MEMORIA E PROFEZIA
Fra Bartolomé de Las Casas:
Il combattente per la giustizia
Sono stato invitato a partecipare con questa conferenza per esporre, nell’ambito del Giubileo, la figura di Fra Bartolomé de Las Casas e la sua lotta per la giustizia. Ringrazio di questa opportunità che mi consente di far conoscere la sua figura e la sua opera, insieme ad alcuni aspetti che sono utili per il nostro tempo. Non pretendo di proporre contributi nuovi ma solo di riprendere alcuni temi e di rendere omaggio a questo grande confratello.
Appena 15 anni fa, proprio in questa Università si svolse un importante Congresso per celebrare il 5° centenario della nascita di Fra Francisco de Vitoria e di Fra Bartolomé de Las Casas OP. Qui si riunirono famosi lascasiani per dibattere sui temi fondamentali del suo pensiero: i diritti umani, la giustizia, il diritto delle genti, la colonizzazione, l’encomienda. Di non minore importanza fu l’incontro svoltosi 25 anni fa a Città del Messico con analoghi risultati. Con molta frequenza si pubblicano nuovi libri e documenti che si riferiscono a questo pensatore. Il confratello Fra Carlos Josphat Pinto de Oliveira ha pubblicato da qualche settimana un nuovo libro su Fra Bartolomé in Brasile. Un altro confratello, Fra Thomas Eggensperger, direttore di Espace a Bruxelles, ha finito il suo dottorato e ha pubblicato un grosso volume sullo stesso tema. Da poco è terminata la pubblicazione delle opere complete. Potrei continuare citando opere recenti e antiche. Potremmo elencare incontri e congressi, ma quello che voglio sottolineare è che la memoria di Las Casas diventa spesso un’esperienza rinnovata ed eloquente nella nostra tradizione e in quella della stessa Chiesa. La memoria di Las Casas nei suoi scritti e nelle sue riflessioni è uno specchio che riflette costantemente l’urgenza di un recupero della dignità umana, come immagine di Dio.
MATTUTINO
Las Casas nasce nel 1484 e cresce nel clima di euforia suscitato dalle scoperte di Colombo e dei suoi compagni. Questi avvenimenti cambieranno ben presto la vita di tutta la sua famiglia, data l’amicizia delle famiglie Colombo e Las Casas. Lo stesso padre di Bartolomé si imbarca col secondo viaggio di Colombo. Nella Settimana Santa del 1493 il piccolo Bartolomé rimarrà affascinato dal grande corteo del ritorno di Cristoforo Colombo. L’entusiasmo andrà aumentando per i regali e i vantaggi che vengono dal Nuovo Mondo. Siamo all’alba della vita di Bartolomé de Las Casas. In questa nuova situazione il nostro personaggio crescerà e vedrà come cambia e prospera la vita di tutti i suoi vicini e amici. Il futuro è nelle Indie, un nuovo giorno spunta per il Vecchio continente.
La famiglia Las Casas migliorerà il suo livello di vita con i guadagni del padre mercante e Bartolomé seguirà le orme del padre a 18 anni, viaggiando verso il Nuovo Mondo. Alla morte di Colombo, dopo sette anni fondamentali della sua vita trascorsi come encomendero nell’isola Hispaniola (Haiti), ritorna in Europa e va a Roma dove è ordinato sacerdote. Dopo pochi mesi ritorna in Spagna e da qui nuovamente all’isola Hispaniola. Come sacerdote secolare si inserisce nella pastorale locale mantenendo la sua encomienda. Las Casas conosce bene il lavoro che qui svolgono i Domenicani, però non ne condivide le opinioni. I domenicani dell’isola Hispaniola, con a capo Fra Pedro de Cordoba, di fronte alle atrocità che venivano perpetrate contro la popolazione indigena, decidono di levare la loro voce di protesta e nella terza domenica di avvento del 1511, la comunità incarica Fra Antonio de Montesinos perché esprima la sua protesta a nome anche degli altri frati. Conosciamo le sue parole: "Ditemi, quale diritto vi autorizza a mantenere questi indiani in una schiavitù così orribile e crudele?". Con questa predicazione, si può affermare senza esitazione, inizia un nuovo capitolo della storia dell’Ordine. Questo sermone sarà anche punto di riferimento per la nostra spiritualità.
Nonostante questo grido, che provocò grande scandalo nella popolazione locale e alle Corti del Regno, Bartolomé non reagisce, anche se comincia a sentirsi direttamente interpellato. Nel 1513 va a Cuba per rafforzare i suoi possedimenti. Si deve attendere la Pasqua del 1515 quando egli ha interiorizzato il grido degli indigeni, facendo propria la loro sofferenza. A poco a poco ha assimilato quello che i domenicani dicono sia a Hispaniola che a Cuba e decide di consacrare la sua vita alla difesa degli Indios.
