Spiritualità per un altro mondo possibile. Nairobi, 2007: Secondo Forum Mondiale di Teologia e Liberazione - di Alex Zanotelli *
[...] Sobrino [...] ha ricordato il dramma dell’Africa, "peccato dell’Europa". Sobrino con forza si è soffermato sull’importanza primordiale delle vittime, che sono lì a svegliarci. "Non ci siamo ancora svegliati dal sonno dogmatico davanti ad una realtà così disumana". Ricordando le recenti parole del cardinal Kaspers: che “la più antica eresia, il docetismo (negare la realtà), è ancora molto presente nelle nostre chiese di Occidente, Sobrino si è chiesto: "Stiamo vivendo docetisticamente?"
Stiamo cioè vivendo nell’irrealtà e negando la disumanizzazione di buona parte dell’umanità? "Io voglio vivere nel reale", ha ripetuto Sobrino, che ha chiesto all’assemblea: “Accettiamo almeno in teoria l’affermazione di Giovanni XXIII, «la Chiesa è la Chiesa dei poveri?»”
E i poveri sono il sottoprodotto dell’impero del denaro (imperium magnum latrocinium, aveva definito Sant’Agostino l’Impero Romano).
L’impero del denaro è oggi costruito sugli idoli che non sono più di legno o di sasso, ma sono il mercato, il profitto a cui si sacrificano milioni di persone. "Gli idoli hanno bisogno di vittime", ha ribadito Sobrino. “E il peso degli idoli è talmente grande che... chi resiste paga”.
Per questo ha ricordato il martirio di Romero, suo grande amico, ma anche quello dei suoi confratelli gesuiti, Ignacio Ellacuria e compagni, trucidati insieme alla cuoca e alla figlia Celina, presenti, nel 1989, (lui è scampato alla morte perchè si trovava in Thailandia).
Mi ha commosso vedere questo uomo fragile ma grande testimone del nostro tempo, sostenere con forza l’aspetto martiriale del confronto con il sistema. Ma ci ha lasciato un monito finale forte: "Ricordatevi che da solo il potere non può salvare il mondo!" Per questo ci ha ammoniti: "Siate umani".
E’ con queste parole che questa variopinta assemblea ecumenica -sono qui presenti tutti i colori dell’umanità- ha chiuso questa sua prima giornata alla ricerca di una spiritualità per chi si sta impegnando per un altro possibile mondo, ma "più vivibile di questo", afferma sempre Sobrino, "di certo senza potere".
* Per il testo completo del resoconto di p. Zanotelli, si cfr., nel sito - qui
Il popolo sofferente e Dio
di Jon Sobrino *
In occasione della celebrazione del XXXIV anniversario dell’assassinio-martirio di monsignor Romero, vogliamo offrire queste riflessioni sulle sue ultime omelie.
Il fine è ciò che dà senso al processo, diceva un grande filosofo. Nel caso di Romero è assolutamente vero: le sue due ultime omelie non furono le “ultime” perché non ne seguirono altre. Furono “ultime” perché in esse, e nei giorni in cui sono state pronunciate, emerse ciò che più profondamente aveva caratterizzato gli ultimi tre anni di Monsignore. E furono “ultime” perché le pronunciò in cattedrale insieme al suo popolo e nell’hospitalito insieme ai malati terminali. Non si può andare oltre il “popolo” e i “poveri”.
Mi soffermerò (...) sulle ultime due omelie del 23 e 24 marzo 1980, richiamandomi anche ad altre dei primi mesi del 1980. Citerò alcuni paragrafi per intero, che dicono di più di tante parole.
L’ULTIMA OMELIA NELL’HOSPITALITO
Il 24 marzo del 1980 monsignor Romero pronunciò la sua ultima omelia nella cappella dell’Ospedale della Divina Provvidenza per i malati di cancro. Nell’hospitalito preparava, di sabato, le sue omelie domenicali sulla base di libri di teologia biblica, di rapporti sulle violazioni dei diritti umani e di tutto ciò che avesse a che fare con la povertà del popolo. E nell’hospitalito, come Gesù sulle rive del lago o nell’orto, pregava il Dio che vede nel segreto.
Il Monsignore circondato da moltitudini, che provava una gioia profonda nello stare con il suo popolo in cattedrale e nei villaggi, quando stava nell’hospitalito era solo e senza sicurezza. Di sera, restava e viveva con il suo Dio.
Le persone più vicine - a pochi metri dalla sua camera - erano donne malate terminali di cancro, tutte povere, e in più tutte prese dalla paura di non sapere cosa ne sarebbe stato dei loro figli. Quelle donne erano il simbolo di molte altre madri di figli morti, scomparsi, torturati, e di un intero popolo sofferente.
Il 24 marzo, alle cinque del pomeriggio, mons. Romero celebrò una messa di anniversario per donna Sarita, nonostante gli avessero consigliato di non farlo perché la messa era stata annunciata sui giornali e poteva quindi rappresentare un segnale per chi volesse ucciderlo. Monsignore insistette per celebrarla e terminò l’omelia con queste parole: «Che questo corpo immolato e questo sangue versato per gli esseri umani ci alimentino per offrire anche il nostro corpo e il nostro sangue alla sofferenza e al dolore, come Cristo, non per noi stessi, ma per dare segni di giustizia e di pace al nostro popolo. Uniamoci allora intimamente nella fede e nella speranza in questo momento di preghiera per donna Sarita e per noi».
Fu in quel momento che echeggiò lo sparo. Il killer pose un amen pasquale alla sua parola. Si era compiuta la sua identificazione con Cristo, la sua offerta a Dio e la sua offerta al suo popolo.
LE ULTIME OMELIE IN CATTEDRALE
Nell’hospitalito si incontravano le radici di Monsignore. Nelle omelie in cattedrale si mostravano i suoi frutti. E non facevano che aumentare la durezza della denuncia, l’esigenza di conversione e il bisogno di aggrapparsi alla speranza. Mons. Romero fece uso del Magistero della Chiesa e fece un uso ancora maggiore del Vangelo di Gesù, portando sempre più nelle omelie i clamori del popolo, che salivano verso il cielo ogni volta più tumultuosi. Non c’è da sorprendersi che le omelie durassero circa un’ora e mezza o anche di più. Ricordiamo i concetti fondamentali.
Come preparava le omelie. Nella sua ultima omelia in cattedrale, Monsignore riferì come avveniva la preparazione e quale fosse la fonte da cui traeva quello che avrebbe denunciato e annunciato: «Chiedo al Signore durante la settimana, mentre vado raccogliendo il clamore del popolo e il dolore per tanto crimine, l’ignominia di tanta violenza, che mi dia la parola opportuna per consolare, per denunciare, per esortare al pentimento e, per quanto continui ad essere una voce che grida nel deserto, so che la Chiesa sta cercando di compiere la sua missione».
L’accusa di “mettersi in politica”. Nei confronti della maggior parte dei suoi fratelli vescovi, Monsignore visse una forte tensione, per varie ragioni. Un motivo importante era dato dalla loro insistenza sul fatto che la Chiesa non dovesse occuparsi di politica. Monsignore sapeva bene che il problema era un altro: il problema era non seguire una politica di destra. In questo senso, in maniera pubblica e consapevole, monsignor Romero, nelle sue omelie, “si mise in politica”. Lo fece con estrema chiarezza quando analizzò i tre progetti nati dopo il colpo di Stato del 15 ottobre 1979. Condannò il progetto dell’oligarchia, in cui non vedeva nulla di buono. Al progetto della democrazia cristiana richiese il controllo della repressione o l’uscita dal governo. Maggiore speranza ripose nel progetto popolare, soprattutto se le forze popolari si fossero unite e non avessero assolutizzato la loro ideologia. Ma le condannò ogni qualvolta commettevano ingiuste azioni violente.
