[...] prima le condanne verbali che aprono poi la strada alle aggressioni fisiche o ai veri e propri omicidi, come è successo in America Latina con i tanti martiri della teologia della liberazione a cominciare da Oscar Romero. Violenza fisica di fatto autorizzata dalla violenza verbale, dall’assolutezza della condanna delle idee che trova sempre chi si sente poi autorizzato a passare dalle parole ai fatti, sentendosi legittimato da cotante prese di posizione. Senza voler dimenticare che nei periodi bui dell’inquisizione gli omicidi degli scomunicati erano autorizzate espressamente nelle bolle papali [...]
L’"UOMO SUPREMO" DELLA CHIESA CATTOLICA: "Dominus Iesus": RATZINGER, LO "STERMINATORE DI ECUMENISMO". Un ’vecchio’ commento del teologo francescano Leonard Boff.
Chiesa cattolica
Condanno quindi esisto
Scomunicato JON SOBRINO, teologo della liberazione salvadoregno
di Sergio Grande
Solidarietà a Jon Sobrino e alla teologia della liberazione.*
“Io vi do un nuovo comandamento: che vi amiate gli uni gli altri. Come io vi ho amati, anche voi amatevi gli uni gli altri.” (Giov 13,34); “Portate i pesi gli uni degli altri e adempirete così la legge di Cristo.”( Ga 6,2): questo il Vangelo di Gesù. Ma la realtà delle chiese cristiane è tutt’altra. Quella “cattolica romana”, in particolare, ha dimenticato completamente questo “Vangelo” e lo ha sostituito con un “condanno quindi esisto” praticato a tutto campo.
Si condanna di tutto di più: i DICO, i PACS, le fecondazione assistita, l’uso del preservativo, il divorzio, ... ma soprattutto i teologi della liberazione, ultimo in ordine di tempo JON SOBRINO, gesuita salvadoregno che solo per caso scanpò al martirio ma che non è sfuggito alle “cure” della Congregazione per la dottrina per la fede che il prossimo 15 marzo pubblicherà un documento di condanna delle ricerche sul Gesù storico da lui compiute. Una condanna che è una vera e propria scomunica, come ai tempi bui della Inquisizione che mai ha cessato di funzionare.
Tanto impegno contro la gente e contro chi si batte per i diritti degli ultimi della terra, come Jon Sobrino, ma poco o nulla viene fatto dal Vaticano contro la guerra: solo dichiarazioni formali da un lato mentre dall’altro vi è il sostegno aperto alle politiche militari degli imperi, a cominciare da quello USA. Ed il sostanziale appoggio alle logiche di guerra si vede dai rapporti esistenti fra importanti organismi ecclesiastici e aziende militari come la Finmeccanica o le Banche Armate (come dimenticare che le giornate mondiali della gioventù sono state finanziate dalle cosiddette “Banche armate” che finanziano le industri militari?). E ora con un generale di corpo d’armata, ex capo dei cappellani militari italiani, a capo della CEI bisogna attendersi una ulteriore militarizzazione della chiesa cattolica. I segnali ci sono tutti, se si pensa all’aggressione fisica subita a Parma da don Luciano Scaccaglia per le sue posizioni a sostegno dei DICO, o alle aggressioni a cui sono sottoposti sempre più spesso gli omosessuali, anch’essi oggetto di campagne di odio del tutto antievangeliche.
E’ sempre così: prima le condanne verbali che aprono poi la strada alle aggressioni fisiche o ai veri e propri omicidi, come è successo in America Latina con i tanti martiri della teologia della liberazione a cominciare da Oscar Romero. Violenza fisica di fatto autorizzata dalla violenza verbale, dall’assolutezza della condanna delle idee che trova sempre chi si sente poi autorizzato a passare dalle parole ai fatti, sentendosi legittimato da cotante prese di posizione. Senza voler dimenticare che nei periodi bui dell’inquisizione gli omicidi degli scomunicati erano autorizzate espressamente nelle bolle papali.
Fino a quando? Quando riusciremo a liberare Gesù dalle orribile macchina di oppressione che gli è stata costruita addosso?
* www.ildialogo.org, Lunedì, 12 marzo 2007
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’"UOMO SUPREMO" DELLA CHIESA CATTOLICA: "Dominus Iesus": RATZINGER, LO "STERMINATORE DI ECUMENISMO". Un ’vecchio’ commento del teologo francescano Leonard Boff.
L’ennesima scomunica vaticana
"extra pauperes nulla salus" *
La lettera di autodifesa di Jon Sobrino.
Testo in spagnolo
In appendice altri link in spagnolo dal sito
http://www.proconcil.org/
Riprendiamo dal sito http://www.reflexionyliberacion.cl/
la lettera di autodifesa di Jon Sobrino contenuta in una lettera a Padre Kolvenbach e riferita alla Notificazione diffusa ieri nei suoi confronti dalla "Congregazione per la dottrina della fede". Il testo è in spagnolo e non è ancora stato tradotto. Si capisce però quasi tutto. Cercheremo in ogni caso di fare al più presto questa traduzione. Esprimiamo piena solidarietà a Jon Sobrino per questa ennesima scomunica decretata non tanto nei suoi confronti ma nei confronti della teologia della liberazione da parte della gerarchia vaticana.
Condividiamo appieno l’affermazione che Sobrino fa alla fine della sua lettera e che abbiamo usato come titolo della sua lettera: "extra pauperes nulla salus" (nessuna salvezza senza i poveri).
In fondo alla lettera segnaliamo alcuni link in spagnolo alla vicenda di Jon Sobrino dal sito http://www.proconcil.org/. *
Jon Sobrino al P. Peter - Hans Kolvenbach
Querido P. Kolvenbach:
Ante todo le agradezco la carta que me escribió el 20 de noviembre y todas las gestiones que ha hecho para defender mis escritos y mi persona. Ahora me dice el P. Idiáquez que le escriba a usted sobre mi postura ante la notificatio y las razones por las que no me adhiero -"sin reservas", dice usted en su carta- a ellas. En un breve texto posterior expondré mi reacción ante la notificatio, pues, como usted dice, lo normal es que la noticia aparezca en los medios y que los colegas de la teología esperen una palabra mía.
1. La razón fundamental.
La razón fundamental es la siguiente. Un buen número de teólogos han leído mis dos libros antes de que fuese publicado el texto de la Congregación de la fe de 2004. Varios de ellos leyeron también el texto de la Congregación. Su juicio unánime es que en mis dos libros no hay nada que no sea compatible con la fe de la Iglesia.
El primer libro, Jesucristo liberador. Lectura histórico-teológica de Jesús de Nazaret, fue publicado en español en 1991, hace 15 años,y ha sido traducido al portugués, inglés, alemán e italiano. La traducción portuguesa tiene el imprimatur del Cadenal Arns, del 4 de diciembre de 1992. Que yo sepa ninguna recensión o comentario teológico oral cuestionó mi doctrina.
El texto del segundo libro, La fe en Jesucristo. Ensayo desde las víctimas, fue publicado en 1999, hace siete años, y ha sido tradcido al portugués, inglés e italiano. Fue examinado muy cuidadosamente, antes de su publicación, por varios teólogos, en algunos casos por encargo del P. Provincial, Adán Cuadra, y en otros a petición mía. Son los PP. J. I. González Faus, J. Vives y X. Alegre, de San Cugat; el P. Carlo Palacio, de Bello Horizonte; el Pbro. Gesteira, de Comillas; el Pbro. Javier Vitoria, de Deusto; el P. Martin Maier, de Stimmen der Zeit. Varios de ellos son expertos en teología dogmática. Uno, en exégesis. Y otro, en patrística.
Recientemente, el P. Sesboué, a petición de Martin Maier, el año 2005 tuvo la gentileza de leer el segundo libro, La fe en Jesucristo, conociendo también, según entiendo, el texto de la Congregación de la fe de 2004. El P. Maier le pidió que se fijase si había algo en mi libro contra la fe de la Iglesia. Su respuesta de 15 páginas en conjunto es laudatoria para el libro. Y no encontró nada criticable desde el punto de vista de la fe. Sólo encontró un error, que él llama técnico, no doctrinal. "Mon intention est de 0montrer le centre de gravité de l’ouvrage et combien il prend au serieux les affirmations conciliares, comme les titres de Crist dans le N.T. Je n’ai trouvè qu’une erreure réelle, s’est son interpretation de la communication des idiomes, mais c’este une errer technique en non doctrinale". (Afirmo desde ahora que no tengo ningún inconveniente en esclarecer, en la medida de mis posibilidades, ese error técnico).
Sobre el modo de analizar mi texto por parte de la congregación dice lo siguiente:"Je n’ai pas voulu répondre avec trop de précision au document de la CDF qui vise aussi le premier livre de Sobrino et me paraît tellement exagéré qu’il est sans valeur. Talleyrand avait ce mot: "Ce qui est exagéré est insignifiant!". Avec cette méthode délibérément soupçonneuse je peux lire bien des hérésies dans les encycliques de J.P. II! J’en ai tout de même tenu compte dans mon évaluation. J’ai voulu dire que ce livre me paraît plus rigoureux dans ses formulations que le précédent. J’ai aussi cité des textes de la tradition, ou contemporains, ou même des papes qui vont dans le sens de Sobrino (en cela je suis la méthode de la CDF!).Entregué una copia del texto del P. Sesboué al P. Idiáquez y al P. Valentìn Menéndez.
Todos estos teólogos son buenos conocedores del tema cristológico, al nivel teológico y doctrinal. Son personas responsables. Se han fijado explícitamente en posibles errores doctrinales míos. Son respetuosos de la Iglesia. Y no han hallado errores doctrinales ni afirmaciones peligrosas. Entonces no puedo comprender cómo la notificatio lee mis textos de manera tan distinta y aun contraria.
Esta es la primera y fundamental razón para no suscribir la notificatio: "no me siento representado en absoluto en el juicio global de la notificatio". Por ello no me parece honrado suscribirla. Y además, sería una falta de respeto a los teólogos mencionados.
2. 30 años de relaciones con la jerarquía
El documento de 2004 y la notificatio no son una total sorpresa. Desde 1975 he tenido que contestar a la Congregación para la Educación católica, bajo el cardenal Garrone, en 1976, y a la Congregación de la Fe, primero bajo el cardenal Seper y después, varias veces, bajo el Cardenal Ratzinger. El P. Arrupe, sobre todo, pero también el P. Vincent O’keefe, como vicario general, y el P. Paolo Dezza, como delegado papal, siempre me animaron a responder con honradez, fidelidad y humildad. Me agradecieron mi buena disposición a responder y me daban a entender que el modo de proceder las curias vaticanas no siempre se distinguía por ser honrado y muy evangélico. Mi experiencia, pues, viene de lejos. Y usted conoce lo que ha ocurrido en los años de su generalato.
Lo que quiero añadir ahora es que no sólo he tenido serias advertencias y acusaciones de esas congregaciones, sobre todo la de la fe, sino que desde muy pronto se creó un ambiente en el Vaticano, en varias curias diocesanas y entre varios obispos, en contra de mi teología -y en general, contra la teología de la liberación. Se generó un ambiente en contra de mi teología, a priori, sin necesidad de leer muchas veces mis escritos. Son 30 largos años de historia. Sólo voy a mencionar algunos hechos significativos. Lo hago no porque ésa sea una razón fundamental para suscribir la notificatio, sino para comprender la situación en que estamos y qué difícil es, al menos para mí, y aun poniendo lo mejor de mi parte, tratar honrada, humana y evangélicamente, el problema. Y para ser sincero, aunque ya he dicho que no es una razón para no adherirme a la notificatio, siento que no es ético para mí "aprobar o apoyar" con mi firma un modo de proceder poco evangélico, que tiene dimensiones estructurales, en una medida, y que está bastante extendido. Pienso que avalar esos procedimientos para nada ayuda a la Iglesia de Jesús, ni a resentar el rostro de Dios en nuestro mundo, ni a animar al seguimiento de Jesús, ni a la "lucha crucial de nuestro tiempo", la fe y la justicia. Lo digo con gran modestia.
Algunos hechos del ambiente generalizado que se ha generado contra mi teología, más allá de las acusaciones de las congregaciones, son los siguientes.
Monseñor Romero escribe en su Diario el día 3 de mayo de 1979: "Visité al P. López Gall. Me dijo con sencillez de amigo el juicio negativo que se tiene en algunos sectores para con los escritos teológicos de Jon Sobrino". Por lo que toca a Monseñor Romero, pocos meses después me pidió que le escribiera el discurso que pronunció en la Universidad de Lovaina el 2 de febrero de 1980 -en 1977 ya había redactado para él la segunda carta pastoral "La Iglesia, cuerpo de Cristo en la historia".
Escribí el discurso de Lovaina. Le pareció muy bien, lo leyó íntegramente y me lo agradeció.
Antes de su cambio como obispo, Monseñor me había acusado de peligros doctrinales, lo que muestra que sabía moverse en esa problemática (también escribió un juicio crítico contra la "Teología Política" de Ellacuría en 1974). Pero después, nunca me avisó de tales peligros. Creo que mi teología le parecía correcta doctrinalmente -al menos en lo sustancial. (Sé muy bien que en el Vaticano un problema para su canonización ha sido mi posible influjo en sus escritos y homilías. Escribí un texto de unas 20 páginas sobre ellos. Y lo firmé).
Cuando Alfonso López Trujillo fue nombrado cardenal, dijo poco después en un grupo, más o menos públicamente, que iba a acabar con Gustavo Gutiérrez, Leonardo Boff, Ronaldo Muñoz y Jon Sobrino. Así me lo contaron, y me parece muy verosímil. Las historias de López Trujillo con el P. Ellacuría -con Monseñor Romero, sobre todo- y conmigo son interminables. Continúan hasta el día de hoy. Y empezaron pronto. Creo que en 1976 o 1977 habló en contra de la teología de Ellacuría y de la mía en una reunión de la Conferencia Episcopal de El Salvador, a cuya reunión se autoinvitó. Después, en carta a Ellacuría, negó tajantemente que hubiera hablado de él y de mí en dicha conferencia. Pero nosotros teníamos el testimonio, de primera mano, de Mons. Rivera, quien estuvo presente en la reunión de la conferencia episcopal.
En 1983 el cardenal Corripio, arzobispo de México, prohibió la celebración de un congreso de teología. Lo organizaban los pasionistas para celebrar, según su carisma, el año de la redención, que estaba siendo propiciado por Juan Pablo II. Querían tratar teológicamente el tema de la cruz de Cristo y la de nuestros pueblos. Me invitaron y acepté. Después me comunicaron la prohibición del cardenal. La razón, o una razón importante, era que yo iba a tener dos conferencias en el congreso.
En Honduras, el arzobispo, regañó a un grupo de religiosas porque habían ido a una diócesis cercana a escuchar una conferencia mía. Me había invitado el obispo. Creo que su nombre era Mons. Corrivau, canadiense.
Sólo un ejemplo más para no cansarle. En 1987 o 1988, más o menos, recibí una invitación a hablar a un numeroso grupo de laicos en Argentina, en la diócesis de Mons. Hesayne. Se trataba de revitalizar a los cristianos que habían sufrido durante la dictadura. Y acepté. Poco después recibí una carta de Mons. Hesayne diciéndome que mi visita a su diócesis había sido objeto de debate en una reunión de la Conferencia Episcopal.
El cardenal Primatesta dijo que le parecía muy mal que yo fuese a hablar a Argentina. Monseñor Hesayne, me defendió como persona y defendió mi ortodoxia. Le preguntó al cardenal si había leído algún libro mío, y reconoció que no. Sin embargo, el obispo se vio obligado a cancelar la invitación. Me escribió y se disculpó con mucho cariño y humildad, y me pidió que comprendiese la situación. Le contesté que la comprendía y que le agradecía.
De lo que he dicho hasta ahora sobre Argentina tengo certeza. Lo que sigue lo oí a dos sacerdotes, no sé si de Argentina o de Bolivia, que pasaron por la UCA. Al verme, me dijeron que conocían en lo que había ocurrido en Argentina. En resumen, en la reunión de la Conferencia Episcopal le habían dicho a Mons. Hesayne que tenía que elegir: o invitaba a Jon Sobrino a su diócesis, y el Papa no pasaría por ella en la próxima visita a Argentina, o aceptaba la visita del Papa a su diócesis y Jon Sobrino no podía pasar por allí.
No quiero cansarle más, aunque créame que podría contar más historias. También de obispos que se han opuesto a que dé conferencias en España. Esta "mala fama" no creo que fuese algo específicamente personal, sino parte de la campaña contra la teología de la liberación.
Y ahora formulo mi segunda razón para no adherirme. Tiene que ver menos directamente con los documentos de la Congregación de la fe, y más con el modo de proceder del Vaticano en lo últimos 20 ó 30años. En esos años, muchos teólogos y teólogas, gente buena, con limitaciones por supuesto, con amor a Jesucristo y a la Iglesia, y con gran amor a os pobres, han sido perseguidos inmisericordemente. Y no sólo ellos. También obispos, como usted sabe, Monseñor Romero en vida (todavía hay quien no le quiere en el Vaticano, al menos no quieren al Monseñor Romero real, sino a un Monseñor Romero aguado), Don Helder Camara tras su muerte, y Proaño, Don Samuel Ruiz y un muy largo etcétera. Han intentado descabezar, a veces con malas artes, a la CLAR, y a miles de religiosas y religiosos de inmensa generosidad, lo que es más doloroso por la humildad de muchos de ellos. Y sobre todo, han hecho lo posible para que desaparezcan las comunidades de base, los pequeños, los privilegiados de Dios.