Alcuni anni più tardi descriverà così questo primo passo della sua conversione: "Studiando le prediche che aveva tenuto (agli uomini di Diego Velasquez) in occasione dell’ultima festa di Pasqua... cominciò a considerare alcuni passi della Sacra Scrittura, e se non ricordo male, quello che lo colpì per primo e più di tutti fu il capitolo 34 dell’Ecclesiastico (Siracide vv. 18-20)...Cominciò a considerare la miseria e la schiavitù in cui era tenuta quella gente. Rifletteva su quello che aveva sentito dire e aveva personalmente recepito su questo argomento all’Isola Hispaniola, quello che i domenicani predicavano...e che detto chierico (Las Casas) non accettava: e che trovandosi una volta con un religioso di detto Ordine, che era lì a confessare, poiché il chierico aveva degli indios su quest’isola che trattava con la stessa negligenza e cecità con cui li trattava a Cuba, il religioso non volle assolverlo...Il chierico subito non reagì per il rispetto e l’ossequio che gli doveva...; ma quanto a lasciar liberi gli Indios, non si curò della sua opinione. Tuttavia gli servì molto il ricordare quella discussione e anche la confessione fatta al religioso per giungere a meglio considerare l’ignoranza e il pericolo in cui si trovava. Passati poi alcuni giorni assorto in questi pensieri... gli fu chiaro, convintosi di quella verità, che era ingiusto e tirannico tutto ciò che si commetteva in quest’isola nei confronti degli indios".
La conversione di Bartolomé è lenta e attraversa un processo difficile. Egli deve smantellare l’entusiasmo infantile, la seduzione dell’adolescente e i primi profitti giovanili, per ricostruire un nuovo ordine di riflessioni, che culminerà con la difesa più esplicita degli interessi degli Indios. Vale a dire che questo processo non finisce con la prima azione di difesa, ma andrà maturando lentamente.
Così, deciso, parla con Fra Pedro de Cordoba e gli confida che desidera fare qualcosa e che intende parlare con il Re. Pedro de Cordoba non lo assicura del successo e gli dice che "mentre il re vive nulla cambierà". Bartolomé gli risponde: "Padre, io tenterò tutte le strade che posso e mi sottometto a tutti i lavori necessari e spero che Nostro Signore mi aiuterà. E se non dovessi ottenere alcun risultato, avrò fatto quello che dovevo come cristiano". Bartolomè nel suo lento risvegliarsi si sta appassionando per la giustizia e la verità
LODI. GLI STRUMENTI DI BARTOLOME’ DE LAS CASAS.
A partire da questo episodio Bartolomé si incammina con l’entusismo del neofita per la difesa degli Indios. Attraverserà varie volte l’Atlantico, visiterà le Corti e parlerà con tutte le personalità dell’epoca che possono prendere delle decisioni. A partire dagli incontri con i domenicani dell’isola inizia un altro importante processo di riflessione: diventare domenicano, seguire il cammino di Domenico di Guzman e predicare la Verità.
Las Casas userà gli argomenti teorici della sua epoca per difendere quello che ha scoperto e in qualche modo creerà tutta una scuola nuova di riflessione nella chiesa cattolica e oltre. Sono diversi gli studi che ci offrono in maniera sistematica i contributi di Las Casas sulla giustizia. La coincidenza è notevole dal momento che Las Casas usa la scolastica per presentare quello che ha scoperto con l’esperienza. E questo lo rende pioniere e vivo fino ai nostri giorni. Il primato della vita sulla riflessione: il primato della esperienza cristiana sulla elaborazione teologica. Il pensiero lascasiano trova i suoi fondamenti in S. Tommaso e alla fine della sua vita prende alcuni percorsi che in parte si collegheranno con le linee del passato, giacché definirà esattamente i diritti di autodeterminazione dei popoli e le condizioni nettamente democratiche che devono accompagnare le decisioni politiche importanti, ma andranno anche al di là dell’impianto medievale.
Lo studioso Enrique Ruiz ci ha fornito tre articoli molto interessanti su Bartolomé de Las Casas e la giustizia. In essi ci fa vedere che per quanto Las Casas sia contemporaneo del de Vitoria, della scuola di Salamanca, offre apporti più originali di lui. Ci indica le origini della presenza di S. Tommaso a Salamanca: precursore di Francisco de Vitoria è Matias de Paz. Tutti e due domenicani, si formarono nello stesso centro di studi: l’Università di Parigi. Tutti e due manifestavano un accentuato interesse per la teologia morale e professavano un moderato terminismo (nominalismo), alla maniera dei francesi di questa Università. Esiste tuttavia una differenza tra questi due autori: il loro diverso interesse per la dottrina di S. Tommaso. E’ noto che de Vitoria è colui che introduce in Spagna la Summa Teologica come libro di testo in teologia, seguendo il suo maestro di Parigi Pedro de Krockaer. Nonostante ciò c’è da segnalare che la dottrina espressa da de Paz nel 1512 è stata considerata come uno dei principali antecedenti del pensiero del de Vitoria, quantunque esistano certamente profonde differenze tra i due.
