali popolari (della terra, operaia, urbana, indigena, della donna), di comunità ecclesiali di base, di gruppi di quartiere, di commissioni giustizia e pace, di formazioni dell’Azione cattolica, che hanno assunto in maniera attiva l’opzione preferenziale per i poveri.
Non nella forma tradizionale della carità, ma come solidarietà concreta con la lotta dei poveri per la loro liberazione. Senza la pratica di questo movimento sociale - che potremmo chiamare cristianesimo della liberazione -, non si possono comprendere fenomeni sociopolitici importanti nella storia recente dell’America Latina come l’avanzata della rivoluzione in America centrale - Nicaragua, El Salvador -, l’emergere di un nuovo movimento operaio e contadino in Brasile, o l’insurrezione zapatista nel Chapas.
Il cristianesimo della liberazione e in particolare le comunità ecclesiali di base non rientrano né nel paradigma di “Chiesa” né in quello di “setta”, ma piuttosto di ciò che il sociologo Max Weber (1864-1920) chiamava nel 1915 una religione comunitaria di salvezza; cioè una forma di religiosità fondata su un’etica religiosa di fraternità - la cui sorgente è l’antica etica economica di vicinato - e che può sfociare, in certi casi, in un “comunismo d’amore fraterno”.
Se occorresse riassumere l’idea centrale del cristianesimo della liberazione in una sola formula, ci si potrebbe riferire all’espressione consacrata dalla Conferenza episcopale latinoamericana di Puebla (1979): “Opzione preferenziale per i poveri”.
Qual è la novità? La Chiesa non è stata da sempre caritatevolmente attenta alla sofferenza dei poveri? La differenza - capitale - , è che per il cristianesimo della liberazione i poveri non sono più percepiti come semplici oggetti (d’aiuto, di compassione, di carità), ma come i soggetti della loro storia, gli attori della loro liberazione. Il ruolo dei cristiani socialmente impegnati, è di partecipare a questa lunga marcia degli oppressi verso la Terra promessa, la libertà, dando il loro contributo alla loro auto-organizzazione ed auto- emancipazione sociale. L’altra differenza con la posizione caritatevole e la tradizione di assistenza della Chiesa - ben rappresentata dal nuovo papa argentino - è stata formulata diversi anni fa dal cardinale brasiliano dom Helder Camara: “Finché dicevo che bisognava aiutare i poveri, mi consideravano un santo; quando ho chiesto perché c’erano così tanti poveri, mi hanno trattato da comunista...”
Nel corso degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, dei regimi militari si sono imposti in molti paesi dell’America Latina: Brasile, Cile, Argentina, ecc. I militanti del cristianesimo della liberazione hanno partecipato attivamente alla resistenza a queste dittature e hanno molto contribuito al loro declino a partire dagli anni ’80. Sono stati un fattore importante, e talvolta addirittura decisivo, della democratizzazione di questi Stati. In Brasile, nel corso degli anni ’70, la Chiesa dei poveri è apparsa, agli occhi della società civile e dei militari stessi, come l’avversario principale della dittatura; un nemico più potente (e radicale) di quanto non fosse l’opposizione parlamentare tollerata (e docile).
A differenza del caso brasiliano, in Argentina, la Chiesa, storicamente vicina all’autoritarismo dell’esercito, ha in maggioranza sostenuto l’atroce dittatura militare responsabile, nel corso degli anni, dal 1976 al 1983, di trentamila morti o “scomparsi”. Molti cristiani, membri del clero o laici, hanno pagato con la vita il loro impegno nella resistenza ai regimi autoritari in America Latina, o semplicemente la loro denuncia delle torture, degli assassini e delle violazioni dei diritti umani. Così accadde, nel Salvador, all’arcivescovo Oscar Romero, uccido da paramilitari nel marzo 1980, e a Ignazio Ellacuria e a suoi cinque colleghi gesuiti dell’Università centroamericana di El Salvador, assassinati nel novembre 1989 dall’esercito.
Il Vaticano ha condannato nel 1985, tramite la Congregazione per la Dottrina della Fede (di cui era prefetto il cardinale Joseph Ratzinger, futuro Benedetto XVI), la teologia della liberazione come un’eresia “tanto più pericolosa in quanto vicina alla Verità”... Per il Vaticano, la regola resta: Roma locuta, causa finita (Roma ha parlato, la causa è decisa).