Nell’omelia del 23 marzo Romero si difese: «Lo so che molti si scandalizzano per questa parola e vogliono accusarmi di aver abbandonato la predicazione del Vangelo per mettermi in politica, ma io non accetto questa accusa, anzi faccio uno sforzo perché tutto ciò che il Concilio Vaticano II e gli incontri di Medellín e di Puebla hanno voluto promuovere non resti solamente sulla carta come oggetto di studio teorico, ma venga vissuto e tradotto in questa realtà conflittuale in maniera da predicare come si deve il Vangelo per il nostro popolo».
La verità senza compromessi: la denuncia. Monsignore disse sempre la verità. Non occultò nulla. Né cadde nella tentazione di dissimularla appellandosi al politicamente corretto. In quella situazione, la verità risuonò con più forza nella denuncia. E con parole piene di onestà, parole tipiche di Monsignore, spiegò che bisognava cominciare da casa propria. «Chiunque denunci deve accettare di venire a sua volta denunciato e, se la Chiesa denuncia le ingiustizie, deve lei stessa essere disposta ad ascoltare le denunce nei suoi confronti e obbligata a convertirsi... I poveri sono il grido costante che denuncia non solo l’ingiustizia sociale, ma anche la scarsa generosità della nostra Chiesa» (Omelia del 17 febbraio 1980).
Ricordiamo alcune denunce di mons. Romero, in forza della credibilità che emerge da queste parole, sulla base di una verità senza compromessi. Le pronunciava con un’immensa tenerezza nei confronti delle vittime, e senza odio - e con un difficile amore - per i loro carnefici.
Monsignore attribuì all’oligarchia la responsabilità ultima dell’oppressione e della repressione nel Paese, come pure della guerra incombente. «Rivolgo un appello all’oligarchia: non idolatrate le vostre ricchezze, non le conservate lasciando che altri muoiano di fame» (Omelia del 6 gennaio 1980).
Denunciò le forze armate, i corpi di sicurezza, gli squadroni della morte e la Giunta di governo come responsabili della repressione: «La Giunta di governo deve ordinare, in maniera efficace, la cessazione immediata di tanta repressione indiscriminata, perché anche la Giunta è responsabile del sangue e del dolore di tanta gente. Le Forze Armate, soprattutto i corpi di sicurezza, devono abbandonare questo accanimento e questo odio nei confronti del popolo; devono dimostrare con i fatti che sono a favore delle maggioranze e che il processo avviato è di carattere popolare. Essendo voi, o molti di voi, di estrazione popolare, l’esercito dovrebbe essere al servizio del popolo. Non distruggete il popolo, non siate voi i promotori di maggiori e più dolorose esplosioni di violenza a cui un popolo represso potrebbe giustamente rispondere» (Omelia del 20 gennaio 1980).
«Come pastore, sento di avere un dovere nei confronti delle organizzazioni politiche popolari», diceva Monsignore. Ma egli le mise ripetutamente in guardia rispetto ai pericoli che correvano e, quando fu necessario, le denunciò. «A queste organizzazioni popolari e, soprattutto, a quelle di carattere militare e guerrigliero, di qualunque segno esse siano, chiedo che cessino anch’esse questi atti di violenza e di terrorismo» (Omelia del 20 gennaio 1980).
«Cari fratelli, le rivendicazioni del popolo sono assolutamente giuste e bisogna continuare a promuovere la giustizia sociale e l’amore per i poveri, ma per questo, se veramente amiamo il popolo e cerchiamo di difenderlo, non possiamo privarlo di ciò che è più prezioso: la sua fede in Dio, il suo amore per Gesù Cristo, i suoi sentimenti cristiani» (Omelia del 10 febbraio 1980).
«È urgente che le organizzazioni popolari maturino per poter compiere la loro missione di arrivare a essere interpreti della volontà del popolo» (Omelia del 24 febbraio 1980). «Non dobbiamo tacere i peccati, neanche quelli della sinistra, ma essi sono sproporzionatamente minori rispetto alla violenza repressiva» (Omelia del 9 marzo 1980).
Una nuova Chiesa di poveri e perseguitati. È questa che costruì mons. Romero. «Per il fatto di difendere il povero, la Chiesa è entrata in un grave conflitto con i potenti delle oligarchie economiche» (Discorso di Lovanio, 2 febbraio 1980). Prima ancora aveva detto con impressionante eloquenza: «Sono contento, fratelli, che la nostra Chiesa sia perseguitata proprio per la sua opzione preferenziale per i poveri» (Omelia del 15 luglio 1979). «Sarebbe triste se, in un Paese in cui si sta uccidendo in maniera tanto orribile, non annoverassimo tra le vittime anche i sacerdoti. Essi sono la testimonianza di una Chiesa incarnata nei problemi del popolo» (Omelia del 24 giugno 1979).
La dignità delle vittime. Praticamente all’inizio del suo ministero, il 19 giugno 1977, monsignor Romero consolò i contadini di Aguilares con queste parole inaudite: «Voi siete il Divino Trafitto», «il Cristo crocifisso». E poco prima di venire lui stesso assassinato, le tornò a ripetere, con ancora più vigore: «Ogni essere umano è figlio di Dio e ogni essere umano ucciso è anche lui un Cristo sacrificato che la Chiesa venera» (Omelia del 2 marzo 1980). E di questo popolo crocifisso, in uno slancio evangelico, Monsignore disse: «Con questo popolo non costa nulla essere un buon pastore» (Omelia del 18 novembre 1979).
Non conosciamo molti vescovi che parlano così. Di certo, non nelle Chiese del mondo del benessere, e pure nel cosiddetto Terzo Mondo sono andati diminuendo. Grazie a Dio, don Pedro Casaldáliga resta imperturbabile. E ancora risuona l’eco di Christophe Munzihirwa, arcivescovo di Bukavu, assassinato nel 1996, che difese centinaia di migliaia di rifugiati e denunciò, in maniera esplicita, le potenze straniere.
LA DENUNCIA FINALE: «CESSI LA REPRESSIONE»
Solo nel gennaio e nel febbraio del 1980, prima ancora che scoppiasse la guerra, c’erano stati più di 600 morti. Il 16 marzo Romero dichiarò: «Nulla m’importa tanto quanto la vita umana». E una settimana dopo, il 23 marzo, in un lungo paragrafo, meditato e ben pensato, pronunciò queste parole memorabili: «Vorrei fare un appello in maniera speciale agli uomini dell’esercito e, concretamente, alla base della Guardia Nazionale, della polizia e delle caserme. Fratelli, siete del nostro stesso popolo, uccidete i vostri stessi fratelli contadini, e di fronte all’ordine di uccidere dato da un essere umano deve prevalere la legge di Dio che dice: “Non uccidere”. Nessun soldato è obbligato a obbedire a un ordine contro la legge di Dio. Una legge immorale nessuno è tenuto a rispettarla. È ormai tempo che voi recuperiate la vostra coscienza e che obbediate prima alla vostra coscienza che all’ordine del peccato. La Chiesa, impegnata nella difesa dei diritti di Dio, della legge di Dio, della dignità umana, della persona, non può restare in silenzio di fronte a tanto abominio. Vogliamo che il governo prenda sul serio il fatto che a nulla servono le riforme se sono così macchiate di sangue. In nome di Dio, allora, e in nome di questo popolo sofferente, i cui lamenti salgono fino al cielo ogni giorno più tumultuosi, vi supplico, vi prego, vi ordino in nome di Dio: cessi la repressione!».