Las Casas conosce ciò e usa questi strumenti. Da Matia de Paz prenderà ciò che questi difende con tanta veemenza: "Non è lecito per i prìncipi cristiani fare la guerra agli infedeli per il capriccio di dominare o per il desiderio di arricchirsi, se non nel caso in cui siano sospinti dallo zelo per la fede e da tale zelo sostenuti. Non possono pertanto detti principi invadere lecitamente le terre degli infedeli che mai furono soggetti al giogo del nostro Salvatore, nel caso in cui gli stessi volessero ascoltare di buon grado i predicatori della fede cattolica e fossero disposti a riceverli...".
Las Casas è figlio del suo tempo. Riprende il pensiero che gli viene da S. Tommaso e elabora, a partire dalla propria esperienza e riflessione, gli argomenti che gli serviranno per la discussione. Il legame con de Vitoria è discutibile. Per quanto alcuni autori sostengano che mentre Las Casas lotta nelle corti de Vitoria elabora dottrina, questa prospettiva è assai discutibile e sembra più reale che Las Casas alimenti una discussione accademica. a partire dai suoi progetti.
Il concetto di Giustizia lui lo troverà nella Summa Teologica I-Il qq 90 e 91 dove è definito come "l’atto di dare a ciascuno ciò che gli spetta". Nell’usare questo testo il nostro frate polemizza con lui contro l’ingiustizia della guerra che è proprio il centro della sua preoccupazione. E alla giustizia attribuisce tre caratteristiche: "implica una certa rettitudine dell’ordine" (Ordinat actum hominis secundum rectitudines in comparatione ad alios homines), in secondo luogo, uno dei precetti fondamentali della Giustizia è "alterum non laedere": "non danneggiare l’altro", ma soprattutto cerca di "dare e conservare il diritto dell’altro". Si tratta in definitiva della giustizia distributiva che, come si comprende facilmente, ha nella sua opera un posto privilegiato: della giustizia commutativa parla soprattutto quando si tratta di restituzione.
Anche se si appella all’aspetto legale, il nostro frate non limita la giustizia alla dimensione giuridica. Vediamo prima questo aspetto giuridico-antropologico. La regola o misura è utile per Las Casas in quanto induce a operare, ha una dimensione di vincolo e obbligatorietà. La legge porta al compimento della giustizia che è la beatitudine (felicità). E’ l’espressione della ragione nel comportamento. La legge umana continuamente ricercata da Las Casas è intesa come l’immagine della legge divina per analogia. L’importanza della legge sarà la trascendenza nel rapporto umano, vale a dire nel bene che si trova nella società. Il diritto regolerà le relazioni esterne della convivenza sociale, stabilendo come fine prossimo dell’ordinamento giuridico la perfezione della vita nell’ambito sociale e da questo fine si spiega l’origine e la natura del diritto.
Vale la pena di trattare brevemente l’aspetto dell’uomo e dello stato. Per S. Tommaso è la persona che è soggetto di diritti, e l’unico essere morale ed è l’unico essere che ha fini propri. Il fine personale ultimo è superiore, quanto all’assoluto, al fine della comunità, ma in quanto non si riferisce all’assoluto della persona, questa deve adeguarsi ai fini comunitari, vale a dire: "per natura la persona viene sempre prima della realtà dello stato". Questo implica un primato dello spirituale sul temporale e sarà usato perché la Chiesa possa intervenire nei problemi terreni. Questo si chiamò il potere indiretto del Papa che sarà usato da Las Casas a. giustificare in un primo momento il conferimento del titolo di occupazione dei re spagnoli nelle Indie. Ricordiamo il primo progetto che presenta alla corte perché vengano soppresse le encomiendas e venga accettato il titolo di occupazione spagnola delle terre (pagare il tributo).
All’interno di questo livello giuridico-antropologico si deve fare riferimento alla possibilità di avere la proprietà e la sovranità e il diritto di guerra. Temi che Las Casas affronterà in maniera più approfondita nella misura in cui affinerà il suo pensiero negli anni successivi.