Ma i teologi della liberazione hanno continuato, ognuno a suo modo, a difendere la loro interpretazione del cristianesimo. Certi, come Leonardo Boff, hanno preferito lasciare la Chiesa per mantenere la loro libertà di espressione; altri, come Gustavo Gutierrez, evitano i conflitti intra- ecclesiastici, senza però rinunciare alle loro convinzioni e al loro impegno.
Ciò non vuol dire che il loro pensiero non abbia avuto un’evoluzione. Al contrario, ha aperto nuovi cantieri, analizzando l’oppressione delle donne, delle comunità nere, degli indigeni; ha accolto le sfide del multiculturalismo e dell’ecologia, del pluralismo religioso e del dialogo interconfessionale. E, per cominciare, ha sottoposto a critica, teologica e politica, il neoliberalismo, la forma nuova che in America Latina ha assunto questo sistema, ai loro occhi intrinsecamente perverso, che è il capitalismo.
In questo contesto, certi teologi svilupperanno un rapporto nuovo con il pensiero di Marx, per criticare il capitalismo neoliberale come una falsa religione, fondata sull’idolatria del mercato e del dio Mammona. Per questi teologi, come Hugo Assmann o Franz Hinkelammert, i nuovi idoli capitalistici che sono il profitto, il denaro, il debito esterno, come quelli denunciati dai profeti dell’Antico Testamento, sono dei Moloch che esigono sacrifici umani, un’immagine usata da Marx stesso nel Capitale.
La lotta del cristianesimo della liberazione contro l’idolatria mercantile è ai loro occhi uno scontro tra dei, tra il Dio della vita e gli idoli della morte (Jon Sobrino) o tra il dio di Gesù Cristo e la molteplicità degli dei dell’Olimpo capitalista (Pablo Richard).
Nel corso degli ultimi anni, la critica del capitalismo è sempre più associata, per i teologi della liberazione, alla problematica ecologica. Il pioniere, in questo campo, è stato Leonardo Boff, da tempo preoccupato per l’ambiente, che affronta, sia in uno spirito di amore mistico e francescano per la natura. sia in una prospettiva di critica radicale del sistema capitalistico. Il nuovo paradigma di civiltà dovrà essere fondato su un’etica della vita e su una solidarietà planetaria.
Senza dubbio, l’influenza della teologia della liberazione è regredita in molti paesi del continente. In seguito alla nomina di vescovi da parte di Wojtyla (Giovanni Paolo II) e Ratzinger (Benedetto XVI), l’episcopato latinoamericano è diventato molto più conservatore. Anche coloro che adottano posizioni progressiste a livello sociale condividono le opzioni conservatrici del Vaticano contro il diritto delle donne di disporre del proprio corpo (divorzio, contraccezione, aborto).
Ciò detto, in un paese come il Brasile, il cristianesimo della liberazione mantiene una presenza importante, all’interno delle comunità di base, delle pastorali popolari, dei movimenti laici o delle reti come Fede e politica, animata dal teologo domenicano Frei Betto, che riunisce migliaia di aderenti in tutto il paese.
Inoltre, i cristiani socialmente impegnati sono una delle componenti più attive del movimento altermondialista nel corso degli anni 2000, in particolare, ma non solo, in Brasile, cioè nel paese che ha accolto le prime riunioni del Social Forum mondiale. Uno degli iniziatori del Forum, Chico Whitaker, membro della Commissione giustizia e pace della Conferenza episcopale brasiliana, appartiene a questa tendenza.
È difficile prevedere quale sarà il futuro del cristianesimo della liberazione in America Latina. Il suo radicamento socio-religioso gli ha permesso di mantenersi malgrado l’opposizione attiva degli ultimi due pontefici. Indipendentemente dall’atteggiamento di papa Francesco nei suoi confronti, è probabile che esso continui ostinatamente a praticare quel “comunismo d’amore fraterno” di cui parlava Max Weber...
*
Michael Löwy è un sociologo franco-brasiliano. Ricercatore emerito al CNRS. I suoi libri e i suoi articoli sono dedicati all’attualizzazione del pensiero marxista e del suo rapporto con lo spirito dell’utopia e del messianismo religioso. Tra le sue opere: “La Guerre des dieux. Religion et politique en Amérique latine” , ed. du Felin, 1998; “Rédemption et utopie. Le judaïsme libertaire en Europe centrale. Une étude d’affinité élective” , ed. du Sandre, 2009; “La Cage d’acier. Max Weber et le marxiste wébérien” , Stock.