Adherirme a la notificatio, que expresa en buena parte esa campaña y ese modo de proceder, muchas veces claramente injusto, contra tanta gente buena, siento que sería avalarlo. No quiero pecar de arrogancia, pero no creo que ayudaría a la causa de los pobres de Jesús y de la iglesia de los pobres.
3. Las críticas a mi teología del teólogo Joseph Ratzinger
Este tema me parece importante para comprender dónde estamos, aunque no es una razón para no suscribir la notificatio.
Poco antes de publicar la primera Instrucción sobre algunos aspectos de la "Teología de la liberación", corrió, en forma manuscrita, un texto del cardenal Joseph Ratzinger sobre dicha teología. El Padre César Jerez, entonces Provincial, recibió el texto de un jesuita amigo, de Estados Unidos. El texto fue publicado después en 30 giorni III/3 (1984) pp. 48-55.
Yo lo pude leer, ya publicado, en Il Regno. Documenti 21 (1984) pp. 220-223. En este artículo se mencionan los nombres de cuatro teólogos de la liberación: Gustavo Gutiérrez, Hugo Assmann, Ignacio y Ellacuría, y el mío, que es el más frecuentemente citado. Cito textualmente lo que dice sobre mí. Las referencias son de mi libro Jesús en América Latina. Su significado para la fe la cristología, San Salvador, 1982.
a) Ratzinger: "Respecto a la fe dice, por ejemplo, J. Sobrino: La experiencia que Jesús tiene de Dios es radicalmente histórica. "Su fe se convierte en fidelidad". Sobrino reemplaza fundamentalmente, por consiguiente, la fe por la "fidelidad a la historia" (fidelidad a la historia, 143-144).
Comentario. Lo que yo digo textualmente es: "su fe en el misterio de Dios se convierte en fidelidad a ese misterio". con lo cual quiero recalcar la procesualidad del acto de fe. Digo también que "la carta (de los Hebreos) resume admirablemente cómo se da en Jesús la fidelidad histórica y en la historia a la práctica del amor a los hombres y la fidelidad al misterio de Dios" (p. 144). La interpretación de Ratzinger de remplazar la fe por la fidelidad a la historia está injustificada. Repito varias veces: "fidelidad al misterio de Dios".
b) Ratzinger: "’Jesús es fiel a la profunda convicción de que el misterio de la vida de los hombres. es realmente lo último.’ (p. 144). Aquí se produce aquella fusión entre Dios y la historia que hace posible a Sobrino, conservar con respecto a Jesús la fórmula de Calcedonia pero con un sentido totalmente alterado: se ve cómo los criterios clásicos de la ortodoxia no son aplicables al análisis de esta teología.
Comentario. El contexto de mi texto es que "la historia hace creíble su fidelidad a Dios, y la fidelidad a Dios, a quien le instituyo, desencadena la fidelidad a la historia, al ’ser a favor de otros’" (p. 144). Para nada confundo Dios y la historia. Además, la fidelidad no es a una historia abstracta, o alejada de Dios y absolutizada, sino que es la fidelidad al amor a los hermanos, lo que tiene una ultimidad específica en el Nuevo Testamento y es mediación de la realidad de Dios.
c) Ratzinger: "Ignacio Ellacuría insinúa este dato en la tapa del libro sobre este tema: Sobrino "dice de nuevo.que Jesús es Dios, pero añadiendo inmediatamente que el Dios verdadero es sólo el que se revela histórica y escandalosamente en Jesús y en los pobres, quienes continúan su presencia. Sólo quien mantiene tensa y unitariamente esas dos afirmaciones es ortodoxo."
Comentario. No veo que tiene de malo las palabras de Ellacuría.
d) Ratzinger: "El concepto fundamental de la predicación de Jesús es "Reino de Dios". Este concepto se encuentra también en el núcleo de las teologías de la liberación, pero leído sobre el trasfondo de la hermenéutica marxista. Según J. Sobrino el reino no debe comprenderse de modo espiritualista, ni universalista, ni en el sentido de una reserva escatológica abstracta. Debe ser entendido en forma partidista y orientado hacia la praxis. Sólo a partir de la praxis de Jesús, y no teóricamente, se puede definir lo que significa el reino; trabajar con la realidad histórica que nos rodea para transformarla en el Reino" (166).
Comentario. Es falso que yo hable del reino de Dios en el transfondo de la hermenéutica marxista. Sí es cierto que doy importancia decisiva a reproducir la praxis de Jesús para obtener un concepto que pueda acercarnos al que tuvo Jesús. Pero esto último es problema de epistemología filosófica, que tiene también raíces en la comprensión bíblica de lo que es conocer. Como dicen Jeremías y Oseas: "hacer justicia, ¿no es eso conocerme?".
e) Ratzinger: "En este contexto quisiera también mencionar la interpretación impresionante, pero en definitiva espantosa, de la muerte y de la resurrección que hace J. Sobrino. Establece ante todo, en contra de las concepciones universalistas, que la resurrección es, en primer lugar, una esperanza para los crucificados, los cuales constituyen la mayoría de los hombres: todos estos millones a los cuales la injusticia estructural se les impone como una lenta crucifixión (176). El creyente toma parte también en el reinado de Jesús sobre la historia a través de la implantación del Reino, esto es, en la lucha para la justicia y por la liberación integral, en la transformación de las estructuras injustas en estructuras más humanas. Este señorío sobre la historia se ejerce, en la medida en que se repite en la historia el gesto de Dios que resucita a Jesús, esto es, dando vida a los crucificados de la historia (181). El hombre asumió las gestas de Dios, y en esto se manifiesta toda la transformación del mensaje bíblico de modo casi trágico, si se piensa cómo este intento de imitación de Dios se ha efectuado y se efectúa".
Comentario. Si la resurrección de Jesús es la de un crucificado, me parece al menos plausible comprender teológicamente la esperanza en primer lugar para los crucificados. En esta esperanza podemos participar "todos "en la medida en que participemos en la cruz.
Y "repetir en la historia el gesto de Dios" es obviamente lenguaje metafórico. Nada tiene que ver con hybris y arrogancia. Hace resonar el ideal de Jesús: "sean buenos del todo como el Padre celestial es bueno".
Hasta aquí el comentario a las acusaciones de Ratzinger. No reconozco mi teología en esta lectura de los textos. Además, como usted recordará, el P. Alfaro escribió un juicio sobre el libro del que Ratzinger saca las citas, sin encontrar error alguno en su artículo "Análisis del libro ’Jesús en América Latina’ de Jon Sobrino", Revista Latinoamericana de Teología 1, 1984, pp. 103-120). Por lo que toca a la ortodoxia concluye textualmente:
"a) Expresa y repetida afirmación de fe en la divinidad (filiación divina) de Cristo a lo largo de todo el libro; b) reconocimiento creyente del carácter normativo y vinculante de los dogmas cristológicos, definidos por el magisterio eclesial en los concilios ecuménicos;
c) fe en la escatología cristiana, iniciada ya ahora en el presente histórico como anticipación de su plenitud venidera meta-histórica (más allá de la muerte);
d) fe en la liberación cristiana como "liberación integral", es decir, como salvación total del hombre en su interioridad y en su corporalidad, en su relación a Dios, a los otros, a la muerte y al mundo. Estas cuatro verdades de la fe cristiana son fundamentales para toda cristología. Sobrino las afirma sin ninguna ambigüedad" (p. 117-118).
Y es grave que, sin citar mi nombre, la Instrucción de 1984, IX. Traducción "teológica de este núcleo", repite algunas ideas que Ratzinger piensa haber encontrado en mi libro. "Algunos llegan hasta el límite de identificar a Dios y la historia, y a definir la fe como ’fidelidad a la historia’." (n. 4).
Creo que el cardenal Ratzinger, en 1984, no entendió a cabalidad la teología de la liberación, ni parece haber aceptado las reflexiones críticas de Juan Luis Segundo, Teología de la liberación. Respuesta al cardenal Ratzinger, Madrid, 1985, y de I. Ellacuría, "Estudio teológico-pastoral de la Instrucción sobre algunos aspecto de ’la teología de la liberación’", Revista Latinoamericana de Teología 2 (1984) 145-178. Personalmente creo que hasta el día de hoy le es difícil comprenderla. Y me ha disgustado un comentario que he leído al menos en dos ocasiones. Es poco objetivo y puede llegar a ser injusto. La idea es que "lo que buscan los (algunos) teólogos de la liberación es conseguir fama, llamar la atención".
Termino. No es fácil dialogar con la Congregación de la fe. A veces parece imposible. Parece que está obsesionada por encontrar cualquier limitación o error, o por tener por tal lo que puede ser una conceptualización distinta de alguna verdad de la fe. En mi opinión, hay aquí, en buena medida, ignorancia, prejuicio y obsesión para acabar con la teología de la liberación. Sinceramente no es fácil dialogar con ese tipo de mentalidad.
Cuántas veces he recordado el presupuesto de los Ejercicios: "todo buen cristiano ha de ser más pronto a salvar la proposición del prójimo que a condenarla". Y estos días he leído en la prensa un párrafo del libro de Benedicto XVI, de próxima aparición, sobre Jesús de Nazaret. "Creo que no es necesario decir expresamente que este libro no es en absoluto un acto magisterial, sino la expresión de mi búsqueda personal del «rostro del Señor» (salmo 27, Por lo tanto, cada quien tiene libertad para contradecirme. Sólo pido a las lectoras y a los lectores el anticipo de simpatía sin la cual no existe comprensión posible". Personalmente le ofrezco al papa simpatía y comprensión. Y deseo vehementemente que la Congregación de la fe trate a los teólogos y teólogas de la misma manera.
4. Problemas de fondo importantes
En mi respuesta de marzo de 2005 traté de explicar mi pensamiento. Ha sido en vano. Por eso ahora no voy a comentar, una vez más, las acusaciones que me hace la notificatio, pues fundamentalmente son las mismas. Sólo quiero mencionar algunos temas importantes, sobre los que en el futuro podamos ofrecer algunas reflexiones.
1. Los pobres como lugar de hacer teología. Es un problema de epistemología teológica, exigido o al menos sugerido por la Escritura. Personalmente, no dudo de que desde los pobres se ve mejor la realidad y se comprende mejor la revelación de Dios.
2. El misterio de Cristo siempre nos desborda. Mantengo como fundamental el que sea sacramento de Dios, presencia de Dios en nuestro mundo. Y mantengo como igualmente fundamental el que sea un ser humano e histórico concreto. El docetismo me parece que sigue siendo el mayor peligro de nuestra fe.
3. La relacionalidad constitutiva de Jesús con el reino de Dios. En las palabras más sencillas posibles, éste es un mundo como Dios lo quiere, en el que haya justicia y paz, respeto y dignidad, y en el que los pobres estén en el centro de interés de los creyentes y de las iglesias. Igualmente, la relacionalidad constitutiva de Jesús con un Dios que es Padre, en quien confía totalmente, y en un Padre que es Dios ante quien se pone en total disponibilidad.
4. Jesús es hijo de Dios, la palabra hecha sarx. Y en ello veo el misterio central de la fe: la transcendencia se ha hecho transdescendencia para llegar a ser condescendencia.
5. Jesús trae la salvación definitiva, la verdad y el amor de Dios. La hace presente a través de su vida, praxis, denuncia profética y anuncio utópico, cruz y resurrección. Y Puebla, remitiéndose a Mt 25, afirma Cristo "ha querido identificarse con ternura especial con los más débiles y pobres" (n. 196). Ubi pauperes ibi Christus.
6. Muchas otras cosas son importantes en la fe. Sólo quiero mencionar una más, que Juan XXIII y el cardenal Lercaro proclamaron en el Vaticano II: La Iglesia como "Iglesia de los pobres". Iglesia de verdadera compasión, de profecía para defender a los oprimidos y de utopía para darles esperanza.
7. Y en un mundo gravemente enfermo como el actual proponemos como utopía que "extra pauperes nulla salus".
De estos y de muchos otros temas hay que hablar más despacio. Creo que es bueno que todos dialoguemos. Personalmente estoy dispuesto a ello.
Querido Padre Kolvenbach esto es lo que quería comunicarle. Bien sabe usted que, aunque estas cosas son desagradables, puedo decir que estoy en paz. Esta viene del recuerdo de innumerables amigos y amigas, muchos de ellos mártires. Estos días, el recuerdo del P. Jon Cortina nos trae de nuevo la alegría. Si me permite hablarle con total sinceridad, no me siento "en casa" en ese mundo de curias, diplomacias, cálculos, poder, etc. Estar alejado de "ese mundo", aunque yo no lo haya buscado, no me produce angustia. Si me entiende bien, hasta me produce alivio.
Sí siento que la notificatio producirá algún sufrimiento. Por decirlo con sencillez, algo sufrirán mis amigos y familiares, una hermana que tengo, muy cercana a Monseñor Romero y a los mártires. Pienso también que hará la vida más difícil, por ejemplo a mi gran amigo el P. Rafael de Sivatte. Si no fuesen pocos los problemas que ya tiene para mantener con seriedad el Departamento de Teología -que lo mantiene muy bien por su gran capacidad, dedicación y ciencia- tendrá ahora que buscar otro profesor de cristología, y, como usted sabrá, también tendrá que buscar otro profesor de Historia de la Iglesia, pues, injustamente, el P. Rodolfo Cardenal no va a dar clases, pues no es bien visto por la jerarquía del país.
No sé si esta larga carta le ayudará en sus conversaciones con el Vaticano. Ojalá así sea. He procurado ser lo más sincero posible. Y le agradezco todos los esfuerzos que ha hecho para defendernos.
Le recuerdo con afecto ante el Señor.
Jon Sobrino.
File originale in:
http://www.reflexionyliberacion.cl/modules.php?name=News&file=article&sid=195
Altri link sul sito http://www.proconcil.org/
CON LOS POBRES, CONTRA LA POBREZA. AGRADECIMIENTO A JON SOBRINO-
http://www.proconcil.org/document/2007/EspecialSobrino/AgradSobrino.htm
ORACIÓN DE SOLIDARIDAD CON JON SOBRINO-
http://www.proconcil.org/document/2007/EspecialSobrino/OracionSolidaridadJSobrino.htm
UN CAPÍTULO MÁS EN UNA DOLOROSA HISTORIA...-
http://www.proconcil.org/document/2007/EspecialSobrino/Hoornaert.Sobrino.htm
EL CASO JON SOBRINO: OTRO ABUSO ECLESIÁSTICO DE PODER-
http://www.proconcil.org/document/2007/EspecialSobrino/IONSOBRINO.htm
* IL DIALOGO, Venerdì, 16 marzo 2007
La lezione di Medellín: una Chiesa al servizio del «passaggio di Dio per questo mondo»
Adista Documenti n. 12 del 31/03/2012
Un articolo di Jon Sobrino dal titolo CON MEDELLÍN DIO È PASSATO PER L’AMERICA LATINA. E ORA? *
DOC-2424. SAN SALVADOR-ADISTA. Se, come scrisse Ignacio Ellacuría con folgorante chiarezza, «con mons. Romero Dio è passato per El Salvador», molte altre tracce questo suo passaggio ha lasciato in tutta l’America Latina, a cominciare da quella, molto profonda, rappresentata dalla II Assemblea generale dell’episcopato latinoamericano a Medellín, nel 1968. È lì infatti - come scrive il teologo gesuita Jon Sobrino nella sua “Riflessione per la Quaresima”, intitolata per l’appunto “Con Medellín Dio è passato per l’America Latina. E ora?” - che ha avuto luogo quell’«irruzione dei poveri, e di Dio in essi» a partire da cui si è sviluppata la riflessione su «cosa significa essere Chiesa, quali sono la sua identità e la sua missione fondamentale e quale deve essere il suo modo di collocarsi in un mondo di poveri». Una riflessione, questa, straordinariamente feconda. La Chiesa di Medellín, sottolinea Sobrino, ha scelto di stare con il popolo povero e perseguitato, condividendone la stressa sorte: «incarnata, impegnata a difendere e ad accompagnare i poveri, si prendeva carico della croce e spesso moriva crocifissa. Annunciò una Buona Novella come Gesù nella sinagoga di Nazareth. Ebbe i suoi “dodici apostoli”, i Padri della Chiesa latinoamericana, con dom Helder Camara, uno dei pionieri, Enrique Angelelli, don Sergio Méndez Arceo, Leonidas Proaño, monsignor Romero, pastore e martire del continente, e altri». Ma oggi quella Chiesa che fine ha fatto? Perché è così difficile trovare in essa «la libertà dei figli e delle figlie di Dio, la libertà di fronte al potere»? In ogni caso, non conviene neppure preoccuparsene troppo, perché l’importante non è «il futuro di quello che chiamiamo “Chiesa”», ma il fatto che «Dio passi per questo mondo», in quanto «questo passaggio porta sempre salvezza alle persone e al mondo nel suo insieme». Di seguito, in una nostra traduzione dallo spagnolo, la riflessione di Sobrino, tratta dal numero di febbraio di Carta a las Iglesias. (c. f.)
CON MEDELLÍN DIO È PASSATO PER L’AMERICA LATINA. E ORA?
di Jon Sobrino
I dieci anni che vanno da Medellín (1968) a Puebla (1979) sono stati unici nell’epoca moderna per la Chiesa cattolica in America Latina. Da lì in avanti ebbe inizio un’involuzione a cui Aparecida (2007) ha cercato di porre freno, per quanto al momento rimanga molto da fare. Nell’esprimere questo giudizio, non ci concentriamo sulla Chiesa come l’analizzano i sociologi, ma sul “passaggio di Dio”. È senza dubbio più difficile da calibrare, ma tocca la dimensione più profonda della Chiesa e la questione relativa al servizio di chi essa deve stare. In definitiva, è il tema del contributo che essa offre agli esseri umani e al mondo come un tutto. E ovviamente bisogna domandarsi “quale Dio” è quello che passa per la storia in un momento dato.