Per S. Tommaso il dominio o diritto di proprietà è naturale e di conseguenza comune a tutti gli uomini. La divisione di questa proprietà, delimitando i terreni, si impose fra gli uomini in virtù del Diritto delle Genti. Questo dominio non si estende alla vita propria né a quella degli altri (problema della libertà). Pertanto i prìncipi pagani hanno diritto al dominio allo stesso modo dei credenti (S. T. II-II q. 1 L, a 10). Quanto alla guerra, per Tommaso questa è un mezzo e non è fine a se stessa. Il fine è per assicurare la pace interna ed esterna, l’ordine e la giustizia. Solo gli infedeli più violenti possono essere causa di una guerra giusta, ma con gli infedeli che non hanno mai sentito parlare dei cristiani non c’è motivo di guerra giusta (S. T. II-II q 90).
ORA MEDIA - "HO VISTO UNA E MILLE VOLTE IL SIGNORE CROCIFISSO NEGLI INDIOS"
A partire dall’esperienza vissuta nelle isole di Hispaniola e Cuba, dai primi passi verso la conversione e con gli strumenti teorico-filosofici, il nostro frate intraprende la difesa degli Indios. La sua opzione non è l’opzione per uno studio filosofico o un nuovo sistema teologico. Il suo interesse è la vita degli Indios. E’ una opzione per trasformare il sistema che sfrutta e uccide in uno che dia la vita. La scoperta che Bartolomé ha fatto è così fondamentale che egli sente l’urgenza di comunicarla e di trasformare ciò che ha scoperto. Bartolomé de Las Casas stabilisce così la priorità delle realtà sulla riflessione. Così come pure la dinamica ermeneutica: "se fossimo Indios il nostro punto di vista sarebbe diverso". Sebbene usi strumenti filosofici, come abbiamo detto, questo non è il suo obbiettivo, che è invece quello di fermare la distruzione (contesto concreto da cui parte la sua riflessione), giacché negli Indios ha visto una e mille volte il volto sofferente del Signore (Mt. 25).
Il nostro fratello G. Gutierrez nel suo libro "Alla ricerca dei poveri di Gesù Cristo, il pensiero di B. de Las Casas" ha una appendice sulla situazione demografica nelle Indie che è molto eloquente. Questo argomento è poco conosciuto e ancor meno trattato.
Egli arriva alla conclusione che "...dinanzi alle prospettive contemporanee, con tutta la loro inevitabile imprecisione, la cifra di 20/25 milioni di morti sostenuta da Las Casas intorno al 1552 per le Indie nel loro insieme risulterebbe piuttosto moderata, in particolare considerando che il crollo demografico si è verificato soprattutto nei primi decenni, quelli che Bartolomé ha conosciuto".
I morti sono milioni, si tratta dell’olocausto più grande che l’umanità abbia conosciuto (o non conosciuto) e portato a compimento. Bartolomé nella sofferenza e nel dolore scopre il Signore. Da qui l’urgenza di liberarlo dalla croce. Lo vede identificato negli Indios, nei poveri di questa terra. In un primo momento il suo sforzo è di denunciare i crimini che i conquistatori commettono con la schiavitù a cui sottopongono gli Indios, il comportamento degli encomenderos ipocriti. Dice che questo comportamento sta portando alla condanna. Protesta con il re, che si fa complice di questa situazione ed esige non solo la restaurazione dell’ordine precedente ma parla di restituzione. Col passare degli anni Las Casas approfondirà questo tema e arriverà - quando diventa vescovo del Chiapas - a stabilire un severo codice per i confessori che assolvono i conquistatori, gli encomenderos e i trafficanti di armi.
In un secondo momento il suo pensiero va oltre e egli parla non solo della necessità di porre fine al massacro e di cercare vie pacifiche per evangelizzare, sforzandosi di ristabilire l’ordine e procedere alla restituzione, ma afferma con chiarezza che è preferibile un Indio pagano vivo a un Indio cristiano morto. Vale a dire che se la conversione degli Indios al cristianesimo non è possibile senza la distruzione e la morte, come è avvenuto fino a quel momento, è meglio che non siano cristiani.
Questa maturazione nel suo pensiero lo porterà ovviamente ad altri conflitti e vicissitudini. Non sarà certamente compreso perché va molto al di là del momento storico e si oppone, in certo senso, all’autorità del Papa e dei re. In fondo quello che sta facendo è smascherare il sistema ideologico del potere.
Il contrasto con Gines de Sepulveda si avrà proprio in questo contesto e verterà sulla capacità razionale degli Indios di andare verso la salvezza senza la necessità di essere battezzati. Non possiamo soffermarci sugli argomenti sostenuti dai due. Diciamo semplicemente che la disputa non è significativa solo per la dimensione teorico-filosofico-teologica, ma è significativa anche dal punto di vista del potere. Un’altra volta tratteremo questo argomento più a fondo.
VESPRI
Quando mi hanno chiesto questa conferenza la prima idea è stata di vedere ciò che accadde dopo Las Casas. L’affascinante personalità del frate mi ha invece obbligato a parlare di lui per primo. Tuttavia nel rileggerlo ho capito ciò che sarebbe accaduto poi ai suoi seguaci: li avrebbero uccisi e perseguitati.