«In nome di Dio e in nome di questo popolo sofferente»: sono parole che non si erano mai sentite prima e che non si sarebbero più sentite dopo. Il fragoroso applauso dei fedeli, mai ascoltato prima e mai più ripetuto in seguito, fu l’amen del popolo.
LA SPERANZA FINALE: “SE IL CHICCO DI GRANO NON MUORE...”
Monsignor Romero affrontò consapevolmente l’idea di una morte violenta. Durante il suo ultimo ritiro, iniziato il 25 febbraio, scrisse: «Mi costa accettare una morte violenta, che in queste circostanze è molto probabile». E nella sua ultima omelia all’hospitalito accettò la morte. «Chi vuole allontanare da sé il pericolo, perderà la sua vita; al contrario, chi si offre, per amore di Cristo, al servizio degli altri, vivrà come il chicco di grano che muore, ma solo apparentemente muore. Se non morisse, rimarrebbe solo» (Omelia del 24 marzo 1980).
Pochi giorni prima, disse a un giornalista queste parole memorabili (alcuni si chiedono se il testo sia di Romero. Non sono in grado di rispondere. Posso solo dire che per le parole, i concetti e il pathos, il testo riflette splendidamente il monsignor Romero degli ultimi giorni): «Sono stato spesso minacciato di morte. Devo dirle che, come cristiano, non credo nella morte senza risurrezione. Se mi uccidono, risorgerò nel popolo salvadoregno. Lo dico senza nessuna presunzione, con la più grande umiltà. Come pastore sono obbligato per mandato divino a dare la vita per quelli che amo, che sono tutti i salvadoregni, anche per coloro che potrebbero assassinarmi... Lei può dire, se arrivassero a uccidermi, che perdono e benedico coloro che lo faranno» (Intervista a El Diario de Caracas, marzo 1980).
* Adista Documenti n. 15 del 19/04/2014
La santità primordiale
di Jon Sobrino (Adista Documenti n. 33 del 28/09/2013)
I. NELLE SITUAZIONI LIMITE
Nella decisione primaria, personale e di gruppo, di vivere e di dare vita, così come appare in occasione di talune atrocità storiche e catastrofi naturali, si rende - si può rendere - presente qualcosa che possiamo definire santità primordiale.
1/ Africa
Nel 1994 apparvero sui nostri teleschermi carovane di migliaia di donne che fuggivano dal genocidio in Rwanda e camminavano verso il Congo con i bambini aggrappati alle mani e con la casa - ciò che di essa rimaneva - dentro ceste sopra la testa. Camminavano insieme, le une con le altre, come sorreggendosi l’una con l’altra. Sui loro volti appariva la distanza infinita rispetto a ciò che sono le nostre vite, alterità che imponeva un silenzio totale e per esprimere la quale penso non vi siano parole adeguate. Tuttavia, dal di dentro, senza ragionarci tanto, mi sono uscite le parole che danno il titolo a quest’articolo: la santità primordiale. Si rendevano presenti ultimità, eccezionalità e capacità di salvezza.
Il luogo. Detto con sommo rispetto, l’Africa è nella nostra epoca uno dei luoghi in cui appare con maggior forza questa santità primordiale. Normalmente ciò appare in televisione e nei racconti di coloro che lì hanno vissuto. In Mozambico, durante le inondazioni di alcuni anni fa, si potevano vedere esseri umani in preda a una totale disperazione e nello stesso tempo con una speranza incrollabile mentre levavano le loro mani verso elicotteri che potevano soccorrerli. In Biafra, Etiopia, Somalia, spesso si vedono madri con bambini famelici, e moltitudini di uomini e donne condannati alla morte per AIDS. Da carceri e campi profughi arrivano racconti di incredibile miseria e crudeltà. E altrettanto impressionante è la loro lotta per la vita.
In tutto ciò si rende presente l’enigma dell’iniquità, espressione che preferiamo a quella di mysterium iniquitatis (riserviamo il termine "mistero" per riferirci alla realtà del bene. Almeno nel linguaggio vogliamo interrompere una totale simmetria tra il bene e il male). E simultaneamente si rende presente l’anelito e la volontà di vivere - e di convivere gli uni con gli altri - in mezzo a grandi sofferenze, fatiche, per tirare avanti con creatività, resistenza e. fortezza senza limiti, sfidando ostacoli immensi. In ciò appare la dignità delle vittime e la solidarietà tra di loro. L’abbiamo chiamata santità primordiale .È il mysterium salutis. Soggettivamente questa realtà mette paura e fa tremare. Ma può produrre fascino e incanto. Ricordiamo le parole di Rudolf Otto: il sacro è fascinans et tremendum. Di conseguenza, là dove sperimentiamo qualcosa che affascina e che atterrisce siamo di fronte a ciò che possiamo chiamare sacro. Tale sacralità primordiale appare prevalentemente in situazioni-limite di esseri umani che sono poveri e vittime. A noi che non siamo poveri né vittime non viene facile, né credo sia possibile, comprendere pienamente questa santità, anche se, spero, possiamo dire qualche parola sensata su di essa.
E si dà a conoscere a noi come dono. Non c’è stato bisogno di scoprire una santità primordiale per fare di necessità virtù, affinché la ragione potesse trovare un po’ di quiete. Lo affermiamo perché è così, ci è stato dato. A coloro che hanno lo sguardo pulito si impone. L’esperienza ha, dunque, una dimensione di grazia: la realtà si lascia vedere.
Infine, la santità primordiale porta salvezza. Può essere soltanto un debole assioma, ma penso che ogni santità salva. Se e come la santità primordiale salva poveri e vittime solo loro lo sanno, ma a noi che siamo quelli di fuori porta salvezza: ci può ricondurre a quanto vi è di più originario in noi. E ci può riportare a Dio. Lo proclama in questi termini la testimonianza - ed è una fra le tante - di una religiosa che ha trascorso svariati anni in Africa: «Non è difficile lodare e cantare quando si ha tutto assicurato. La cosa meravigliosa è che coloro che ricostruiscono le loro vite dopo catastrofi e terremoti, e i prigionieri di Kigali che oggi riceveranno le visite dei loro familiari (che con fatica e sudore potranno portare loro qualcosa da mangiare), benedicono e rendono grazie a Dio. Non saranno per caso loro i prediletti e coloro dai quali abbiamo da imparare la gratuità? Oggi ho ricevuto una loro lettera. A volte non ci rendiamo conto di quanto riceviamo da loro e come essi ci salvano».
2/ El Salvador
Abbiamo iniziato dalla lontana Africa, poiché a noi che diamo la vita per scontata e viviamo un qualche grado di benessere l’Africa appare come prototipo di alterità, alterità che in qualche modo è sempre una dimensione della santità. Ma realtà come quella descritta in Biafra, non sempre in un grado così estremo, si verificano anche altrove e in altri tempi.
Nel Salvador è accaduto durante gli anni di repressione e di guerra, dal 1975 al 1992. Vi sono molte storie del tremendum et fascinans: contadini che scappavano di corsa durante la notte, donne con i piccoli in braccio, a cui tappavano la bocca perché non se ne udisse il pianto - e un bambino è morto asfissiato. Tra di loro si rincuoravano a vicenda. Fino a oggi tutto ciò lascia stupefatti. E ci pone davanti a qualcosa di sacro.