MEDELLÍN
È stato un salto qualitativo. Lì hanno fatto irruzione i poveri e in essi ha fatto irruzione Dio. Si è trattato di un fatto fondante che è penetrato nella fede di molti e che ha configurato la Chiesa.
Sorprendentemente, per l’assemblea dei vescovi la priorità non è stata la Chiesa in se stessa, ma il mondo dei poveri e delle vittime, cioè la creazione di Dio. Le loro prime parole proclamano la realtà del continente: «una povertà di massa prodotto dell’ingiustizia». I vescovi hanno agito, prima di tutto, come esseri umani e hanno lasciato parlare la realtà che gridava al cielo. Sono i clamori che Dio ha ascoltato nell’esodo, che lo hanno indotto ad uscire da se stesso e ad entrare con decisione nella storia. Allo stesso modo, con Medellín Dio è entrato nella storia latinoamericana.
Da questa irruzione dei poveri, e di Dio in essi, Medellín ha riflettuto su cosa significa essere Chiesa, quali sono la sua identità e la sua missione fondamentale e quale deve essere il suo modo di collocarsi in un mondo di poveri. La risposta è stata quella di “una Chiesa dei poveri”, simile alla visione di Giovanni XXIII e del card. Lercaro. Al Concilio non aveva avuto seguito, a Medellín sì. La Chiesa sentì compassione per gli oppressi e decise di lavorare per la loro liberazione. Per molti, con maggiore o minore consapevolezza, ciò venne accolto come una benedizione. Per altri, fu percepito, a ragione, come un grave pericolo.
Molto presto il potere reagì. Nel 1968 Nelson Rockefeller scrisse un rapporto su quanto stava avvenendo e sul fatto che questa Chiesa, nuova e pericolosa, doveva essere indebolita e frenata, che è ciò che avvenne all’inizio dell’amministrazione Reagan. Oligarchie, eserciti, squadroni della morte scatenarono contro la Chiesa una persecuzione inedita nella storia dell’America Latina.
La persecuzione e la fermezza con cui venne affrontata mostrarono in maniera chiara quanto di nuovo ed evangelico stava avvenendo: la Chiesa di Medellín stava con il popolo povero e perseguitato e ne condivideva la stressa sorte. In migliaia vennero assassinati, tra cui una mezza dozzina di vescovi, decine di sacerdoti, religiosi e religiose e una moltitudine di laici, donne e uomini. Con limitazioni, errori e peccati, era una Chiesa molto più casta che meretrice, molto più evangelica che mondana.
All’interno della Chiesa cattolica, Paolo VI favorì e incoraggiò questa nuova Chiesa, ma alti personaggi della curia romana, e di altre curie locali, ne calpestarono l’immagine, trattando in maniera ingiusta i suoi più prestigiosi rappresentanti, anche vescovi, e delineando una Chiesa alternativa, diversa e anche contraria, più devozionale, intimista, una Chiesa di movimenti sottomessi e pronti a difendere la gerarchia. Quello che bisognava evitare era che la Chiesa entrasse in conflitto con i potenti.
La Chiesa popolare, nata intorno a Medellín, credente e lucida, fatta di comunità di base, impegnata a vivere la povertà del continente, soffrì la doppia persecuzione del mondo oppressore e, con una certa frequenza, della stessa Chiesa.
Quella Chiesa fu testimone e seguace di Gesù di Nazareth. Incarnata, impegnata a difendere e ad accompagnare i poveri, si prendeva carico della croce e spesso moriva crocifissa. Annunciò una Buona Novella come Gesù nella sinagoga di Nazareth.
Ebbe i suoi “dodici apostoli”, i Padri della Chiesa latinoamericana, con dom Helder Camara, uno dei pionieri, Enrique Angelelli, don Sergio Méndez Arceo, Leonidas Proaño, monsignor Romero, pastore e martire del continente, e altri. Giunse ad essere un’ekklesia, in cui donne e uomini, religiose e laici, latinoamericani e persone venute da altri luoghi costituirono un corpo ecclesiale, una grande comunità di vita e di missione. Tra i locali e gli esterni si generò una solidarietà mai vista: si sostenevano mutuamente. Si ebbe un aumento di speranza e di gioia. E l’amore dei martiri produsse un vento di resurrezione, estraneo ad ogni dimensione alienante, in un nuovo richiamo alla storia in cui vivere come resuscitati. I n questa Chiesa soffiava lo Spirito, lo spirito di Gesù e lo spirito dei poveri. E ispirava preghiera, liturgia, musica, arte. E ispirava anche omelie profetiche, lucide lettere pastorali, testi teologici fatti in casa, non semplicemente importati senza alcuna impronta di Medellín.
Al centro di tutto c’era il vangelo di Gesù. Luca 4, 18: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione». Matteo 25, 36-41: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare». Giovanni 15, 13: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici». E Gesù di Nazareth, il crocifisso resuscitato. Atti 2,23: «Voi l’avete inchiodato sulla croce per mano di empi e l’avete ucciso. Ma Dio lo ha risuscitato».
E ORA?
Inchieste e studi sociologici e antropologici, economici e politici, offrono dati ed elargiscono spiegazioni sulla Chiesa cattolica e altre Chiese cristiane. Ci dicono se il numero dei fedeli si alza o si abbassa e se cresce o si riduce il nostro impatto sulla società. Su questo non ho nulla da aggiungere. E, strettamente parlando, non è neppure la mia maggiore preoccupazione la questione di quale sarà il futuro di quello che chiamiamo “Chiesa”, per quanto in essa io abbia vissuto e viva, e mi sia abituato ad appartenere a questa famiglia.
Quello che mi interessa, e che mi rallegra, è che “Dio passi per questo mondo”. E la ragione è semplice. Il mondo è «gravemente infermo», diceva Ellacuría, «malato di morte», dice Jean Ziegler. Ha bisogno, cioè, di salvezza e di guarigione. Per questo, come credente e come essere umano, desidero che “Dio passi per questo mondo”, poiché questo passaggio porta sempre salvezza alle persone e al mondo nel suo insieme. Abbiamo avuto la fortuna di sentire questo passaggio di Dio con Medellín, con mons. Romero, con molte comunità popolari. Con molte persone buone, in maggioranza semplici. Con una pleiade di martiri. E anche con il popolo crocifisso, per quanto ciò si possa cogliere solo «in un difficile atto di fede», come diceva Ellacuría spiegando la salvezza portata dal servo sofferente di Isaia.
E oggi? Sarebbe un grave errore cadere in semplicismi per cose tanto serie. Sarebbe ingiusto non vedere il buono che, in molti modi, esiste nelle Chiese. E sarebbe arrogante non cercare di scoprirlo, sebbene a volte si nasconda dietro una corteccia che non rimanda in maniera chiara a Gesù di Nazareth. In ogni caso, il passaggio di “Dio” sarà sempre un mistero imperscrutabile, e solo in punta di piedi e con il massimo rispetto nei confronti di tutti gli esseri umani possiamo parlarne. Però, pur con tutte queste cautele, qualcosa si può dire. Ricorderemo le realtà dei fedeli e delle loro comunità, ma teniamo a mente soprattutto le istanze, gerarchicamente alte, storicamente responsabili di quanto avviene e quelle a cui non si può chiedere conto. Offrirò con semplicità la mia visione personale.
Abbonda in diverse forme il pentecostalismo, come tipo di Chiesa distante dai problemi reali di vita e di morte delle maggioranze, malgrado porti ai poveri incoraggiamento e consolazione, il che non è da disprezzare quando essi non hanno nulla a cui aggrapparsi perché la loro vita abbia senso (diversa è la situazione per le più agiate). Proliferano i movimenti, a dozzine, e crescono i mezzi di comunicazione delle Chiese, emittenti di radio e televisione sottomesse a ideali e norme provenienti dalle curie, poco libere, sembra, di prendere nelle proprie mani un vangelo che annuncia la buona novella per i poveri, sotto forma di giustizia, e di avvertire la necessità di uno studio, meditato, minimamente scientifico, della Parola di Dio, e in generale della teologia che rese possibili il Vaticano II e Medellín. Si moltiplicano devozioni di ogni tipo, quelle di prima e quelle di ora. Gesù di Nazareth, colui che passò facendo il bene e morì crocifisso, è messo da parte con facilità a favore del bambino Gesù, che sia di Atocha o di Praga, il Dio bambino, detto con grande rispetto. Facilmente si depotenzia il Gesù vigoroso della Galilea e del Giordano, il profeta delle denunce presso il tempio di Gerusalemme, a favore di devozioni basate su apparizioni a sfondo eccessivamente sentimentale e mellifluo. Per dirlo in maniera semplice, la divina provvidenza può attrarre più del Padre di Gesù, del Figlio che è Gesù di Nazareth, dello Spirito Santo che è Signore e datore di vita e Padre dei poveri, come recita l’inno di Pentecoste.
Nell’insieme, è difficile oggi trovare nella Chiesa la libertà dei figli e delle figlie di Dio, la libertà di fronte al potere, che non è meno potere solo per il fatto di essere sacro. Si nota un eccesivo ossequio e un’eccessiva sottomissione verso tutto ciò che è gerarchia, fino a trasformarsi in timore paralizzante. Dalle istanze del potere ecclesiale emerge il trionfalismo, e quella che è stata chiamata la pastorale dell’apoteosi, moltitudinaria, mediatica. In molti seminari, il discorrere e il pensare sono sostituiti dal memorizzare. Nelle riunioni del clero, da quello che sappiamo, le domande, la discussione e il dibattito lasciano il posto al silenzio. Le lettere pastorali degli anni Settanta e Ottanta - vero orgoglio delle chiese, che a volte rinverdisce, per esempio in Guatemala - sono soppiantate da brevi messaggi, corretti e misurati, con argomenti ripresi dalle ultime encicliche del papa. Il centro istituzionale non sembra stare più in America Latina, ma nella distante Roma. Il tutto detto con rispetto. Come sarà il passaggio di Dio per l’America Latina e con chi avverrà è da vedere, e in definitiva è cosa di Dio. Ma è cosa nostra anelarlo, lavorare in quella direzione e apprendere come è avvenuto in passato attorno a Medellín.
È bene sapere e analizzare il viavai dei fedeli e l’impatto delle Chiese nella società. Per quello che dicono i dati, in entrambi gli aspetti la Chiesa è in calo. Ma occorre tenere più presenti le radici della cui linfa è vissuto il passaggio di Dio. E annaffiarle umilmente, con acque vive.
Cosa avverrà alla nostra Chiesa e a tutte le Chiese si vedrà. Il mio desiderio è che, accada quel che accada all’esterno, ciò sia al servizio del passaggio di Dio per questo mondo, il Dio di Gesù, compassionevole, profeta e crocifisso. E il Dio datore di speranza.
Queste sono domande che possiamo porre sempre. Ma forse è bene farsele all’inizio della Quaresima. Questo tempo esige da noi vigore per camminare verso Gerusalemme. E ci offre la speranza di incontrarci lì con Gesù crocifisso e resuscitato.
IL DIALOGO, Mercoledì 28 Marzo,2012 Ore: 18:03
Girardi, il teologo rivoluzionario
di Giovanni Franzoni (l’Unità, 28 febbraio 2012)
Ricordare Giulio Girardi al momento in cui lui ci abbandona fisicamente ma sicuramente non spiritualmente, significa ripercorrere tutta la nostra vita di cristiani impegnati dopo il Concilio tra gli anni 70 sino ai nostri giorni. Erano gli anni in cui gli uomini di scienza e di sapere non utilizzavano più le loro conoscenze per consolidare e rafforzare i poteri esistenti, ma spinti dal Concilio Vaticano II scendevano dalle cattedre per rendere viva e incarnata nella realtà sociale dell’umanità la loro fede.
Sono gli anni della lettera dei tredici preti romani che protestano contro la condizione di emarginazione di chi viveva in condizioni incivili nelle baracche della Capitale e della mia lettera «la Terra è di Dio» con la quale denunciavo la speculazione edilizia e il silenzio della Chiesa compromessa con gli interessi dei grandi proprietari fondiari e con le speculazioni fatte sulle spalle della povera gente nell’interesse della Dc romana.
Erano gli anni in cui Gerardo Lutte, docente al pontificio ateneo salesiano come Girardi, usciva dai ranghi delle istituzioni e andava ad abitare tra i baraccati di Prato Rotondo. In quegli anni Giulio Girardi metterà a disposizione la sua conoscenza filosofica e teologica per una strategia di riavvicinamento del mondo dei credenti con la sinistra storica. Per la rivoluzione delle classi subalterne spesso ridotte in condizioni subumane. Scrive «Cristianesimo e Marxismo». Avrà una cattedra alla Sorbonne di Parigi. Girardi metterà in crisi il suo rapporto con l’istituzione dell’ordine salesiano e con l’Ateneo salesiano.
Con il teologo peruviano Gustavo Gutiérrez ha cominciato ad assecondare la fondazione del movimento Cristiani per il Socialismo e la Teologia della Liberazione. È stato un lungo periodo durante il quale ci ha supportato e documentato sulla possibilità di non far coincidere l’alto percorso di fede con l’ideologia filosofica marxista. Ma di individuare obiettivi sociali concreti sui quali si realizzava l’incontro con le forze sociali e politiche di ispirazione marxiana. È stata una grande stagione di elaborazione e di rivisitazione della fede che ha coinvolto le comunità cristiane di base sviluppate prima in America latina, poi in Africa e finalmente in Europa.
Ci ha aiutato a maturare la convinzione che optare per una scelta di classe non significava abbracciare una scelta ideologica, ma di rivisitare l’insegnamento evangelico dalla parte dei poveri e degli sfruttati. Era così che si dava concretezza a quell’idea maturata durante il Concilio Vaticano
II grazie soprattutto all’opera del cardinale Lercaro, di una Chiesa che è anzitutto «convocazione dei poveri». Non una Chiesa esclusiva, nella quale sono soltanto i poveri, ma che rilegge il messaggio evangelico nella condizione di coloro che sono senza voce, senza potere, senza autorità.
A questa grande stagione di impegno teologico è seguita quella di Giulio Girardi che si fa supporto alle culture delle popolazioni indigene. Siamo alla crisi del socialismo reale che mostra il suo volto repressivo e autoritario.
Matura la convinzione che fosse da privilegiare la lotta delle popolazioni indigene per uscire dall’oppressione del colonialismo e dello schiavismo internazionale. A Quito in Ecuador nel 1992 ci sarà la svolta con la grande assemblea delle popolazioni indigene e dei movimenti che sostenevano i “senza terra” in Brasile. Anche nelle comunità cristiane si recupera la scelta di porsi non dalla parte dei civilizzatori, ma da quella dei colonizzati. Perché alle popolazioni indigene con il Vangelo era stata portata anche la sottomissione. Giulio Girardi partecipava con grande impeto a questo movimento. Era come innamorato della spontaneità e trasparenza della lotta di questi popoli. In Nicaragua aveva una sua stanza nel Centro Valdivieso di Managua. Sarà a fianco delle popolazioni del Chapas, in Messico ed amico e consigliere del leader cubano Fidel Castro.
Oggi nessuno può avanzare una formula unica per la liberazione dei popoli. Molte sono le strade e molte le esperienze con cui misurarsi. Girardi aveva fatto sua la formula della nonviolenza attiva. Ha scritto su Gandhi il vescovo Proano. Riflettendo su Che Guevara è arrivato ad indicare una venatura di clemenza e di amore anche nella lotta di liberazione armata. Chi prende le armi peramore deve sapere che anche il nemico è un uomo oppresso da liberare. È così che anche nelle comunità di base si cominciò a coniugare una sorta di mitezza non soltanto verso gli oppressi, ma anche verso gli oppressori.
Giulio Giradi è spirato in questa convinzione e la sua memoria non può diventare museale. Seguita ad essere quella che è stata sino ad oggi: una pratica di liberazione per tutti gli oppressi. Un processo che non può venire dall’alto, come accade con la globalizzazione finanziaria che lascia tutto nelle mani dei potenti.
La Teologia della Liberazione ci ha aiutato a capire che non è contro un nemico esterno che occorre combattere, che il nemico è anche dentro di noi. Che allo sfruttamento alimentato dall’esterno ci sono processi di reazione vitali: quelli autogestiti dalla base e dal mondo degli oppressi.
È questo che con grande fatica ci ha aiutato a vedere Giulio Girardi. Questo portiamo avanti. Con la sua passione mite, gentile e profondamente umana, ma al tempo stesso rigorosa. Il suo è stato un faticoso andare controcorrente e verso il «poco probabile». È il cammino delle comunità di base. Come recita la canzone di Bennato, è stato il ricercatore dell’isola che non c’è. Ma che ci potrebbe essere. Sta a noi fare in modo che ci sia. Così lo ricorderemo oggi alle 14 alla Comunità di san Paolo. Si è spento nell’umiltà, ma la speranza di civilizzare l’umanità non è certo morta.