Spesso si considera Bartolomé de Las Casas come un frate eccentrico, esagerato e isolato. Di fatto in certe storie si guardano i grandi personaggi, profeti e portatori di utopia, come persone sole, isolate e incomprese. In certo senso lo sono, ma non lo sono in quanto creano scuole, formano seguaci e discepoli che animati dalla verità e dalla speranza dei maestri, cercano di continuare a lavorare nell’utopia che i grandi hanno iniziato.
B. de Las Casas non è solo. Sono molti quelli che vedono come lui le atrocità che i conquistatori commettono e sono molti quelli che con lui tentano di cambiare le cose, creare spazi di "Pace vera", guadagnare terreno nella "Terra senza mali", porre fine alla schiavitù e agli orrori che smentiscono il messaggio evangelico.
Il nostro frate non si limita alla denuncia e alla pianificazione di progetti pacifici di evangelizzazione, ma si impegna nella formazione di questa grande scuola di difensori dove si trovano i pionieri Fra Pedro de Cordoba e Fra Antonio de Montesinos.
Man mano che passano gli anni e le scoperte e conquiste si riducono il sistema di dominio coloniale si istituzionalizza. Questa nuova situazione sia nelle Indie occidentali che nella stessa Europa porta a un pensiero meno capace di autocritica e più abituato alle proteste degli indios, alla schiavitù, all’abuso del potere. "E’ normale", "Così è la vita", "non c’è niente da fare". La guerra ha prodotto i suoi effetti nell’animo di tutti: ha contribuito a demoralizzare gli indios per evitare ribellioni, e ha reso insensibile il resto della popolazione. Le leggi che favoriscono la vita degli indios si trasformano in un documento senza valore concreto: "si obbedisca ma non si esegua", e quelli che protestano vengono isolati, perseguitati, messi a morte.
La schiavitù diventa un fatto istituzionale e si attenua la sensibilità dei cristiani. Nonostante ciò sono molti i domenicani e altri missionari che continuano la difesa degli indios, assumendo la funzione profetica nonostante le tensioni e divisioni interne. Molti si sentiranno emarginati, soli, abbandonati e divisi, ma non avranno esitazioni sul come comportarsi per quanto si sentano un "gruppo in estinzione".
Juan del Valle (1548-1560) vescovo di Popayan (oggi Colombia) di fronte alle atrocità dei conquistatori dice di sentirsi "sotto l’impero di Babilonia". Il vescovo di Panama Fra Pablo de Torres (1547-1554) fu privato della sua sede dal Governatore locale e poi dal Consiglio delle Indie finché si trovò nella necessità di abbandonare la sua diocesi. Fra Julián Garces, primo vescovo di Tlaxcala (1528-1542) usa l’immagine di Ninive, la crudele capitale dell’Assiria, come simbolo della sua sede episcopale, adottando l’atteggiamento di Giona. Fra Agustín de la Coruna (1565-1590), successore di Juan del Valle, fu esiliato per gli stessi motivi addotti contro il suo predecessore. In Nicaragua Fra Antonio de Valdivieso (1544-1550) fu assassinato dalla famiglia Contreras che occupava queste terre ed era grande encomendera, per gli stessi motivi per i quali perseguitarono gli altri.
Questa scuola andrà avanti per molti anni e la ritroveremo con notevoli prese di posizione più di un secolo dopo (1699) con Fra Diego de Humanzoro in Cile il quale considererà la sua attività come quella del profeta Ezechiele che annunci al re il giudizio di Dio.
Ci furono anche forti proteste da parte dei nuovi cristiani, indigeni battezzati nella fede dei colonizzatori. La più importante è quella di Felipe Guaman Poma Ayala (1534-1616) che sostiene con forza il diritto alla vita dei suoi fratelli quechua.
A Ciudad Real, oggi San Cristòbal de Las Casas, Chiapas, quella scuola si manterrà per molti anni malgrado tutte le accuse, calunnie e persecuzioni. Sono importanti i successori di Las Casas nella sede vescovile. Per esempio Fra Tomàs de Casilla che soffrirà le stesse persecuzioni dei suoi fratelli, ma resterà fermo nei suoi principi, difendendo la fede e la verità.