Il tremendum et fascinans apparve anche nel terremoto del gennaio 2001, seguito da un altro nel febbraio dello stesso anno, nei dintorni della città di Santa Tecla, luogo dove io risiedo. La morte a causa dei crolli, la distruzione di abitazioni, il dover vivere esposti alle intemperie, ha prodotto un orrore tremendo. E l’ingiustizia sfacciata ha prodotto indignazione: il terremoto colpì immensamente di più i poveri di sempre anziché coloro che possono edificare con materiale adeguato. Il Salvador, come il Terzo mondo nel suo insieme, non è adeguato per la vita delle maggioranze povere (solo un dato: nel terremoto morirono più di 1.250 persone. Un esperto ha calcolato che in Svizzera un terremoto delle stesse dimensioni sismologiche avrebbe causato il decesso di cinque o sei vittime al massimo).
E apparve nuovamente la santità primordiale. Donne con quel che poterono salvare, sempre pronte a prendersi cura della vita, cucinavano e condividevano. Uomini, sempre pronti quando la vita richiede vigore fisico, smuovevano montagne di terra e si davano da fare per recuperare cadaveri e persone rimaste sotterrate. Apparve la tragedia e l’incanto dell’umano.Ho pubblicato in quell’occasione alcune riflessioni, che possono sembrare superflue in tempi di normalità e scomode in contesti di abbondanza dove la vita si dà per scontata e quando gli effetti delle catastrofi si riparano con relativa celerità. Mi sembrano necessarie, e spero che possano dare un po’ di luce.
E non voglio terminare questa parte introduttiva senza segnalare che, in situazioni-limite, la santità primordiale può dare molto e può raggiungere altezze insospettabili. Massimiliano Kolbe, in un campo di concentramento, ne è un esempio eminente.
II. LA SANTITÀ PRIMORDIALE NELLA VITA QUOTIDIANA
Abbiamo descritto la santità primordiale così come appare in situazioni-limite, ma si dà anche, come si può sperare, nella vita quotidiana della gente povera e semplice. Per molti esseri umani questo è il modo abituale di vita. E ciò avviene in gradi diversi all’interno di una gamma molto ampia.
Ci sembra importante evidenziarlo. Circa 925 milioni di persone soffrono la fame, e nei Paesi poveri muoiono ogni anno circa 11 milioni di bambini al di sotto dei cinque anni. Esistono popoli depredati come il Congo o ignorati come Haiti. Negli ultimi quindici anni in Centroamerica si è sviluppata un’ondata di omicidi che è diventata come un’epidemia: la malattia che produce il maggior numero di morti.
Queste immense moltitudini sono gli anawim della Bibbia. Vivono ricurvi sotto un pesante carico e non danno la vita per scontata. E sono gli oppressi, gli emarginati e i disprezzati, i pubblicani e le prostitute. Vivono nei bassifondi e ai margini della società.
Credo tuttavia che poche volte la teologia si sia chiesta quale eccezionalità abbia la vita di queste moltitudini. Ciò è stato fatto in America latina, tra gli altri con Ignàcio Ellacuría, Pedro Trigo e Puebla. Vediamo come.
Nel Salvador, Ignacio Ellacuría ha definito le maggioranze popolari “popolo crocifisso”. Storicamente è «quella collettività che forma la maggioranza dell’umanità e deve la sua situazione di crocifissione a un ordinamento sociale promosso e sostenuto da una minoranza che esercita il dominio grazie a un insieme di fattori, i quali, essendo interconnessi e data la loro concretezza storica, devono ritenersi come peccato». La citazione fa riferimento a Gesù di Nazareth, grazie al quale si attribuisce eccezionalità cristiana al popolo crocifisso. E sub specie contrarii, a partire dal peccato che dà morte, la citazione esprime la ultimità che è presente in queste maggioranze.
In un altro testo, con riferimento al Concilio Vaticano Il, Ellacuría ha affermato teologicamente che «il popolo crocifisso è sempre il segno dei tempi». Caratterizza il nostro mondo (cfr GS 4) ed è luogo della presenza di Dio (cfr GS 11). «E la continuazione storica del servo di Yhwh, a cui il peccato del mondo continua a togliere ogni apparenza umana e che i poteri di questo mondo continuano a spogliare di tutto, continuandogli a strappare perfino la vita, soprattutto la vita». E il popolo crocifisso, come il servo sofferente di Yhwh, porta salvezza.
Ellacuría ha insistito sulla negatività del peccato che dà morte. Tuttavia, la grande novità che egli afferma è che il popolo crocifisso porta salvezza. L’affermazione è così scandalosa che solo «in un difficile atto di fede il cantore del servo è capace di scoprire ciò che appare come tutto il contrario agli occhi della storia». In questo modo Ellacuría riconosceva eccezionalità alla vita e al destino delle maggioranze popolari. In esse emerge una santità primordiale.
Pedro Trigo, dopo molti anni trascorsi in Venezuela, in una realtà difficilissima per le maggioranze, anche se non caratterizzata da una violenza così funesta come quelle che abbiamo ricordato, a partire dalla convivenza con la gente povera e semplice, scrive: «Al livello minimo dell’umano si dà il passaggio pasquale del Dio di Gesù Cristo per la Nostra America». È un testo magnifico per comprendere la santità primordiale vissuta quotidianamente e durevolmente. (...).
A Puebla, nel 1979, i vescovi dissero cose nuove e importanti sulle maggioranze del continente. Le ricordiamo, poiché purtroppo quelle cose sono andate perdendo di vigore. E perché, tenendo conto del tema di questo articolo, sono precorritrici nel proclamare l’eccezionalità della vita dei poveri. (...).
Puebla mostra compassione per i poveri ed esige dai cristiani di metterla in pratica: è l’opzione per i poveri. Ma poi si concentra sulla eccezionalità di vita di questi poveri, cosa che fa in due modi. In primo luogo, i poveri sono amati da Dio, senza condizioni, «qualunque sia la situazione morale o personale in cui si trovano». E lo spiega. «Fatti a immagine e somiglianza di Dio, per essere suoi figli, questa immagine è stata offuscata e persino oltraggiata. Per questo motivo Dio prende le loro difese e li ama» (n. 1142) (vorrei richiamare l’attenzione sul «prendere la loro difesa». È una forma di amore molto particolare. Comporta entrare in conflitti storici e rischiare privilegi, onorabilità e vita. Implica disponibilità cosciente e attiva a subire il martirio. In America Latina la storia lo mostra chiaramente. E mostra anche che non si ammazza chi solamente ama i poveri: si ammazza chi prende le loro difese). In secondo luogo, i poveri possiedono un «potenziale evangelizzatore» e «molti di essi realizzano nella loro vita i valori evangelici di solidarietà, servizio, semplicità e disponibilità ad accogliere il dono di Dio» (n. 1147).
Per quello che sono, amati da Dio incondizionatamente, per quello che hanno, valori evangelici, e per quello che fanno, evangelizzano, nei poveri si rende presente - si può rendere presente - una santità primordiale di grado notevole.
III. SANTITÀ PRIMORDIALE E SANTITÀ DELLE CANONIZZAZIONI
In America Latina teologi e vescovi si sono schierati in difesa dei poveri e inoltre hanno messo in evidenza l’eccezionalità nella loro vita. In altri luoghi non sempre accade che la vita delle maggioranze possa essere intessuta di santità. E, meno ancora, che esse possano portare salvezza. Radici di questa cecità si possono trovare nella Chiesa e nella teologia nei punti di vista tradizionali sulle maggioranze, che in definitiva sono borghesi. Ma ciò può essere dovuto anche al concetto che si ha di “santità”. Credo che normalmente la santità si concepisca nella linea della “perfezione”, quella del Padre celeste.