Un autentico cristiano per il socialismo
di Luca Kocci (il manifesto, 28 febbraio 2012)
Il titolo di uno dei suoi libri più importanti, Marxismo e cristianesimo, è la migliore sintesi della ricerca, dell’impegno e della vita stessa di Giulio Girardi: il dialogo e la collaborazione fra comunisti e cristiani nella lotta comune per la liberazione degli oppressi e degli emarginati. Girardi è morto domenica mattina, a 86 anni, dopo anni difficili per un ictus che lo aveva colpito qualche anno fa. Ordinato prete nel 1955, docente di filosofia nelle università pontificie, viene chiamato al Concilio Vaticano II come esperto di marxismo e di ateismo. Una scelta non solo intellettuale, ma di campo: partecipa al dialogo fra cristiani e marxisti, collabora con i movimenti di base, parla del marxismo «non come nemico ma come interlocutore del quale si condividono numerose opzioni». I salesiani, nel 1969 lo espellono dall’università - e insieme a lui cacciano anche un altro professore, don Gerard Lutte, che aveva abbracciato la causa dei baraccati delle periferie di Roma - e Girardi va ad insegnare nelle università cattoliche di Parigi a di Bruxelles. Ma viene presto espulso anche da lì, incassando la solidarietà di François Houtart, Gustavo Gutierrez e Paulo Freire - fra i padri, insieme a Girardi, della teologia della liberazione - che si dimettono per solidarietà.
Nascono in America latina i Cristiani per il socialismo, Girardi vi aderisce con convinzione, contribuendo a portare il movimento in Europa e in Italia. Nel 1977 il Vaticano lo sospende a divinis, ma non blocca il suo impegno ecclesiale nelle comunità di base, accademico - insegna a Sassari fino al 1996 - e sociale: lavora con i sindacati dei metalmeccanici, continua a promuovere il dialogo tra comunisti e cattolici, intensifica i rapporti con i popoli e i Paesi latinoamericani, in particolare il Nicaragua - dove collabora con la rivoluzione sandinista - e Cuba.
«Girardi è stato negli ultimi cinquant’anni il maggiore teologo che in Italia si è confrontato col marxismo e con la modernità, interloquendo contemporaneamente coi movimenti di base» - è il saluto di Noi siamo Chiesa che prosegue: «La sua riflessione deve essere rilanciata perché capace di indicare percorsi a quanti sono impegnati a liberare la fede nel Vangelo dalle vecchie religioni e l’uomo da ogni dominio spirituale, ideologico e materiale». «Marxismo e cristianesimo evangelico, non quello clericale, non nemici ma alleati per la liberazione dell’uomo: questo è stato il senso della sua vita», dice Giovanni Avena, direttore di Adista, agenzia di informazione con cui Girardi ha sempre collaborato. «Un cristiano autentico, un intellettuale impegnato, un compagno di tante battaglie per il socialismo. Ha integrato utopia e progetto, studio e militanza nel tenace impegno per dare una concreta risposta alla domanda del titolo di uno dei suoi libri: Gli esclusi costruiranno la nuova storia?», lo ricorda così Marcello Vigli, delle Comunità di base.
Oggi alle 14, presso la Comunità di base di San Paolo (via Ostiense 152), l’ultimo saluto a Giulio Girardi.
"Così il cardinale Ratzinger prese di mira i progressisti e lasciò impuniti i pedofili" *
di Federico Rampini (la Repubblica, 3 luglio 2010)
Joseph Ratzinger, quando da cardinale dirigeva la Congregazione per la dottrina della fede, fu «parte di una cultura di non-responsabilità, negazionismo, e ostruzionismo della giustizia» di fronte agli abusi sessuali commessi da sacerdoti. Lo afferma il New York Times sulla base di documenti interni alla Chiesa, interviste a vescovi ed esperti di diritto canonico. Dal reportage emerge una versione molto diversa, sul ruolo di papa Benedetto XVI, rispetto alla descrizione ufficiale fornita dalla Chiesa.
Tra le rivelazioni spunta un vertice segreto avvenuto in Vaticano nel 2000 tra Ratzinger e i vescovi delle nazioni anglofone più colpite dagli scandali di pedofilia: Stati Uniti, Irlanda, Australia. Secondo il vescovo Geoffrey Robinson di Sidney, che partecipò all’incontro segreto, Ratzinger «impiegò molto più tempo a riconoscere il problema degli abusi sessuali, rispetto a quel che fecero alcuni vescovi locali». Nell’intervista al New York Times il prelato australiano si chiede: «Perché il Vaticano era così tanti anni indietro?».
Il New York Times smonta la linea di difesa che la Santa Sede ha tenuto sull’attuale pontefice. Il Vaticano ha descritto come una svolta la decisione del 2001 di dare alla Congregazione diretta da Ratzinger l’autorità di semplificare le procedure e affrontare direttamente i casi di pedofilia.
Dopo quella decisione, annunciata con una lettera apostolica di Giovanni Paolo II, il cardinal Ratzinger sarebbe emerso come uno dei più coraggiosi nel riconoscere la minaccia degli abusi sessuali per la reputazione della Chiesa. Tutto questo viene confutato nella ricostruzione del giornale americano. In realtà la Congregazione aveva già gli stessi poteri dal 1922, secondo diversi esperti di diritto canonico interpellati. La lettera del 2001 non segnò affatto una svolta. Al contrario, la Chiesa si decise ad agire solo in grande ritardo, sotto la pressione di alcuni vescovi anglofoni in prima linea negli scandali.
«Per i due decenni in cui ebbe la guida della Congregazione», scrive il New York Times, «il futuro Papa non esercitò mai quell’autorità. Evitò di intervenire anche quando le accuse e i processi stavano minando la credibilità della Chiesa in America, Australia, Irlanda, e altri Paesi».
Ancora oggi, prosegue l’articolo, «molti decenni dopo che gli abusi sessuali da parte dei sacerdoti sono diventati un problema, Benedetto XVI non ha istituito un sistema di regole universali» per affrontarlo. Al contrario permane tuttora «una confusione dilagante tra i vescovi, sul modo di affrontare le accuse».
Eppure i segnali d’allarme per il Vaticano vengono da lontano. Nel 1984 il reverendo Gilbert Gauthé di Lafayette, Louisiana, ammise di avere molestato 37 minorenni. Nel 1989 uno scandalo enorme scoppiò in un orfanatrofio cattolico del Canada. Nella prima metà degli anni Novanta 40 fra preti e monaci australiani erano sotto processo per abusi sessuali. Nel 1994 cadde un governo in Irlanda per avere negato l’estradizione di un prete pedofilo. A quel tempo il cardinal Ratzinger aveva consolidato la sua autorità al vertice della Congregazione, dove era stato nominato nel 1981.
«È lui», sottolinea il New York Times, «che avrebbe potuto avviare azioni decisive negli anni Novanta, per impedire che gli scandali diventassero una metastasi, diffondendosi da un Paese all ’altro». Ma le sue priorità erano altre. Fin dal 1981 Ratzinger aveva identificato «la minaccia fondamentale per la fede della Chiesa»: la teologia della liberazione, il movimento dei preti progressisti che si stava affermando in America latina. «Mentre padre Gauthé (il pedofilo, ndr) veniva processato in Louisiana, il cardinal Ratzinger stava sanzionando pubblicamente i preti del Brasile e del Perù per aver sostenuto che la Chiesa doveva impegnarsi a favore dei poveri e degli oppressi. I suoi strali colpirono poi un teologo olandese favorevole a dare funzioni ecclesiali ai laici, e un americano che sosteneva il diritto al dissenso sull’aborto, il controllo delle nascite, il divorzio e l’omosessualità».
Per reprimere ogni velleità di autonomia delle Chiese nazionali, Ratzinger usò la sua autorità per affermare che le Conferenze episcopali «non hanno un fondamento teologico, non appartengono alla struttura della Chiesa». Un’offensiva fatale, scatenata proprio nella fase in cui alcune conferenze episcopali nei Paesi anglofoni avevano cominciato ad affrontare gli scandali in modo aperto, e chiedevano di poter sanzionare i preti pedofili senza aspettare le lungaggini dei processi canonici.
«Non sono solo e neppure cammino libero da solo»
Jon Sobrino, il teologo ammonito da Roma, si trova a Bilbao.
PD/Efe Mercoledì , 13 giugno 2007 *
Il teologo gesuita di Bilbao Jon Sobrino, ha affermato oggi in Bilbao che non si considera affatto speciale, ma nella norma, e, perciò, " non mi sento affatto isolato, e nepure mi metto solo nel cammino, perchè lungo questi 30 anni ho sempre camminato assieme a moltissime persone e molte persone seguono gli stessi sentieri."
Sobrino, che si trova a Bilbao per visitare la sorella e fare una conferenza dal titolo:"Fuori dei poveri non c’è salvezza" , rispose in una conferenza stampa all’invito che ieri gli fece il vescovo di Bilbao, Riccardo Blàsquez, affinchè "Ripensasse quello che gli ha detto la Santa Sede, perchè "è molto meglio camminare umilmente nell’unità e comunione di fede, che andarsene come un sublime isolato".
Il teologo gesuita, ammonito in dicembre dell’anno scorso dal Vaticano per considerare certe sue opinioni sull’umanità e divinità di Gesù Cristo non sono conformi alla dottrina della Chiesa, rispose al prelato di Bilbao: " umilmente tutti dobbiamo camminare dall’ultimo sacrestano fino al Vescovo di Roma".
Sobrino, che fu amico e lavorò con il gesuita basco Inazio Ellacuría in El Salvador, dove fu assassinato da militari dell’esercito durante la guerra civile che il paese centro-americano visse nella decada degli anni 80, manifestó anche di comprendere quello che dice Blázquez, ed affermò di non avere nessun problema per parlare con il vescovo di Bilbao, del quale si considera amico, per spiegargli "un pò di più"’ le sue posizioni teologiche e "chiedergli : che cosa ne pensa lei ,monsignore".
"Quanto a dire che cammino isolato se si intende che io debba essere umile e non superbo per ascoltare ciò che gli altri dicono, devo dire che io ho ascoltato durante tantissimi anni ciò che altri teologi ed anche gerarchi della chiesa dicono di me ed ho risposto a loro". "Roma ed i vescovi hanno una responsabilità formale, ma c’è anche il mondo della teologia, delle università e, per me, il più importante è il mondo delle persone, perchè a me quello che più spiacerebbe sarebbe se la cuoca della mia casa non potesse fidarsi di me o di noi, perchè dietro a tutto ciò ci sono molte maniere di camminare con gli altri".
Sobrino manifestó anche che ’il problema non è la Teologia della Liberazione, perchè molto prima che esistisse la Teologia della Liberazione, Gesús di Nazaret divennne pazzo con le beatitudini e con Matteo 25’.
Dopo aver avvertito che "il destino delle cose non dipende dal destino delle parole" affermò che "molto prima che esistisse la parola Teologia della Liberazione, esisteva la parola dell’Esodo dove Dio disse: "Ho visto un popolo oppresso, ho ascoltato le grida che gli strappano gli aguzzini " e continua dicendo una parolina così : " e sono disceso per liberarlo".
Richiesto della sua opinione al riguardo dell’attuale situazione di minaccia dell’ ETA di ritornare agli attentati terroristici, Sobrino manifestò che ’anche se i contesti di violenza nelle Terre Basche e quelli che io ho vissuto in El Salvador siano distinti , in ogni caso ciò che si deve fare è cambiare trasformando tutto in umanitarismo ed utopie " nel chiedere perdono, ricevere il perdono e lasciarsi perdonare" .
* IL DIALOGO, Venerdì, 15 giugno 2007
IL TEOLOGO JOSÉ CASTILLO LASCIA LA COMPAGNIA DI GESÙ.
PER "IGIENE MENTALE" *
33930. GRANADA-ADISTA. “Mi sento felice, sono in pace, e ho ora più speranze che mai. Continuerò a lavorare al mio compito, il compito del Vangelo. Per questo sono uscito dai gesuiti. Perché vedo che, così come sta oggi la Chiesa, se si è intrappolati, controllati, censurati in una istituzione dominata dalla Curia Vaticana, non si può godere della libertà indispensabile per far conoscere Gesù. In una simile ‘Chiesa’ non c’è salvezza”.
Così si è espresso il teologo spagnolo José María Castillo, 78 anni, dopo la pubblicazione della notizia del suo abbandono della Compagnia di Gesù, in una lettera ai membri del Comitato Oscar Romero del Cile (pubblicata sul sito della rivista cilena “Reflexión y Liberación”), in risposta a un loro messaggio “di solidarietà, di umanità, di fusione in uno stesso progetto e in una stessa vita”. Era stato il portale Periodista digital, in un articolo apparso il 19 maggio, a rendere nota la decisione del teologo - già raggiunto in passato dai provvedimenti del Vaticano (che, nel 1988, gli revocò l’idoneità all’insegnamento) - di lasciare la Compagnia di Gesù (ma non il sacerdozio), “stanco delle pressioni e degli attacchi del settore più conservatore della gerarchia”. “Castillo - affermava nell’articolo il suo amico e teologo Luis Alemán - vuole recuperare la sua libertà per poter respirare, perché stava soffocando. Non tanto nella Compagnia quanto nel clima attuale della Chiesa spagnola, in cui si sente perseguitato dai vescovi e dai gruppi più conservatori”.
Secondo Alemán, “tre gocce hanno fatto traboccare il vaso”: “la recente ammonizione vaticana a Jon Sobrino, la proibizione della gerarchia alla pubblicazione del libro Espiritualidad para insatisfechos da parte della casa editrice Sal Terrae dei gesuiti, e i continui attacchi che riceveva dal programma di informazione religiosa della emittente radiofonica Cope La linterna de la Iglesia”. “Non se ne va - concludeva - irritato contro la Compagnia. Se ne va per igiene mentale. È un nuovo caso Boff. Come lui, Castillo ha subito talmente tante pressioni da decidere di rompere con tutto per salvaguardare la sua libertà”.
All’interno della Compagnia di Gesù, la voce di Castillo è stata sempre una delle più coraggiose e profetiche. Fino a mettere in discussione la credibilità stessa della Compagnia, la sua fedeltà alla missione di difendere la giustizia nel mondo. Come si può vivere - si interrogava nel 2006 sulle pagine di Promotio Iustitiae (la pubblicazione del Segretariato per la Giustizia Sociale della Curia Generalizia dei gesuiti; v. Adista n. 80/06) - ben integrati nel sistema economico dominante e pretendere di essere credibili nell’impegno di “denunciare, mettere in discussione e modificare questo sistema”? “Se i poteri di questo mondo - sottolineava - ci apprezzano e ci valorizzano, ciò vuol dire che tali poteri non si sentono scomodati, né tanto meno messi in discussione da noi”. (claudia fanti)
Deporre i poveri dalla croce: cristologia della liberazione
di ADISTA *
Importante iniziativa di Adista che ha tradotto e messo a disposizione gratuitamente il libro "Deporre i poveri dalla croce: cristologia della liberazione" edito dalla Commissione Teologica Internazionale della ASETT, Associazione Ecumenica dei Teologi/ghe del Terzo Mondo, in risposta alla notificazione vaticana sulle opere di Jon Sobrino.
Care lettrici, cari lettori,
segnaliamo un’importante novità sul nostro sito. Si può leggere finalmente anche in italiano, scaricandolo gratuitamente dalla home page di www.adista.it, il libro digitale "Bajar de la cruz a los pobres: cristología de la liberación" ("Deporre i poveri dalla croce: cristologia della liberazione") della Commissione Teologica Internazionale della ASETT, Associazione Ecumenica dei Teologi/ghe del Terzo Mondo.
La traduzione italiana, curata da Adista, dell’originale spagnolo (che, insieme alla traduzione in inglese, è disponibile agli indirizzi www.eatwot.org/TheologicalCommission e http://www.servicioskoinonia.org/LibrosDigitales) è presentata dal teologo Carlo Molari e presenta due contributi in più: di Aloysius Pieris e dello stesso Molari (è possibile leggere l’originale )
Il libro della Asett è la risposta di circa 40 teologi della liberazione alla Notificazione vaticana sulle opere di Jon Sobrino (autore dell’epilogo del libro), ma non solo: è una difesa, appassionata e potente, della cristologia della liberazione, quella che Leonardo Boff, nel prologo, definisce "una teologia militante che lotta per ’far scendere dalla croce i poveri’".
È questa voce potente quella che è oggi offerta anche al pubblico italiano, attraverso un nuovo metodo che l’Asett ha voluto sperimentare: quello di un libro digitale, libero e gratuito, che, scrive José María Vigil, coordinatore della Commissione Teologica Internazionale della Asett/Eatwot, "può essere regalato e inviato da chiunque per posta elettronica e che potrà anche essere stampato su carta mediante il procedimento della "stampa digitale", un metodo che permette di stampare su carta quantità minime di esemplari (5, 10, 20...), a un prezzo praticamente uguale a quello di un libro normale".
Per scaricare il libro, clicca qui
* IL DIALOGO, Mercoledì, 06 giugno 2007
La visita del Papa ad Aparecida e gli indios
Risposta del presidente della Conferenza Episcopale dell’Equador
(trad. sintetica di fausto m.)
Un commento
Chissà! Forse Bartolomeo de las Casas si rivolta nella tomba a sentire certe dichiarazioni ufficiali, le quali, invece di "aggiustare il danno", ne fanno uno più grande. Perché non chiedere il parere agli interessati, magari ai 15 milioni di indios sterminati con la spada e con la croce, in soli vent’anni di "evangelizzazione" (1560-1580)? *
APARECIDA, 21.5.2007 (ZENIT.org).- La Chiesa cattolica è stata protagonista della liberazione degli indigeni in America Latina, dice il presidente della Conferenza Episcopale Equadoriana, in risposta alle critiche contro Benedetto XVI.
Mons. Nestor Herrera, vescovo di Machala - secondo l’Agenzia Zenit - fa riemergere la verità storica, rispondendo alle accuse rivolte al papa da Humberto Cholango, presidente della Confederazione dei Popoli della Nazione Kichwa, dell’Equador, che afferma: «Rigettiamo energicamente le dichiarazioni fatte dal sommo Pontefice per quello che si riferisce alla nostra spiritualità ancestrale».