Professione di fede di Frei Betto
UN NUOVO CREDO
di Frei Betto*
Credo nel Dio liberato dal Vaticano e da tutte le religioni esistenti e che esisteranno. Il Dio che è antecedente a tutti i battesimi, pre-esistente ai sacramenti e che và oltre tutte le dottrine religiose. Libero dai teologi, si dirama gratuitamente nel cuore di tutti, credenti e atei, buoni e cattivi, di quelli che si credono salvati e di quelli che si credono figli della perdizione, e anche di quelli che sono indifferenti al mistero di ciò che sarà dopo la morte.
Credo nel Dio che non ha religione, creatore dell’universo, donatore della vita e della fede, presente in pienezza nella natura e nell’essere umano. Dio orefice di ogni piccolo anello delle particelle elementari, dalla raffinata architettura del cervello umano fino al sofisticato tessuto dei quark.
Credo nel Dio che si fa sacramento in tutto ciò che cerca, attrae, collega e unisce: l’amore. Tutto l’amore è Dio e Dio è il reale. E trattandosi di Dio, non si tratta dell’assetato che cerca l’acqua ma del’acqua che cerca l’assetato.
Credo nel Dio che si fa rifrazione nella storia umana e riscatta tutte le vittime di tutti i poteri capaci di far soffrire gli altri. Credo nella teofania permanente e nello specchio dell’anima che mi fa vedere gli altri diversi dal mio io. Credo nel Dio, che come il calore del sole, sento sulla pelle, anche se non riesco a contemplare la stella che mi riscalda.
Credo nel Dio della fede di Gesù, Dio che si fa bambino nel ventre vuoto della mendicante e si accosta nell’amaca per riposarsi dalle fatiche del mondo. Il Dio dell’arca di Noé, dei cavalli di fuoco di Elia, della balena di Giona. Il Dio che sorpassa la nostra fede, dissente dei nostri giudizi e ride delle nostre pretese; che si infastidisce dei nostri sermoni moralisti e si diverte quando il nostro impeto ci fa proferire blasfemie.
Credo nel Dio che, nella mia infanzia, piantò una acacia in ogni stella e, nella mia giovinezza, si mise in ombra quando mi vide baciare la mia prima innamorata. Dio festeggiatore e bisboccione, lui che creò la luna per adornare la notte della delizia e l’aurora per incorniciare la sinfonia del volo degli uccelli all’albeggiare.
Credo nel Dio dei maniaci-depressi, dell’ossessione psicotica, della schizofrenia allucinata. Il Dio dell’arte che denuda il reale e fa risplendere la bellezza pregna di densità spirituale. Dio ballerino che, sulla punta dei piedi, entra in silenzio sul palcoscenico del cuore e, cominciata la musica, ci afferra fino alla sazietà.
Credo nel Dio dello stupore di Maria, del camminare laborioso delle formiche e dello sbadiglio siderale dei fiorellini neri. Dio spogliato, montato su un asino, senza una pietra dove appoggiare il capo, atterrato dalla sua stessa debolezza.
Credo nel Dio che si nasconde nel rovescio nella ragione atea, che osserva l’impegno dei scienziati per decifrare il suo gioco, che si incanta con la liturgia amorosa dei corpi che giocano per ubriacare lo spirito.
Credo nel Dio intangibile all’odio più crudele, alle diatribe esplosive, al cuore disgustoso di quelli che si alimentano con la morte altrui. Dio, misericordioso, si fa quatto fino alla nostra piccolezza, supplica un soave messaggio e chiede una ninna nanna, esausto davanti alla profusione delle idiozie umane.
Credo, soprattutto, che Dio crede in me, in ognuno di noi, in tutti gli esseri generati per il mistero abissale di tre persone unite per amore e la cui sufficienza traboccò in questa creazione sostenuta, in tutto il suo splendore, dal filo fragile del nostro atto di fede.