La santità primordiale, tuttavia, senza escluderlo, va più nella linea di rispondere e corrispondere a un Dio della vita, un Dio di poveri e vittime, un Dio di crocifissi. Se si vuole, a un Dio della creazione, ma in media res, cioè una creazione che si va facendo in mezzo ad atrocità e catastrofi, senza scendere a patti con esse. Vivere, voler vivere e lottare per vivere in questa creazione, non solo per ciò che formalmente vi è di graduale ed evolutivo, bensì per ciò che vi è di contenuto distruttivo, può essere un modo per comprendere la santità primordiale.
Questa visione della santità facilita la scoperta di forme di santità nelle maggioranze. Ciò che capita è che, coscientemente o meno, per approvare o per protestare, ancora vediamo l’analogatum princeps della santità in ciò che viene riconosciuto nei processi di canonizzazione. È bene riconoscere ufficialmente l’eccezionalità di cristiani come Francesco di Assisi e Charles de Foucauld, e di cristiane come Giovanna d’Arco e Teresa di Gesù. Ma è importante tenere conto che questo riconoscimento ignora altre forme di eccezionalità di vita.
A differenza della santità convenzionale, della santità primordiale non ci si domanda ancora ciò che vi è in essa di libertà o di necessità, di virtù o di obbligo, di grazia o di merito. Non ve n’è motivo, poiché non è la santità che si accompagna a virtù eroiche, ma quella che si esprime in una vita quotidianamente eroica. Non sappiamo se i poveri e le vittime sono santi intercessori per smuovere Dio - il che non è possibile né necessario -, ma hanno forza per smuovere il cuore. Non fanno miracoli, intesi come superamento delle leggi della natura (per la canonizzazione se ne richiedono due per i confessori e uno per i martiri), con cui i canonizzati rinviano a un Dio-potere infinitamente al di sopra dell’umano. Però fanno miracoli che violano le leggi della storia: il miracolo di sopravvivere in un mondo ostile. Con ciò rimandano a un Dio con uno spirito capace di mantenere l’anelito a vivere, e anche a un Dio senza potere, alla mercé della volontà degli esseri umani, come diranno i teologi.
La santità primordiale ha una logica diversa da quella della santità convenzionale. E diverse sono le sue conseguenze. Poveri e vittime non esigono imitazione, a cui, secondo la dottrina ufficiale, i santi possono invitare. E i santi primordiali rare volte ottengono che qualcuno li imiti: l’imitazione, piuttosto, è rifuggita quasi da tutti. Però dove c’è bontà di cuore, essi generano invece un sentimento di venerazione e il voler vivere in comunione con loro.
Non prendendo sul serio la santità primordiale, le canonizzazioni ufficiali comportano pericoli che si dovrebbero evitare.
1) Le canonizzazioni possono aumentare la distanza tra i santi e i comuni mortali, compresi i santi primordiali. Allora si cade nell’elitarismo e si considerano i poveri e i semplici, con i loro difetti e con le loro virtù, cristiani ed esseri umani di infima categoria, atteggiamento questo che sicuramente non si può far risalire a Gesù di Nazareth. I santi canonizzati possono trasformarsi in oggetto di ammirazione e di culto, però possono cessare di essere nostri fratelli e sorelle, distanziandosi così da Gesù, il quale «non si vergogna di chiamarci fratelli» (Eb 2,11).
2) Le canonizzazioni possono portare a una disistima verso i comuni mortali, se non al disprezzo. In epoche passate si sono disprezzati esseri umani di inferiore, neri e indigeni, che non potevano ricevere ministeri ecclesiastici. I modi cambiano, ma può persistere un disprezzo larvato verso i laici, specialmente verso le donne. E questo può essere favorito dall’entusiasmo elitario di fronte a santi irraggiungibili.
3) I santi canonizzati possono intercedere e far sì che Dio ci conceda favori, ma non consiste in questo il nocciolo della santità. Dio non ha bisogno che alcuno lo spinga ad amare gli esseri umani, tanto meno i poveri: ne va del suo essere Dio. Ciò di cui invece ha bisogno per rendersi presente nella storia sono i sacramenti, esseri umani che lo rendano visibile e tangibile nella sua vicinanza salvatrice. Sacramenti suoi possono esserlo tutti gli esseri umani. Gesù è il sacramento principale. Lo sono anche Agostino di Ippona e monsignor Romero.
4) E possono esserlo sia santi canonizzati sia santi primordiali. Nei noti versi di César Vallejo:«L’uomo della lotteria che grida: “Comprate un biglietto per pochi soldi” contiene un non so che di Dio». Nel Medioevo i poveri venivano chiamati “vicari di Cristo”. La signora Rufina di El Mozote è Emmanuel, “Dio con noi”.
5) Il più grande pericolo dell’elitarismo non consiste nell’eccedenza, quando si innalzano i santi fino ad altezze infinite, come appare nelle antiche vite dei santi, con i loro miracoli, le loro apparizioni. Bensì nel non raggiungere quegli esseri umani di cui parla Pedro Trigo, non abbassarsi per vedere i “santi primordiali” là dove sono.
6) Da ultimo, aver presente la santità primordiale può umanizzare i processi di canonizzazione e sanarne i limiti, molte volte evidenti. Vi è un sensus fidei e un senso comune che non si lasciano sottomettere a canoni, norme, misure, e da qui le resistenze alla canonizzazione del fondatore dell’Opus Dei, o al “santo subito” dopo la morte di Giovanni Paolo II. E da qui il rimanere senza parole perché monsignor Romero continua a restare impigliato nelle norme per la canonizzazione. Per cui non gli si può dedicare culto pubblico, quando l’amore che la gente ha per lui è più commovente di qualsiasi culto. Esternarlo è qualcosa che esce dal profondo del cuore.
Nel XIII secolo è stato ragionevole cercare norme di canonizzazione per dichiarare l’eccezionalità di una vita cristiana ed evitare abusi. È evidente che oggi è necessaria una maggiore creatività. E la ragione fondamentale non è perché così sarà possibile “canonizzare” monsignor Romero, ma perché sarà più naturale riconoscere l’eccezionalità e ringraziare le maggioranze povere e semplici di questo mondo, gli emigranti del Congo, le madri dei desaparecidos, coloro che lottano contro l’AIDS. Sarà più possibile ascoltare da essi una parola d’incoraggiamento e poterci rivolgere a loro con una parola di ringraziamento.
IV. «ALLAH NON È MICA OBBLIGATO»: I BAMBINI-SOLDATO
Di fronte alle carovane del Rwanda erompe una parola. Altre volte non esce parola alcuna. Nel 2005, in un Congresso per la pace, Melquisedek Sikuli, vescovo di Butembo (Repubblica Democratica del Congo), pronunciò una relazione dai toni forti. Enumerò i gravissimi problemi del suo Paese, la miseria quotidiana e l’ingiustizia strutturale. Approfondì le conseguenze terribili delle guerre nella regione: profughi, donne violentate, villaggi saccheggiati. Ricordò il colonialismo che continua a essere responsabile dell’invio di armi. Alla fine, interrompendo la litania delle denunce, terminò con «il dramma dei bambini-soldato»: «Quando non si ha nessuno al mondo né padre, né madre, né sorella, e se si è ancora un bambino, in un Paese rovinato e barbaro, dove tutti si ammazzano, che si fa? Si comincia a essere bambino-soldato per mangiare e ammazzare: è tutto ciò che ci rimane».
Di fronte a tale dramma resta solamente il silenzio. Parlare di “santità primordiale” suonerebbe blasfemo. Ma può anche accadere che di fronte ai bambini-soldato ci sentiamo sulla soglia di uno spazio sacro. Il vescovo Sikuli ha oltrepassato la soglia. E ha lasciato parlare Dio: Allah non è mica obbligato, disse, utilizzando il titolo di un libro di Ahmadou Kourouma.