COMPIETA - "LUCE DELLA CHIESA"
Il secolo sedicesimo racchiude una ricchezza impressionante di uomini e donne che dalla pratica cristiana hanno realizzato stili di vita che trascendono di molto la loro epoca. Penso a Teresa d’Avila, a Giovanni della Croce, con spiritualità diverse, ma che reagiscono a uno spiccato egoismo che si sviluppa nella loro società. Penso alla grande sete di autenticità che molti uomini e donne esprimono di fronte ad una società che sperpera ricchezze male acquisite. Penso alle più alte autorità della Chiesa impegnate a prendere decisioni importanti e non sempre per il bene dei cristiani. Penso a Lutero e alla sua Riforma. Penso alle banche fiorentine piene dell’oro delle Indie e alla Corte pontificia. Penso al primato dell’estetica che si afferma in certi settori del potere in questa epoca. Penso all’Africa, sfruttata e abbandonata, e non so perché ogni volta che penso a questo, mi sembra che il secolo sedicesimo sia simile al secolo ventesimo. Il nostro pensatore Las Casas, si può concludere, continua ad essere attuale oggi come lo fu ieri. Polemico come ieri. E’ un uomo attuale, con la passione verso qualcosa che ha visto, che ha "scoperto" e vi si compromette totalmente. E’ un uomo con il senso della vita. La sua personale conversione è lenta, si tratta di una passaggio difficile da encomendero a difensore, da difensore fino a far propria la visione degli Indios. Non è pazzo, non è nevrotico, è geniale, profondo, acuto, convinto, deciso. Sa usare gli strumenti della politica, si muove con eleganza nelle Corti e con passione tra i poveri.
E’ un uomo che convince con la parola e l’esempio. E’ un uomo coerente che agisce in sintonia con quello che dice. Per questo, forse, è odiato e amato. E’ un uomo che affascina. Combattente per la vita degli Indios, conosce molto bene il significato della guerra, le sue atrocità, i suoi crimini. Smaschera l’ipocrisia con cui abitualmente si camuffa la guerra: che umilia, distrugge la volontà, uccide. Il filosofo Las Casas fornisce una ermeneutica della filosofia medioevale con un senso euristico della libertà per gli Indios. Qui sono solo segnalati i temi e la loro prima argomentazione. Certamente altri autori li hanno sviluppati dettagliatamente.
Il nostro maestro non solo ripete le argomentazioni a favore della sua causa, ma amplia gli ambiti dell’antropologia del suo tempo includendovi l’uguaglianza e la libertà di tutti, andando ben oltre la sua epoca. Il teologo Las Casas recupera un metodo classico di fare teologia dando il primato alla vita cristiana rispetto alla riflessione. L’amore concreto verso l’Indio storico, come esperienza di Dio. Colloca la sua riflessione a partire dalla sua "scoperta" di Dio negli Indios, come immagine di Dio e quindi come rivelatori della sua presenza dolorosa e sofferente.
Il nostro fratello è un esempio di vita religiosa, di come si può essere domenicani, ricercatori della Verità; di come si contempla - si vede Dio - e si predica con vigore ciò che si è contemplato. Il nostro fratello è un essere universale che ha applicato, al di sopra di tutte le vicissitudini politiche e gli interessi in cui si è imbattuto, la dottrina cristiana alla totalità degli esseri umani, senza distinzione di fede, razza o differenze culturali.
Pablo Romo OP - GALLERIA DOMENICANA
Sul tema, nel sito, si cfr.:
il lato oscuro del Brasile
SURVIVAL INTERNATIONAL - Comunicato Stampa, 5 giugno 2014
Addio a Ruitz, il “Cristo” del Chiapas evangelizzato dagli indigeni
di Maurizio Chierici (il Fatto Quotidiano, 27 gennaio 2011)
È morto Samuel Ruitz, vescovo del Chiapas negli anni inquieti. Non è stato ucciso sull’altare, come Romero, ma hanno provato tante volte mentre il Vaticano guardava. E dall’ Italia Comunione e Liberazione promuoveva nella sua San Cristobal de Las Casas, convegni di ragazzi ai quali si illustrava non benevolmente gli adattamenti teologici di Ruitz alla cultura indiana. Aveva 85 anni, ‘in esilio’ attorno a Città del Messico con l’impegno di ‘non disturbare’ i vescovi che ne avevano preso il posto.
Era arrivato nel Chiapas nel 1960, conservatore di famiglia agiata. L’insegnamento del Concilio gli aveva insegnato l’umiltà indispensabile a penetrare il mondo indigeno. Missione complicata dalla necessità di “difendere i contadini dall’egoismo di chi continuava a sfruttarne terre e lavoro”. Per un momento si confonde tra i potenti. 12 mila militari presidiano il Chiapas per tutelare gli espropri decisi a Città del Messico in favore di funzionari che l’età o le disavventure politiche costringono a farsi da parte. Lo Stato federale li sistema riunendo piccole proprietà di piccoli contadini costretti ad impoverire tacendo. “Nei primi viaggi pastorali - racconta in un incontro Ruitz - dormivo in belle case, letti morbidi: i latifondisti sapevano essere gentili. E organizzavano feste dove incontravo notabili e mandarini di stato. Poi ho scoperto che le vivande venivano comprate coi soldi dei contadini obbligati a pagare per onorare il pastore. E ho deciso di passare la notte nelle loro baracche. Quante cose si imparano. A fare domande anziché distribuire risposte. Capire prima di spiegare. A poco a poco la mia cultura è penetrata nella cultura Maya ed anche il mio modo di essere vescovo si è aggiornato. I principi della dottrina restano saldi, ma il modo di leggere assieme le scritture ha trovato intonazioni diverse. Ero venuto per evangelizzare l’indifferenza indigena e dagli indigeni sono stato evangelizzato”. Diversità che il Concilio aveva suggerito eppure scandalizzava i custodi della tradizione.