.***(Teologia e liberazione: nostra traduzione dallo spagnolo)
Creo en el Dios liberado del Vaticano y de todas las religiones existentes y por existir. El Dios que antecede a todos los bautismos, preexiste antes que los sacramentos y desborda todas las doctrinas religiosas. Libre de los teólogos, se derrama gratuitamente en el corazón de todos, creyentes y ateos, buenos y malos, de los que se creen salvados y de los que se creen hijos de la perdición, y también de los que son indiferentes a los abismos misteriosos del más allá de la muerte.
Creo en el Dios que no tiene religión, creador del Universo, donador de la vida y de la fe, presente en plenitud en la naturaleza y en los seres humanos. Dios orfebre de cada ínfimo eslabón de las partículas elementales, desde la refinada arquitectura del cerebro humano hasta el sofisticado entrelazado del trío de cuarqs.
Creo en el Dios que se hace sacramento en todo lo que acerca, atrae, enlaza y une: el amor. Todo amor es Dios y Dios es lo real. En tratándose de Dios, dice bellamente Rumi, no se trata del sediento que busca el agua sino del agua que busca al sediento. Basta con manifestar la sed y el agua mana.
Creo en el Dios que se hace refracción en la historia humana y rescata todas las víctimas de todo poder capaz de hacer sufrir al otro. Creo en teofanías permanentes y en el espejo del alma que me hace ver a Otro que no soy yo. Creo en el Dios que, como el calor del sol, siento en la piel, aunque sin conseguir contemplar o agarrar el astro que me calienta.
Creo en el Dios de la fe de Jesús, Dios que se hace niño en el vientre vacío de la mendiga y se acuesta en la hamaca para descansar de los desmanes del mundo. El Dios del arca de Noé, de los caballos de fuego de Elías, de la ballena de Jonás. El Dios que sobrepasa nuestra fe, disiente de nuestros juicios y se ríe de nuestras pretensiones; que se enfada con nuestros sermones moralistas y se divierte cuando nuestro arrebato profiere blasfemias.
Creo en el Dios que, en mi infancia, plantó una acacia en cada estrella y, en mi juventud, se asomó cuando me vio besar a mi primera enamorada. Dios fiestero y juerguista, el que creó la luna para engalanar las noches de deleite y las auroras para enmarcar la sinfonía pajarera de los amaneceres.
Creo en el Dios de los maníaco-depresivos, de las obsesiones sicóticas, de la esquizofrenia alucinada. El Dios del arte que desnuda lo real y hace resplandecer la belleza preñada de densidad espiritual. Dios bailarín que, sobre la punta de los pies, entra en silencio en el palco del corazón y, comenzada la música, nos arrebata hasta la saciedad.
Creo en el Dios del estupor de María, del camino laboral de las hormigas y del bostezo sideral de los agujeros negros. Dios despojado, montado en un borrico, sin piedra donde reclinar la cabeza, aterrorizado de su propia debilidad.
Creo en el Dios que se esconde en el reverso de la razón atea, que observa el empeño de los científicos por descifrarle su juego, que se encanta con la liturgia amorosa de cuerpos excretando jugos para embriagar espíritus.
Creo en el Dios intangible al odio más cruel, a las diatribas explosivas, al corazón hediondo de aquellos que se alimentan con la muerte ajena. Dios, misericordioso, se agacha hasta nuestra pequeñez, suplica un suave masaje y pide arrullos, exhausto ante la profusión de idioteces humanas.
Creo, sobre todo, que Dios cree en mí, en cada uno de nosotros, en todos los seres engendrados por el misterio abismal de tres personas unidas por el amor y cuya suficiencia desbordó en esta Creación sustentada, en todo su esplendor, por el hilo frágil de nuestro acto de fe.
*Frei Betto, domenicano brasiliano, teologo e scrittore.
AL DI LA’ DI EDIPO. Freud con Dante
La cosa più semplice a farsi è la più difficile: risalire la corrente come un SALoMONE e giungere alla Sorgente: l’Amore che muove il sole e le altre stelle!!!
Detto diversamnte, e più chiaramente: andare oltre "Maria e Giuseppe", "Adamo ed Eva", e scoprire che al di là di tutto non c’è Geova (un dio-zio "Paparone", con il suo minestrone faraonico), ma solo l’Amore ("Deus charitas est": 1 Gv. 4.8), l’Amore più forte di Morte!!!