Non vi è un concetto adeguato che lo racchiuda né parola adatta per parlare di questi bambini-soldato. Il dramma è evidente. Si possono conoscere le cause e si possono condannare i colpevoli. Ma sulla realtà in se stessa non si sa che dire. È un caso limite della tragedia dei poveri, del loro “voler vivere”.
Tuttavia, possiamo fare una riflessione teologale. Non possiamo dire una parola sull’enigma-mistero dei bambini-soldato, ma ci rimane sempre, come ultima riserva, il mettere mano al mistero di Dio. Così ha fatto il vescovo Sikuli: «Dio non è contento». Questo lo possono fare i credenti. I non credenti potranno mettere mano ad altre cose per loro ultime e formularlo con altre parole. Ma ciò che è fondamentale può aiutare tutti: «Qualcuno, Qualcosa, non è contento».
E possiamo fare anche un’altra riflessione sulla salvezza. Forse solo questa. In un mondo che vive distante dalle molte afriche, senza empatia, per la maggior parte indifferente e ignaro delle tragedie umane, che reagisce con ritardo e senza una volontà adeguata all’enormità di queste tragedie, forse i bambini-soldato potrebbero fare in modo che noi superiamo la banalizzazione dell’esistenza e trabocchiamo invece di compassione e giustizia.
Di fronte ad alcune realtà di importanza decisiva possono sorgere parole che vanno oltre le convenzioni, parole paradossali, scioccanti. Sono parole insostituibili e non intercambiabili. Esempio risaputo è il passo di Dostoevskij ne L’idiota: «La bellezza salverà il mondo». Oppure, il tema di un libro di J.I. Gonzàlez Faus: «Vicari di Cristo? I poveri».Anche in America Latina si dice questo; tipo di parole. «Tutto è relativo, meno Dio e la fame», sentenzia dom Pedro Casaldáliga. Monsignor Romero un mucchio di volte disse frasi lapidarie: «Questo è l’impero dell’inferno»; «Su queste rovine brillerà la gloria del Signore», «La gloria di Dio è il povero che vive». Ignacio Ellacuría ha ripetuto sino alla fine della sua vita che «solo la civiltà della povertà potrà superare questa civiltà della ricchezza che ha prodotto una società gravemente malata».
Sulla scia di questi visionari, e con molta modestia, abbiamo scritto che «fuori dai poveri non c’è salvezza». In quest’articolo sosteniamo di riconoscere con gratitudine «la santità primordiale» dei poveri, dei semplici e delle vittime.
[Jon Sobrino]
«Non sono solo e neppure cammino libero da solo»
Jon Sobrino, il teologo ammonito da Roma, si trova a Bilbao.
PD/Efe Mercoledì , 13 giugno 2007 *
Il teologo gesuita di Bilbao Jon Sobrino, ha affermato oggi in Bilbao che non si considera affatto speciale, ma nella norma, e, perciò, " non mi sento affatto isolato, e nepure mi metto solo nel cammino, perchè lungo questi 30 anni ho sempre camminato assieme a moltissime persone e molte persone seguono gli stessi sentieri."
Sobrino, che si trova a Bilbao per visitare la sorella e fare una conferenza dal titolo:"Fuori dei poveri non c’è salvezza" , rispose in una conferenza stampa all’invito che ieri gli fece il vescovo di Bilbao, Riccardo Blàsquez, affinchè "Ripensasse quello che gli ha detto la Santa Sede, perchè "è molto meglio camminare umilmente nell’unità e comunione di fede, che andarsene come un sublime isolato".
Il teologo gesuita, ammonito in dicembre dell’anno scorso dal Vaticano per considerare certe sue opinioni sull’umanità e divinità di Gesù Cristo non sono conformi alla dottrina della Chiesa, rispose al prelato di Bilbao: " umilmente tutti dobbiamo camminare dall’ultimo sacrestano fino al Vescovo di Roma".
Sobrino, che fu amico e lavorò con il gesuita basco Inazio Ellacuría in El Salvador, dove fu assassinato da militari dell’esercito durante la guerra civile che il paese centro-americano visse nella decada degli anni 80, manifestó anche di comprendere quello che dice Blázquez, ed affermò di non avere nessun problema per parlare con il vescovo di Bilbao, del quale si considera amico, per spiegargli "un pò di più"’ le sue posizioni teologiche e "chiedergli : che cosa ne pensa lei ,monsignore".
"Quanto a dire che cammino isolato se si intende che io debba essere umile e non superbo per ascoltare ciò che gli altri dicono, devo dire che io ho ascoltato durante tantissimi anni ciò che altri teologi ed anche gerarchi della chiesa dicono di me ed ho risposto a loro". "Roma ed i vescovi hanno una responsabilità formale, ma c’è anche il mondo della teologia, delle università e, per me, il più importante è il mondo delle persone, perchè a me quello che più spiacerebbe sarebbe se la cuoca della mia casa non potesse fidarsi di me o di noi, perchè dietro a tutto ciò ci sono molte maniere di camminare con gli altri".
Sobrino manifestó anche che ’il problema non è la Teologia della Liberazione, perchè molto prima che esistisse la Teologia della Liberazione, Gesús di Nazaret divennne pazzo con le beatitudini e con Matteo 25’.
Dopo aver avvertito che "il destino delle cose non dipende dal destino delle parole" affermò che "molto prima che esistisse la parola Teologia della Liberazione, esisteva la parola dell’Esodo dove Dio disse: "Ho visto un popolo oppresso, ho ascoltato le grida che gli strappano gli aguzzini " e continua dicendo una parolina così : " e sono disceso per liberarlo".
Richiesto della sua opinione al riguardo dell’attuale situazione di minaccia dell’ ETA di ritornare agli attentati terroristici, Sobrino manifestò che ’anche se i contesti di violenza nelle Terre Basche e quelli che io ho vissuto in El Salvador siano distinti , in ogni caso ciò che si deve fare è cambiare trasformando tutto in umanitarismo ed utopie " nel chiedere perdono, ricevere il perdono e lasciarsi perdonare" .
* IL DIALOGO, Venerdì, 15 giugno 2007
Deporre i poveri dalla croce: cristologia della liberazione
di ADISTA *
Importante iniziativa di Adista che ha tradotto e messo a disposizione gratuitamente il libro "Deporre i poveri dalla croce: cristologia della liberazione" edito dalla Commissione Teologica Internazionale della ASETT, Associazione Ecumenica dei Teologi/ghe del Terzo Mondo, in risposta alla notificazione vaticana sulle opere di Jon Sobrino.
Care lettrici, cari lettori,
segnaliamo un’importante novità sul nostro sito. Si può leggere finalmente anche in italiano, scaricandolo gratuitamente dalla home page di www.adista.it, il libro digitale "Bajar de la cruz a los pobres: cristología de la liberación" ("Deporre i poveri dalla croce: cristologia della liberazione") della Commissione Teologica Internazionale della ASETT, Associazione Ecumenica dei Teologi/ghe del Terzo Mondo.
La traduzione italiana, curata da Adista, dell’originale spagnolo (che, insieme alla traduzione in inglese, è disponibile agli indirizzi www.eatwot.org/TheologicalCommission e http://www.servicioskoinonia.org/LibrosDigitales) è presentata dal teologo Carlo Molari e presenta due contributi in più: di Aloysius Pieris e dello stesso Molari (è possibile leggere l’originale )
Il libro della Asett è la risposta di circa 40 teologi della liberazione alla Notificazione vaticana sulle opere di Jon Sobrino (autore dell’epilogo del libro), ma non solo: è una difesa, appassionata e potente, della cristologia della liberazione, quella che Leonardo Boff, nel prologo, definisce "una teologia militante che lotta per ’far scendere dalla croce i poveri’".