Il papa aveva detto nel discorso di inaugurazione del Celam: «l’utopia di tornare a rivitalizzare le religioni pre-colombiane, separandole da Cristo e dalla Chiesa universale, non sarebbe un progresso, ma un retrocesso. In realtà sarebbe un’involuzione verso un momento storico ancorato al passato». E anche: «La sapienza dei popoli aborigeni li ha felicemente condotti a formare una sintesi tra le loro culture e la fede cristiana che i missionari gli hanno offerto. Da lì è nata una ricca e profonda religiosità popolare, nella quale si evidenzia l’anima dei popoli latino-americani».
Cholango ha approfittato per esprimere la sua solidarietà ai presidenti Evo Morales, della Bolívia, Fidel Castro, di Cuba e Hugo Chávez, del Venezuela. Mons. Nestor replica: questa dichiarazione «non mi stupisce, data l’alienazione politica di questi leaders indigeni. Mi da l’impressione che si pretende dimenticare che la Chiesa cattolica è stata una forza propulsiva della loro liberazione. Questo è molto chiaro in Equador e non solo perché molti membri della Chiesa difendono, con Mons Leônidas Proaño (1910-1988), il diritto dei popoli indigeni di essere padroni del loro destino, ma anche perché gli attuali dirigenti sociali e politici degli indigeni sono stati educati dalla Chiesa. E sono stati appoggiati con lealtà in occasione dei cinquecento anni della loro resistenza. Il Santo Padre parlava ai vescovi da una prospettiva profonda della storia, su un piano teologico, che non trascura di ponderare l’importanza delle "ricche tradizioni religiose" degli antepassati indigeni. Il papa fa risaltare che non c’è stata "l’imposizione di una cultura straniera", perché nessuno può arrivare alla fede attraverso l’imposizione e il vangelo è al sopra delle culture. Lo stesso Santo Padre ha deplorato molte volte le ombre e le ingiustizie del passato. Ma non possiamo vedere soltanto le ombre. Ci sono più luci che ombre, fin dall’inizio dell’evangelizzazione in America, dove l’autentico sentimento cristiano di molti è stato il primo e constante difensore degli indigeni".
* IL DIALOGO, Mercoledì, 23 maggio 2007
LA VERITA’, PILATO, E...
Solidarietà con Jon Sobrino
di Pedro Casaldáliga
Circolare 2007 24 marzo, Pasqua di San Romero *
In totale fraterna comunione con Jon Sobrino, teologo del Dio dei poveri, compagno fedele di Gesù di Nazaret, testimone dei nostri martiri
Cos’è la verità? Chi possiede la verità? Qual è la vera politica? Qual è la vera religione? Queste domande, con toni diversi e provocando a volte sconcerto e indignazione, sono domande universali e quotidiane e non le possiamo evitare, né nella politica, né nella religione. La globalizzazione, se da un lato ci ancora ad un lucro inumano, dall’altro ci offre spazi nuovi di dialogo e convivenza, nella verità condivisa.
La nostra Agenda Latinoamericana Mondiale, in questi anni 2007 e 2008 chiede la vera democrazia e denuncia la falsa politica. Nel 2007 “Esigiamo e facciamo un’altra democrazia”; nel 2008 “La politica è morta, viva la politica”.
Qui in America, in mezzo ad ambiguità, fratture e disillusioni, si sta realizzando una svolta verso sinistra. Ma, in congressi e pubblicazioni, si pongono le domande inevitabili: cos’è la sinistra, cos’è la democrazia, qual è la vera politica, qual è la vera religione, qual è la vera Chiesa?
Non c’è dubbio che camminiamo, nonostante le drammatiche statistiche che il PNUD e altre istituzioni di opinione ci danno. 834 milioni di persone soffrono la fame nel mondo e ogni anno aumentano di 4 milioni. Un 40% della popolazione mondiale vive in estrema povertà. In America Latina sono circa 205 milioni le persone che vivono in povertà. In Africa Subsahariana sono 47 milioni. L’economista Luís Senastián ricorda che “l’Africa è un peccato dell’Europa”, il maggior debito attuale dell’umanità. Il mondo spende annualmente un bilione di dollari in armi, quantità 15 volte superiore alla quantità destinata agli aiuti internazionali... La disuguaglianza nel nostro villaggio globale è una vera blasfemia contro la fraternità universale. Un esempio: la media del reddito annuale delle persone più ricche degli USA è di 118mila dollari; mentre la media del reddito annuale delle persone più povere della Sierra Leone è di 28 dollari.
Avanza il dialogo ecumenico e interreligioso, sebbene ancora ai margini e in forma minoritaria. Il fenomeno grave e mondiale della migrazione esige risposte e decisioni che riguardano ormai i diversi popoli e le diverse culture e religioni. Di chi è la verità? Di chi non è?
La Chiesa, la Chiesa cattolica, celebra, a Aparecida (Brasile), nel prossimo mese di maggio, la V Conferenza dell’Episcopato Latinoamericano e Caribegno. E già si sono levate voci, sincere e degne di ogni partecipazione, che reclamano “ciò che non può mancare ad Aparecida”: l’opzione per i poveri, l’ecumenismo e il macroecumenismo, il legame tra fede e politica, l’attenzione alla natura, la contestazione profetica al capitalismo neoliberista, il diritto dei popoli indigeni e afroamericani, il protagonismo del laicato, il riconoscimento effettivo della partecipazione della donna in tutte le istanze ecclesiali, la corresponsabilità e la sussidiarietà di tutta la Chiesa, lo stimolo alle CEBs, la memoria impegnata dei nostri martiri, l’inculturazione sincera dell’Evangelo nella teologia, nella liturgia, nella pastorale, nel diritto canonico. In fine, la continuità, attualizzata, della nostra “irrinunciabile tradizione latinoamericana” che si radica, soprattutto, in Medellín.
Il tema del V CELAM è: “Discepoli e missionari di Gesù Cristo, perché in Lui i nostri popoli abbiano vita. Io sono la via, la verità e la vita” (le discepole e le missionarie, giacché non entrano nell’enunciato, speriamo che entrino nelle decisioni della Conferenza...). Il discepolato e la missione sono l’esperienza concreta e appassionata della sequela di Gesù, “l’agguato del Regno”. I teologo A. Brighenti segnala che il deficit ecclesiologico del Documento di Partecipazione si esprime soprattutto nell’eclisse del Regno di Dio, citato solo due volte in tutto il documento perché fa tanta paura il Regno di Dio, che fu la fissazione, la vita, la morte e la resurrezione di Gesù?
Non è tutto tranquillo in questa Conferenza del CELAM. Con un’ombra molto cattiva, come direbbero i puri, ora alla vigilia della Conferenza, è esploso il processo del nostro amato Jon Sobrino. Molto sintomatico, perché un cardinale della Curia romana ha già dichiarato che prima di Aparecida sarà liquidata la “Teologia della Liberazione”. Questo illustre porporato dovrà accettare, suppongo, che dopo Aparecida continuerà ad essere vivo e attivo il Dio dei poveri, e continuerà ad essere sovversivo l’Evangelo della liberazione; e che, disgraziatamente, la fame, la guerra, l’ingiustizia, l’emarginazione, la corruzione, la cupidigia, continueranno ad esigere dalla nostra Chiesa l’impegno reale al servizio dei poveri di Dio.
Ho scritto a Jon Sobrino, ricordandogli che siamo milioni quelli che lo accompagniamo e soprattutto Gesù di Nazaret che lo accompagna. Ho ricordato a Jon quella decima che scrissi per il martirio dei suoi compagni dell’UCA: “Ora siete la verità in croce/ e la scienza in profezia/ ed è totale la compagnia/ compagni di Gesù”. Per tua santa colpa, ho detto a Jon, in molti stiamo ascoltando, trapassata di attualità, la domanda decisiva di Gesù: “E voi, chi dite che io sia?”. Perché è il vero Gesù che vogliamo seguire.
Sprezzantemente Pilato chiede a Gesù cos’è la verità e non si dispone ad ascoltare la risposta; inoltre lo consegna alla morte e se ne lava le mani. Maxence van der Meersch risponde a Pilato e a tutti noi: “La verità, Pilato, è stare a fianco dei poveri”. La religione e la politica devono accogliere questa risposta fino alle sue ultime conseguenze. Tutta la vita di Gesù, inoltre, è questa stessa risposta. L’opzione per i poveri definisce ogni politica e ogni religione. Prima si diceva “fuori dalla Chiesa non c’è salvezza”; poi “fuori dal Mondo non c’è salvezza”. Jon Sobrino ci ricorda, una volta di più, che “fuori dai poveri non c’è salvezza”. Giovanni XXIII patrocinava “una Chiesa dei poveri, perché fosse la Chiesa di tutti”. Ciò che è certo è che i poveri rivelano, con la loro vita proibita e con la loro morte “prima del tempo”, la verità o la menzogna di una Società, di una Chiesa. Dice il nostro Jon Sobrino: “Chi non ha conosciuto esplicitamente Dio, lo ha incontrato se ha amato i poveri”; e il l’Evangelo lo dice ripetutamente nella parola e nella vita di Gesù, nel suo presepe e nel suo calvario, nelle beatitudini, nelle parabole, nel giudizio finale...
Fratelli, sorelle, gente amata e tanto vicina nella stessa veglia e nella stessa speranza, andiamo avanti. Cercando di “fare la verità nell’amore”, come dice il Nuovo Testamento, in comunione fraterna e nella prassi liberatrice. “Con i Poveri della Terra”. Essendo “vite per il Regno della Vita”, come annunziavamo nella “Romeria dei Martiri della Camminata”.
Sia questa piccola circolare un grande abbraccio d’impegno di gratitudine, di speranza invincibile; avanti il Regno!
Pedro Casaldáliga
Circolare 2007 24 marzo, Pasqua di San Romero
* IL DIALOGO. Martedì, 27 marzo 2007
La sentenza sul teologo Jon Sobrino ha di mira un intero continente
Indicando gli errori di due libri, il Vaticano ha voluto soprattutto mettere in guardia i loro lettori: vescovi, preti, laici dell’America latina. È il preludio del prossimo viaggio di Benedetto XVI in Brasile. Al centro di tutto, la questione su chi è il vero Gesù
di Sandro Magister *
ROMA, 20 marzo 2007 - Lo scorso mercoledì delle ceneri, giorno d’inizio della Quaresima, un piccolo frate del Perù, con l’abito bianco e nero dei domenicani, si presentò davanti a Benedetto XVI che officiava il rito nella basilica romana di Santa Sabina. Il papa impose le ceneri sul suo capo.
Quel frate era Gustavo Gutiérrez, autore nel 1971 del libro "Teologia della liberazione", che diede inizio alla corrente teologica dello stesso nome.
Nel 1984 e poi nel 1986 questa teologia fu criticata severamente da due documenti della congregazione per la dottrina della fede, firmati dall’allora cardinale Joseph Ratzinger. Eppure essa influenza tuttora larghi strati della Chiesa latinoamericana, nella mentalità e nel linguaggio.
I suoi maggiori esponenti non hanno tutti percorso la stessa strada. Gutiérrez ha corretto alcune sue posizioni iniziali, è entrato nell’ordine domenicano e all’inizio di questa Quaresima è stato chiamato a tenere un corso di teologia in una blasonata università pontificia di Roma, l’Angelicum, quella in cui studiò Karol Wojtyla.
Invece un altro celebre teologo della liberazione, il gesuita Jon Sobrino, basco emigrato nel Salvador, cofondatore in questo paese dell’Università del Centro America, UCA, ha tenuto ferme le sue posizioni anche dopo che la congregazione per la dottrina della fede ha messo sotto esame due suoi libri.
E dice di non volersi piegare nemmeno oggi che alcune sue tesi sono state giudicate "erronee e pericolose".
La sentenza è stata presentata a Benedetto XVI - che l’ha approvata - dal suo successore alla testa della congregazione, il cardinale William Levada, il 13 ottobre 2006. È stata firmata e resa esecutiva il 26 novembre successivo. Ed è stata resa pubblica lo scorso 14 marzo.
Ma già il 13 dicembre 2006, in una lettera al superiore generale dei gesuiti, Peter Hans Kolvenbach, che aveva fatto da tramite tra lui e la congregazione, Sobrino ha scritto di non poter accettare la sentenza.
Nella lettera, Sobrino contrappone al giudizio ostile espresso dalla Santa Sede sui suoi libri i giudizi favorevoli che hanno accompagnato la loro pubblicazione: l’imprimatur del cardinale Paulo Evaristo Arns, all’epoca arcivescovo di San Paolo del Brasile, e le recensioni positive di teologi autorevoli, anche europei.
Uno di questi, il gesuita francese Bernard Sesboué, consultore del pontificio consiglio per l’unità dei cristiani e già membro della commissione teologica internazionale, avrebbe anche criticato - stando a quanto scrive Sobrino - il metodo "deliberatamente sospettoso" con cui il Vaticano conduce le sue indagini: un metodo col quale "si troverebbero eresie anche nelle encicliche di Giovanni Paolo II".
I libri inquisiti di Sobrino sono due: "Jesucristo liberador. Lectura histórico-teológica de Jesús de Nazaret", del 1991, e "La fe en Jesucristo. Ensayo desde las víctimas", del 1999, entrambi tradotti in varie lingue, in italiano dall’editrice Cittadella, di Assisi.
Nel luglio del 2004 la congregazione per la dottrina della fede trasmise a Sobrino un elenco delle tesi "erronee e pericolose" rinvenute nei due libri.
Nel marzo del 2005 Sobrino inviò alla congregazione le sue risposte. Che furono ritenute "non soddisfacenti".
Nella sua lettera del 13 dicembre 2006 al generale dei gesuiti, Sobrino fa però risalire molto più addietro, al 1975, l’inizio delle ostilità vaticane contro di lui e contro altri teologi e vescovi fautori della teologia della liberazione.
Indica uno degli avversari più accaniti nel cardinale Alfonso Lopez Trujillo e lamenta che il continuo rinvio, in Vaticano, della causa di beatificazione dell’arcivescovo di San Salvador, Oscar Romero, martirizzato nel 1980, abbia tra i suoi moventi proprio l’amicizia tra Romero e lui, Sobrino.
Va ricordato che nel 1989, il 16 novembre, furono assassinati a San Salvador il rettore dell’Università del Centro America, Ignacio Ellacuría, anch’egli famoso teologo della liberazione, e altri cinque suoi confratelli gesuiti, Segundo Montes, Ignacio Martín Baró, Amando López, Juan Ramón Moreno, Joaquín López-López, più la cuoca Julia Elba Ramos e sua figlia Celina. Sobrino sfuggì al massacro solo perché all’estero per un convegno.
Nella lettera, Sobrino non risparmia critiche nemmeno all’allora cardinale Ratzinger. Lo accusa di aver travisato il suo pensiero, in un articolo contro la teologia della liberazione pubblicato nel 1984 sul settimanale di Comunione e Liberazione "30 Giorni".
Tra i vescovi osteggiati da Roma perché simpatizzanti con i teologi della liberazione Sobrino ricorda, oltre a Romero, il brasiliano Helder Camara, il messicano Samuel Ruiz e Leonidas Proaño dell’Ecuador.
Sobrino conclude che sottomettersi oggi alla sentenza emessa contro di lui dalla congregazione "sarebbe di poco aiuto per i poveri di Gesù e per la Chiesa dei poveri". Equivarrebbe ad arrendersi a trent’anni di diffamazione e di persecuzione contro la teologia della liberazione. Significherebbe darla vinta a metodi vaticani che "non sono sempre onesti ed evangelici".
"Extra pauperes nulla salus", scrive Sobrino nella lettera, mettendo i poveri al posto della Chiesa nell’antico detto secondo cui "fuori della Chiesa non c’è salvezza".
Ed é proprio questa una delle tesi che la congregazione per la dottrina della fede imputa a Sobrino come erronea: l’aver eletto i poveri a "luogo teologico fondamentale" - cioé a principale fonte di conoscenza -, al posto della "fede apostolica trasmessa attraverso la Chiesa a tutte le generazioni".
La sentenza vaticana riconosce a Sobrino di prendersi giustamente cura dei poveri e degli oppressi - che è imperativo essenziale per tutti i cristiani - ma lo accusa di sminuire, in nome della liberazione dei poveri, i tratti essenziali di Gesù: la sua divinità, il valore salvifico della sua morte.
"Non si può impoverire Gesù con l’illusione di promuovere i poveri", ha scritto il vescovo e teologo Ignazio Sanna, membro della commissione teologica internazionale, in un commento alla sentenza pubblicato il 15 marzo sul quotidiano della conferenza episcopale italiana "Avvenire".
E "impoverire" Gesù significa non riconoscere la sua divinità, considerarlo semplicemente come uomo, sia pure come liberatore esemplare.
La sentenza della congregazione termina senza infliggere a Sobrino alcuna punizione. Ma la cosa non deve sorprendere, perché in effetti, più che al teologo inquisito, essa intende rivolgersi ai suoi numerosi lettori ed estimatori: vescovi, preti, laici.
Sono questi che il documento vaticano vuole mettere in guardia.
Alla metà di maggio, al santuario brasiliano dell’Aparecida, le conferenze episcopali dell’America latina terranno la loro quinta assemblea generale. A inaugurarla sarà Benedetto XVI in persona.
La pubblicazione della sentenza contro Sobrino anticipa dunque una delle indicazioni che il papa detterà alla Chiesa latinoamericana, i cui quadri dirigenti sono in buona parte influenzati dallo spirito della teologia della liberazione.