Quando arriva nel Chiapas, Ruitz è un principe della chiesa nel firmamento dei potenti. Quando se ne va è diventato Tatic Samuel, onore indios che non piace al nunzio monsignor Prigione. Non piace ai grandi proprietari che assediano armati la cattedrale accusandolo di difendere “oltre ogni limite i contadini”. Spari e violenze: la polizia guarda con pigrizia mentre a Città del Messico i giornalisti vanno a trovare l’ambasciatore del Papa. “Perché il governo non difende questo vescovo? Perché lei non protesta?”. “È un problema interno messicano. Non posso far niente”. “L’Osservatore Romano, giornale del Vaticano, scrive che sfida il martirio come il vescovo Romero”. “L’Osservatore Romano non è la voce del Papa, solo un foglio cattolico”.
Nel 1999 compie 75 anni e presenta le dimissioni dovute aggiungendo il desiderio di restare nel Chiapas per non abbandonare “l’esperienza straordinaria che ha rallegrato il mio spirito ed aperto la mia carità”. Non vorrebbe lasciare gli 8 mila gruppi catechisti nei quali ha modulato la dottrina della Chiesa nella cultura indigena. Ottomila, un esercito, proprio la parola che spaventa le autorità infastidite dall’ombra del subcomandante Marcos il quale pacificamente si mescola a loro. Ruitz lascia un Chiapas cambiato: “La gente ha imparato a confrontare, villaggio per villaggio, lo spirito del vangelo e i dolori della vita”. Una domenica, alla fine dell’omelia, legge la rinuncia spedita al Vaticano. Si illude venga respinta ma sa che i consigli del nunzio Prigione non gli sono favorevoli: “Non cambierà nulla anche se non sarò in mezzo a voi. Raul Vera prenderà il mio posto ed è una fortuna perché da vent’anni condivide questa esperienza”. E Raul Vera diventa vescovo di San Bartolomeo.
Una beffa: dopo 8 mesi lo trasferiscono in una provincia lontana, lungo il confine con gli Stati Uniti. Il nuovo pastore scioglie gli 8 mila gruppi di catechisti, normalizzazione che fa respirare militari e proprietari. Adesso, il cordoglio di Calderon, presidente del Messico: “Se ne è andato ungrand’uomo. Merito della sua mediazione se il Chiapas è stato pacificato”. Tardi. Ma meglio tardi che mai.
Deporre i poveri dalla croce: cristologia della liberazione
di ADISTA *
Importante iniziativa di Adista che ha tradotto e messo a disposizione gratuitamente il libro "Deporre i poveri dalla croce: cristologia della liberazione" edito dalla Commissione Teologica Internazionale della ASETT, Associazione Ecumenica dei Teologi/ghe del Terzo Mondo, in risposta alla notificazione vaticana sulle opere di Jon Sobrino.
Care lettrici, cari lettori,
segnaliamo un’importante novità sul nostro sito. Si può leggere finalmente anche in italiano, scaricandolo gratuitamente dalla home page di www.adista.it, il libro digitale "Bajar de la cruz a los pobres: cristología de la liberación" ("Deporre i poveri dalla croce: cristologia della liberazione") della Commissione Teologica Internazionale della ASETT, Associazione Ecumenica dei Teologi/ghe del Terzo Mondo.
La traduzione italiana, curata da Adista, dell’originale spagnolo (che, insieme alla traduzione in inglese, è disponibile agli indirizzi www.eatwot.org/TheologicalCommission e http://www.servicioskoinonia.org/LibrosDigitales) è presentata dal teologo Carlo Molari e presenta due contributi in più: di Aloysius Pieris e dello stesso Molari (è possibile leggere l’originale )
Il libro della Asett è la risposta di circa 40 teologi della liberazione alla Notificazione vaticana sulle opere di Jon Sobrino (autore dell’epilogo del libro), ma non solo: è una difesa, appassionata e potente, della cristologia della liberazione, quella che Leonardo Boff, nel prologo, definisce "una teologia militante che lotta per ’far scendere dalla croce i poveri’".