Federico La Sala
Tempo di teologia della liberazione
di Vittorio Cristelli ( “vita trentina”, 20 giugno 2010)
Molti nodi stanno venendo al pettine con la crisi economia che si è abbattuta su tutto l’occidente. Qualcuno l’abbiamo già individuato nelle puntate precedenti. Quello della finanza per esempio, ma anche quello della mancanza delle informazioni, oggetto del recente Festival dell’Economia di Trento. I tempo però di chiederci se il nodo principale non sia strutturale, costituito cioè dall’intero sistema che è venuto formandosi. E se, per usare un’espressione ecclesiale, non siamo di fronte ad un "peccato sociale" che esige il superamento di una mentalità radicata e quindi una conversione della stessa visione del mondo.
Decisiva l’ottica adottata nella lettura delle situazioni che porta poi a formulare giudizi e ad individuare le strade da percorrere verso un futuro migliore. Finora l’ottica dominante è quella del profitto misurato con il metodo del Pil (prodotto interno lordo), che vige già dai tempi di Truman. Si sommano le ricchezze accumulate in un paese e si divide la somma per il numero dei cittadini ottenendo così il reddito pro capite.
Questo è il metodo capitalistico che considera economia solo quella che genera profitto. Non sfugge però a nessuno che in questo modo si ratificano autentiche ingiustizie. Si verifica infatti che pochi sono i super ricchi mentre masse intere devono accontentarsi di molto meno. Ma non importa: il reddito pro capite è quello stabilito dalla divisione.
E pur vero che si parla anche di capitalismo compassionevole attento cioè anche ai poveri e il ministro Tre-monti parla di mercato sociale. Sta il fatto però, documentato dalla Banca Mondiale, che mai come negli ultimi decenni è aumentata la ricchezza globale e contemporaneamente si è dilatato il fossato tra ricchi e poveri. Opposta l’ottica usata dalla teologia della liberazione.
Si tratta di una teologia che guarda al mondo con l’occhio di Cristo e quindi, per dirla con Andrè Girard con "l’occhio delle vittime". È stata accusata di lettura marxista e quindi avversata anche dentro la Chiesa, ma oggi può vantare di cogliere meglio la realtà. Lo sostiene l’arcivescovo cattolico di Monaco di Baviera Reinhard Marx, che riconosce al suo omonimo Karl Marx di aver visto giusto in tante questioni soprattutto economiche e lo scrive nel suo libro "Il Capitale".
Il vescovo emerito Luigi Bettazzi in un recente intervento, ricordando che i cattolici sono spesso accusati di "cattocomunismo" si chiede se non ci sia da preoccuparsi e forse di più della comparsa dei "cattoleghisti". Al di là però di questi neologismi, c’è da chiedersi se la Chiesa non debba per motivi nativi fare la scelta preferenziale dei poveri.
Già nei primi anni ’80 la Conferenza episcopale italiana aveva lanciato l’esigenza di "ripartire dagli ultimi". Un modo per ribadire l’imprescindibilità per la Chiesa di adottare l’ottica delle vittime. Puntuale il teologo Francois Houtart dell’Università di Lovanio considerando quella attuale una vera e propria crisi di civiltà, ravvisa nella teologia della liberazione una risposta adeguata.
Anzitutto perché guarda da sempre con l’occhio delle vittime, poi perché è dichiaratamente anticapitalista. In terzo Luogo perché guarda al futuro non solo dell’uomo ma anche del pianeta. Ultimamente infatti ha sviluppato una teologia ecologista, ha approfondito la prospettiva femminista e la valorizzazione dei popoli indigeni. IL tutto per precisare che cosa significa vivere i valori del Regno di Dio.
Questi i capisaldi: il rispetto della natura, un’economia che risponda ai bisogni delle persone e dei popoli e non solo alla crescita dei tassi di profitto. E ancora: il radicamento della democrazia all’interno di tutti i rapporti sociali e la multiculturalità che riconosce a tutte le culture, filosofie, religioni la capacità di costruire un’etica nuova, necessaria alla transizione verso una società postcapitalista. Teologia della liberazione per riconquistare quella libertà con la quale Cristo ci ha liberati!