Una questione che Benedetto XVI giudica di importanza capitale - come prova il nuovo libro che si appresta a pubblicare - è strettamente connessa alla precedente. Ed è la questione di Gesù vero Dio e vero uomo.
Smarrire la verità su Gesù - come accade, a giudizio della congregazione per la dottrina della fede, nei libri del principale autore di cristologia dell’America latina, Sobrino - equivale a smarrire la verità della Chiesa, il senso della sua missione nel mondo.
Proprio come dice il titolo assegnato da Benedetto XVI all’assemblea generale in programma all’Aparecida: "Discepoli e missionari di Gesù Cristo, perché i nostri popoli abbiano la vita in Lui". Assieme a queste parole di Gesù nel Vangelo di Giovanni: "Io sono la via, la verità, la vita".
Sulla condanna del padre gesuita Jon Sobrino
Ombre dell’inquisizione
di Frei Betto *
Oggi è un giorno triste per me. Mi duole nel profondo del cuore, nel midollo della mia fede cristiana. Il Papa Benedetto XVI , alla vigilia del suo primo viaggio in America Latina, ha fatto un gesto che dà un gusto amaro ai saluti di benvenuto: ha condannato il teologo gesuita Jon Sobrino, di El Salvador.
Conosco Sobrino da molto tempo. Insieme siamo stati consulenti dei vescovi latinoamericani a Puebla, nel 1979, in occasione della prima visita di Papa Giovanni Paolo II nel nostro continente. Abbiamo partecipato insieme a molti incontri, preoccupati di alimentare la fede delle comunità ecclesiali di base che, oggi, fanno dell’America Latina la regione con un maggior numero di cattolici del mondo.
Sobrino è accusato del fatto che nelle sue opere teologiche non dà un’enfasi sufficiente alla coscienza divina del Gesù storico. Per questo gli è stato proibito di far lezione di teologia e tutti i suoi scritti futuri dovranno essere sottoposti ad una previa censura vaticana. Il parere di condanna della commissione della Congregazione per la Dottrina della Fede (ex Santo Uffizio) parte, evidentemente , da pregiudizi. La lettura attenta delle opere di Sobrino rivela che egli non nega mai la divinità di Gesù. La nega il docetismo, un’eresia già condannata dalla chiesa nei primi secoli dell’era cristiana, basata sull’idea che Gesù di umano avesse solo l’apparenza, infatti in tutto il resto era divino. La qual cosa farebbe dell’incarnazione un inganno e darebbe ali alla fantasia per cui nella Palestina del I secolo l’uomo Gesù, dotato di onniscienza , potrebbe avere facilmente previsto l’attuale conflitto fra palestinesi ed ebrei.
I vangeli mostrano chiaramente che Gesù aveva coscienza della sua natura divina. Al contrario del suoi contemporanei, trattava Javè in maniera molto intima, affettuosa: Abba, “mio caro papà”, una rara espressione aramea - la lingua parlata da Gesù - , secondo quello che consta nel testo biblico. Tuttavia, quegli stessi vangeli dimostrano che Gesù, come tutti noi, ha sofferto di tentazioni ha avuto paura della morte, ha pianto, ha sentito la solitudine, ha chiesto al padre se fosse possibile allontanare da lui il calice di sangue, è stato uguale a noi in tutto, come afferma Paolo nella lettera ai Filippesi, tranne che nel peccato, infatti amava come solo Dio ama.
Invece, Roma soffre ancora di un platonismo impregnato di teologia liberale a partire da Sant’Agostino. Parla della divinità come se essa fosse contraria all’umanità. Ma la Creazione divina è indicibile. Come dice Paolo: “in lui (Dio) viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” (Atti degli apostoli 17,28).
Dice bene Leonardo Boff riferendosi a Gesù: “Per quanto egli era umano, poteva solamente essere anche Dio”. La nostra umanità non è la negazione della divinità, così come non lo era quella di Gesù. La divinità è la pienezza dell’umanità e questa è l’annuncio di quella. “Siamo della razza divina”, afferma Paolo agli ateniesi (Atti 17,28).
Roma, che gioca tanto con i simboli, sembra disprezzare l’America Latina ignorando che Jon Sobrino vive in Salvador, il cui arcivescovo, Oscar A. Romero, è stato assassinato dalle forze della destra mentre diceva messa nella cappella di un ospedale nel 1980. Il prossimo 24 marzo si commemorano i 27 anni del suo martirio. Sobrino vive a San Salvador, nella stessa casa in cui, nel 1989, quattro sacerdoti gesuiti, oltre alla cuoca e a sua figlia di 15 anni, sono stati assassinati da uno squadrone della morte. Come si può rinnovare la Chiesa se le sue teste migliori stanno sotto la ghigliottina di chi vede eresia dove c’è fedeltà allo Spirito Santo?
Quel che c’è dietro la censura a Jon Sobrino è la visione latinoamericana di un Gesù che non è bianco e non ha gli occhi azzurri. Un Gesù indigeno, negro, scuro, emigrante; Gesù donna, emarginato, escluso. Il Gesù descritto nel capitolo XXV di Matteo: affamato, assetato, stracciato, malato, pellegrino. Gesù che si identifica con i dannati della terra e che dirà a tutti che di fronte a tanta miseria devono comportarsi come il buon samaritano : “ciò che farete a uno dei miei piccoli fratelli, lo farete a me” (Matteo 25,40)
Frei Betto
Articolo tratto da:
FORUM (48) Koinonia
http://utenti.lycos.it/periodicokoinonia/
* IL DIALOGO, Sabato, 17 marzo 2007
Il Sant’Uffizio mette all’indice la Teologia della liberazione di Sobrino *
Libri proibiti, dunque da mettere all’indice. Gesù Cristo liberatore; lettura storico teologica di Gesù di Nazareth, pubblicato nel 1991, e La fede in Gesù Cristo, che risale al 1999, due opere del gesuita Jon Sobrino, uno dei padri della cosiddetta teologia della liberazione, sono stati dichiarati contrari «alla dottrina cattolica» dalla Congregazione per la dottrina della fede (l’ex Sant’Uffizio). In realtà la condanna mira a ben altro che "chiarire" alcune divergenze teologiche: Sobrino viene messo all’indice perché le sue teorie sono agitatrici, puntano a diffondere e radicare le pericolose idee della cosiddetta "teologia della liberazione" che predica la fede pensando però ai bisogni degli uomini, soprattutto dei più poveri. Perché, spiega una nota allegata alla Notificazione che bandisce le opere, «l’opzione preferenziale per i poveri della Chiesa non è una opzione esclusiva e la Chiesa non può esprimersi a sostegno di categorie sociologiche e ideologiche riduttrici, che farebbero di tale preferenza una scelta faziosa e di natura conflittuale». Una posizione che potrebbe portare alla scomunica di San Francesco.
Entrambi terminati e dati alle stampe durante gli anni del pontificato di papa Giovanni Paolo II, la decisione di esaminarli fu presa dall’ex Sant’Uffizio nel 2001 quando a dirigere la Congregazione era l’allora cardinale Joseph Ratzinger. Sei anni di riflessione per arrivare ad una «puntualizzazione» che suona come una condanna: «Opere contrarie alla dottrina cattolica», è la lapidaria conclusione a cui sono giunti i membri dell’ex Sant’Uffizio. Con conseguente Notificazione, naturalmente, ufficiale già diffusa dalla sala stampa della Santa Sede. E con l’ovvia approvazione del Papa regnante.
Si tratta del primo provvedimento del genere della Congregazione (l’ex Sant’Uffizio) da quando è papa Benedetto XVI. Fra le affermazioni di Sobrino giudicate pericolose ci sarebbero quelle che mettono in dubbio punti cruciali della fede, come la divinità di Gesù Cristo, l’incarnazione del Figlio di Dio, la relazione di Gesù con il regno di Dio, la sua autocoscienza e il valore salvifico della sua morte. Secondo la Santa Sede, Sobrino avrebbe valorizzato troppo la componente storica della figura di Gesù separandola dalla sua dimensione divina.
Come ribadisce il direttore della sala stampa vaticana, padre Federico Lombardi: «Sobrino è uomo che ha vissuto da vicino l’esperienza drammatica del suo popolo, per questo ha teso a sviluppare una "cristologia dal basso" e ha coltivato una sintonia spirituale profonda con l’umanità di Cristo», ha osservato riguardo alla notificazione. «Tuttavia l’insistenza di Sobrino sulla solidarietà fra Cristo e l’uomo non deve essere portata al punto da lasciare in ombra o sottovalutare la dimensione che unisce Cristo a Dio».
Con l’altolà agli scritti di Sobrino, la Chiesa cattolica cerca d’intervenire per limitare la diffusione della dottrina della Liberazione in Sud America. Ad ammetterlo è la sala stampa del Vaticano come si può leggere in una «nota esplicativa» allegata alla Notificazione: «Fra l’altro - vi è scritto - in considerazione della grande diffusione che, soprattutto in America Latina, hanno avuto le opere del padre Jon Sobrino», si ripete la posizione della Chiesa riguardo alla «complessa problematica» della povertà, miseria e ingiustizia e di più inique disuguaglianze e le oppressioni di ogni sorta, che colpiscono oggi milioni di uomini e di donne, e sono in aperta contraddizione con il Vangelo di Cristo e non possono lasciar tranquilla la coscienza di nessun cristiano». E pur tuttavia, continua il comunicato, la dottrina della fede chiarisce che la «opzione preferenziale per i poveri della Chiesa non è una opzione esclusiva e la Chiesa non può esprimersi a sostegno di categorie sociologiche e ideologiche riduttrici, che farebbero di tale preferenza una scelta faziosa e di natura conflittuale».
La chiusura con quello che si sta diffondendo, soprattutto in America Latina, come un credo percepito più in sintonia con gli ideali evangelici è dunque totale. Come ribadisce la nota stessa che termina con un giudizio lapidario: «Le due opere di Jon Sobrino presentano, in alcuni passi, notevoli divergenze con la Fede della Chiesa». La Congregazione, fino a oggi, non commina alcuna sanzione al teologo latinoamericano e si limita a mettere in guardia i pastori e i fedeli dai problemi suscitati da alcuni punti dei suoi due libri. Ciò non toglie che altre autorità, per esempio un vescovo, possano da oggi decidere che il teologo non possa insegnare o tenere conferenze nella diocesi.
Attualmente Sobrino insegna nella università del Centroamerica di El Salvador, la stessa dove nell’89 furono assassinati sei gesuiti dagli squadroni della morte (Sobrino scampò perché si trovava in Tailandia per un corso).
* l’Unità, Pubblicato il: 14.03.07, Modificato il: 15.03.07 alle ore 14.40
Richiamo per il teologo della liberazione Sobrino: il suo Cristo poco sacrale
Il gesuita è accusato di avere idee lontane dalla dottrina della Chiesa. Insegna da 50 anni in Salvador, è stato vicino al vescovo ucciso in Chiesa nel 1980
di ORAZIO LA ROCCA (la Repubblica, 15.03.2007)
CITTÀ DEL VATICANO - «Un Cristo vicino alle istanze dei poveri, ma quasi privo di sacralità e troppo lontano dagli insegnamenti della dottrina della Chiesa». Questo il severo monito che le autorità vaticane hanno lanciato, ieri, al gesuita Jon Sobrino, 69 anni, uno dei padri della Teologia della liberazione. «Un richiamo, non una condanna», ha precisato padre Federico Lombardi, gesuita anche lui, direttore della sala stampa della Santa Sede, annunciando il provvedimento, all’indomani della pubblicazione della prima esortazione apostolica "Sacramentum Caritatis" con la quale papa Ratzinger rilancia i principali insegnamenti della fede cattolica "alla luce della tradizione". Un richiamo che, comunque, potrebbe essere seguito in un prossimo futuro da provvedimenti più gravi. Padre Sobrino - nativo della Spagna - insegna da 50 anni in Salvador. È un docente noto e stimato in tutto il Sudamerica, amico - tra l’altro -di monsignor Oscar Romero, il vescovo di San Salvador assassinato il 24 marzo 1980 dagli squadroni della morte mentre celebrava una Messa e collega dei sei gesuiti trucidati nell’89 sempre in Salvador e sempre dagli squadroni della morte.
Il richiamo è stato formulato dal cardinale Joseph Levada, prefetto della Congregazione per la dottrina delle Fede (l’ex Sant’Uffizio), dove era succeduto a Ratzinger dopo che questi era asceso al soglio di Pietro nel 2005. Due i libri contestati al teologo, Gesù Cristo liberatore, lettura storico teologica di Gesù di Nazareth, del ‘91, e La fede in Gesù Cristo, del ‘99. La Congregazione non commina alcuna sanzione al teologo latinoamericano. Si limita a mettere in guardia i pastori e i fedeli dai problemi suscitati da alcuni punti dei suoi due libri, invitando però i vescovi locali a decidere se il gesuita possa insegnare o tenere conferenze nelle diocesi di loro competenza. Il "processo" alle opere di padre Sobrino era iniziato nel 2001, regnante papa Wojtyla.
Nel 2004 al religioso fu consegnato un elenco di "pericolosi errori" riscontrati nei due suddetti libri. Ma la risposta che Sobrino presentò l’anno dopo fu giudicata insufficiente. Da qui il pubblico richiamo di ieri mediante una nota della Sala stampa vaticana, nella quale il direttore Lombardi, pur manifestando «rispetto per l’opera di Sobrino e per le sue intenzioni», perché è un teologo che «vive la sua fede partecipando alle esperienze più drammatiche del popolo», avverte che la sua "cristologia dal basso" ha alcuni punti critici che «mettono in questione l’integrità e la stabilità del ponte che permette la comunicazione tra gli uomini e Dio, anche quella dei poveri di tutti i tempi». Il portavoce della Curia generalizia dei gesuiti, padre Josè de Vera, ha assicurato invece che Sobrino avrebbe voluto «aprire un dialogo con la Congregazione per la dottrina della fede per dimostrare che la sua fede è quella cattolica, ma questo non è stato possibile». Ma anche padre de Vera nota che «nella notificazione rivolta a Sobrino non c’è nessuna indicazione di una punizione specifica». Come dire che la sorte del teologo non sembra comunque del tutto segnata. Almeno fino ad ora.
Che disastro!
Ormai siamo di fronte ad una valanga inarrestabile, una frana incontenibile. Se ho ben capito ascoltando il giornale radio di oggi, il papa avrebbe invitato i nostri politici a non votare leggi "che vanno (secondo lui) contro la natura umana"! Ormai l’appello alla coscienza è diventato un optional nei sacri palazzi e i laici gli eterni infanti da guidare per mano.
Giovedì prossimo, dopodomani, sarà comunicata al teologo gesuita salvadoregno Jon Sobrino la condanna al "silenzio più assoluto", accusato di "non affermare apertamente la coscienza divina di Gesù Cristo"!
I "guardiani del Faro" hanno deciso che da oggi in poi i teologi, nella elaborazione delle loro riflessioni, devono usare il bilancino invece che l’intelligenza e la coscienza...
Quella chiesa che, ai tempi del Concilio Vaticano II, aveva riscoperto la sua vocazione di "itinerante", compagna di strada degli uomini e delle donne che Dio ama e per la quale "le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore" (Gaudium et Spes), riesuma dalle ceneri di un passato mai veramente passato la sua vecchia vocazione "imperante".
Lo scettro e il trono al posto del grembiule.
A quando la sedia gestatoria con i pavoneschi pennacchi e la gemmata mitra? I nodi sono venuti al pettine ed ora ci tocca sopportare (nel senso etimologico di portarne il peso) le triste eredità lasciataci da Giovanni Paolo II che, impunemente, ha sostituito i vescovi/profeti più avanzati con le figure grigie di vescovi/veline, carrieristi e diplomatici da manovalanza ed ha messo sottaceto ben 140 teologi per l’interposta persona dell’attuale pontefice, allora custode della "sacra verità"!
In quarta pagina del mio libretto "La Chiesa del silenzio" riportavo il triste lamento di Padre Turoldo: "Pare che i vescovi siano sempre più esposti al farsi prefetti di un impero, oltre che apostoli di una chiesa; il papa sempre più monarca assoluto, oltre che papa... Quella unità che dovrebbe essere un valore sacramentale ed evangelico ("fà che siano una cosa sola...") ecco che diventa una soggezione e una schiavitù".
Questa radiografia della chiesa risale ad almeno venti anni fa, ma concorda pienamente con quanto afferma Giuseppe Alberigo sull’articolo apparso qualche giorno fa su La Repubblica e che vi allego. Parlando dei Vescovi di oggi lamenta un "abbassamento di qualità" e uno "scadimento intellettuale": salvo rarissime eccezioni, si tratta di personaggi che si accontentano di fare da notai, ratificando quanto deciso altrove. Stando così le cose mi chiedo: lo Spirito Santo, sarà mica andato in ferie?....
Un abbraccio a voi tutte e tutti, anche ai vescovi cosìcosì.....
Aldo [don, Antonelli]
LA CHIESA DI RATZINGER E LA POLITICA di Giuseppe Alberigo (La Repubblica 9 Marzo 2007)
All’interno della storia della chiesa e in rapporto alla società la finzione, il ruolo e il peso dei vescovi è stato molto diverso. In origine questa figura aveva il compito di curare i rapporti tra le varie comunità ed eleggere i nuovi vescovi; elezione accettata e convalidata, in genere per acclamazione, dal popolo. È una situazione che durerà parecchi secoli, durante i quali assistiamo all’affermazione di un’autorità soprattutto spirituale.