È questa voce potente quella che è oggi offerta anche al pubblico italiano, attraverso un nuovo metodo che l’Asett ha voluto sperimentare: quello di un libro digitale, libero e gratuito, che, scrive José María Vigil, coordinatore della Commissione Teologica Internazionale della Asett/Eatwot, "può essere regalato e inviato da chiunque per posta elettronica e che potrà anche essere stampato su carta mediante il procedimento della "stampa digitale", un metodo che permette di stampare su carta quantità minime di esemplari (5, 10, 20...), a un prezzo praticamente uguale a quello di un libro normale".
Per scaricare il libro, clicca qui
* IL DIALOGO, Mercoledì, 06 giugno 2007
IL TEOLOGO JOSÉ CASTILLO LASCIA LA COMPAGNIA DI GESÙ.
PER "IGIENE MENTALE" *
33930. GRANADA-ADISTA. “Mi sento felice, sono in pace, e ho ora più speranze che mai. Continuerò a lavorare al mio compito, il compito del Vangelo. Per questo sono uscito dai gesuiti. Perché vedo che, così come sta oggi la Chiesa, se si è intrappolati, controllati, censurati in una istituzione dominata dalla Curia Vaticana, non si può godere della libertà indispensabile per far conoscere Gesù. In una simile ‘Chiesa’ non c’è salvezza”.
Così si è espresso il teologo spagnolo José María Castillo, 78 anni, dopo la pubblicazione della notizia del suo abbandono della Compagnia di Gesù, in una lettera ai membri del Comitato Oscar Romero del Cile (pubblicata sul sito della rivista cilena “Reflexión y Liberación”), in risposta a un loro messaggio “di solidarietà, di umanità, di fusione in uno stesso progetto e in una stessa vita”. Era stato il portale Periodista digital, in un articolo apparso il 19 maggio, a rendere nota la decisione del teologo - già raggiunto in passato dai provvedimenti del Vaticano (che, nel 1988, gli revocò l’idoneità all’insegnamento) - di lasciare la Compagnia di Gesù (ma non il sacerdozio), “stanco delle pressioni e degli attacchi del settore più conservatore della gerarchia”. “Castillo - affermava nell’articolo il suo amico e teologo Luis Alemán - vuole recuperare la sua libertà per poter respirare, perché stava soffocando. Non tanto nella Compagnia quanto nel clima attuale della Chiesa spagnola, in cui si sente perseguitato dai vescovi e dai gruppi più conservatori”.
Secondo Alemán, “tre gocce hanno fatto traboccare il vaso”: “la recente ammonizione vaticana a Jon Sobrino, la proibizione della gerarchia alla pubblicazione del libro Espiritualidad para insatisfechos da parte della casa editrice Sal Terrae dei gesuiti, e i continui attacchi che riceveva dal programma di informazione religiosa della emittente radiofonica Cope La linterna de la Iglesia”. “Non se ne va - concludeva - irritato contro la Compagnia. Se ne va per igiene mentale. È un nuovo caso Boff. Come lui, Castillo ha subito talmente tante pressioni da decidere di rompere con tutto per salvaguardare la sua libertà”.
All’interno della Compagnia di Gesù, la voce di Castillo è stata sempre una delle più coraggiose e profetiche. Fino a mettere in discussione la credibilità stessa della Compagnia, la sua fedeltà alla missione di difendere la giustizia nel mondo. Come si può vivere - si interrogava nel 2006 sulle pagine di Promotio Iustitiae (la pubblicazione del Segretariato per la Giustizia Sociale della Curia Generalizia dei gesuiti; v. Adista n. 80/06) - ben integrati nel sistema economico dominante e pretendere di essere credibili nell’impegno di “denunciare, mettere in discussione e modificare questo sistema”? “Se i poteri di questo mondo - sottolineava - ci apprezzano e ci valorizzano, ciò vuol dire che tali poteri non si sentono scomodati, né tanto meno messi in discussione da noi”. (claudia fanti)
La visita del Papa ad Aparecida e gli indios
Risposta del presidente della Conferenza Episcopale dell’Equador
(trad. sintetica di fausto m.)
Un commento
Chissà! Forse Bartolomeo de las Casas si rivolta nella tomba a sentire certe dichiarazioni ufficiali, le quali, invece di "aggiustare il danno", ne fanno uno più grande. Perché non chiedere il parere agli interessati, magari ai 15 milioni di indios sterminati con la spada e con la croce, in soli vent’anni di "evangelizzazione" (1560-1580)? *
APARECIDA, 21.5.2007 (ZENIT.org).- La Chiesa cattolica è stata protagonista della liberazione degli indigeni in America Latina, dice il presidente della Conferenza Episcopale Equadoriana, in risposta alle critiche contro Benedetto XVI.
Mons. Nestor Herrera, vescovo di Machala - secondo l’Agenzia Zenit - fa riemergere la verità storica, rispondendo alle accuse rivolte al papa da Humberto Cholango, presidente della Confederazione dei Popoli della Nazione Kichwa, dell’Equador, che afferma: «Rigettiamo energicamente le dichiarazioni fatte dal sommo Pontefice per quello che si riferisce alla nostra spiritualità ancestrale».
Il papa aveva detto nel discorso di inaugurazione del Celam: «l’utopia di tornare a rivitalizzare le religioni pre-colombiane, separandole da Cristo e dalla Chiesa universale, non sarebbe un progresso, ma un retrocesso. In realtà sarebbe un’involuzione verso un momento storico ancorato al passato». E anche: «La sapienza dei popoli aborigeni li ha felicemente condotti a formare una sintesi tra le loro culture e la fede cristiana che i missionari gli hanno offerto. Da lì è nata una ricca e profonda religiosità popolare, nella quale si evidenzia l’anima dei popoli latino-americani».
Cholango ha approfittato per esprimere la sua solidarietà ai presidenti Evo Morales, della Bolívia, Fidel Castro, di Cuba e Hugo Chávez, del Venezuela. Mons. Nestor replica: questa dichiarazione «non mi stupisce, data l’alienazione politica di questi leaders indigeni. Mi da l’impressione che si pretende dimenticare che la Chiesa cattolica è stata una forza propulsiva della loro liberazione. Questo è molto chiaro in Equador e non solo perché molti membri della Chiesa difendono, con Mons Leônidas Proaño (1910-1988), il diritto dei popoli indigeni di essere padroni del loro destino, ma anche perché gli attuali dirigenti sociali e politici degli indigeni sono stati educati dalla Chiesa. E sono stati appoggiati con lealtà in occasione dei cinquecento anni della loro resistenza. Il Santo Padre parlava ai vescovi da una prospettiva profonda della storia, su un piano teologico, che non trascura di ponderare l’importanza delle "ricche tradizioni religiose" degli antepassati indigeni. Il papa fa risaltare che non c’è stata "l’imposizione di una cultura straniera", perché nessuno può arrivare alla fede attraverso l’imposizione e il vangelo è al sopra delle culture. Lo stesso Santo Padre ha deplorato molte volte le ombre e le ingiustizie del passato. Ma non possiamo vedere soltanto le ombre. Ci sono più luci che ombre, fin dall’inizio dell’evangelizzazione in America, dove l’autentico sentimento cristiano di molti è stato il primo e constante difensore degli indigeni".
* IL DIALOGO, Mercoledì, 23 maggio 2007
LA VERITA’, PILATO, E...