È questa voce potente quella che è oggi offerta anche al pubblico italiano, attraverso un nuovo metodo che l’Asett ha voluto sperimentare: quello di un libro digitale, libero e gratuito, che, scrive José María Vigil, coordinatore della Commissione Teologica Internazionale della Asett/Eatwot, "può essere regalato e inviato da chiunque per posta elettronica e che potrà anche essere stampato su carta mediante il procedimento della "stampa digitale", un metodo che permette di stampare su carta quantità minime di esemplari (5, 10, 20...), a un prezzo praticamente uguale a quello di un libro normale".
Per scaricare il libro, clicca qui
* IL DIALOGO, Mercoledì, 06 giugno 2007
Molte discussioni sta suscitando negli Stati Uniti un libro di Nicholas Wade, giornalista scientifico del quotidiano "New York Times", intitolato "Before the dawn. Recovering the lost history of our ancestors". Riassumendo e divulgando le indagini storiche ed antropologiche più recenti sulle società americane precolombiane, indagini svolte da studiosi come Lawrence Keeley, dell’Università dell’Illinois, e Steven Le Blanc, dell’Università di Harvard, Wade afferma che il famoso "buon selvaggio" non è mai esistito.
Smentendo la teoria "politicamente corretta", secondo la quale l’indigeno precolombiano era per natura pacifico, tollerante, leale e generoso, Wade dimostra che la vita delle società americane primitive era basata sulla violenza, l’intolleranza, la perversione e la perfidia. Spesso una comunità precolombiana si qualificava come "gli uomini", in quanto non riconosceva alle altre la comune natura umana e tantomeno i diritti a questa inerenti. All’interno di ogni comunità, quasi sempre si praticavano la tortura, la vendetta, la violenza sessuale e l’infanticidio.
Soprattutto, fra le comunità e, all’interno di queste, fra le tribù e i clan, c’era un quasi continuo stato di guerra, feroce e sleale, che era condotta abitualmente con lo scopo non di sottomettere l’avversario ma di sterminarlo, tanto che non si facevano prigionieri, se non per sacrificarli agli dèi della guerra o per ingrassarli allo scopo di mangiarli. Perfino nelle durissime condizioni ambientali dell’Alaska e della Groenlandia, dove la lotta per la sopravvivenza avrebbe dovuto prevalere sulla brama del dominio, la guerra era continua e senza pietà. Si calcola che l’87% delle società primitive facessero più di una guerra all’anno e il 65% fosse continuamente in guerra, perdendo in media il 50% della popolazione fra attacchi, difese e rappresaglie. Questo spiega lo stato di spopolazione trovato dagli esploratori quando scoprirono il Nuovo Mondo. Per fare un paragone statistico, se guerre di questo tipo fossero avvenute nell’Occidente del XX secolo, sarebbero scomparse circa due miliardi di persone.
Wade ne trae una precisa conclusione: ossia che "antropologi e archeologi hanno seriamente sottostimato lo stato di guerra permanente tipico delle società primitive, favorendo un pregiudizio contro l’esistenza di guerre preistoriche". Ad esempio, gli studiosi della cultura e del linguaggio primitivi hanno nascosto il fatto che la straordinaria varietà di "dialetti" tuttora esistenti fra i popoli amerindi -in una sola nazione possono esisterne migliaia- è dovuta soprattutto alle continue separazioni interne dovute agli odii e alle conseguenti guerre. Perfino la scoperta di enormi quantità di armi e le tracce di sterminii di massa sono state nascoste al pubblico da ricercatori e studiosi ansiosi di avallare la teoria del "buon selvaggio".
Di conseguenza ora, quando in molti romanzi, film o cartoni animati, ma anche in certi saggi di storia, etnologia e antropologia, leggeremo la solita descrizione dell’incontro tra il civilizzato violento, avido e fanatico, e l’indio pacifico, generoso e tollerante, sapremo cosa pensare di questa falsificazione propagandistica di sapore manicheo.
Da «Corrispondenza romana», 959/02 del 16 settembre 2006
GLORIA ETERNA A FRA’ BARTOLOMEO DE LAS CASAS
Caro Biagio
Attaccati pure alla "corrisdpondenza romana" imperiale - appunto!!! E’ TUTTA ROBA VECCHIA E POCO DEGNA DELLO SPIRITO EU-ANGELICO E DELLA STESSA CULTURA EU-ROPEA!!!
Il discorso è "chiaro"!!! Abbiamo portato la civilta’ ... e trapiantato LA DEMOCRAZIA IN AMERICA .... E CONTINUIAMO A PORTARLA DAPPERTUTTO!!!
SULL’ ESPORTAZIONE DELLA DEMOCRAZIA, e del "buon selvaggio" - nel sito, si cfr.:
e
Grazie. Molti saluti e
W o ITALY!!!
Federico La Sala