La prima grande novità si verifica nell’età feudale. Moltissimi vescovi diventano veri e propri signori feudali. Nascono figure impensabili prima. Il vescovo-conte o il vescovo-principe esercitano non solo un potere spirituale ma anche e soprattutto una signoria territoriale. Appartengono a una nuova geografia sociale che travalica i compiti tradizionali della chiesa. La conseguenza è che si diventa vescovo meno per vocazione e sempre più spesso per interessi di famiglia o per ambizione politica personale. Ancora fino a un secolo fa il vescovo di Trento era un principe dell’impero austro-ungarico. La sua autorità più che dalla chiesa finiva con l’essere legittimata dal sovrano. In nome di questa autorità territoriale decine di vescovi, sparsi per l’Europa, avevano proprie milizie, battevano moneta, ed erano autorizzati a imporre tasse. Il loro potere temporale inglobava e nascondeva quello spirituale. Un tale rilievo sociale, politico ed economico crebbe fino alla metà del Cinquecento, quando il Concilio di Trento tentò di ridimensionare questo processo avanzato di secolarizzazione.
Già Lutero e i protestanti avevano denunciato una situazione nella quale i vescovi non facevano più i vescovi ma i signori temporali. Costoro spesso non vi¬vevano neppure più nelle diocesi ma alla corte del principe più importante, al quale esprimevano devozione e fiducia e, in cambio della sottomissione, ricevevano la convalida del loro potere. Il Concilio di Trento porrà le basi per eliminare tutto questo. Ma occorrerà aspettare ancora due secoli perché di fatto la situazione si risolva. Saranno gli stati nazionali a eliminare progressivamente questi signorotti locali che ormai non sono più né laici né vescovi, ma un ibrido giuridicamente preoccupante. Si tratta di un passaggio fondamentale per ristabilire una figura di vescovo che avesse una fisionomia soprattutto spirituale, oggi diremmo pastorale.
Chi è dunque il vescovo oggi? Ecco una domanda che richiede una considerazione allarmante. Ancora quarant’anni fa, cioè all’epoca del Concilio Vaticano II, i vescovi erano circa duemila e cinquecento. Oggi nel mondo sono più che raddoppiati. Alla crescita numerica si è accompagnato mediamente un abbassamento della qualità. Può non sorprendere. Lo scadimento intellettuale si registra anche nella società. Ma le conseguenze nella chiesa sono di aver favorito alcune personalità più forti. Da questo punto di vista, la lunga e incontrastata presidenza di Camillo Ruini alla guida della Cei - che ha ridotto la conferenza episcopale a una struttura monolitica - è stata possibile sia per le sue spiccate doti politiche sia per la scarsa personalità dei vescovi che hanno conformisticamente obbedito alle sue scelte. Lamento, a voler essere più chiari, un’assenza di dibattito reale che mi auguro il nuovo presidente della Cei Angelo Bagnasco, sappia promuovere.
C’è un paradosso che a questo punto, vorrei segnalare. Quando fu firmato il nuovo concordato, quello per intenderci del 1984 con Craxi presidente del consiglio, si impose una novità: non era più la segreteria di stato del Vaticano (il loro ministero degli esteri per intenderci) a trattare con lo Stato italiano, ma la conferenza. Si disse che scopo di questa novità era di ridurre il coinvolgimento politico della chiesa. Si è visto che in questi anni è accaduto esattamente l’opposto. Perché? A parte le considerazioni sullo “spirito del tempo” credo che la forte personalità di Ruini abbia coinciso con il rafforzamento economico della Cei. Pochi sanno che l’otto per mille - il modo con cui lo Stato italiano finanzia lautamente la chiesa - è in larga parte gestito dalla conferenza episcopale.
La questione di quale rapporto deve esserci tra potere spirituale e temporale è nuovamente sotto i nostri occhi. La chiesa di questi anni sta ingigantendo i propri compiti proiettandoli in modo arbitrario sulla società. Il rischio è di sopraffare la società italiana e i cattolici che vi fanno parte. Discutibile mi appare la tendenza che sia la Cei a dettare le norme ai parlamentari cattolici. Quando De Gasperi ricevette da Pio XII l’ordine di fare un governo con l’estrema destra egli rifiutò, restando naturalmente un buon cattolico. Aveva chiara la distinzione tra quello che si deve a Cesare e ciò che si deve a Dio e ai suoi rappresentanti.
Si obietta che oggi, più che in passato, i cattolici italiani sono sottoposti a un processo di secolarizzazione molto intenso. È vero. Ma la chiesa può far fronte a questa pressione sia con ordini inappellabili, sia cercando il dialogo. Del resto non è la prima volta che la Chiesa abbia dovuto misurarsi con fenomeni minacciosi che ha poi felicemente superato. Ritengo che l’unità della chiesa sia un bene prezioso e innegabile.
Ma non c’è oggi il rischio di una spaccatura? Il pericolo più forte per la chiesa quasi mai viene dall’esterno, più spesso è frutto di tensioni intestine. Concludo con un pensiero che mi sta a cuore. In ogni grande epoca storica i vescovi hanno avuto dei modelli. Cioè un punto di riferimento esemplare.
Nell’età antica fu Gregorio Magno, che poi divenne papa, a svolgere questo ruolo edificante. Nel cinquecento lo stesso compito lo assolverà il vescovo di Milano Carlo Borromeo. Ancora oggi in certe chiese si possono ammirare le sue immagini. La considerazione un pò triste è che attualmente i vescovi non hanno più un modello da seguire. E neppure la pietà per Padre Pio può aiutarli a guadagnare quello stile che si ispira ai valori cristiani.
Ma quando la piantate di fare DISINFORMAZIONE ??
Provate almeno una volta a documetare le vostre fesserie ! Oscar Romero martire della Teologia della Liberazione ?? Ma quando mai ?
In memoria di monsignor Romero
Gli appuntamenti romani dal 22 al 25 marzo 2007
di CIPAX - Centro Interconfessionale per la Pace Roma *
Venti anni fa padre Davide Maria Turoldo, l’indimenticato mistico e poeta dell’Ordine dei Servi di Maria, scriveva in una sua poesia intitolata In memoria del vescovo Romero, ucciso il 24 marzo 1980 a San Salvador:
-Chi ti ricorda ancora,
fratello Romero?
Ucciso tante volte
dal loro piombo e dal nostro silenzio.
Ucciso per tutti gli uccisi;
neppure uomo,
sacerdozio che tutte le vittime
riassumi e consacri.
Da ventisei anni a Roma, su iniziativa del compianto direttore della Caritas mons. Luigi Di Liegro, associazioni e congregazioni religiose ricordano solennemente nel mese di marzo “il fratello Romero” e “tutti gli uccisi” martiri della giustizia e della pace. Aderiscono a questo comitato ventinove enti, tra cui: Pax Christi italiana, Commissione Giustizia e pace delle Superiore e Superiori Generali, Conferenza degli Istituti missionari italiani, Famiglie domenicane, Comunità evangeliche valdesi e battiste romane, Comunità latinoamericane, ecc. Il primo evento è rivolto a tutta la città per rivedere (o vedere per la prima volta) il celebre film ROMERO ed ascoltare le testimonianze dei vescovi Luigi Bettazzi (che fu invitato al funerale di mons. Romero) e del vescovo messicano Raúl Vera López di saltello. L’appuntamento è giovedì 22 marzo, ore 17:30 nel sala “Di Liegro” della Provincia di Roma (Via IV Novembre 119/a).
Il 23 marzo, giorno dell’ultima omelia di mons. Romero nella cattedrale di San Salvador, per la prima volta si è voluto organizzare un evento a dimensione ecumenica ricordando “Oscar Arnulfo Romero come icona e simbolo dei martiri per la giustizia e la pace”. Si terrà pertanto una grande veglia di preghiera ecumenica nella chiesa dei Servi di Maria - San Marcello al Corso (Piazza San Marcello 5), alle ore 19:00. Alle preghiere, letture e canti si uniranno le testimonianze di mons. Raúl Vera López, Suor Digna Rivas, Pastore Paolo Ricca e teologo sufi Adnane Mokrani.
Sabato 24 marzo ci sarà un evento parrocchiale in periferia. Nella chiesa di S. Giuseppe Moscati (Via Libero Leonardi 41, Cinecittà est) ci sarà una messa romano-salvadoregna; qui infatti si riunisce mensilmente la comunità salvadoregna a Roma e proprio partendo da qui due anni fa il parroco e alcuni parrocchiani sono andati a fare un campo di lavoro in El Salvador.
Infine domenica 25 marzo ci sarà un appuntamento specifico delle comunità latino-americane a Roma. Alle 11:00 si incontreranno festosamente nella piazza Mastai (Trastevere) e da lì sfileranno processionalmente verso la chiesa di Santa Maria della Luce, sede della cappellania latino-americana. Mons. Raúl Vera López presiederà la festosa celebrazione eucaristica che sarà seguita da un pranzo comunitario.
Il programma delle celebrazioni è stato stampato su un poster insieme ad un significativo murales dipinto due anni fa sul muro esterno della cappella dell’Hospitalito di San Salvador: mons. Romero è seduto ai piedi di una croce che come un albero diffonde le sue radici sul terreno, ha una bambina in braccio ed è attorniato da un popolo di donne e uomini salvadoregni. Tutti hanno sul cuore e nelle mani un foro, come moderne stimmate. Le celebrazioni romane vogliono ricordare questo popolo di martiri per la giustizia e la pace e lo fanno in sintonia e comunione con moltissimi altre/i in Italia e nel mondo. Alcune settimane fa il Parlamento del Salvador aveva deciso di erigere un monumento al colonnello D’Abouisson, l’organizzatore dell’assassinio di mons. Romero. Il popolo salvadoregno ha occupato la sede del Parlamento per impedirlo. Come loro anche noi non vogliamo che il vescovo martire sia ucciso un’altra volta “dal nostro silenzio”.
Il Comitato Romano Oscar Romero: Tel 06-57287347 cipax-roma@libero.it
CIPAX - Centro Interconfessionale per la Pace
Via Ostiense, 152 - 00154 Roma
Tel./Fax: 06/57287347
Lo sbaglio di J. Sobrino nel ridimensionare la divinità di Cristo
L’illusione di servire i poveri impoverendo Gesù
di Ignazio Sanna (Avvenire, 15.03.2007)
La prima indicazione della Notificazione della Congregazione per la Dottrina della Fede sulle opere di padre Jon Sobrino è di carattere metodologico, e riguarda la necessità, nel fare teologia, di rispettare la gerarchia dei cosiddetti "luoghi teologici". Com’è ben noto, i classici dieci loci theologici elencati a suo tempo da Melchior Cano sono: la Scrittura; la tradizione orale apostolica e di Cristo; la Chiesa cattolica; i Concili; la Chiesa romana; i Padri della Chiesa; i teologi; la ragione naturale; i filosofi; la storia umana. I primi sette sono considerati "proprii", mentre gli ultimi tre vengono definiti "ascripticii".
La Sacra Scrittura è elencata per prima, anche se essa, in realtà, non ha goduto sempre un ruolo privilegiato nell’impostazione e nell’insegnamento dei trattati teologici in genere, e la storia umana per ultima. In verità, la stagione teologica conciliare ha aggiunto ai loci theologici classici quello particolare della lettura dei "segni dei tempi", che assume le istanze del mondo contemporaneo e le vicende storiche come interlocutrici obbligate della ragione teologica (Cf GS,4,11,44; PO,9; UR, 4; AA,14). Ma va precisato che l’espressione «scrutare i segni dei tempi» implica l’intelligenza dei "luoghi" della Parola di Dio nel mondo, che, secondo Congar, è la Chiesa diventata storia. Attesa questa realtà, non può essere valida l’impostazione metodologica del Sobrino, secondo cui «la Chiesa dei poveri è il luogo ecclesiale della cristologia ed offre ad essa l’orientamento fondamentale».
La nota esplicativa della Congregazione ribadisce giustamente che «la verità rivelata da Dio stesso in Gesù Cristo, e trasmessa dalla Chiesa, costituisce dunque il principio ultimo e normativo della teologia», e che «l’unico "luogo ecclesiale" della cristologia è la fede apostolica trasmessa dalla Chiesa». È chiaro che il problema metodologico della cristologia di Sobrino è il problema dell’inserimento dell’esperienza umana nel circolo ermeneutico della teologi a. Ma è sempre bene ricordare il detto di San Bonaventuta: «ad Deum nemo intrat recte nisi per Crucifixum», e che il mistero di Dio, di conseguenza, non si lascia catturare mai pienamente dalla sapienza del mondo o dalla ragione umana.
2. Il rispetto della metodologia teologica porta al rispetto dell’identità di Gesù. Gesù è il Figlio. È stato generato da Dio Padre. Giovanni Paolo II ha scritto che «per quanto sia lecito credere che, per la condizione umana che lo faceva crescere "in sapienza, età e grazia" (Lc 2, 52), anche la coscienza umana del suo mistero sia progredita fino all’espressione piena della sua umanità glorificata, non è lecito dubitare che già nella sua esistenza storica Gesù avesse coscienza della sua verità, cioè di essere veramente il Figlio di Dio. Giovanni lo sottolinea a tal punto da affermare che fu, in definitiva, per questo, che fu respinto e condannato: infatti "i Giudei cercavano di ucciderlo, perché non solo violava il sabato, ma anche chiamava Dio suo Padre, facendosi uguale a Dio" (Gv 5, 18). Negli eventi dell’orto del Getsemani e del Calvario, la coscienza umana di Gesù sarà sottoposta alla prova più dura. Tuttavia neanche la tragedia della passione e della morte potrà intaccare la sua tranquilla certezza di essere il Figlio del Padre celeste» (NMI, 24).
Non si può impoverire Gesù con l’illusione di promuovere i poveri. Si impoverisce Gesù Cristo se si ridimensiona la sua divinità di Figlio di Dio. Non dovrebbe essere di grande aiuto per i poveri annunciare loro un Gesù uomo come gli altri uomini. Se Gesù è uno dei tanti salvatori, uno dei tanti maestri di morale, perde la sua valenza salvifica singolare, e i molti salvatori si eliminano a vicenda. Nel descrivere la singolarità e l’unicità della mediazione di Gesù Cristo, perciò, non è sufficiente un’ermeneutica politica, basata sull’analisi sociologica, che presenta Gesù come liberatore e come soggetto di una prassi rivoluzionaria.
3. Sia il rispetto della metodologia che quello dell’identità portano al rispetto della funzione salvifica di Gesù. Gesù è il Redentore dell’uomo, perché è Dio. Un Gesù uomo come noi può essere modello solo di umanità perfetta, mentre un Gesù Dio-uomo è fonte unica della redenzione dell’uomo. Nello studio della cristologia, quindi, è senz’altro legittimo l’approccio antropologico, purché non sia in antitesi a quello teologico. La salvezza, infatti, non può essere ridotta ad un processo di auto-redenzione. Ora, la cristologia del Sobrino non sembra eliminare questa antitesi. Secondo lui, «l’aspetto più storico del Gesù storico è la sua prassi, è cioè la sua attività per operare attivamente sulla sua realtà circostante, e trasformarla in un indirizzo determinato e voluto in direzione del regno di Dio. È la prassi che ai suoi giorni scatenò storia e che giunge fino a noi come storia scatenata».
Giovanni Paolo II ha ribadito chiaramente che il teocentrismo non è in antitesi con l’antropocentrismo, e che la Chiesa, «seguendo il Cristo, ha cercato di congiungerli nella storia dell’uomo in maniera organica e profonda» (DM,1). Proprio sulla base dell’intrinseca relazione tra teocentrismo e antropocentrismo, possiamo affermare che l’umanità di Gesù è l’umanità del Figlio di Dio, fatto uomo per noi e per la nostra salvezza.
Secondo il Concilio Vaticano II, «il Figlio di Dio, unendo a sé la natura umana e vincendo la morte con la sua morte e risurrezione, ha redento l’uomo e l’ha trasformato in una nuova creatura» (LG,7). Va ribadito con chiarezza che Gesù ha attribuito un significato salvifico alla sua morte, anche se «il Figlio di Dio crocifisso è l’evento storico contro cui s’infrange ogni tentativo della mente di costruire su argomentazioni soltanto umane una giustificazione sufficiente del senso dell’esistenza. Il vero punto nodale, che sfida ogni filosofia, è la morte in croce di Gesù Cristo. Qui infatti, ogni tentativo di ridurre il piano salvifico del Padre a pura logica umana è destinato al fallimento» (FR,23).
Giovanni Paolo e Benedetto. Con stili diversi, sulla stessa strada
di Filippo Gentiloni (il manifesto, 03.04.2007)*
«Santo subito!» gridava la gente due anni fa, di fronte alla salma di Giovanni Paolo II, in piazza San Pietro. Oggi è logico chiederci se si leverebbe lo stesso grido o se, invece, il biennio trascorso ha fatto diminuire quell’entusiasmo. E anche - seconda parte dell’interrogativo - ci chiediamo se il nuovo papa ha suscitato - meritato - lo stesso entusiasmo . Il confronto, d’altronde, è inevitabile.
E’ anche facile , almeno a livello superficiale. Vengono subito in mente alcuni aggettivi: significativi ma insufficienti. Più popolare papa Wojtyla, più aristocratico papa Ratzinger. Anche se non si può non osservare che Benedetto XVI, inevitabilmente, ha cercato di seguire la traccia lasciatagli dal predecessore e da quello strepitoso successo. Ha cercato anche lui di stringere le mani e di dare baci ai bambini. Meno viaggi, almeno per ora, ma non meno significativi, come si è visto in Turchia.