Deporre i poveri dalla croce: cristologia della liberazione
di ADISTA *
Importante iniziativa di Adista che ha tradotto e messo a disposizione gratuitamente il libro "Deporre i poveri dalla croce: cristologia della liberazione" edito dalla Commissione Teologica Internazionale della ASETT, Associazione Ecumenica dei Teologi/ghe del Terzo Mondo, in risposta alla notificazione vaticana sulle opere di Jon Sobrino.
Care lettrici, cari lettori,
segnaliamo un’importante novità sul nostro sito. Si può leggere finalmente anche in italiano, scaricandolo gratuitamente dalla home page di www.adista.it, il libro digitale "Bajar de la cruz a los pobres: cristología de la liberación" ("Deporre i poveri dalla croce: cristologia della liberazione") della Commissione Teologica Internazionale della ASETT, Associazione Ecumenica dei Teologi/ghe del Terzo Mondo.
La traduzione italiana, curata da Adista, dell’originale spagnolo (che, insieme alla traduzione in inglese, è disponibile agli indirizzi www.eatwot.org/TheologicalCommission e http://www.servicioskoinonia.org/LibrosDigitales) è presentata dal teologo Carlo Molari e presenta due contributi in più: di Aloysius Pieris e dello stesso Molari (è possibile leggere l’originale )
Il libro della Asett è la risposta di circa 40 teologi della liberazione alla Notificazione vaticana sulle opere di Jon Sobrino (autore dell’epilogo del libro), ma non solo: è una difesa, appassionata e potente, della cristologia della liberazione, quella che Leonardo Boff, nel prologo, definisce "una teologia militante che lotta per ’far scendere dalla croce i poveri’".
È questa voce potente quella che è oggi offerta anche al pubblico italiano, attraverso un nuovo metodo che l’Asett ha voluto sperimentare: quello di un libro digitale, libero e gratuito, che, scrive José María Vigil, coordinatore della Commissione Teologica Internazionale della Asett/Eatwot, "può essere regalato e inviato da chiunque per posta elettronica e che potrà anche essere stampato su carta mediante il procedimento della "stampa digitale", un metodo che permette di stampare su carta quantità minime di esemplari (5, 10, 20...), a un prezzo praticamente uguale a quello di un libro normale".
Per scaricare il libro, clicca qui
* IL DIALOGO, Mercoledì, 06 giugno 2007
RIATTIVARE LA MEMORIA: le origini della TEOLOGIA DELLA LIBERAZIONE. Una "nota" di ..... "mose-ca"!!!
MOZ-ART ritorna da "San Pietro" ... per dargli lezioni sull’ARTe di MOSé !!! Domenica 19 novembre, in Vaticano, "eseguirà" la "Messa dell’Incoronazione K 317".
La mattina di domenica 19 novembre Wolfgang Amadeus Mozart scenderà nuovamente dal cielo nella basilica di San Pietro in Vaticano per la terza esecuzione negli ultimi ventun anni della sua Messa dell’Incoronazione K 317.
Attenti: non di esecuzione concertistica si tratta, ma di sacra liturgia. A celebrare la messa nella basilica papale sarà il cardinale arcivescovo di Vienna, Christoph Schoenborn. Quanto a papa Benedetto XVI, difficile che non si unisca anche lui alla celebrazione.
Come già le due volte precedenti, anche questa volta ad accompagnare la messa in San Pietro saranno i Wiener Philarmoniker. Nel 1985 li diresse Herbert von Karajan, nel 2000 Riccardo Muti e ora li dirigerà Leopold Hager.
La messa del 19 novembre sarà il momento culminante, quest’anno, del Festival Internazionale di Musica e Arte Sacra che ogni autunno fa risuonare nelle grandi basiliche romane i capolavori della musica sacra cristiana, con orchestre, direttori e cantanti di fama mondiale.
I Wiener Philarmoniker non mancano mai all’appuntamento. Ci saranno anche l’anno prossimo: l’11 ottobre 2007 eseguiranno il Requiem di Giuseppe Verdi.
Il programma di quest’anno è invece tutto mozartiano e lo puoi leggere nel sito della fondazione che promuove il festival, giunto alla V edizione: “Fondazione pro Musica e Arte Sacra“.
Della musica s’è detto. Quanto all’arte, la fondazione finanzia ogni anno restauri di parti delle basiliche romane. Questa volta alcune architetture della necropoli romana che sta sotto al pavimento della basilica di San Pietro, dove fu sepolto l’apostolo.