Solidarietà con Jon Sobrino
di Pedro Casaldáliga
Circolare 2007 24 marzo, Pasqua di San Romero *
In totale fraterna comunione con Jon Sobrino, teologo del Dio dei poveri, compagno fedele di Gesù di Nazaret, testimone dei nostri martiri
Cos’è la verità? Chi possiede la verità? Qual è la vera politica? Qual è la vera religione? Queste domande, con toni diversi e provocando a volte sconcerto e indignazione, sono domande universali e quotidiane e non le possiamo evitare, né nella politica, né nella religione. La globalizzazione, se da un lato ci ancora ad un lucro inumano, dall’altro ci offre spazi nuovi di dialogo e convivenza, nella verità condivisa.
La nostra Agenda Latinoamericana Mondiale, in questi anni 2007 e 2008 chiede la vera democrazia e denuncia la falsa politica. Nel 2007 “Esigiamo e facciamo un’altra democrazia”; nel 2008 “La politica è morta, viva la politica”.
Qui in America, in mezzo ad ambiguità, fratture e disillusioni, si sta realizzando una svolta verso sinistra. Ma, in congressi e pubblicazioni, si pongono le domande inevitabili: cos’è la sinistra, cos’è la democrazia, qual è la vera politica, qual è la vera religione, qual è la vera Chiesa?
Non c’è dubbio che camminiamo, nonostante le drammatiche statistiche che il PNUD e altre istituzioni di opinione ci danno. 834 milioni di persone soffrono la fame nel mondo e ogni anno aumentano di 4 milioni. Un 40% della popolazione mondiale vive in estrema povertà. In America Latina sono circa 205 milioni le persone che vivono in povertà. In Africa Subsahariana sono 47 milioni. L’economista Luís Senastián ricorda che “l’Africa è un peccato dell’Europa”, il maggior debito attuale dell’umanità. Il mondo spende annualmente un bilione di dollari in armi, quantità 15 volte superiore alla quantità destinata agli aiuti internazionali... La disuguaglianza nel nostro villaggio globale è una vera blasfemia contro la fraternità universale. Un esempio: la media del reddito annuale delle persone più ricche degli USA è di 118mila dollari; mentre la media del reddito annuale delle persone più povere della Sierra Leone è di 28 dollari.
Avanza il dialogo ecumenico e interreligioso, sebbene ancora ai margini e in forma minoritaria. Il fenomeno grave e mondiale della migrazione esige risposte e decisioni che riguardano ormai i diversi popoli e le diverse culture e religioni. Di chi è la verità? Di chi non è?
La Chiesa, la Chiesa cattolica, celebra, a Aparecida (Brasile), nel prossimo mese di maggio, la V Conferenza dell’Episcopato Latinoamericano e Caribegno. E già si sono levate voci, sincere e degne di ogni partecipazione, che reclamano “ciò che non può mancare ad Aparecida”: l’opzione per i poveri, l’ecumenismo e il macroecumenismo, il legame tra fede e politica, l’attenzione alla natura, la contestazione profetica al capitalismo neoliberista, il diritto dei popoli indigeni e afroamericani, il protagonismo del laicato, il riconoscimento effettivo della partecipazione della donna in tutte le istanze ecclesiali, la corresponsabilità e la sussidiarietà di tutta la Chiesa, lo stimolo alle CEBs, la memoria impegnata dei nostri martiri, l’inculturazione sincera dell’Evangelo nella teologia, nella liturgia, nella pastorale, nel diritto canonico. In fine, la continuità, attualizzata, della nostra “irrinunciabile tradizione latinoamericana” che si radica, soprattutto, in Medellín.
Il tema del V CELAM è: “Discepoli e missionari di Gesù Cristo, perché in Lui i nostri popoli abbiano vita. Io sono la via, la verità e la vita” (le discepole e le missionarie, giacché non entrano nell’enunciato, speriamo che entrino nelle decisioni della Conferenza...). Il discepolato e la missione sono l’esperienza concreta e appassionata della sequela di Gesù, “l’agguato del Regno”. I teologo A. Brighenti segnala che il deficit ecclesiologico del Documento di Partecipazione si esprime soprattutto nell’eclisse del Regno di Dio, citato solo due volte in tutto il documento perché fa tanta paura il Regno di Dio, che fu la fissazione, la vita, la morte e la resurrezione di Gesù?
Non è tutto tranquillo in questa Conferenza del CELAM. Con un’ombra molto cattiva, come direbbero i puri, ora alla vigilia della Conferenza, è esploso il processo del nostro amato Jon Sobrino. Molto sintomatico, perché un cardinale della Curia romana ha già dichiarato che prima di Aparecida sarà liquidata la “Teologia della Liberazione”. Questo illustre porporato dovrà accettare, suppongo, che dopo Aparecida continuerà ad essere vivo e attivo il Dio dei poveri, e continuerà ad essere sovversivo l’Evangelo della liberazione; e che, disgraziatamente, la fame, la guerra, l’ingiustizia, l’emarginazione, la corruzione, la cupidigia, continueranno ad esigere dalla nostra Chiesa l’impegno reale al servizio dei poveri di Dio.
Ho scritto a Jon Sobrino, ricordandogli che siamo milioni quelli che lo accompagniamo e soprattutto Gesù di Nazaret che lo accompagna. Ho ricordato a Jon quella decima che scrissi per il martirio dei suoi compagni dell’UCA: “Ora siete la verità in croce/ e la scienza in profezia/ ed è totale la compagnia/ compagni di Gesù”. Per tua santa colpa, ho detto a Jon, in molti stiamo ascoltando, trapassata di attualità, la domanda decisiva di Gesù: “E voi, chi dite che io sia?”. Perché è il vero Gesù che vogliamo seguire.
Sprezzantemente Pilato chiede a Gesù cos’è la verità e non si dispone ad ascoltare la risposta; inoltre lo consegna alla morte e se ne lava le mani. Maxence van der Meersch risponde a Pilato e a tutti noi: “La verità, Pilato, è stare a fianco dei poveri”. La religione e la politica devono accogliere questa risposta fino alle sue ultime conseguenze. Tutta la vita di Gesù, inoltre, è questa stessa risposta. L’opzione per i poveri definisce ogni politica e ogni religione. Prima si diceva “fuori dalla Chiesa non c’è salvezza”; poi “fuori dal Mondo non c’è salvezza”. Jon Sobrino ci ricorda, una volta di più, che “fuori dai poveri non c’è salvezza”. Giovanni XXIII patrocinava “una Chiesa dei poveri, perché fosse la Chiesa di tutti”. Ciò che è certo è che i poveri rivelano, con la loro vita proibita e con la loro morte “prima del tempo”, la verità o la menzogna di una Società, di una Chiesa. Dice il nostro Jon Sobrino: “Chi non ha conosciuto esplicitamente Dio, lo ha incontrato se ha amato i poveri”; e il l’Evangelo lo dice ripetutamente nella parola e nella vita di Gesù, nel suo presepe e nel suo calvario, nelle beatitudini, nelle parabole, nel giudizio finale...
Fratelli, sorelle, gente amata e tanto vicina nella stessa veglia e nella stessa speranza, andiamo avanti. Cercando di “fare la verità nell’amore”, come dice il Nuovo Testamento, in comunione fraterna e nella prassi liberatrice. “Con i Poveri della Terra”. Essendo “vite per il Regno della Vita”, come annunziavamo nella “Romeria dei Martiri della Camminata”.
Sia questa piccola circolare un grande abbraccio d’impegno di gratitudine, di speranza invincibile; avanti il Regno!
Pedro Casaldáliga
Circolare 2007 24 marzo, Pasqua di San Romero
* IL DIALOGO. Martedì, 27 marzo 2007