L’impressione più diffusa parla di un Benedetto non soltanto più «aristocratico» ma anche più rigido dal punto di vista dottrinale, meno ecumenico. E, ovviamente, si cita la polemica sui «Dico», evidentemente non soltanto italiana. E si pensa che dietro alle recenti polemiche non soltanto italiane ci sia oltre ai cardinali Ruini e Bagnasco anche lo stesso pontefice. Del quale si cita anche qualche frase che ha irritato il mondo islamico.
Tutto vero, ma non vorrei che queste critiche facessero dimenticare gli aspetti discutibili se non proprio negativi del pontificato precedente. Nonostante il «Santo subito!» non si può non pensare, ad esempio, alla stroncatura della teologia della liberazione e quindi ad un certo accantonamento delle novità rappresentate dal Concilio Vaticano II. Citato spesso, ma sostanzialmente dimenticato.
A questo punto si incontrano i percorsi dei due pontefici. Un incontro sulla stessa strada, quella che esalta proprio la figura del pontefice romano. Una esaltazione che , da una parte, rischia di mettere in secondo piano tutte le altre voci nel mondo cattolico, soprattutto quelle più libere (vescovi, preti, ecc.) e, dall’altra, di ostacolare tutti i tentativi di dialogo ecumenico con gli altri cristiani (soprattutto con i protestanti).
Queste tendenze centralizzatrici le abbiamo riscontrate in Giovanni Paolo II e anche nel primo biennio di Benedetto XVI. In questo senso tutti e due i papi «moderni» esaltano il loro pontificato e lo appoggiano sulla potenza della voce dei mass media, anche se si tratta di una voce ambigua, legata come è al grande capitale. In questo senso fra l’uno e l’altro piena continuità e nessuna rottura. Li unisce la pretesa che piazza San Pietro sia il centro del mondo.
Trovo sconvolgente pensare che il Papa che ha scritto l’enciclica "Deus caritas est" possa così incoerentemente bollare le posizioni di Sobrino, uno che la fratellanza della carità la vive ogni giorno "in trincea". A questo punto credo inquietante pensare che esista una Carità aulica, regale e romano-curiale che la chiesa "in officiis" dispensa a suo piacimento canonizzando un simpatizzante del regime franchista o stringendo la mano ad assassini conclamati (PInochet) per mere ragioni di potere, e una carità piccola e tisica, di serie "b", scomoda perché maleodorante, sporca e puzzolente di sudore di povera gente che muore perché nessuno è disposto ad ascoltare le sue ragioni, a parte quel povero utopista nato a Nazareth, morto in croce in primis per i dannati della terra e che il sinedrio romano tradisce quotidianamente nel suo delirio di onnipotenza. Ritengo illuminante una rilettura di quel racconto di Dostojevskij intitolato "la leggenda del grande inquisitore" che è contenuto nei Fratelli Karamazov. Speriamo sul serio che, di questo passo, non venga scomunicato anche il poverello di Assisi!(che non a caso era uno che dei poveri aveva fatto il puntello di tutto il suo apostolato). Mala tempora currunt!
Lux
Le spine brasiliane del Papa
di Maurizio Chierici *
È il viaggio più lungo e complicato di Benedetto XVI. Il 13 maggio apre la conferenza dei mille vescovi latini nel cuore spirituale del Brasile: santuario di Aparecida, 200 chilometri da San Paolo. Basilica dove 7 milioni di pellegrini ogni anno accendono candele. Se questa è la cornice, i problemi del continente dove vive più o meno la metà dei cattolici del mondo, e i problemi del Brasile nel quale i fedeli che guardano Roma sono 126 milioni guidati da 352 vescovi, restano nodi non solo mai sciolti, ma aggravati dalla miseria che ingrigisce il 41 per cento della popolazione sudamericana. Sfinimento endemico: liberismo e globalizzazione lo hanno esasperato. Ricchi-ricchi, poveri-poveri. Roma e il Vaticano vengono considerati vicini e lontani non tanto nell’interpretazione della dottrina ma dalla specificità dell’osservatorio sociale. L’essere cattolici nelle favelas brasiliane, o nei ranchos di Caracas, o nelle villas miserias di Buenos Aires e nei pueblos jovenes di Lima, mette in conto la diversità da chi prega nei quartieri rosa.
Il Vangelo può essere vissuto in modo diverso, non dai pastori arrembanti delle sette pentecostali, ma dagli stessi sacerdoti che obbediscono a Roma. Il futuro della Chiesa non appare semplice nel continente spagnolo sospeso tra le speranze suscitate dalla Teologia della Liberazione e l’obbedienza ripristinata al centrismo romano. L’autonomia prevista dal Concilio Vaticano II alle chiese locali è stata dimensionata da un rigore che affievolisce gli entusiasmi dei fedeli senza nome. Ed essendo la regione più cristiana del mondo, l’America Latina diventa laboratorio dove cattolici e protestanti cercano l’incontro con le folle che aspettano la speranza. Quando era giovane vescovo, il cardinale Hulmes ha animato nella sua diocesi attorno a San Paolo, Brasile, le pastorali del cardinale Arns protettore della teologia della liberazione: pastorale degli operai, pastorale dei fantasmi delle periferie. In prima fila col sindacalista Lula da Silva dava voce alle proteste dei lavoratori considerati braccia e non uomini. La «disobbedienza» al romacentrismo nel tempo si è attenuata: Benedetto XVI lo ha nominato prefetto della Congregazione per il Clero, tutore di una rinascita cattolica che Hulmes confessa non semplice: «In Brasile i cattolici diminuiscono dell’1% l’anno», un milione in meno ogni 12 mesi. Nel 1991 i brasiliani cattolici rappresentavano l’83% della gente. Oggi sono appena il 67%. Le nuove chiese contano il 10% dei fedeli e continuano ad allargarsi. Incremento dei cattolici 0,28; incremento delle Sette 8,30. Per ogni pastore cattolico vi sono due pastori protestanti. I sacerdoti dovrebbero essere 120 mila, sono 17 mila. Ci domandiamo: fino a quando il Brasile sarà ancora un paese «cattolico»?
Non le chiamerei Sette. Definizione spregiativa. Sono cristiani che meritano rispetto. Stanno dominando un settore fondamentale della modernità e della postmodernità: radio, Tv, ogni mezzo di comunicazione. La teologia della liberazione aveva proposto le comunità ecclesiali di base. Alcuni vescovi continuano a seguire questi modelli pastorali, preziosi per la funzionalità delle «parrocchie negli anni in cui tanti preti vengono a mancare». Parole di Frei Betto, che ha abbandonato il sacerdozio. «Le chiese pentecostali non sono una tragedia», è il parere di Leonardo Boff, teologo della liberazione: «processato» e ridotto allo stato laicale dal cardinale Ratzinger. «Contribuiscono a tener viva la spiritualità della gente bisognosa di dialogare con tutte le chiese». L’oscuramento dei teologi della liberazione ha coinciso col dilagare del neoliberismo mentre le dittature militari si trasformavano in democrazie formali, più o meno le stesse famiglie a tutela degli stessi interessi delle multinazionali. Il teatrino ambiguo di queste democrazie ha attenuato le persecuzioni ma aggravato l’emarginazione, mentre le comunità della Liberazione ammutolivano. Il sospiro di Pedro Casaldaliga, uno dei vescovi guida, non aiuta l’ottimismo: «Cos’è rimasto? Sono rimasti i poveri ed è rimasto Dio». I teologi si incontrano a Porto Alegre, organizzando meeting programmatici; per il momento Roma resta lontana. E le sette hanno riempito il vuoto e galoppano. È il nodo che il viaggio del Papa prova a sciogliere. Galoppano per due ragioni: «Usano capillarmente la modernità dei mezzi di comunicazione come la Chiesa non fa», ripete Frei Betto. Battono i tamburi della religione-spettacolo: miracoli in diretta Tv, posti d’ascolto seminati in ogni angolo delle città.
La teologia della liberazione può riprendere vigore? Non solo le gerarchie della Chiesa, gli stessi fratelli Boff danno risposte diverse: «Può, perché segue le mutazioni della società. Si è radicata in movimenti sociali alla ricerca di una normalità finora negata. I Sem terra, per esempio», risponde Leonardo. «Può, perché la teologia della liberazione nasce dalla spiritualità e dalla fede ma questa fede bisogna nutrirla e non pensare soltanto alla lotta contro Bush, la guerra, e il neoliberismo». Anche Clodis Boff è un teologo. «Dov’è scritto che la Chiesa ha perseguitato la teologia della liberazione come scrivono i giornalisti? Giovanni Paolo II ripeteva che è una teologia “utile, opportuna e necessaria”. È viva». Alla vigilia del viaggio papale la Congregazione della Fede ha segnalato gli «errori» contenuti in due saggi di Jon Sobrino, mitigando la condanna annunciata del gesuita che insegna all’Uca, università di San Salvador. Roma affida alla decisione della Chiesa locale (primate Saenz Lacalle, spagnolo e Opus Dei; con le mostrine di generale dell’esercito in quanto assistente spirituale delle forze armate, ha celebrato sull’altare del vescovo Arnulfo Romero), Roma affida la decisione di consentire o impedire l’insegnamento di Sobrino i cui libri conterrebbero «elementi che non concordano con la dottrina della Chiesa». Il grande incontro aperto da Benedetto XVI in Brasile dovrà ribadire o sfumare queste diffidenze. «Una delle grandi sfide della Conferenza sarà come evangelizzare la politica e i politici, come poter dialogare col mondo dell’economia, perché la globalizzazione non è né cattiva né buona: deve essere per lo sviluppo dell’uomo e per il bene comune e non solo per pochi. Le vere armi di distruzione di massa restano la povertà, l’ingiustizia sociale e la corruzione». Chi va a messa alla domenica si considera discepolo di Dio, dice il cardinale Andrés Rodriguez Maradiaga, primate dell’Honduras, «ma durante la settimana troppi si trasformano in discepoli di Machiavelli più che della Bibbia». Maradiaga appariva fra i papabili; 64 anni, molto amato nel suo paese. Quando era presidente della Commissione Episcopale latina ripeteva: «Il rapporto che deve accompagnare la nostra missione continua a misurarsi con popolazioni non felici. La Chiesa non deve solo tenerne conto, ma impegnarsi a rimuovere l’infelicità». Difensore molto cauto della teologia della liberazione, è un diplomatico convincente: parla cinque lingue, suona, canta, pilota aerei ed è conoscitore non banale dell’economia. Aveva insistito con Giovanni Paolo II per ottenere la quinta conferenza episcopale latina. Dopo la morte del Papa, è tornato alla carica con Benedetto XVI: nel 2005, l’assenso. Lo racconta a Popoli, rivista internazionale dei gesuiti di Milano. La direzione è passata da padre Bartolomeo Sorge a Stefano Femminis, cambia la generazione non la linea di intelligente apertura.
Se Roma e le nuove chiese si rivolgono agli ultimi, altre istituzioni inseguono una borghesia soprattutto benestante. Primate del Peru è il cardinale Cipriani, primo vescovo in anni lontani a dichiararsi Opus Dei. Nemico radicale della teologia della liberazione: l’accusava di «sconvolgere la dottrina con aberrazioni marxiste». Ma l’America Latina è lo spazio naturale dove si moltiplicano esperienze mirate a plasmare rapporti di integralismo e obbedienza tra Chiesa e fedeli. L’impegno non cambia: la formazione di una classe dirigente destinata a programmare il futuro non solo nel continente. Come l’Opus Dei, rete di collegi e università, i Legionari di Cristo si considerano «gli ussari neri del Papa». Apparsi in Messico nel 1920, sono cresciuti durante il pontificato di Giovanni Paolo II. Con un rigore sconosciuto alle comunità più severe, inseguono l’Opus Dei: naturalmente scuole, università. Ce n’è una anche a Roma e se ne aprono nei paesi ex comunisti. Ma l’America Latina resta terra naturale di conquista. La loro determinazione è temuta dai diseredati. L’ultima esperienza viene dall’Argentina: esporta i sacerdoti ultraconservatori del Verbo Incarnato. Si formano all’Ive, istituto fondato nel 1984 a San Rafael sotto le Ande, da padre Miguel Buela, legato all’estrema destra e protetto dal vescovo Leon Kruk. Negli anni della dittatura, Kruk sosteneva i vescovi Tortolo e Victor Bonamin le cui omelie giustificavano la mano dura dei militari della repressione. Il ritorno alla democrazia non ha scoraggiato questi «soldati della Chiesa». La loro promessa si è allargata a 75 diocesi argentine e in 38 paesi del mondo. Un esercito di 1550 preti e suore del Verbo sta «evangelizzando» America Latina, Europa, Usa, ma anche Siberia e Kazakistan; da poco inaugurato un seminario metropolitano a San Pietroburgo e un centro spirituale a Grosseto.
Ultimo nodo, ma non per importanza, il rapporto tra Chiesa e politica. Gli anni lontani di quando Giovanni Paolo II alzava il dito del rimprovero verso Ernesto Cardenal e altri sacerdoti, ministri sandinisti del Nicaragua del primo Ortega, sono un ricordo. Nuovi scenari agitano il Vaticano. La dissonanza tra la presidenza argentina e il cardinale Bertoglio, primate d’Argentina: incontra i politici all’opposizione e dà via libera a un vescovo che nella provincia di Missiones guida il referendum popolare contro la rielezione del governatore fedelissimo di Kirchner. Vince e torna in Europa. E c’è la patata bollente del vescovo Lugo, nel Paraguay addormentato. Lascia la diocesi e l’abito talare per correre alle presidenziali come leader di movimenti contadini: vuol mandare a casa gli eterni notabili che continuano la politica del dittatore Stroessner. La Chiesa condanna e invita a trascurare queste tentazioni. A Cuba il nuovo vescovo di Pinar del Rio taglia i fondi a Vitral, rivista della Chiesa «troppo dispettosa verso l’autorità politica». O a Caracas nella quale è arrivato un nunzio apostolico di provata diplomazia. Il nunzio precedente, André Dupuy, aveva animato dietro le quinte il colpo di stato contro Chavez. A nome del Vaticano si era affrettato a riconoscere la nuova autorità del presidente degli imprenditori Pedro Carmona. Pedro il breve: solo 36 ore di regno. Dupuy non si era fermato. Discorsi, convegni e un ultimo messaggio d’addio: dovete resistere e preparatevi a rovesciare il dittatore.
Tante chiese, tante anime. Povero Papa.
mchierici2@libero.it
* l’Unità, Pubblicato il: 30.04.07, Modificato il: 30.04.07 alle ore 8.37
La Stampa, 13/11/2009
IL VECCHIO CRONISTA
Romero, beato per la libertà
di IGOR MAN
Monsignor Vincenzo Paglia, arcivescovo di Terni, è appena tornato dal Salvador. Laggiù in quel Paese di variopinta bellezza, i salvadoregni scendono oramai in piazza da mesi. Che vogliono? Semplicemente vogliono dare un’accelerata al processo di beatificazione di Monsignor Oscar Arnulfo Romero. E su questo argomento che abbraccia amore e liturgia scendono periodicamente in piazza «per esigere che lo Stato chieda pubblicamente perdono per la morte assassina di Monsignor Romero». Da bravo diplomatico, Monsignor Paglia dice e non dice cercando di rasserenare un po’ tutti.
Romero venne nominato Arciprete di San Salvador col placet delle 14 famiglie salvadoregne che lo consideravano un «prete allineato». Ma una lunga ricognizione di fedeli di sua fiducia lo convinse a calarsi nella realtà - vera - e fu così che la sua omelia domenicale assunse il ruolo d’una denuncia, invero cristiana, d’un atto d’accusa dei parafascisti di Arena. In breve: sotto la spinta di una opinione popolare sempre più forte, l’omelia di Monsignor Romero divenne una sorta di appuntamento della speranza, una denuncia coraggiosa degli intrallazzi del potere. Mai s’era vista, in Salvador, la cattedrale strapiena, mai la denuncia dell’officiante fu così partecipata. Il piccolo ufficio di Romero in cattedrale si trasformò in succursale della Posta.
A chi gli raccomandava «prudenza, prudenza», Romero rispondeva sereno: «Ma al massimo potranno farmi fuori. E con questo?». Ubriachi d’odio, i neofascisti di Arena decisero in un convegno mafioso di «spegnere la candela». E la morte di Romero fu segnata. Il 24 di marzo del 1980, il maggiore d’Aubuisson e due sicari irruppero nella cappella d’una clinica privata. Monsignor Romero non batté ciglio e proprio mentre elevava l’ostia della comunione, l’assassino sparò. Un solo colpo, una sola cartuccia a centrare la vena jugulare di Don Romero. Il sacerdote ripiegò su se stesso nel vano tentativo di proteggere l’ostia - e con essa di tra le dita crollò. Il suo sangue contadino macchiò i paramenti.
La morte di Monsignor Romero fu il preludio, il lungo preludio del ritorno. Semplicemente alla libertà. Teoricamente la guerra prolongata è uscita dalla porta di servizio ma non è in fatto finita. E’ un Paese martire il Salvador poiché se è vero che non si combatte più e c’è un Parlamento eccetera, è vero altresì che a comandare son sempre le 14 famiglie, abilissime nel perpetuare una sorta di medio-evo postmoderno dove imperano i signori e i campesinos faticano, faticano sempre, in cambio di scarsa mercede. E lenta, appare la giustizia sociale.
Nella sua ultima omelia in cattedrale, Monsignor Romero così concluse, la voce strozzata dall’emozione: «Gli Stati Uniti mettono le armi. L’Urss mette le armi. Il Salvador mette i morti. In nome di Dio: lasciateci soli». Il giorno dopo, il 24 di marzo del 1980, il maggiore d’Aubuisson lo uccideva, all’Elevazione.